Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e il rapporto fra Adamo e Cristo in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
2) Il piacere di fare la spesa per gli altri - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 4 dicembre 2008 - "E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto in casa per un vagabondo affamato" Sant'Ambrogio
3) I cristiani iracheni e quell'esperienza di libertà negata - Roberto Fontolan - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
4) STORIA/ La Rosa Bianca, emblema di una lotta contro tutte le forme di totalitarismo - Redazione - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
5) OLTRE DARWIN/ L'alba di una nuova idea di evoluzione: se anche Nature cerca una scienza de-ideologizzata - Mario Gargantini - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
6) Riproporre Giorgio Gaber: un compito difficile - Luca Doninelli - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) SCUOLA/ Insegnanti: sì alla chiamata diretta e voglia di carriera - Associazione Diesse - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) La scuola cattolica deve “indicare il Cristo presente nel nostro tempo” - Il Cardinale Grocholewski al termine del congresso europeo sull'insegnamento cattolico
Benedetto XVI e il rapporto fra Adamo e Cristo in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 3 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi nell'aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione sul rapporto fra Adamo, il primo uomo, e Cristo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: "Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita" (1 Cor 15,22.45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del "molto più" riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: "Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia" (Rm 5,20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.
D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che "a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte" (Rm 5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.
Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: «C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.
Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa "seconda natura" fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: «questo è umano» ha un duplice significato. «Questo è umano» può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.
Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sè sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.
E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.
Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice: "Hai creato sanabili le nazioni" (1, 14 volg). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.
Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell'Avvento con l'antico popolo di Dio: «Rorate caeli desuper». E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua. In particolare, saluto i rappresentanti della Federazione Italiana Panificatori e Pasticceri ed esprimo loro viva riconoscenza per il gradito dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa. Saluto i rappresentanti della Banca di Credito Cooperativo del Lamentino. La vostra presenza, cari amici, mi offre l’opportunità per porre in luce, specialmente in questo tempo di difficoltà per tante famiglie, uno degli obiettivi primari degli Istituti bancari e di credito, e cioè la solidarietà nei confronti delle fasce più deboli e il sostegno all’attività produttiva. Saluto poi la Compagnia Fiori nel deserto, di Vibo Valenzia e formulo voti perché il Signore vivifichi con la sua grazia le aspirazioni e i propositi di ciascuno. Saluto altresì i confratelli della "Misericordia" di Viareggio, qui convenuti con l’artistico crocifisso ligneo, in occasione del 150° anniversario della sua realizzazione, e li esorto a proseguire nella loro attività in favore dei fratelli più bisognosi.
Rivolgo infine un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Cari giovani, vi invito a riscoprire, nel clima spirituale dell'Avvento, l'intimità con Cristo, ponendovi alla scuola della Vergine Maria. Raccomando a voi, cari ammalati, di trascorrere questo periodo di attesa e di preghiera incessante, offrendo al Signore che viene le vostre sofferenze per la salvezza del mondo. Esorto, infine, voi, cari sposi novelli, ad essere costruttori di famiglie cristiane autentiche, ispirandovi al modello della Santa Famiglia di Nazaret, a cui guardano particolarmente in questo tempo di preparazione al Natale.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Il piacere di fare la spesa per gli altri - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 4 dicembre 2008 - "E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto in casa per un vagabondo affamato" Sant'Ambrogio
Il piacere di fare la spesa - diceva lo slogan pubblicitario di una catena di supermercati.
Ma di questi tempi è un piacere che sta diventando sempre più caro.
Comperiamo sempre le solite cose spendendo sempre di più, e allora cerchiamo di spendere meno, di spendere meglio, i supermercati lo hanno capito e così ecco sconti, promozioni, a volte veri, altre meno, fare la spesa è diventato più faticoso.
Una catena di supermercati per festeggiare l’anniversario ha pensato di sorteggiare tra i suoi clienti 500 persone a cui regalare - un minuto di spesa gratis - 60 secondi per arraffare dagli scaffali tutto ciò di cui si ha voglia senza il pensiero dello scontrino, beh, proprio tutto no, chiuso l’accesso alle corsie dove sono in vendita beni costosi e vietato prendere più di due pezzi per ogni prodotto. Vuoi mai che uno dei concorrenti avventandosi sullo scaffale del parmigiano riuscisse a fare un bottino di grana?
In ogni caso le cronache raccontano che l’iniziativa ha avuto successo, nessuno si è tirato indietro, familiari e amici a fare il tifo, la persona che ha totalizzato lo scontrino più altro ha sfiorato i 180 euro, non una cifra da capogiro, ma di questi tempi è una bella spesa.
«Però, che gusto», ha detto una delle partecipanti «Porti a casa una spesa che non hai mai fatto così grande, non paghi e ti applaudono pure».
Già che gusto, invece a Padova devono aver pensato - che freddo – le 300 persone che hanno sfidato il freddo per mettersi in coda di buon mattino ed accaparrarsi una delle borse della spesa gratuita distribuite dal ComRes, comitato di commercianti e residenti del centro storico che ha lanciato la settimana di lotta contro il caro vita. Un pacco di pasta, un chilo di riso e del radicchio. Poca roba, ma gratis, valeva la pena di rischiare l’influenza. Il coordinatore del comitato ha detto che l’iniziativa voleva dimostrare quanto una fetta della popolazione, anche nel ricco Nordest, debba sobbarcarsi grandi sacrifici per arrivare alla fine del mese.
Insomma, che anche nel ricco nord est, non tutti sono ricchi, che notiziona!
Ma negli stessi giorni altri hanno sfidato la pioggia la neve e il rischio influenza, sono stati i volontari che ogni anno da 12 anni l’ultimo sabato di novembre si mobilitano per la 'Giornata Nazionale della Colletta Alimentare'.
Fuori dai supermercati ti danno un sacchetto per la spesa e ti invitano a donare alcuni prodotti non deperibili che poi saranno immagazzinati e destinati alle Caritas, agli istituti che fanno accoglienza, alle famiglie più bisognose.
Un gesto che da anni aiuta prima di tutto chi lo fa a riflettere sulla carità, sulla solidarietà, un gesto che educa a donare prima di tutto il tempo e poi il pranzo ad altri.
Perché qui non basta allungare una mano e trovare degli spiccioli in tasca, bisogna scegliere di uscire di casa, di stare spesso al freddo fuori dai piccoli supermercati, di metterci la faccia per rendere ragione di ciò che si sta facendo.
Quest’anno hanno aderito 7600 Punti vendita, si sono coinvolti 108.000 Volontari e sono state raccolte 8973 Tonnellate di merce, fatti che raccontano di come il nostro paese sia ancora solidale, di come un gesto come la Colletta sia educativo per chi lo fa e per i nostri figli che con noi lo fanno o che ci vedono farlo, perché diceva Sant’Ambrogio - E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto in casa per un vagabondo affamato – Come a dire che sono i fatti che educano.
I cristiani iracheni e quell'esperienza di libertà negata - Roberto Fontolan - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Un trafiletto nei giorni scorsi riportava una frase tratta da un’intervista di fine mandato rilasciata da George Bush alla televisione ABC. Qual era il suo più grande rimpianto? Aver scoperto che le notizie sulle armi di distruzione di massa che Saddam stava accumulando in Iraq erano false.
Non una cosa da poco, dal momento che quelle armi furono la motivazione ufficiale della guerra. Si ricorderà l’audizione di Colin Powell che esibiva davanti alle televisioni di tutto il mondo le foto e i filmati di mezzi e impianti piazzati nel deserto, le “prove schiaccianti” della minaccia irachena.
Qualche tempo dopo Colin Powell si dimise e chiunque al mondo lesse in quelle dimissioni l’esito della frattura con il presidente: il generale aveva “dovuto” obbedire, ma non lo avrebbe più fatto. La guerra ci fu e sappiamo come è andata e come sta andando (per avere qualche idea di come sia vissuta in questa fase dall’immaginario americano è utile vedere i film “The Hurtlocker” e “Nessuna verità”).
Recentemente il parlamento iracheno ha approvato il piano di ritiro americano, che fissa al 2011 la fine dell’operazione in corso da cinque anni. Ma dire che l’Iraq resta e resterà in una situazione drammatica è un eufemismo.
Dell’intero Paese soltanto il Kurdistan, a nord, vive in pace e (quasi) prosperità: uno stato di semi-indipendenza, alimentato dal locale esercito e dagli accordi petroliferi realizzati autonomamente, che infatti fanno arrabbiare il governo centrale di Baghdad. Nel resto dell’Iraq, gli accordi tra sunniti e sciiti si fanno e si disfano velocemente mentre continuano a imperversare milizie e terroristi di ogni possibile sfumatura.
È vero però che la strategia essenzialmente militare messa in atto dal generale Petreus ha dato frutti e per questo non può essere abbandonata, pur restando la domanda sulla sua tenuta nel tempo. Cosa succederà, come si evolverà la situazione irachena è un enigma. L’influenza, se non di più, dell’Iran; la forza di Al Qaeda (oggettivamente rilanciata dalla strage di Mumbai, anche se i suoi legami con la squadra di mujahiddin potrebbero risultare molto esili); il conflitto intramusulmano e arabo-curdo; il rapporto con gli Usa… al momento sono tutte incognite che sicuramente riempiono il dossier Iraq sul tavolo del nuovo segretario di Stato designato, Hillary Rodham Clinton, che per ottenere la conferma dovrà superare le forche caudine delle audizioni del Congresso (e soprattutto dovrà farlo il marito Bill la cui Fondazione ha raccolto 500 milioni di dollari, anche da donatori arabi).
In quel dossier non è certo che ci sia un rapporto sul miserevole stato dei cristiani iracheni. Non passa giorno senza che dalle loro comunità si levino grida di morte e di aiuto. Davanti alle persecuzioni, agli esodi, alle devastazioni, agli omicidi mirati, occorre riconoscere che la sopravvivenza dei cristiani in Iraq è un tema largamente sottovalutato.
Prima di tutto dalla comunità musulmana mondiale, se mai ne esista una. Settimane fa, nel corso del Forum islamo-cristiano di Roma, un illuminato e moderatissimo studioso sciita iraniano, profugo dal suo Paese e stimato docente in una università (cattolica) di Washington, a una domanda sul tema ha saputo rispondere: «Sono stati molti di più i morti musulmani in Bosnia a opera dei serbi». Diciamo che fino a che i “leader” islamici risponderanno così, resteranno sempre poco credibili.
I cristiani iracheni sono martirizzati dai musulmani, spesso per ragioni unicamente religiose: questa è la verità nuda e cruda e le grandi moschee d’occidente così come i capi islamici, a cominciare dal re dell’Arabia, dovrebbero prendere atto, condannare, agire di conseguenza. Ma poi il tema è bellamente ignorato dalle diplomazie occidentali, eccetto il nostro ministro Frattini che la settimana scorsa ha parlato chiaro ai governanti iracheni, e clamorosamente dai media e dunque dall’opinione pubblica.
Non è una faccenda risolvibile con la pur doverosa accoglienza (l’Unione europea lo farà con diecimila profughi), ma solo con il riconoscimento concreto del diritto alla libertà religiosa in un Paese verso il quale erano state assunte parecchie responsabilità tra cui quella di “esportare la democrazia”.
Un diritto che va difeso, persino con le armi, e che dovrebbe dare il titolo centrale alle celebrazioni per i 60 anni della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, in programma la settimana prossima. Dedichiamola ai cristiani iracheni, facciamo pensare il mondo al valore della libertà religiosa. Se si riuscirà a fare un passo avanti in questo cammino anche quelle vecchie false notizie potranno essere servite a qualcosa.
STORIA/ La Rosa Bianca, emblema di una lotta contro tutte le forme di totalitarismo - Redazione - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
L’enigma del Novecento, sul quale gli storici ancora oggi si interrogano, non sta solo nel comprendere come mai siano sorti sistemi di pensiero che predicavano la soppressione di intere popolazioni o classi sociali per la realizzazione di un programma politico. Quello che soprattutto sconcerta è come questi abbiano potuto conquistare l’approvazione e l’entusiastico consenso di milioni di cittadini, che intravidero una grande speranza in regimi che oggi sappiamo essere stati portatori solo di lutti e distruzione.
Negli anni tra le due guerre, la democrazia e il rispetto della dignità dell’uomo godettero di ben poca fortuna. Regimi dittatoriali o totalitari di opposto colore si affermarono in quasi tutti i paesi europei. La crisi del ’29 fece pensare a molti che il capitalismo e la liberaldemocrazia fossero condannati dalla storia. Solo la Francia e l’Inghilterra rimasero ancorate ai principi liberali, ma la rapida sconfitta della prima ad opera della Germania e il vasto consenso di cui godette il regime di Vichy mostrarono come anche nel paese della rivoluzione francese certi principi fossero assai indeboliti.
Ci sarebbe voluta una guerra mondiale e l’Olocausto per risvegliare bruscamente la coscienza europea. E risvegliarla solo in parte, perché il giudizio sul comunismo sovietico rimase per lungo tempo piegato alle esigenze della politica. Nel dopoguerra i movimenti di resistenza, sviluppatisi in alcuni paesi solo molto tardi nel corso della guerra, sarebbero diventati il mito fondativo su cui costruire una nuova identità democratica: la vasta adesione al fascismo e al nazismo furono in gran parte rimossi.
Il caso della Germania è in questo contesto particolare, come suggerisce la pubblicazione di una nuova ricostruzione delle vicende della “Rosa Bianca” pubblicata da Lindau (Annette Dumbach e Jud Newborn, Storia di Sophie Scholl e della Rosa Bianca, Lindau, 309 pagine, 22 euro). Nelle sue linee generali, la vicenda è nota. Noto è il tentativo di questo gruppo di studenti universitari di Monaco di dare vita a una forma di ribellione al governo tramite la diffusione di volantini e altri strumenti propagandistici nei quali si denunciavano la politica di Hilter e lo sterminio degli ebrei. Così come è nota la tragica fine a cui andarono incontro. Scoperti e processati dal Tribunale del popolo, furono tutti condannati alla pena capitale, che fu subito eseguita.
Ma quel che colpisce leggendo questa più recente pubblicazione è la constatazione di quanto il generoso e coraggioso moto di ribellione antinazista di questo sparuto gruppetto fosse isolato all’interno di un paese che non osava ribellarsi al nazismo anche quando questo lo portava verso il baratro. Un volantino o una scritta su un muro, furono così percepiti come gesti di rottura rivoluzionari, in un clima segnato dalla passività e dalla rassegnazione nel quale gran parte del paese era immerso.
Come ha raccontato in un bel libro di qualche anno fa lo storico Joachim Fest, tutta la storia della resistenza tedesca è infatti la storia di tentativi generosi quando disperati, compiuti da singoli o da piccoli gruppi senza alcuna reale possibilità di successo. Spesso circondati dall’incomprensione e dall’ostilità di parenti e vicini. In questo senso l’isolamento e la tragedia della “Rosa Bianca” sono lo specchio della tragedia di un intero paese.
Varie circostanze contribuirono a questa situazione, tra queste un forte nazionalismo che prescindeva dai connotati politici del governo e un senso dell’onore che additava il tradimento come il peggiore dei crimini. Da un certo momento in poi anche la constatazione che era comunque troppo tardi per tornare indietro.
L’Europa ha oggi in gran parte dimenticato tutto questo e per motivi in parte comprensibili la Germania è il paese che ha scelto assai più degli altri la via dell’oblio del proprio passato per tentare di guardare al futuro. In questo contesto, la ribellione degli studenti della “Rosa Bianca” assume ancor più valore, come testimonianza di una possibilità di riscatto del cuore dell’uomo che nessun potere può fino in fondo sopprimere.
OLTRE DARWIN/ L'alba di una nuova idea di evoluzione: se anche Nature cerca una scienza de-ideologizzata - Mario Gargantini - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Ci sono grandi aspettative nella comunità scientifica per il prossimo “anno darwiniano”, che concentra due anniversari: il bicentenario della nascita del naturalista scozzese e il centocinquantenario della pubblicazione della sua opera principale L'origine delle specie.
Per capire meglio di che aspettative si tratta, la rivista Nature ha coinvolto un gruppo eterogeneo di scienziati e commentatori scientifici ai quali ha chiesto di sintetizzare in poche battute il nocciolo delle loro attese. Tra gli interpellati ci sono stelle di prima grandezza nel firmamento della biologia contemporanea, come Niles Eldredge, proponente insieme allo scomparso Stephen J. Gould della teoria degli equilibri punteggiati, che ha dato una spallata al paradigma darwiniano della gradualità del processo evolutivo. Ma ci sono anche personaggi meno noti, secondo un accurato dosaggio redazionale, preoccupato essenzialmente di presentare il tutto in una forma politicamente corretta.
La considerazione dominante è l'auspicio di un rilancio del darwinismo, “minacciato” dai vari creazionismi più o meno scientifici. Peccato che per sostenere questa operazione molti degli intervistati siano indotti a liquidare sbrigativamente il problema dei rapporti tra scienza e religione con semplicistici inviti a tenere nettamente separati i due campi, secondo quello che sarebbe, per il biologo tedesco Ulrich Kutscera, l'imperativo filosofico dello stesso Darwin.
C'è comunque anche qualche indicazione non puramente difensiva. Ci sono ad esempio cenni alla necessità di una nuova teoria evolutiva, che riesca a spiegare l'evoluzione del fenotipo, cioè delle caratteristiche somatiche osservabili degli organismi viventi.
Come pure viene sottolineata l'esigenza di una nuova sintesi, che sappia tener conto dei diversi approcci disciplinari e dei notevoli risultati raggiunti in alcuni campi, per riformulare un quadro unitario più adeguato: è una performance, dice Eldredge, che a Darwin era riuscita grazie alle sue competenze in geologia, paleontologia, zoologia e botanica, ma che nessuno singolo scienziato oggi può pensare di replicare.
C'è, ancora, la preoccupazione che le nuove acquisizioni si riflettano a livello della scuola e della formazione universitaria, spesso impoverite e ridotte a riciclare schematismi superati e impermeabile ai tanti fermenti che animano il panorama della ricerca biologica. Col rischio di alimentare una visione ideologica dell'evoluzione.
Per fortuna ci sono anche contributi come quello di Mustafa Akyol, editorialista del Turkish Daily News, che invoca proprio, come esito degli anniversari darwiniani, una deideologizzazione del darwinismo. Akyol fa notare che, benché non manchino scienziati, anche ai massimi livelli, che vedono compatibile la loro esperienza religiosa con un'impostazione scientifica evoluzionistica, le loro posizioni sono poco conosciute e il grande pubblico continua a sentir parlare di evoluzione dai soliti paladini dell'ateismo, che spesso suggeriscono indebite derivazioni dalla scienza delle loro scelte filosofiche.
In ogni caso il dibattito è aperto: l'importante è che resti il più possibile “aperto”.
Riproporre Giorgio Gaber: un compito difficile - Luca Doninelli - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La capacità di un artista di dire qualcosa al mondo dipende solo in piccola parte dal suo talento e in grandissima parte dalla posizione che questo artista assume davanti al mondo.
Il 2 dicembre, a Milano, è cominciata la seconda edizione di una rassegna, “Milano per Giorgio Gaber”, dedicata a un artista - autore, cantante, attore - dalla posizione unica e inconfondibile. La rassegna ha in programma, oltre a diverse manifestazioni e dibattiti, quattro spettacoli di cui si fanno carico quattro bravissimi attori.
Il meno noto al grande pubblico - ma forse il più bravo sotto il profilo attorale - è Eugenio Allegri, che presenta al Filodrammatici fino al 14 dicembre Il Dio bambino, un testo degli anni Novanta.
Martedì 9 è la volta di Gioele Dix, che terrà una sorta di lezione-spettacolo su Gaber, Se potessi mangiare un’idea, in un luogo che gli si confà: l’università. Nell’Aula Magna della Statale, dove già l’anno scorso, per iniziativa di alcuni studenti, Giulio Casale portò la sua fenomenale versione di Polli d’allevamento. Mi pare significativo che, a distanza di un anno, la grande macchina organizzativa di questo festival tenga dietro un evento nato spontaneamente, inenstandosi per così dire su una radice che c’è già.
Due eventi avranno sede nel prestigioso Piccolo Teatro Strehler.
Il 13 e 14 Claudio Bisio farà una lettura scenica di un testo inedito scritto da Gaber insieme con Sandro Luporini, Io quella volta lì avevo 25 anni. Tra il 16 e il 21 sarà invece la volta di uno spettacolo molto bello e già molto premiato, Un certo Signor G, di e con Neri Marcorè. Mi sono soffermato sugli spettacoli, senza toccare gli altri eventi, perché sono gli spettacoli a formare l’ossatura, la struttura e a offrire la chiave di lettura più credibile dell’intero evento.
Questo programma ci parla di alcune persone di buona volontà che, supportate da una grossa macchina organizzativa e dal sostegno delle istituzioni - cui va riconosciuta questa stessa buona volontà - si prendono la responsabilità di ripresentare al pubblico di oggi (e soprattutto a quella parte di pubblico che per motivi anagrafici non ha potuto conoscerlo direttamente) alcuni frammenti dell’opera di uno degli ultimi giganti della cultura di questo Paese.
Nessuno - né tantomeno i bravi attori inmpegnati nella rassegna - può stare “dalla parte di Gaber”. Ciascuno deve e dovrà mantenersi semplicemente dalla propria parte. Soprattutto Gioele Dix, che si assume il compito più rischioso parlando all’università, dovrà fare attenzione: lui non è l’interprete, e nemmeno un interprete di Gaber, perché Gaber non ha interpreti. Questa è la sua forza. Gaber lo si può soltanto offrire, e il modo di offrirlo è di restare sé stessi.
Gaber è grande per l’unicità della sua posizione, che è la sua e soltanto la sua. Una posizione che è politica, filosofica, esistenziale, e abbraccia in questo modo tutto il destino di un uomo. Impegnato politicamente, Gaber non fece mai del proprio impegno una questione di schieramento.
L’Italia è il Paese degli schieramenti, tutti ci dobbiamo sempre schierare da qualche parte. Soprattutto chi esercita il gramo mestiere dell’intellettuale deve giocare continuamente tra una necessità di schieramento (o di qua o di là) e il bisogno di operare tutta una serie di distinguo che gli concedano un margine di autonomia.
Ma la libertà non si fa con i margini, ed è davvero molto raro incontrare una posizione profondamente, autenticamente libera e personale, fino alle radici.
Per me, scrittore italiano di oggi, Gaber rappresenta soprattutto questo. Una frase ormai proverbiale, che sia pure in modo caricaturale coglie il vero, dice che “Gaber era di sinistra, ma non della sinistra”. Diciamo che Gaber è solo Gaber, e che, se è vero che nessuno può stare dalla sua parte, è anche vero che tutti possiamo prendere esempio da lui per essere, almeno, altrettanto seri, altrettanto liberi.
Più volte ho detto e scritto che Gaber è stato l’ultimo, grande intellettuale italiano, intendendo con la parola “intellettuale” l’uomo che appartiene, nel bene come nel male, solo a ciò che realmente pensa e crede.
Gli uomini che si alterneranno, a Milano, tra Filodrammatici, Statale e Piccolo Teatro, in questo omaggio a Gaber, sanno di essere chiamati a fare con se stessi quello che fece lui. È la sola cosa che possano fare, e non è facile. Per questo vanno seguiti e rispettati, anche se i loro spettacoli dovessero non persuaderci fino in fondo.
SCUOLA/ Insegnanti: sì alla chiamata diretta e voglia di carriera - Associazione Diesse - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
In netta prevalenza sono donne: maggioranza schiacciante nel primo ciclo (99,4% nella scuola dell’infanzia e 95,9 nella primaria), maggioranza assoluta nella secondaria (77,5% alle medie e 61,7 alle superiori); l’età media è 41 anni, i più giovani sono al Nord; il 60% è laureato e circa la metà ha almeno dieci anni di precariato alle spalle. È questa la carta d’identità dei circa 50mila docenti immessi in ruolo nell’a.s. 2007/08 così come emerge dalla ricerca condotta, tra maggio e giugno di quest’anno, dalla Fondazione Giovanni Agnelli di Torino su tre regioni: Piemonte, Emilia-Romagna e Puglia (la versione integrale della ricerca sarà disponibile da gennaio 2009). Il campione di 10.872 intervistati è certamente significativo, soprattutto se si considera che a rispondere è stato ben oltre l’80% dei neoimmessi in ruolo nelle tre regioni (3.782 in Piemonte, 3.297 in Emilia-Romagna, 3.792 in Puglia).
Gente motivata – il 79,1% afferma di aver intrapreso la professione “per passione verso l’insegnamento” –, che il lungo e faticoso periodo di precariato non ha fiaccato nella volontà e nelle aspirazioni, tanto che alla domanda «se potesse tornare indietro, intraprenderebbe ancora la strada dell’insegnamento?» addirittura il 90,2% degli intervistati ha riposto affermativamente.
Gente attenta anche al giudizio degli altri (es., indagini OCSE-Pisa): il 65,1% è disposto a confrontarsi «con le competenze ritenute essenziali a livello internazionale e con gli standard raggiunti dagli studenti di altri paesi». Disponibile anche a lasciarsi valutare dall’esterno, se il 55% è favorevole alla valutazione complessiva di istituto e il 30% (soprattutto i più giovani) non teme di sottoporsi personalmente a valutazione.
A sorpresa vengono poi tre dati piuttosto interessanti, segno inequivocabile di un deciso cambio di mentalità e orientamento.
Alla domanda se, relativamente al reclutamento dei docenti, debba «essere riconosciuta maggiore autonomia di quella attuale per quanto riguarda la possibilità di assumere direttamente una parte degli insegnanti» (la cosiddetta “chiamata diretta” da parte delle scuole) il dato complessivo mostra che ad essere “d’accordo o molto d’accordo” è circa il 44% dei neoassunti. Disaggregando i dati si nota poi una marcata differenza tra Nord e Sud, con la Puglia che esprime un 62,7% di contrarietà alla chiamata diretta, giustificata dagli intervistati con il timore che «situazioni clientelari e di corruzione» potrebbero influenzare il nuovo sistema di reclutamento. Pur riconoscendo ad esso l’utilità di consentire la formazione di un team docente più adeguato alle esigenze specifiche della scuola, la diffidenza nei confronti della dirigenza locale porta a preferire ancora le graduatorie, seppur come male minore.
I risultati più impressionanti, però, si hanno sul lato della carriera: solo il 29,6% degli intervistati (i più avanti negli anni) accetta che la progressione retributiva sia legata al meccanismo automatico e impersonale dell’anzianità, mentre il 67,8% sostiene che bisognerebbe differenziare i percorsi di carriera – e quindi gli stipendi – in funzione del diverso impegno nell’insegnamento (meriti e competenze) e il 62,9% legherebbe la progressione di carriera all’assunzione di maggiori responsabilità organizzative e di coordinamento.
Le indagini internazionali mostrano una scuola italiana in grave difficoltà: la qualità degli apprendimenti è molto bassa e continua a scendere. Complice anche un progressivo scadimento della qualità dell’insegnamento, le cui cause sono da ricercare sia nell’eccessiva burocratizzazione della funzione che nella carenza di formazione aggiornata; nello stesso tempo, un ruolo non secondario lo gioca l’assenza di concrete prospettive di carriera diverse dall’anzianità. E forse non è a caso che questo emerga così chiaramente dalla ricerca condotta sui nuovi docenti.
Il rapido ricambio generazionale che si appresta (entro i prossimi 5-6 anni andrà in pensione il 35-40% degli attuali docenti di ruolo) potrebbe costituire un elemento importante nella direzione di un significativo cambiamento di tendenza.
La scuola cattolica deve “indicare il Cristo presente nel nostro tempo” - Il Cardinale Grocholewski al termine del congresso europeo sull'insegnamento cattolico
ROMA, mercoledì, 3 dicembre 2008 (ZENIT.org).- La missione fondamentale della scuola cattolica, come quella delle altre istituzioni collegate alla Chiesa, è “indicare il Cristo presente nel nostro tempo”.
Lo ha affermato il Cardinale Zenon Grocholewski, prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica, durante l'omelia della Messa celebrata al termine del congresso sulla scuola cattolica in Europa, svoltosi in questi giorni a Roma.
Secondo il porporato, “questo è il compito di ogni credente, la missione della Chiesa, il compito di ogni istituzione educativa cattolica: indicare il Cristo presente nel nostro tempo e nella nostra storia”.
Raccogliendo la preoccupazione del Congresso per l'avanzata della secolarizzazione nel continente europeo, il Cardinale ha sottolineato questa missione visto che “le nostre istituzioni scolastiche cattoliche sono spesso oggi l'unico luogo dove molti possono sentir parlare di Cristo, dove possono incontrarlo nella cultura, nell'arte, nella letteratura, in quello che di bello, di grande il Suo messaggio, il Vangelo, ha prodotto in Europa”.
Per questo, ha aggiunto, “la scuola e l'educazione cattolica devono parlare di Cristo, perché anche loro possano sentire il bisogno di incontrarlo”.
Nello stesso senso, Ferec Yanka, vicesegretario del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE), una delle entità organizzatrici del congresso, ha spiegato alla “Radio Vaticana” che la scuola cattolica deve “affrontare il relativismo”.
“Oggi, vediamo la cultura della morte, della solitudine, della disperazione – ha constatato –. In questo contesto, le scuole cattoliche dovrebbero essere testimoni della vita, della difesa della vita, della difesa della persona umana, dall’inizio fino alla morte naturale”.
In questo cammino, ha aggiunto Yanka, “si scoprono nuovi orizzonti della realtà, un dialogo culturale, anzi interculturale, tra il mondo della cultura, della scienza e della fede”.
Insegnare religione in Europa
Durante il congresso, è stata affrontata anche la questione dell'insegnamento della religione, sulla quale è stato presentato un rapporto che analizza la situazione in tutti i Paesi europei.
Il Rapporto sullo stato dell'insegnamento della Religione Cattolica in Europa è stato presentato da Etienne Verhack, segretario generale del Comitato Europeo per l'Insegnamento Cattolico (CEEC), ed è stato realizzato con la collaborazione delle 35 Conferenze Episcopali europee.
Secondo quanto ha reso noto all'emittente pontificia uno dei responsabili del rapporto, Alberto Campoleoni, esperto in insegnamento della Conferenza Episcopale Italiana, praticamente in tutti i Paesi d’Europa “abbiamo l’insegnamento religioso per una serie di questioni storiche”.
Ciò, ha sottolineato, è molto positivo perché è nato dalla “consapevolezza che il rapporto con la tradizione cristiana e quindi con le radici cristiane dell’Europa contribuisse a formare la cittadinanza europea”.
Il documento finale del congresso, ha aggiunto, si esprime proprio “sull’insegnamento della religione, sottolineando come sia una risorsa per le giovani generazioni e per la costruzione della società europea”.
L'insegnamento della religione, ha concluso, pone “tutta una serie di sfide importanti”, “che vanno dalla formazione degli insegnanti, dalla richiesta di tutela fino alla ricerca di sempre maggiore efficacia”.
1) Benedetto XVI e il rapporto fra Adamo e Cristo in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
2) Il piacere di fare la spesa per gli altri - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 4 dicembre 2008 - "E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto in casa per un vagabondo affamato" Sant'Ambrogio
3) I cristiani iracheni e quell'esperienza di libertà negata - Roberto Fontolan - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
4) STORIA/ La Rosa Bianca, emblema di una lotta contro tutte le forme di totalitarismo - Redazione - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
5) OLTRE DARWIN/ L'alba di una nuova idea di evoluzione: se anche Nature cerca una scienza de-ideologizzata - Mario Gargantini - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
6) Riproporre Giorgio Gaber: un compito difficile - Luca Doninelli - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) SCUOLA/ Insegnanti: sì alla chiamata diretta e voglia di carriera - Associazione Diesse - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) La scuola cattolica deve “indicare il Cristo presente nel nostro tempo” - Il Cardinale Grocholewski al termine del congresso europeo sull'insegnamento cattolico
Benedetto XVI e il rapporto fra Adamo e Cristo in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 3 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi nell'aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione sul rapporto fra Adamo, il primo uomo, e Cristo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: "Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita" (1 Cor 15,22.45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del "molto più" riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: "Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia" (Rm 5,20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.
D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che "a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte" (Rm 5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.
Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: «C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.
Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa "seconda natura" fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: «questo è umano» ha un duplice significato. «Questo è umano» può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.
Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sè sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.
E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.
Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice: "Hai creato sanabili le nazioni" (1, 14 volg). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.
Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell'Avvento con l'antico popolo di Dio: «Rorate caeli desuper». E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua. In particolare, saluto i rappresentanti della Federazione Italiana Panificatori e Pasticceri ed esprimo loro viva riconoscenza per il gradito dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa. Saluto i rappresentanti della Banca di Credito Cooperativo del Lamentino. La vostra presenza, cari amici, mi offre l’opportunità per porre in luce, specialmente in questo tempo di difficoltà per tante famiglie, uno degli obiettivi primari degli Istituti bancari e di credito, e cioè la solidarietà nei confronti delle fasce più deboli e il sostegno all’attività produttiva. Saluto poi la Compagnia Fiori nel deserto, di Vibo Valenzia e formulo voti perché il Signore vivifichi con la sua grazia le aspirazioni e i propositi di ciascuno. Saluto altresì i confratelli della "Misericordia" di Viareggio, qui convenuti con l’artistico crocifisso ligneo, in occasione del 150° anniversario della sua realizzazione, e li esorto a proseguire nella loro attività in favore dei fratelli più bisognosi.
Rivolgo infine un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Cari giovani, vi invito a riscoprire, nel clima spirituale dell'Avvento, l'intimità con Cristo, ponendovi alla scuola della Vergine Maria. Raccomando a voi, cari ammalati, di trascorrere questo periodo di attesa e di preghiera incessante, offrendo al Signore che viene le vostre sofferenze per la salvezza del mondo. Esorto, infine, voi, cari sposi novelli, ad essere costruttori di famiglie cristiane autentiche, ispirandovi al modello della Santa Famiglia di Nazaret, a cui guardano particolarmente in questo tempo di preparazione al Natale.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Il piacere di fare la spesa per gli altri - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 4 dicembre 2008 - "E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto in casa per un vagabondo affamato" Sant'Ambrogio
Il piacere di fare la spesa - diceva lo slogan pubblicitario di una catena di supermercati.
Ma di questi tempi è un piacere che sta diventando sempre più caro.
Comperiamo sempre le solite cose spendendo sempre di più, e allora cerchiamo di spendere meno, di spendere meglio, i supermercati lo hanno capito e così ecco sconti, promozioni, a volte veri, altre meno, fare la spesa è diventato più faticoso.
Una catena di supermercati per festeggiare l’anniversario ha pensato di sorteggiare tra i suoi clienti 500 persone a cui regalare - un minuto di spesa gratis - 60 secondi per arraffare dagli scaffali tutto ciò di cui si ha voglia senza il pensiero dello scontrino, beh, proprio tutto no, chiuso l’accesso alle corsie dove sono in vendita beni costosi e vietato prendere più di due pezzi per ogni prodotto. Vuoi mai che uno dei concorrenti avventandosi sullo scaffale del parmigiano riuscisse a fare un bottino di grana?
In ogni caso le cronache raccontano che l’iniziativa ha avuto successo, nessuno si è tirato indietro, familiari e amici a fare il tifo, la persona che ha totalizzato lo scontrino più altro ha sfiorato i 180 euro, non una cifra da capogiro, ma di questi tempi è una bella spesa.
«Però, che gusto», ha detto una delle partecipanti «Porti a casa una spesa che non hai mai fatto così grande, non paghi e ti applaudono pure».
Già che gusto, invece a Padova devono aver pensato - che freddo – le 300 persone che hanno sfidato il freddo per mettersi in coda di buon mattino ed accaparrarsi una delle borse della spesa gratuita distribuite dal ComRes, comitato di commercianti e residenti del centro storico che ha lanciato la settimana di lotta contro il caro vita. Un pacco di pasta, un chilo di riso e del radicchio. Poca roba, ma gratis, valeva la pena di rischiare l’influenza. Il coordinatore del comitato ha detto che l’iniziativa voleva dimostrare quanto una fetta della popolazione, anche nel ricco Nordest, debba sobbarcarsi grandi sacrifici per arrivare alla fine del mese.
Insomma, che anche nel ricco nord est, non tutti sono ricchi, che notiziona!
Ma negli stessi giorni altri hanno sfidato la pioggia la neve e il rischio influenza, sono stati i volontari che ogni anno da 12 anni l’ultimo sabato di novembre si mobilitano per la 'Giornata Nazionale della Colletta Alimentare'.
Fuori dai supermercati ti danno un sacchetto per la spesa e ti invitano a donare alcuni prodotti non deperibili che poi saranno immagazzinati e destinati alle Caritas, agli istituti che fanno accoglienza, alle famiglie più bisognose.
Un gesto che da anni aiuta prima di tutto chi lo fa a riflettere sulla carità, sulla solidarietà, un gesto che educa a donare prima di tutto il tempo e poi il pranzo ad altri.
Perché qui non basta allungare una mano e trovare degli spiccioli in tasca, bisogna scegliere di uscire di casa, di stare spesso al freddo fuori dai piccoli supermercati, di metterci la faccia per rendere ragione di ciò che si sta facendo.
Quest’anno hanno aderito 7600 Punti vendita, si sono coinvolti 108.000 Volontari e sono state raccolte 8973 Tonnellate di merce, fatti che raccontano di come il nostro paese sia ancora solidale, di come un gesto come la Colletta sia educativo per chi lo fa e per i nostri figli che con noi lo fanno o che ci vedono farlo, perché diceva Sant’Ambrogio - E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto in casa per un vagabondo affamato – Come a dire che sono i fatti che educano.
I cristiani iracheni e quell'esperienza di libertà negata - Roberto Fontolan - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Un trafiletto nei giorni scorsi riportava una frase tratta da un’intervista di fine mandato rilasciata da George Bush alla televisione ABC. Qual era il suo più grande rimpianto? Aver scoperto che le notizie sulle armi di distruzione di massa che Saddam stava accumulando in Iraq erano false.
Non una cosa da poco, dal momento che quelle armi furono la motivazione ufficiale della guerra. Si ricorderà l’audizione di Colin Powell che esibiva davanti alle televisioni di tutto il mondo le foto e i filmati di mezzi e impianti piazzati nel deserto, le “prove schiaccianti” della minaccia irachena.
Qualche tempo dopo Colin Powell si dimise e chiunque al mondo lesse in quelle dimissioni l’esito della frattura con il presidente: il generale aveva “dovuto” obbedire, ma non lo avrebbe più fatto. La guerra ci fu e sappiamo come è andata e come sta andando (per avere qualche idea di come sia vissuta in questa fase dall’immaginario americano è utile vedere i film “The Hurtlocker” e “Nessuna verità”).
Recentemente il parlamento iracheno ha approvato il piano di ritiro americano, che fissa al 2011 la fine dell’operazione in corso da cinque anni. Ma dire che l’Iraq resta e resterà in una situazione drammatica è un eufemismo.
Dell’intero Paese soltanto il Kurdistan, a nord, vive in pace e (quasi) prosperità: uno stato di semi-indipendenza, alimentato dal locale esercito e dagli accordi petroliferi realizzati autonomamente, che infatti fanno arrabbiare il governo centrale di Baghdad. Nel resto dell’Iraq, gli accordi tra sunniti e sciiti si fanno e si disfano velocemente mentre continuano a imperversare milizie e terroristi di ogni possibile sfumatura.
È vero però che la strategia essenzialmente militare messa in atto dal generale Petreus ha dato frutti e per questo non può essere abbandonata, pur restando la domanda sulla sua tenuta nel tempo. Cosa succederà, come si evolverà la situazione irachena è un enigma. L’influenza, se non di più, dell’Iran; la forza di Al Qaeda (oggettivamente rilanciata dalla strage di Mumbai, anche se i suoi legami con la squadra di mujahiddin potrebbero risultare molto esili); il conflitto intramusulmano e arabo-curdo; il rapporto con gli Usa… al momento sono tutte incognite che sicuramente riempiono il dossier Iraq sul tavolo del nuovo segretario di Stato designato, Hillary Rodham Clinton, che per ottenere la conferma dovrà superare le forche caudine delle audizioni del Congresso (e soprattutto dovrà farlo il marito Bill la cui Fondazione ha raccolto 500 milioni di dollari, anche da donatori arabi).
In quel dossier non è certo che ci sia un rapporto sul miserevole stato dei cristiani iracheni. Non passa giorno senza che dalle loro comunità si levino grida di morte e di aiuto. Davanti alle persecuzioni, agli esodi, alle devastazioni, agli omicidi mirati, occorre riconoscere che la sopravvivenza dei cristiani in Iraq è un tema largamente sottovalutato.
Prima di tutto dalla comunità musulmana mondiale, se mai ne esista una. Settimane fa, nel corso del Forum islamo-cristiano di Roma, un illuminato e moderatissimo studioso sciita iraniano, profugo dal suo Paese e stimato docente in una università (cattolica) di Washington, a una domanda sul tema ha saputo rispondere: «Sono stati molti di più i morti musulmani in Bosnia a opera dei serbi». Diciamo che fino a che i “leader” islamici risponderanno così, resteranno sempre poco credibili.
I cristiani iracheni sono martirizzati dai musulmani, spesso per ragioni unicamente religiose: questa è la verità nuda e cruda e le grandi moschee d’occidente così come i capi islamici, a cominciare dal re dell’Arabia, dovrebbero prendere atto, condannare, agire di conseguenza. Ma poi il tema è bellamente ignorato dalle diplomazie occidentali, eccetto il nostro ministro Frattini che la settimana scorsa ha parlato chiaro ai governanti iracheni, e clamorosamente dai media e dunque dall’opinione pubblica.
Non è una faccenda risolvibile con la pur doverosa accoglienza (l’Unione europea lo farà con diecimila profughi), ma solo con il riconoscimento concreto del diritto alla libertà religiosa in un Paese verso il quale erano state assunte parecchie responsabilità tra cui quella di “esportare la democrazia”.
Un diritto che va difeso, persino con le armi, e che dovrebbe dare il titolo centrale alle celebrazioni per i 60 anni della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, in programma la settimana prossima. Dedichiamola ai cristiani iracheni, facciamo pensare il mondo al valore della libertà religiosa. Se si riuscirà a fare un passo avanti in questo cammino anche quelle vecchie false notizie potranno essere servite a qualcosa.
STORIA/ La Rosa Bianca, emblema di una lotta contro tutte le forme di totalitarismo - Redazione - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
L’enigma del Novecento, sul quale gli storici ancora oggi si interrogano, non sta solo nel comprendere come mai siano sorti sistemi di pensiero che predicavano la soppressione di intere popolazioni o classi sociali per la realizzazione di un programma politico. Quello che soprattutto sconcerta è come questi abbiano potuto conquistare l’approvazione e l’entusiastico consenso di milioni di cittadini, che intravidero una grande speranza in regimi che oggi sappiamo essere stati portatori solo di lutti e distruzione.
Negli anni tra le due guerre, la democrazia e il rispetto della dignità dell’uomo godettero di ben poca fortuna. Regimi dittatoriali o totalitari di opposto colore si affermarono in quasi tutti i paesi europei. La crisi del ’29 fece pensare a molti che il capitalismo e la liberaldemocrazia fossero condannati dalla storia. Solo la Francia e l’Inghilterra rimasero ancorate ai principi liberali, ma la rapida sconfitta della prima ad opera della Germania e il vasto consenso di cui godette il regime di Vichy mostrarono come anche nel paese della rivoluzione francese certi principi fossero assai indeboliti.
Ci sarebbe voluta una guerra mondiale e l’Olocausto per risvegliare bruscamente la coscienza europea. E risvegliarla solo in parte, perché il giudizio sul comunismo sovietico rimase per lungo tempo piegato alle esigenze della politica. Nel dopoguerra i movimenti di resistenza, sviluppatisi in alcuni paesi solo molto tardi nel corso della guerra, sarebbero diventati il mito fondativo su cui costruire una nuova identità democratica: la vasta adesione al fascismo e al nazismo furono in gran parte rimossi.
Il caso della Germania è in questo contesto particolare, come suggerisce la pubblicazione di una nuova ricostruzione delle vicende della “Rosa Bianca” pubblicata da Lindau (Annette Dumbach e Jud Newborn, Storia di Sophie Scholl e della Rosa Bianca, Lindau, 309 pagine, 22 euro). Nelle sue linee generali, la vicenda è nota. Noto è il tentativo di questo gruppo di studenti universitari di Monaco di dare vita a una forma di ribellione al governo tramite la diffusione di volantini e altri strumenti propagandistici nei quali si denunciavano la politica di Hilter e lo sterminio degli ebrei. Così come è nota la tragica fine a cui andarono incontro. Scoperti e processati dal Tribunale del popolo, furono tutti condannati alla pena capitale, che fu subito eseguita.
Ma quel che colpisce leggendo questa più recente pubblicazione è la constatazione di quanto il generoso e coraggioso moto di ribellione antinazista di questo sparuto gruppetto fosse isolato all’interno di un paese che non osava ribellarsi al nazismo anche quando questo lo portava verso il baratro. Un volantino o una scritta su un muro, furono così percepiti come gesti di rottura rivoluzionari, in un clima segnato dalla passività e dalla rassegnazione nel quale gran parte del paese era immerso.
Come ha raccontato in un bel libro di qualche anno fa lo storico Joachim Fest, tutta la storia della resistenza tedesca è infatti la storia di tentativi generosi quando disperati, compiuti da singoli o da piccoli gruppi senza alcuna reale possibilità di successo. Spesso circondati dall’incomprensione e dall’ostilità di parenti e vicini. In questo senso l’isolamento e la tragedia della “Rosa Bianca” sono lo specchio della tragedia di un intero paese.
Varie circostanze contribuirono a questa situazione, tra queste un forte nazionalismo che prescindeva dai connotati politici del governo e un senso dell’onore che additava il tradimento come il peggiore dei crimini. Da un certo momento in poi anche la constatazione che era comunque troppo tardi per tornare indietro.
L’Europa ha oggi in gran parte dimenticato tutto questo e per motivi in parte comprensibili la Germania è il paese che ha scelto assai più degli altri la via dell’oblio del proprio passato per tentare di guardare al futuro. In questo contesto, la ribellione degli studenti della “Rosa Bianca” assume ancor più valore, come testimonianza di una possibilità di riscatto del cuore dell’uomo che nessun potere può fino in fondo sopprimere.
OLTRE DARWIN/ L'alba di una nuova idea di evoluzione: se anche Nature cerca una scienza de-ideologizzata - Mario Gargantini - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Ci sono grandi aspettative nella comunità scientifica per il prossimo “anno darwiniano”, che concentra due anniversari: il bicentenario della nascita del naturalista scozzese e il centocinquantenario della pubblicazione della sua opera principale L'origine delle specie.
Per capire meglio di che aspettative si tratta, la rivista Nature ha coinvolto un gruppo eterogeneo di scienziati e commentatori scientifici ai quali ha chiesto di sintetizzare in poche battute il nocciolo delle loro attese. Tra gli interpellati ci sono stelle di prima grandezza nel firmamento della biologia contemporanea, come Niles Eldredge, proponente insieme allo scomparso Stephen J. Gould della teoria degli equilibri punteggiati, che ha dato una spallata al paradigma darwiniano della gradualità del processo evolutivo. Ma ci sono anche personaggi meno noti, secondo un accurato dosaggio redazionale, preoccupato essenzialmente di presentare il tutto in una forma politicamente corretta.
La considerazione dominante è l'auspicio di un rilancio del darwinismo, “minacciato” dai vari creazionismi più o meno scientifici. Peccato che per sostenere questa operazione molti degli intervistati siano indotti a liquidare sbrigativamente il problema dei rapporti tra scienza e religione con semplicistici inviti a tenere nettamente separati i due campi, secondo quello che sarebbe, per il biologo tedesco Ulrich Kutscera, l'imperativo filosofico dello stesso Darwin.
C'è comunque anche qualche indicazione non puramente difensiva. Ci sono ad esempio cenni alla necessità di una nuova teoria evolutiva, che riesca a spiegare l'evoluzione del fenotipo, cioè delle caratteristiche somatiche osservabili degli organismi viventi.
Come pure viene sottolineata l'esigenza di una nuova sintesi, che sappia tener conto dei diversi approcci disciplinari e dei notevoli risultati raggiunti in alcuni campi, per riformulare un quadro unitario più adeguato: è una performance, dice Eldredge, che a Darwin era riuscita grazie alle sue competenze in geologia, paleontologia, zoologia e botanica, ma che nessuno singolo scienziato oggi può pensare di replicare.
C'è, ancora, la preoccupazione che le nuove acquisizioni si riflettano a livello della scuola e della formazione universitaria, spesso impoverite e ridotte a riciclare schematismi superati e impermeabile ai tanti fermenti che animano il panorama della ricerca biologica. Col rischio di alimentare una visione ideologica dell'evoluzione.
Per fortuna ci sono anche contributi come quello di Mustafa Akyol, editorialista del Turkish Daily News, che invoca proprio, come esito degli anniversari darwiniani, una deideologizzazione del darwinismo. Akyol fa notare che, benché non manchino scienziati, anche ai massimi livelli, che vedono compatibile la loro esperienza religiosa con un'impostazione scientifica evoluzionistica, le loro posizioni sono poco conosciute e il grande pubblico continua a sentir parlare di evoluzione dai soliti paladini dell'ateismo, che spesso suggeriscono indebite derivazioni dalla scienza delle loro scelte filosofiche.
In ogni caso il dibattito è aperto: l'importante è che resti il più possibile “aperto”.
Riproporre Giorgio Gaber: un compito difficile - Luca Doninelli - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La capacità di un artista di dire qualcosa al mondo dipende solo in piccola parte dal suo talento e in grandissima parte dalla posizione che questo artista assume davanti al mondo.
Il 2 dicembre, a Milano, è cominciata la seconda edizione di una rassegna, “Milano per Giorgio Gaber”, dedicata a un artista - autore, cantante, attore - dalla posizione unica e inconfondibile. La rassegna ha in programma, oltre a diverse manifestazioni e dibattiti, quattro spettacoli di cui si fanno carico quattro bravissimi attori.
Il meno noto al grande pubblico - ma forse il più bravo sotto il profilo attorale - è Eugenio Allegri, che presenta al Filodrammatici fino al 14 dicembre Il Dio bambino, un testo degli anni Novanta.
Martedì 9 è la volta di Gioele Dix, che terrà una sorta di lezione-spettacolo su Gaber, Se potessi mangiare un’idea, in un luogo che gli si confà: l’università. Nell’Aula Magna della Statale, dove già l’anno scorso, per iniziativa di alcuni studenti, Giulio Casale portò la sua fenomenale versione di Polli d’allevamento. Mi pare significativo che, a distanza di un anno, la grande macchina organizzativa di questo festival tenga dietro un evento nato spontaneamente, inenstandosi per così dire su una radice che c’è già.
Due eventi avranno sede nel prestigioso Piccolo Teatro Strehler.
Il 13 e 14 Claudio Bisio farà una lettura scenica di un testo inedito scritto da Gaber insieme con Sandro Luporini, Io quella volta lì avevo 25 anni. Tra il 16 e il 21 sarà invece la volta di uno spettacolo molto bello e già molto premiato, Un certo Signor G, di e con Neri Marcorè. Mi sono soffermato sugli spettacoli, senza toccare gli altri eventi, perché sono gli spettacoli a formare l’ossatura, la struttura e a offrire la chiave di lettura più credibile dell’intero evento.
Questo programma ci parla di alcune persone di buona volontà che, supportate da una grossa macchina organizzativa e dal sostegno delle istituzioni - cui va riconosciuta questa stessa buona volontà - si prendono la responsabilità di ripresentare al pubblico di oggi (e soprattutto a quella parte di pubblico che per motivi anagrafici non ha potuto conoscerlo direttamente) alcuni frammenti dell’opera di uno degli ultimi giganti della cultura di questo Paese.
Nessuno - né tantomeno i bravi attori inmpegnati nella rassegna - può stare “dalla parte di Gaber”. Ciascuno deve e dovrà mantenersi semplicemente dalla propria parte. Soprattutto Gioele Dix, che si assume il compito più rischioso parlando all’università, dovrà fare attenzione: lui non è l’interprete, e nemmeno un interprete di Gaber, perché Gaber non ha interpreti. Questa è la sua forza. Gaber lo si può soltanto offrire, e il modo di offrirlo è di restare sé stessi.
Gaber è grande per l’unicità della sua posizione, che è la sua e soltanto la sua. Una posizione che è politica, filosofica, esistenziale, e abbraccia in questo modo tutto il destino di un uomo. Impegnato politicamente, Gaber non fece mai del proprio impegno una questione di schieramento.
L’Italia è il Paese degli schieramenti, tutti ci dobbiamo sempre schierare da qualche parte. Soprattutto chi esercita il gramo mestiere dell’intellettuale deve giocare continuamente tra una necessità di schieramento (o di qua o di là) e il bisogno di operare tutta una serie di distinguo che gli concedano un margine di autonomia.
Ma la libertà non si fa con i margini, ed è davvero molto raro incontrare una posizione profondamente, autenticamente libera e personale, fino alle radici.
Per me, scrittore italiano di oggi, Gaber rappresenta soprattutto questo. Una frase ormai proverbiale, che sia pure in modo caricaturale coglie il vero, dice che “Gaber era di sinistra, ma non della sinistra”. Diciamo che Gaber è solo Gaber, e che, se è vero che nessuno può stare dalla sua parte, è anche vero che tutti possiamo prendere esempio da lui per essere, almeno, altrettanto seri, altrettanto liberi.
Più volte ho detto e scritto che Gaber è stato l’ultimo, grande intellettuale italiano, intendendo con la parola “intellettuale” l’uomo che appartiene, nel bene come nel male, solo a ciò che realmente pensa e crede.
Gli uomini che si alterneranno, a Milano, tra Filodrammatici, Statale e Piccolo Teatro, in questo omaggio a Gaber, sanno di essere chiamati a fare con se stessi quello che fece lui. È la sola cosa che possano fare, e non è facile. Per questo vanno seguiti e rispettati, anche se i loro spettacoli dovessero non persuaderci fino in fondo.
SCUOLA/ Insegnanti: sì alla chiamata diretta e voglia di carriera - Associazione Diesse - giovedì 4 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
In netta prevalenza sono donne: maggioranza schiacciante nel primo ciclo (99,4% nella scuola dell’infanzia e 95,9 nella primaria), maggioranza assoluta nella secondaria (77,5% alle medie e 61,7 alle superiori); l’età media è 41 anni, i più giovani sono al Nord; il 60% è laureato e circa la metà ha almeno dieci anni di precariato alle spalle. È questa la carta d’identità dei circa 50mila docenti immessi in ruolo nell’a.s. 2007/08 così come emerge dalla ricerca condotta, tra maggio e giugno di quest’anno, dalla Fondazione Giovanni Agnelli di Torino su tre regioni: Piemonte, Emilia-Romagna e Puglia (la versione integrale della ricerca sarà disponibile da gennaio 2009). Il campione di 10.872 intervistati è certamente significativo, soprattutto se si considera che a rispondere è stato ben oltre l’80% dei neoimmessi in ruolo nelle tre regioni (3.782 in Piemonte, 3.297 in Emilia-Romagna, 3.792 in Puglia).
Gente motivata – il 79,1% afferma di aver intrapreso la professione “per passione verso l’insegnamento” –, che il lungo e faticoso periodo di precariato non ha fiaccato nella volontà e nelle aspirazioni, tanto che alla domanda «se potesse tornare indietro, intraprenderebbe ancora la strada dell’insegnamento?» addirittura il 90,2% degli intervistati ha riposto affermativamente.
Gente attenta anche al giudizio degli altri (es., indagini OCSE-Pisa): il 65,1% è disposto a confrontarsi «con le competenze ritenute essenziali a livello internazionale e con gli standard raggiunti dagli studenti di altri paesi». Disponibile anche a lasciarsi valutare dall’esterno, se il 55% è favorevole alla valutazione complessiva di istituto e il 30% (soprattutto i più giovani) non teme di sottoporsi personalmente a valutazione.
A sorpresa vengono poi tre dati piuttosto interessanti, segno inequivocabile di un deciso cambio di mentalità e orientamento.
Alla domanda se, relativamente al reclutamento dei docenti, debba «essere riconosciuta maggiore autonomia di quella attuale per quanto riguarda la possibilità di assumere direttamente una parte degli insegnanti» (la cosiddetta “chiamata diretta” da parte delle scuole) il dato complessivo mostra che ad essere “d’accordo o molto d’accordo” è circa il 44% dei neoassunti. Disaggregando i dati si nota poi una marcata differenza tra Nord e Sud, con la Puglia che esprime un 62,7% di contrarietà alla chiamata diretta, giustificata dagli intervistati con il timore che «situazioni clientelari e di corruzione» potrebbero influenzare il nuovo sistema di reclutamento. Pur riconoscendo ad esso l’utilità di consentire la formazione di un team docente più adeguato alle esigenze specifiche della scuola, la diffidenza nei confronti della dirigenza locale porta a preferire ancora le graduatorie, seppur come male minore.
I risultati più impressionanti, però, si hanno sul lato della carriera: solo il 29,6% degli intervistati (i più avanti negli anni) accetta che la progressione retributiva sia legata al meccanismo automatico e impersonale dell’anzianità, mentre il 67,8% sostiene che bisognerebbe differenziare i percorsi di carriera – e quindi gli stipendi – in funzione del diverso impegno nell’insegnamento (meriti e competenze) e il 62,9% legherebbe la progressione di carriera all’assunzione di maggiori responsabilità organizzative e di coordinamento.
Le indagini internazionali mostrano una scuola italiana in grave difficoltà: la qualità degli apprendimenti è molto bassa e continua a scendere. Complice anche un progressivo scadimento della qualità dell’insegnamento, le cui cause sono da ricercare sia nell’eccessiva burocratizzazione della funzione che nella carenza di formazione aggiornata; nello stesso tempo, un ruolo non secondario lo gioca l’assenza di concrete prospettive di carriera diverse dall’anzianità. E forse non è a caso che questo emerga così chiaramente dalla ricerca condotta sui nuovi docenti.
Il rapido ricambio generazionale che si appresta (entro i prossimi 5-6 anni andrà in pensione il 35-40% degli attuali docenti di ruolo) potrebbe costituire un elemento importante nella direzione di un significativo cambiamento di tendenza.
La scuola cattolica deve “indicare il Cristo presente nel nostro tempo” - Il Cardinale Grocholewski al termine del congresso europeo sull'insegnamento cattolico
ROMA, mercoledì, 3 dicembre 2008 (ZENIT.org).- La missione fondamentale della scuola cattolica, come quella delle altre istituzioni collegate alla Chiesa, è “indicare il Cristo presente nel nostro tempo”.
Lo ha affermato il Cardinale Zenon Grocholewski, prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica, durante l'omelia della Messa celebrata al termine del congresso sulla scuola cattolica in Europa, svoltosi in questi giorni a Roma.
Secondo il porporato, “questo è il compito di ogni credente, la missione della Chiesa, il compito di ogni istituzione educativa cattolica: indicare il Cristo presente nel nostro tempo e nella nostra storia”.
Raccogliendo la preoccupazione del Congresso per l'avanzata della secolarizzazione nel continente europeo, il Cardinale ha sottolineato questa missione visto che “le nostre istituzioni scolastiche cattoliche sono spesso oggi l'unico luogo dove molti possono sentir parlare di Cristo, dove possono incontrarlo nella cultura, nell'arte, nella letteratura, in quello che di bello, di grande il Suo messaggio, il Vangelo, ha prodotto in Europa”.
Per questo, ha aggiunto, “la scuola e l'educazione cattolica devono parlare di Cristo, perché anche loro possano sentire il bisogno di incontrarlo”.
Nello stesso senso, Ferec Yanka, vicesegretario del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE), una delle entità organizzatrici del congresso, ha spiegato alla “Radio Vaticana” che la scuola cattolica deve “affrontare il relativismo”.
“Oggi, vediamo la cultura della morte, della solitudine, della disperazione – ha constatato –. In questo contesto, le scuole cattoliche dovrebbero essere testimoni della vita, della difesa della vita, della difesa della persona umana, dall’inizio fino alla morte naturale”.
In questo cammino, ha aggiunto Yanka, “si scoprono nuovi orizzonti della realtà, un dialogo culturale, anzi interculturale, tra il mondo della cultura, della scienza e della fede”.
Insegnare religione in Europa
Durante il congresso, è stata affrontata anche la questione dell'insegnamento della religione, sulla quale è stato presentato un rapporto che analizza la situazione in tutti i Paesi europei.
Il Rapporto sullo stato dell'insegnamento della Religione Cattolica in Europa è stato presentato da Etienne Verhack, segretario generale del Comitato Europeo per l'Insegnamento Cattolico (CEEC), ed è stato realizzato con la collaborazione delle 35 Conferenze Episcopali europee.
Secondo quanto ha reso noto all'emittente pontificia uno dei responsabili del rapporto, Alberto Campoleoni, esperto in insegnamento della Conferenza Episcopale Italiana, praticamente in tutti i Paesi d’Europa “abbiamo l’insegnamento religioso per una serie di questioni storiche”.
Ciò, ha sottolineato, è molto positivo perché è nato dalla “consapevolezza che il rapporto con la tradizione cristiana e quindi con le radici cristiane dell’Europa contribuisse a formare la cittadinanza europea”.
Il documento finale del congresso, ha aggiunto, si esprime proprio “sull’insegnamento della religione, sottolineando come sia una risorsa per le giovani generazioni e per la costruzione della società europea”.
L'insegnamento della religione, ha concluso, pone “tutta una serie di sfide importanti”, “che vanno dalla formazione degli insegnanti, dalla richiesta di tutela fino alla ricerca di sempre maggiore efficacia”.