domenica 14 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 14/12/2008 12:16 – VATICANO - Papa: la vicinanza di Dio non è fisica o temprale, ma “di amore” - Benedetto XVI benedice i “bambinelli” del presepe, portati dai ragazzi romani ed invita a pregare: Apri il nostro cuore, / affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia, / fare sempre ciò che egli chiede / e vederlo in tutti quelli / che hanno bisogno del nostro amore.
2) Libertà religiosa e verità: l’educazione alla libertà - GAZZADA, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, nell'inaugurare l’11 novembre scorso le attività del nuovo anno sociale di Villa Cagnola di Gazzada (Varese) con un intervento al convegno promosso dall’Istituto superiore di studi religiosi e dalla Fondazione Ambrosiana Paolo VI su “Libertà religiosa e verità: l’educazione alla libertà”.
3) All'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede il Papa esorta a collaborare per la dignità della persona e il bene comune - La distinzione tra Chiesa e Stato - segno di progresso e di libertà - Benedetto XVI si è recato sabato mattina, 13 dicembre, in visita all'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede dove ha pronunciato due discorsi: il primo nella cappella dedicata a san Carlo Borromeo e il secondo - che pubblichiamo di seguito - nel Salone dell'ambasciata. L’Osservatore Romano, 14 dicembre 2008
4) Come avvicinarsi al tema della disabilità - Prendersi cura di ognuno e non di una categoria - di Giulia Galeotti - L'Osservatore Romano - 14 dicembre 2008
5) LA FEDE NEGATA - le testimonianze - Parlano le sopravvissute alla «pulizia etnica» scatenata dai fondamentalisti indù che mirano a cancellare la presenza cristiana dal distretto di Kandhamal Il drammatico racconto di Asmitha Digal: «Mio marito è stato lapidato Il suo unico torto? - Portare una Bibbia nello zaino e non avere tradito il suo credo» - DI STEFANO VECCHIA – Avvenire, 14 dicembre 2008


14/12/2008 12:16 – VATICANO - Papa: la vicinanza di Dio non è fisica o temprale, ma “di amore” - Benedetto XVI benedice i “bambinelli” del presepe, portati dai ragazzi romani ed invita a pregare: Apri il nostro cuore, / affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia, / fare sempre ciò che egli chiede / e vederlo in tutti quelli / che hanno bisogno del nostro amore.
Città del Vaticano (AsiaNews) – La “vicinanza” di Dio, della quale si parla nella messa di oggi, non è fisica o temporale, non indica l’approssimari della fine del mondo, ma è una vicnanza “di amore: l’amore avvicina”. L’avvicinarsi del Natale, indicato anche dal grande albero eretto in piazza San Pietro, accanto al presepe in allestimento, e i “Bambinelli” che per tradizione i bambini romani portano in questa domenica in piazza San Pietro per farli benedire dal papa hanno spinto Benedetto XVI a pregare, all’Angelus, perché “Gesù, che nascendo porta agli uomini la benedizione di Dio, sia accolto con amore in tutte le case di Roma e del mondo”.
Ragazzi con le statuine di Gesù bambino (nella foto) protagonisti, dunque, oggi in piazza San Pietro. A loro il Papa ha chiesto di unirsi alla sua preghiera “affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia”. Gioia alla quale è particolarmente dedicata questa domenica, detta “Domenica gaudete”, “siate lieti”, perché durante la messa si “riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”. E subito dopo aggiunge la motivazione: “Il Signore è vicino” (Fil 4,4-5). Ecco la ragione della gioia. Ma che cosa significa che “il Signore è vicino”? In che senso dobbiamo intendere questa “vicinanza” di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro. Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2). Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la “vicinanza” di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino”.
“In questa luce – ha detto ancora - è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei “Bambinelli”, le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe. Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri “Bambinelli”, che ora benedico. Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera: Dio, nostro Padre, / tu hai tanto amato gli uomini / da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù, / nato dalla Vergine Maria, / per salvarci e ricondurci a te. / Ti preghiamo, perché con la tua benedizione / queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi, / siano, nelle nostre case, / segno della tua presenza e del tuo amore. / Padre buono, / dona la tua benedizione anche a noi, / ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici. / Apri il nostro cuore, / affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia, / fare sempre ciò che egli chiede / e vederlo in tutti quelli / che hanno bisogno del nostro amore. / Te lo chiediamo nel nome di Gesù, / tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace. / Egli vive e regna nei secoli dei secoli. / Amen.”


Libertà religiosa e verità: l’educazione alla libertà - GAZZADA, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, nell'inaugurare l’11 novembre scorso le attività del nuovo anno sociale di Villa Cagnola di Gazzada (Varese) con un intervento al convegno promosso dall’Istituto superiore di studi religiosi e dalla Fondazione Ambrosiana Paolo VI su “Libertà religiosa e verità: l’educazione alla libertà”.
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1. Verità-libertà: l’educazione alla prova
Nel riflettere sul nesso tra libertà religiosa, verità ed educazione può essere utile fare un breve riferimento al dibattito, in atto nell’odierna società plurale italiana, sui consistenti processi migratori e sulle loro incidenze nel processo di riforma della scuola. Sebbene i media tendano a non cogliere, o almeno a non approfondire, tutte le implicazioni connesse alla relazione tra le due questioni, la reazione suscitata dalla proposta di creare nelle scuole delle classi destinate ad ospitare solo studenti stranieri è un test convincente della scottante attualità del loro nesso.
Non intendo entrare ora nel merito di queste vicende. Sottolineo soltanto che mi stupisce, e devo dire mi preoccupa, vedere come, in proposito, si discuta molto di aspetti organizzativi, disciplinari e di ordine pubblico, o si finisca per scadere in opposizioni ideologiche spesso desuete, ma venga data erroneamente per scontata o del tutto rimossa la questione dell’educazione, intesa in senso pieno.
Educare significa mettere consapevolmente in relazione la persona con la realtà[1] e quindi provocare incessantemente la sua libertà per farla entrare in un rapporto integrale con gli altri, le cose, le circostanze ed i processi in cui si imbatte. Educare è pertanto l’arte di accompagnare l’inevitabile tensione della libertà delle persone ad “adeguare” la realtà. E quindi, quando è rettamente intesa, l’educazione è apertura alla verità. Come afferma Sant’Agostino: «Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?»[2], l’uomo è fatto per la verità, è orientato ad essa. Oltre al cristianesimo non cessano di ricordarlo le religioni e in modo particolarmente insistente lo richiama la fede musulmana[3].
Per questo il tema della libertà religiosa non è un aspetto particolare dell’educazione alla e nella libertà, ma ne rappresenta il culmine.
Conosciamo bene l’obiezione di certa cultura post-moderna a questa convinzione. Contro di essa si avanza la tesi dell’inconciliabilità tra un’autentica libertà umana ed un fondamento veritativo. Scrive per esempio Vattimo: «Se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». In fondo «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno?»[4].
È lo stesso paradosso che, chiaramente da un’altra posizione, ha messo in risalto il Rabbino David Novak in una lezione sulla libertà religiosa nell’ebraismo tenuta a Princeton[5],: «C’è un paradosso - dice Novak - nel fatto che i membri di comunità religiose rivendicano “libertà” in una società secolare. Il paradosso diviene ancora più forte quando la rivendicazione della libertà religiosa viene sostenuta filosoficamente come un diritto accordato da Dio. Il paradosso sta nel fatto che quanto più una comunità religiosa è tradizionale – cioè quanto più essa si percepisce come sottoposta all’autorità divina – tanto minore sembra essere la libertà di cui godono i membri all’interno dei confini quella stessa comunità»[6].
Possiamo tranquillamente rispondere a Novak (e a Vattimo) affermando che il paradosso di cui si parla non è tale perché si fonda acriticamente su una doppia riduzione. La prima è legata alla concezione della verità. Essa viene concepita in modo razionalistico, dedotta come un sistema completo e coerente di proposizioni concettuali. Ma in questo caso la verità diventa una forma di gnosi idolatrica perché pretende che il limitato sguardo umano possieda la compiuta fisionomia del fondamento (Dio). La seconda riduzione si riferisce alla libertà. Questa viene snaturata perché ricondotta ad una libertà di coscienza supposta capace di stabilire “creativamente” (in senso equivoco) da se stessa cosa sia il bene ed il male (cfr VS, 54). Questa doppia riduzione di verità e libertà e del loro rapporto genera un grave fraintendimento circa la vera natura della libertà religiosa.
La Chiesa, con la dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II, non ha affermato la libertà assoluta dell’uomo di aderire a qualsiasi religione o credenza, né ha inteso negare la sua consolidata convinzione che davanti a Dio l’errore non ha alcun diritto. Essa ha piuttosto inteso, da un lato, indicare che la Verità stessa essendo in Cristo Gesù assoluta ma vivente e personale, domanda per attestarsi all’uomo l’atto della sua decisione. D’altra parte ha voluto limitare il potere degli Stati e la possibilità di una loro azione coercitiva nei confronti della libera ricerca della verità da parte delle persone e delle comunità. Affermazioni che non annullano in alcun modo il dovere incombente per l’uomo di non sottrarsi alla ricerca della verità alla quale è destinato (DH 2; 14). In questa luce è svelata la profondità delle domande poste da Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio: «Si può rifiutare Cristo e tutto ciò che egli ha portato nella storia dell’uomo? Certamente si può. L’uomo è libero. L’uomo può dire a Dio: no. L’uomo può dire a Cristo: no. Ma rimane la domanda fondamentale: è lecito farlo? E in nome di che cosa è lecito?»[7]. La domanda finale, pur riconoscendo proprio in nome della libertà religiosa il pieno diritto dell’uomo a rifiutare la verità, gli mostra anche che la libertà non è tale se non percorre fino in fondo la strada della ricerca del significato ultimo della vita.
È proprio questa insopprimibile ricerca ad esigere un’educazione della libertà perché resti incessantemente spalancata alla verità senza accontentarsi di verità fasulle.
Che la verità per attestarsi all’uomo esiga l’assenso della sua libertà viene riconosciuto dalla risposta che Novak offre per risolvere il paradosso di cui ho parlato prima. È illuminante seguire sinteticamente il suo argomentare. Domandandosi con quale grado di libertà il popolo ebraico avesse accettato la liberazione dall’Egitto e poi la Legge, Novak mette in evidenza come alcuni rabbini ed il Talmud stesso abbiamo avanzato il dubbio di un’apparente negazione della libertà umana[8]. Il dilemma morale circa la relazione tra libertà umana e legge di Dio si scioglierebbe solo osservando il comportamento di Israele durante l’esilio babilonese successivo alla distruzione del primo tempio. È infatti in esilio che il popolo di Israele, ridotto a due delle originarie dodici tribù, «conferma liberamente quello che esso aveva accettato originariamente sotto costrizione nel deserto»[9]. In questo modo «con la decisione di ricostituirsi per essere una nazione legata al patto e governata secondo la legge divina rivelata nella Torah, il popolo ebraico ha esercitato collettivamente la libertà religiosa»[10]. Ma – si era chiesto prima Novak - «perché questo popolo ha prima dovuto subire l’imposizione di una legge piuttosto che ricevere, più tardi e in modo persuasivo, l’offerta di tale legge da accettare o rifiutare liberamente […]? Si potrebbe rispondere che il popolo non poteva a ragione scegliere una legge della cui autorità non aveva ancora fatto esperienza»[11]. Non voglio ora entrare nella delicata discussione teologica che queste riflessioni aprirebbero. Mi limito a constatare che per sviluppare il tema della libertà religiosa in maniera compiuta Novak convoca la dimensione dell’esperienza sempre storicamente determinata, a dimostrazione che la verità si offre all’uomo in maniera assoluta ma personale, come un appello che chiama la sua libertà a coinvolgersi.
In sintesi non si può cogliere il rapporto verità-libertà senza chinarsi sul nesso amoroso tra libertà infinita di Dio e libertà finita dell’uomo. Su queste basi si può ben comprendere come la validità di una proposta educativa trovi nel rapporto dinamico tra verità e libertà il suo decisivo banco di prova.
2. Educazione, comunità e storia
Un ulteriore aspetto emerge dalle considerazioni di Novak. La decisione con cui Israele sceglie di aderire alla legge non è un’opzione di singoli, bensì di un popolo. Questo fatto ci spinge a riflettere sulla dimensione comunitaria della libertà religiosa. E qui sorge un altro apparente paradosso.
Secondo le grandi religioni “monoteiste”, la libertà che muove l’uomo alla ricerca della verità possiede una insopprimibile dimensione personale, ma la verità che si attesta alla persona apre ad una dimensione comunitaria. Ciò è vero, come abbiamo visto per gli ebrei, ma è lo altrettanto per i cristiani, che incontrano la Verità nella realtà concreta della Chiesa, e per i musulmani, per i quali l’edificazione della Umma resta un ideale inseparabile dalla ricezione della rivelazione coranica.
L’obiezione che viene rivolta a questa posizione afferma che l’aspetto comunitario non realizza la libertà del singolo, semmai la limita: “La mia libertà finisce dove inizia la libertà dell’altro”. In questo senso la libertà del singolo deve essere protetta dalle pressioni della comunità. Questa visione delle cose trascura la natura intrinsecamente relazionale della persona. Persona-comunità, come anima-corpo e uomo-donna rappresenta una delle polarità costitutive di un’antropologia adeguata. Essa postula un’unità duale perché è per sua natura drammatica in quanto l’uomo è sempre in azione. Solo nella relazione l’uomo scopre pienamente la sua natura e perciò solo all’interno della comunità egli può esercitare in modo pieno la sua libertà. L’educazione allora è adeguata solo se tiene conto di questo aspetto profondo della natura umana. Essa possiede una intrinseca dimensione comunitaria e per questo, in un certo senso, non può che essere un fatto di popolo. Qui nasce però un’obiezione legittima: cosa succede quando la scelta dei singoli mette in discussione l’identità comunitaria? E fino a che punto la comunità può intervenire per preservare la sua identità minacciata dalla scelta di singoli? Capiamo bene l’urgenza di queste domande se consideriamo il caso serio della libertà religiosa: la libertà di conversione. Se consideriamo ad esempio quello che sta succedendo in Algeria[12] dove lo Stato ha preso una serie di misure gravemente restrittive della libertà religiosa e di culto di fronte al crescere delle conversioni di musulmani al cristianesimo evangelico, è ovviamente essenziale riconoscere che l’identità comunitaria non può spingersi fino a violare la libertà della coscienza del singolo e quindi impedirgli di passare ad un’altra religione. Tuttavia questa delicata questione non deve condurre a contrapporre soggetto personale a soggetto comunitario. Infatti anche quest’ultimo deve fare i conti con la storia per aderire alla verità.
La scelta del Concilio Vaticano II di rappresentare la Chiesa, nel secondo capitolo della Costituzione Dogmatica Lumen gentium, con l’immagine del Popolo di Dio si rivela in questo particolarmente feconda. Infatti non solo permette di includere gradualmente nella prospettiva evangelica, secondo la famosa immagine dei cerchi concentrici coniata da Paolo VI nella Ecclesiam Suam[13], ebrei, uomini delle religioni e uomini di buona volontà, ma soprattutto perché mostra l’inevitabile carattere storico del cammino della Chiesa. Questo fatto è così vero che persino i dogmi, cioè uno degli aspetti della vita della Chiesa che più scandalizzano la cultura contemporanea perché considerati illegittime attestazioni autoritative di una verità, sono proposti all’interno di una storia. Ciò non significa che tale formulazioni siano realtà in continuo divenire e quindi soggette ad ulteriori riformulazioni che abbandonino il dettato definito. Al contrario, in quanto espressioni di verità rivelate definite dal Magistero solenne della Chiesa, sono indisponibili. Ma i dogmi aiutano l’incessante approfondirsi della Rivelazione che è all’opera nella storia. Come scriveva l’allora professor Ratzinger interrogandosi sulla possibilità di una considerazione storica del dogma: «Per tradizione non si deve intendere una somma di asserti ben strutturati e da tramandare intatti, ma l’espressione della progressiva assimilazione attraverso la fede della Chiesa del fatto testimoniato nella scrittura […] Identità e trasformazione costituiscono dunque l’essenza della storia […]: dove c’è pura identità non è avvenuto nulla, dove c’è semplice diversità altrettanto non si può parlare di storia»[14].
E anche l’Islam, nonostante l’immagine che tende a rappresentarlo come un blocco monolitico e immutabile, ha spesso tentato, soprattutto attraverso il diritto, di tradurre il messaggio della rivelazione nella concretezza delle circostanze storiche e dei contesti sociali sui quali si innestava, elemento senza il quale non si spiegherebbe la sua diffusione universale[15].
3. Testimoni del Vero-Bene
L’impegno della libertà umana nei confronti della verità è la coordinata che deve guidare il cammino dei cristiani nel mondo e nell’incontro con i fratelli delle altre religioni. Questo domanda a tutte le comunità cristiane un’instancabile compito educativo. Il modo più fecondo per attuarlo è percorrere la strada della testimonianza. Il testimone infatti è colui che paga di persona per documentare la forza salvifica della verità. Così facendo coinvolge, con tenace energia, la libertà dell’altro nella preziosa avventura del riconoscimento del volto splendente della Verità quale Bene di ogni circostanza e di ogni rapporto. «Vagliate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5, 21): l’invito di Paolo ai Tessalonicesi è il manifesto del libero assenso cristiano alla verità che è Gesù Cristo, centro del cosmo e della storia.
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[1] Ho approfondito questo argomento in: A. Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007, 99-109.
[2] Agostino, Tractatus in Io 26, 5.
[3] In essa, tanto è avvertita la decisività del nesso tra l’uomo e la verità che l’orientalista tedesco Franz Rosenthal ha potuto descrivere l’intera civiltà arabo-islamica a partire dalla categoria di “conoscenza”: cfr. F. Rosenthal, Knowledge Triumphant, E. J. Brill, Leiden 1970.
[4] G. Vattimo, I lumi soffusi e deboli così li preferisco, in La Repubblica 4 gennaio 2001.
[5] Alcuni estratti della quale saranno pubblicati nel numero 8 di Oasis, dedicato appunto al tema della libertà religiosa.
[6] D. Novak, The Theological Claim to Religious Liberty, Princeton University, James Madison Program in American Ideals and Institutions, Lectures on Religious Liberty, 22 novembre 2004, pro manuscripto, 1.
[7] Giovanni Paolo II, Redemptoris missio 7
[8] Novak, op. cit., 7-10.
[9] Ibid., 10
[10] Ibid., 13
[11] Ibid., 12
[12] Anche questo tema sarà trattato sul numero sul numero 8 di Oasis attraverso la preziosa testimonianza di S.E. Mons. Teissier, Arcivescovo emerito di Algeri
[13] Cfr. Ench. Vat. 2, nn. 200-206.
[14] J. Ratzinger, Il problema della storia dei dogmi nella teologia cattolica, in Natura e compito della teologia, Jaca Book, Milano 20052, 122-123.
[15] In questo senso ho trovato molto felice un’espressione utilizzata dal Prof. Francesco Botturi, che nel giugno scorso ad Amman, in occasione del Comitato Scientifico di Oasis, ha parlato della libertà come «storia della verità».


All'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede il Papa esorta a collaborare per la dignità della persona e il bene comune - La distinzione tra Chiesa e Stato - segno di progresso e di libertà - Benedetto XVI si è recato sabato mattina, 13 dicembre, in visita all'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede dove ha pronunciato due discorsi: il primo nella cappella dedicata a san Carlo Borromeo e il secondo - che pubblichiamo di seguito - nel Salone dell'ambasciata. L’Osservatore Romano, 14 dicembre 2008

Signor Ministro degli Affari Esteri,
Signor Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio,
Signor Ambasciatore
presso la Santa Sede,
Rappresentanti del Corpo
Diplomatico presso la Santa Sede,
illustri Autorità,
Signori e Signore!
Sono veramente lieto di poter oggi accogliere l'amabile invito rivoltomi a visitare questo storico edificio, sede dell'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede. Saluto cordialmente tutti, ad iniziare dal Signor Ministro degli Affari Esteri, che ringrazio per le espressioni deferenti che mi ha appena rivolto. Saluto gli altri Ministri, le Autorità presenti e in modo speciale l'Ambasciatore Antonio Zanardi Landi. Grazie di cuore per la cortese accoglienza, accompagnata da un gradito intermezzo musicale. Come è stato già ricordato, questo storico Palazzo ha ricevuto la visita di tre miei Predecessori: i Servi di Dio Pio XII, il 2 giugno 1951, Paolo VI, il 2 ottobre del 1964 e Giovanni Paolo II, il 2 marzo 1986. Nell'odierna solenne ed al tempo stesso familiare circostanza, mi tornano alla mente pure i recenti incontri con il Presidente della Repubblica: quello del 24 aprile scorso in occasione del concerto da lui offertomi per l'anniversario del solenne inizio del mio servizio sulla Cattedra di Pietro; quello, poi, del 4 ottobre, al Quirinale, e quello di mercoledì scorso nell'Aula Paolo VI in Vaticano, in occasione del concerto per il 60° anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, a cui Ella, Signor Ministro degli Affari Esteri, ha fatto riferimento. Mentre indirizzo un deferente e grato saluto al Presidente della Repubblica, mi piace riprendere quanto proprio nel corso della visita al Quirinale ebbi ad affermare, che cioè "nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede Apostolica" (L'Oss. Rom., 5 ottobre 2008, p. 8). Basterebbe da sola la singolare attenzione mostrata dai Pontefici a questa Sede diplomatica per segnalare il riconoscimento dell'importante ruolo che ha svolto e svolge l'Ambasciata d'Italia negli intensi e particolari rapporti che intercorrono fra la Santa Sede e la Repubblica Italiana, come pure nelle relazioni di mutua collaborazione fra la Chiesa e lo Stato in Italia. Avremo di sicuro modo di evidenziare quest'importante duplice ordine di vincoli diplomatici, sociali e religiosi nel mese di febbraio del prossimo anno nella ricorrenza dell'80° della firma dei Patti Lateranensi e del 25° dell'Accordo di modifica del Concordato. A questo anniversario è stato fatto già riferimento per sottolineare giustamente il fruttuoso rapporto che esiste tra l'Italia e la Santa Sede. Si tratta di un'intesa quanto mai importante e significativa nell'attuale situazione mondiale, nella quale il perdurare di conflitti e di tensioni tra popoli rende sempre più necessaria una collaborazione tra tutti coloro che condividono gli stessi ideali di giustizia, di solidarietà e di pace. Non posso inoltre, riprendendo quanto Ella, Signor Ministro degli Affari Esteri, ha detto, non far cenno con sensi di viva gratitudine alla collaborazione che quotidianamente si svolge tra l'Ambasciata d'Italia e la mia Segreteria di Stato, ed a questo proposito saluto cordialmente i Capi Missione che in questi anni si sono succeduti a Palazzo Borromeo e che oggi hanno gentilmente voluto essere con noi.
Questa breve visita mi è propizia per ribadire come la Chiesa sia ben consapevole che "alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr. Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa" (Enc. Deus caritas est, 28). Tale distinzione e tale autonomia non solo la Chiesa le riconosce e rispetta, ma di esse si rallegra, come di un grande progresso dell'umanità e di una condizione fondamentale per la sua stessa libertà e l'adempimento della sua universale missione di salvezza tra tutti i popoli. In pari tempo la Chiesa sente come suo compito, seguendo i dettami della propria dottrina sociale, argomentata "a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano" (ibid.), di risvegliare nella società le forze morali e spirituali, contribuendo ad aprire le volontà alle autentiche esigenze del bene. Perciò, richiamando il valore che hanno per la vita non solo privata ma anche e soprattutto pubblica alcuni fondamentali principi etici, di fatto la Chiesa contribuisce a garantire e promuovere la dignità della persona e il bene comune della società, ed in questo senso si realizza l'auspicata vera e propria cooperazione tra Stato e Chiesa.
Mi sia ora consentito di menzionare con gratitudine anche il prezioso contributo che, sia questa Rappresentanza diplomatica, sia in generale le Autorità italiane offrono generosamente affinché la Santa Sede possa liberamente svolgere la sua missione universale e, quindi, anche intrattenere rapporti diplomatici con tanti Paesi del mondo. A questo proposito, saluto e ringrazio il Decano e alcuni rappresentanti del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, che prendono parte a questo nostro incontro, e sono certo che essi condividono questo apprezzamento per i preziosi servizi che l'Italia rende alla loro delicata ed qualificata missione.
Signori e Signori, è davvero significativo che la Rappresentanza diplomatica italiana presso la Santa Sede abbia dal 1929 la sua sede dove visse da giovane san Carlo Borromeo, che allora esercitava l'ufficio di collaboratore del Romano Pontefice nella Curia Romana, guidando quella che si definisce normalmente la diplomazia della Santa Sede. Coloro che qui operano possono quindi trovare in questo santo un costante protettore, ed al tempo stesso, un modello a cui ispirarsi nello svolgimento dei loro quotidiani compiti. Affido alla sua intercessione quanti qui oggi sono convenuti, e formulo a ciascuno un sincero augurio di ogni bene. Mentre si avvicina la festa del Natale del Signore Gesù, questo augurio si estende alle Autorità italiane, a cominciare dal Presidente della Repubblica, e all'intero diletto popolo di questa amata Penisola. Il mio augurio di pace abbraccia poi tutti i Paesi della terra, che siano o meno ufficialmente rappresentati presso la Santa Sede. È un augurio di luce e di autentico progresso umano, di prosperità e di concordia, realtà tutte alle quali possiamo aspirare con fiduciosa speranza, perché sono doni che Gesù ha recato nel mondo nascendo a Betlemme. La Vergine Maria, che qualche giorno fa abbiamo venerato come Immacolata Concezione, ottenga questi doni, ed ogni altro desiderato vero bene all'Italia e al mondo intero, dal suo Figlio, il Principe della pace, la cui benedizione invoco di cuore su tutti voi e sulle persone a voi care.
(©L'Osservatore Romano - 14 dicembre 2008)


Come avvicinarsi al tema della disabilità - Prendersi cura di ognuno e non di una categoria - di Giulia Galeotti - L'Osservatore Romano - 14 dicembre 2008
Anche quest'anno, la giornata mondiale della disabilità (3 dicembre) è stata ricordata da diverse iniziative, alcune delle quali insolite e allegre (come l'apertura, a Predazzo in Val di Fiemme, di SportAbili, che durante tutta la stagione invernale terrà appositi corsi di sci, discesa e fondo, per le persone con disabilità).
Tra gli altri incontri, l'associazione culturale "Giuseppe Dossetti: i valori" ha organizzato a Roma una giornata su "Malattie rare e disabilità", aperta dalla professoressa Ombretta Fumagalli Carulli, che dell'associazione è presidente. Da subito, sono emerse le spinosità del tema. Come noto, le malattie rare, numerose nella loro varietà e il più delle volte particolarmente gravi (sono causa di mortalità precoce o invalidità), pur necessitando di risorse sanitarie altamente specializzate e costose, sono però caratterizzate anche dal fatto di non attrarre "il mercato della salute": presentando una bassa frequenza, sono patologie orfane, patologie, cioè, trascurate dalla ricerca biomedica. Questo atteggiamento di indifferenza e di non interesse, causato da un riscontro economico pressoché nullo, è avvertibile anche nei confronti dell'handicap.
Corrado Stillo (responsabile nazionale dell'Osservatorio per la tutela e lo sviluppo dei diritti del cittadino) ha denunciato il paradosso della proposta di cure gratuite per gli animali domestici mentre un altissimo numero di malati (e relative famiglie) vengono lasciati soli e senza mezzi, rimarcando come il problema non sia solo finanziario, ma principalmente di mentalità. "La disabilità è innanzitutto affermazione della vita su una cultura della morte".
La via, come ha ricordato il bioeticista Carlo Petrini (Istituto superiore di sanità), è quella dell'approccio personalista, un'attenzione cioè a ogni singolo individuo, più che alle categorie di persone. Solo se e quando saremo davvero capaci di mettere a fuoco la singola individualità, infatti, un nuovo approccio culturale sarà effettivamente possibile. I passi che vanno fatti sono anche, e innanzitutto, gesti quotidiani e concreti, come ha ricordato Novella Valli dell'associazione Studio malattie metaboliche ereditarie.
Conoscere e far conoscere, raccontare e raccontarsi, spiegare e ascoltare costituiscono il mezzo migliore per farci partecipare tutti a realtà che sono (seppure spesso non visibili) presenti nella quotidianità. La conoscenza può davvero essere un motore vivifico. Se, come ha ricordato la dottoressa Carla Garbagnati Crosti (presidente del Gruppo italiano per la lotta alla sclerodermia), "l'ignoranza può uccidere", solo ascoltando e informandoci possiamo capire. E capendo, possiamo smettere di avere paura. Avere paura di quello che sta succedendo a noi o a un nostro caro o, in una fase precedente, avere paura che ci capiti qualcosa da cui siamo terrorizzati. Sappiamo bene quali terribili reazioni possano generare la paura e l'ignoranza.
Un messaggio chiaro, ad esempio, ci è appena venuto dalla Gran Bretagna, dove è stato registrato un aumento nelle nascite dei bimbi down, dovuto "semplicemente" alla conoscenza di cosa questa sindrome significhi effettivamente. Un sondaggio ha infatti rivelato che i genitori hanno scelto di proseguire la gravidanza perché, conoscendo personalmente o avendo ascoltato e letto, non sono più spaventati da questa realtà.
Sempre ribadendo la necessità di conoscere, Matilde Leonardi (membro della direzione scientifica dell'Istituto neurologico Carlo Besta di Milano) ha ricordato come in Occidente stiamo assistendo al passaggio dalle tante malattie acute del passato alle malattie croniche di oggi, che ci possono accompagnare per anni. Questo ci obbliga a dover imparare a vivere il tempo della malattia, concetto estremamente recente.
Ascoltando i relatori, ci torna in mente, come bellissima testimonianza del valore della conoscenza nei confronti della disabilità, un romanzo poco noto di Italo Calvino, La giornata d'uno scrutatore, che meriterebbe una fama ben più vasta. In esso si racconta la giornata (tra l'altro autobiografica) che Amerigo Ormea, un intellettuale comunista, passa nelle vesti di scrutatore durante le elezioni del 1953 alla Piccola casa della Divina Provvidenza Cottolengo di Torino. Amerigo arriva con uno scopo ben chiaro: vuole impedire che le religiose inducano la massa di disabili fisici e mentali che ospitano a votare per la Democrazia cristiana (accusa non rara all'epoca, come rivela, tra l'altro, la satira). A fine giornata però, le convinzioni e i pregiudizi di Amerigo saranno messi radicalmente in crisi. Il senso di repulsione e di pena per quelli che considerava mostri indistinti, lascia spazio al dubbio, e poi all'ascolto: i volti si diversificano, e lentamente Amerigo riesce a vedere non le deformità di quanti incontra, ma il loro essere persone. "Il confine tra gli uomini del "Cottolengo" e i sani era incerto: cos'abbiamo noi più di loro? Arti un po' meglio finiti, un po' più di proporzione nell'aspetto, capacità di coordinare un po' meglio le sensazioni in pensieri (...) poca cosa, rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e a sapere (...) poca cosa per la presunzione di costruire noi la nostra storia". La conversione di Amerigo - che, come tutte le conversioni autentiche, non arriva a risposte chiare e ferme, ma pone nuovi interrogativi - passa anche per l'incontro con chi sceglie di prendersi cura di chi è in difficoltà, una scelta che Amerigo arriva ora a comprendere nella sua forza dirompente. Spostandosi tra le corsie come membro del seggio distaccato, infatti, l'uomo rimane colpito in particolare da due figure, una suora che dedica la propria vita alla cura dei malati e un anziano padre che passa ogni domenica seduto su una sedia a schiacciare mandorle per suo figlio. Non ci sono risposte nel romanzo, che Calvino impiegò dieci anni a scrivere. Amerigo, però, intuisce che una parziale risposta potrebbe essere legata all'amore: "L'umano arriva fin dove arriva l'amore".
(©L'Osservatore Romano - 14 dicembre 2008)


LA FEDE NEGATA - le testimonianze - Parlano le sopravvissute alla «pulizia etnica» scatenata dai fondamentalisti indù che mirano a cancellare la presenza cristiana dal distretto di Kandhamal Il drammatico racconto di Asmitha Digal: «Mio marito è stato lapidato Il suo unico torto? - Portare una Bibbia nello zaino e non avere tradito il suo credo» - DI STEFANO VECCHIA – Avvenire, 14 dicembre 2008
L’ «altra metà del cielo» che già in que­sto Stato orientale dell’India vive – secondo le statistiche – per il 40 per cento una realtà di violenza e sopraffazione, sopporta forse oggi il peso maggiore della di­scriminazione religiosa, della “pulizia etnica” che mira a cancellare la presenza cristiana dai villaggi tribali del distretto di Kandhamal.
La maggior parte delle storie che escono dai campi profughi della regione, come pure dal­le iniziative di sostegno che vanno moltipli­candosi in India, sono esperienze e racconti di donne. Drammatici, ma spesso anche ca­paci di lanciare un messaggio di pace e di spe­ranza nel tempo di Avvento. Come le 24 gio­vani vedove che a Bangalore, capitale del lon­tano stato del Karnataka, hanno raccontato ieri il pogrom anticristiano scatenato dai fon­damentalisti indù. Le donne hanno lasciato i campi profughi in Orissa e sono giunte a Bangalore in un viaggio organizzato dal Con­siglio globale dei cristiani dell’India per poter permettere alle donne di celebrare le festività natalizie in un clima più sereno di quello del tormentato Orissa. Tra le tante storie di donne segnate dal dolore e dalla sofferenza Asia­ News ha raccolto quella di Asmitha Digal, originaria del villaggio di Ba­taguda, 25 anni e due figli piccoli. «Il 26 agosto (all’i­nizio della recen­te serie di violen­ze anti-cristiane in Orissa), mio marito Rajesh stava rientrando a casa in treno. È sceso alla stazione di Muniguda e, a piedi per­ché non c’erano mezzi disponibili e le strade erano bloccate, si è diretto verso Kandhamal. Era in compagnia di un giovane indù di no­me Tunguru Mallick». «Verso le 9 del mattino – continua Asmitha – raggiunto il villaggio di Paburia sono stati fermati da una folla estre­misti indù, appartenenti al Rashtriya Swayamsevak Sangh, (Organizzazione dei vo­lontari per la nazione, formazione paramili­tare di ispirazione religiosa e nazionalista) ar­mati di mazze e bastoni. Hanno afferrato lo zaino di mio marito, che conteneva una co­pia della Bibbia. Il suo compagno è riuscito a fuggire, mentre Rajesh è stato trascinato co­me un sacco della spazzatura mentre gli ag­gressori gli intimavano di convertirsi all’in­duismo ». «Al suo rifiuto – continua Asmitha – gli estre­misti hanno scatenato la loro rabbia, prima gettandolo in una buca e coprendolo di fan­go fino al collo e poi, all’ennesimo rifiuto di abbandonare il cristianesimo, la folla lo ha la­pidato a morte». Per una donna che ha perso il marito, even­to che – se non fosse cristiana – l’avrebbe re­sa un’emarginata nella società, costretta a vi­vere di elemosina o della benevolenza dei pa­renti acquisiti, molte vivono una vita al limi- te in funzione e in difesa di quanti non sono ancora nati.
Le donne incinte sono forse quelle che più soffrono nei campi che ospitano ancora, nel Kandhamal e altrove, molte migliaia di fug­giaschi. Sono decine le donne che hanno fat­to nascere i loro figli nel disagio di una tenda e nell’incertezza di un futuro da fuggiasco. «Non abbiamo alternative, dopo che gli indù hanno bruciato la nostra casa – dice Sarita Nayak, che nel campo di Udaygiri aspetta di dare alla luce suo figlio –. Sono almeno una trentina i piccoli nati qui negli ultimi mesi e tante sono in procinto di partorire». Ha il co­raggio di guardare a un futuro, qualunque sia, Sarita che dorme su sottile materasso di gom­ma nel freddo della notte invernale, nutren­dosi solo di lenticchie e di riso, con un’assi­stenza medica precaria. «Siamo poveri – dice ancora la giovane donna, moglie di un brac­ciante agricolo – ma se fossi stata al mio vil­laggio avrei mangiato spinaci, insieme al ri­so… e forse avrei avuto anche del latte da be­re, ma cosa possiamo fare? Almeno siamo an­cora vivi». Storie diverse, di un Avvento diffi­cile, macchiato dalla promessa dei gruppi fon­damentalisti di segnare con la violenza an­che il Natale che verrà.
Sono decine le profughe che hanno fatto nascere i loro figli nel disagio di una tenda: «Ma crediamo ancora nel nostro futuro»