Nella rassegna stampa di oggi:
1) 08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.
2) 08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.
3) Benedetto XVI: in Avvento Dio vuole "parlare al cuore del suo Popolo" - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
4) E' lecito incoraggiare ricerche prenatali che possono indurre ad abortire? - Il prof. Carlo Bellieni* risponde alla domanda di un lettore
5) 480 persone si consacrano all'Immacolata - A San Martino di Schio sono state già consacrate alla Vergine 30.000 persone - di Antonio Gaspari
6) Dignità nel vivere e nel morire - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 7 dicembre 2008
7) Il Crocifisso scomposto e ferito - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 6 dicembre 2008
8) PERFINO MARX (E ALTRI AVVERSARI) FURONO STUPITI E COMMOSSI DA GESU’… 07.12.2008 Un brano dal nuovo libro di Antonio Socci, “Indagine su Gesù” (Rizzoli).
9) Il santo vescovo di Milano e la confutazione degli ariani - Ambrogio e il segreto della libertà di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
10) All'inizio dell'Ottocento il primo console si chiedeva: «Quand'è che l'anima entra nel corpo?» - I dubbi di Napoleone e il dogma dell'Immacolata - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
11) L'opinione pubblica tra giustizia e pressioni - Difesa della vittima e abuso della pietà - di Oddone Camerana – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
12) Uno sguardo diverso sulla crisi finanziaria - San Tommaso a Wall Street - di Luca M. Possati – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
13) Quattro pilastri per l’Europa del futuro - Mario Mauro - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
14) ISTRUZIONE/ Libera scuola in libero Stato: tre ipotesi per liberare il sistema educativo - Giovanni Cominelli - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
15) ELUANA/ Così i "falchi" del Pd vorrebbero fare entrare l'eutanasia nel testamento biologico (2) - Riccardo Marletta - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
16) ALESSIO II/ Addio al Patriarca di Mosca, salutò la fine del comunismo e l'inizio di un vero ecumenismo - INT. Romano Scalfi - sabato 6 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.
Roma (AsiaNews) – “I bambini, … soprattutto quelli gravemente malati”; “i ragazzi disagiati”; gli “anziani soli”; “gli ammalati”, “gli immigrati che fanno fatica ad ambientarsi”; “i nuclei familiari che stentano a far quadrare il bilancio”; “le persone che non trovano occupazione, o hanno perso un lavoro indispensabile per andare avanti”: sono quelle che Benedetto XVI ha chiamato “le spine”, comprese nel cesto di rose bianche che il pontefice ha offerto alla statua dell’Immacolata in piazza di Spagna, nel tradizionale atto di omaggio che si celebra ogni 8 dicembre. Il pontefice è giunto in piazza di Spagna verso le 16 e ha dato inizio a un momento di preghiera, circondato da migliaia di fedeli , pellegrini e turisti.
Dopo aver offerto il cesto di rose, il papa ha commentato: “Le rose possono esprimere quanto di bello e di buono abbiamo realizzato durante l’anno, perché in questo ormai tradizionale appuntamento tutto vorremmo offrire alla Madre, convinti che nulla avremmo potuto fare senza la sua protezione e senza le grazie che quotidianamente ci ottiene da Dio. Ma – come si suol dire – non c’è rosa senza spine, e anche sugli steli di queste stupende rose bianche non mancano le spine, che per noi rappresentano le difficoltà, le sofferenze, i mali che pure hanno segnato e segnano la vita delle persone e delle nostre comunità. Alla Madre si presentano le gioie, ma si confidano anche le preoccupazioni, sicuri di trovare in lei conforto per non abbattersi e sostegno per andare avanti”.
L’elenco delle “spine” è una spinta alla condivisione e alla solidarietà: “Insegnaci, Maria – ha continuato il pontefice - ad essere solidali con chi è in difficoltà, a colmare le sempre più vaste disparità sociali; aiutaci a coltivare un più vivo senso del bene comune, del rispetto di ciò che è pubblico, spronaci a sentire la città – e più che mai questa nostra Città di Roma – come patrimonio di tutti, ed a fare ciascuno, con coscienza ed impegno, la nostra parte per costruire una società più giusta e solidale”.
La festa di oggi chiude il giubileo dei 150 anni delle apparizioni di Lourdes, dove la Vergine è apparsa a Bernadette Soubirous, definendosi proprio con le parole “Immacolata concezione”, contenuto del dogma stabilito nel 1854. Benedetto XVI si è recato a Lourdes nel settembre scorso.
“Immacolata Concezione: anche noi ripetiamo con commozione quel nome misterioso. Lo ripetiamo qui, ai piedi di questo monumento nel cuore di Roma; e innumerevoli nostri fratelli e sorelle fanno altrettanto in mille altri luoghi del mondo, santuari e cappelle, come pure nelle case di famiglie cristiane. Dovunque vi sia una comunità cattolica, là oggi si venera la Madonna con questo nome stupendo e meraviglioso: Immacolata Concezione”.
“Nella festa odierna – ha continuato il papa - così cara al popolo cristiano, questa espressione sale dal cuore e affiora alle labbra come il nome della nostra Madre celeste. Come un figlio alza gli occhi al viso della mamma e, vedendolo sorridente, dimentica ogni paura e ogni dolore, così noi, volgendo lo sguardo a Maria, riconosciamo in lei il ‘sorriso di Dio’, il riflesso immacolato della luce divina, ritroviamo in lei nuova speranza pur in mezzo ai problemi e ai drammi del mondo”.
“La tua Bellezza – Tota Pulchra, cantiamo quest’oggi - ci assicura che è possibile la vittoria dell’amore; anzi, che è certa; ci assicura che la grazia è più forte del peccato, e dunque è possibile il riscatto da qualunque schiavitù”
“Sì, o Maria – ha concluso - tu ci aiuti a credere con più fiducia nel bene, a scommettere sulla gratuità, sul servizio, sulla non violenza, sulla forza della verità; ci incoraggi a rimanere svegli, a non cedere alla tentazione di facili evasioni, ad affrontare la realtà, coi suoi problemi, con coraggio e responsabilità. Così hai fatto tu, giovane donna, chiamata a rischiare tutto sulla Parola del Signore. Sii madre amorevole per i nostri giovani, perché abbiano il coraggio di essere “sentinelle del mattino”, e dona questa virtù a tutti i cristiani, perché siano anima del mondo in questa non facile stagione della storia. Vergine Immacolata, Madre di Dio e Madre nostra, Salus Populi Romani, prega per noi!”
08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.
Roma (AsiaNews) – “I bambini, … soprattutto quelli gravemente malati”; “i ragazzi disagiati”; gli “anziani soli”; “gli ammalati”, “gli immigrati che fanno fatica ad ambientarsi”; “i nuclei familiari che stentano a far quadrare il bilancio”; “le persone che non trovano occupazione, o hanno perso un lavoro indispensabile per andare avanti”: sono quelle che Benedetto XVI ha chiamato “le spine”, comprese nel cesto di rose bianche che il pontefice ha offerto alla statua dell’Immacolata in piazza di Spagna, nel tradizionale atto di omaggio che si celebra ogni 8 dicembre. Il pontefice è giunto in piazza di Spagna verso le 16 e ha dato inizio a un momento di preghiera, circondato da migliaia di fedeli , pellegrini e turisti.
Dopo aver offerto il cesto di rose, il papa ha commentato: “Le rose possono esprimere quanto di bello e di buono abbiamo realizzato durante l’anno, perché in questo ormai tradizionale appuntamento tutto vorremmo offrire alla Madre, convinti che nulla avremmo potuto fare senza la sua protezione e senza le grazie che quotidianamente ci ottiene da Dio. Ma – come si suol dire – non c’è rosa senza spine, e anche sugli steli di queste stupende rose bianche non mancano le spine, che per noi rappresentano le difficoltà, le sofferenze, i mali che pure hanno segnato e segnano la vita delle persone e delle nostre comunità. Alla Madre si presentano le gioie, ma si confidano anche le preoccupazioni, sicuri di trovare in lei conforto per non abbattersi e sostegno per andare avanti”.
L’elenco delle “spine” è una spinta alla condivisione e alla solidarietà: “Insegnaci, Maria – ha continuato il pontefice - ad essere solidali con chi è in difficoltà, a colmare le sempre più vaste disparità sociali; aiutaci a coltivare un più vivo senso del bene comune, del rispetto di ciò che è pubblico, spronaci a sentire la città – e più che mai questa nostra Città di Roma – come patrimonio di tutti, ed a fare ciascuno, con coscienza ed impegno, la nostra parte per costruire una società più giusta e solidale”.
La festa di oggi chiude il giubileo dei 150 anni delle apparizioni di Lourdes, dove la Vergine è apparsa a Bernadette Soubirous, definendosi proprio con le parole “Immacolata concezione”, contenuto del dogma stabilito nel 1854. Benedetto XVI si è recato a Lourdes nel settembre scorso.
“Immacolata Concezione: anche noi ripetiamo con commozione quel nome misterioso. Lo ripetiamo qui, ai piedi di questo monumento nel cuore di Roma; e innumerevoli nostri fratelli e sorelle fanno altrettanto in mille altri luoghi del mondo, santuari e cappelle, come pure nelle case di famiglie cristiane. Dovunque vi sia una comunità cattolica, là oggi si venera la Madonna con questo nome stupendo e meraviglioso: Immacolata Concezione”.
“Nella festa odierna – ha continuato il papa - così cara al popolo cristiano, questa espressione sale dal cuore e affiora alle labbra come il nome della nostra Madre celeste. Come un figlio alza gli occhi al viso della mamma e, vedendolo sorridente, dimentica ogni paura e ogni dolore, così noi, volgendo lo sguardo a Maria, riconosciamo in lei il ‘sorriso di Dio’, il riflesso immacolato della luce divina, ritroviamo in lei nuova speranza pur in mezzo ai problemi e ai drammi del mondo”.
“La tua Bellezza – Tota Pulchra, cantiamo quest’oggi - ci assicura che è possibile la vittoria dell’amore; anzi, che è certa; ci assicura che la grazia è più forte del peccato, e dunque è possibile il riscatto da qualunque schiavitù”
“Sì, o Maria – ha concluso - tu ci aiuti a credere con più fiducia nel bene, a scommettere sulla gratuità, sul servizio, sulla non violenza, sulla forza della verità; ci incoraggi a rimanere svegli, a non cedere alla tentazione di facili evasioni, ad affrontare la realtà, coi suoi problemi, con coraggio e responsabilità. Così hai fatto tu, giovane donna, chiamata a rischiare tutto sulla Parola del Signore. Sii madre amorevole per i nostri giovani, perché abbiano il coraggio di essere “sentinelle del mattino”, e dona questa virtù a tutti i cristiani, perché siano anima del mondo in questa non facile stagione della storia. Vergine Immacolata, Madre di Dio e Madre nostra, Salus Populi Romani, prega per noi!”
Benedetto XVI: in Avvento Dio vuole "parlare al cuore del suo Popolo" - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 7 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questa domenica a mezzogiorno da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro in Vaticano.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Da una settimana stiamo vivendo il tempo liturgico dell'Avvento: tempo di apertura al futuro di Dio, tempo di preparazione al santo Natale, quando Lui, il Signore, che è la novità assoluta, è venuto ad abitare in mezzo a questa umanità decaduta per rinnovarla dall'interno. Nella liturgia dell'Avvento risuona un messaggio pieno di speranza, che invita ad alzare lo sguardo all'orizzonte ultimo, ma al tempo stesso a riconoscere nel presente i segni del Dio-con-noi. In questa seconda Domenica di Avvento la Parola di Dio assume gli accenti commoventi del cosiddetto Secondo Isaia, che agli Israeliti, provati da decenni di amaro esilio in Babilonia, annunciò finalmente la liberazione: "Consolate, consolate il mio popolo - dice il profeta a nome di Dio -. Parlate al cuore di Gerusalemme e ditele che la sua tribolazione è compiuta" (Is 40,1-2). Questo vuole fare il Signore in Avvento: parlare al cuore del suo Popolo e, per suo tramite, all'umanità intera, per annunciare la salvezza. Anche oggi si leva la voce della Chiesa: "Nel deserto preparate la via del Signore" (Is 40, 3). Per le popolazioni sfinite dalla miseria e dalla fame, per le schiere dei profughi, per quanti patiscono gravi e sistematiche violazioni dei loro diritti, la Chiesa si pone come sentinella sul monte alto della fede e annuncia: "Ecco il vostro Dio! Ecco il Signore Dio viene con potenza" (Is 40,11).
Questo annuncio profetico si è realizzato in Gesù Cristo. Egli, con la sua predicazione e poi con la sua morte e risurrezione, ha portato a compimento le antiche promesse, rivelando una prospettiva più profonda e universale. Ha inaugurato un esodo non più solo terreno, storico, e come tale provvisorio, ma radicale e definitivo: il passaggio dal regno del male al regno di Dio, dal dominio del peccato e della morte a quello dell'amore e della vita. Pertanto, la speranza cristiana va oltre la legittima attesa di una liberazione sociale e politica, perché ciò che Gesù ha iniziato è un'umanità nuova, che viene "da Dio", ma al tempo stesso germoglia in questa nostra terra, nella misura in cui essa si lascia fecondare dallo Spirito del Signore. Si tratta perciò di entrare pienamente nella logica della fede: credere in Dio, nel suo disegno di salvezza, ed al tempo stesso impegnarsi per la costruzione del suo Regno. La giustizia e la pace, infatti, sono dono di Dio, ma richiedono uomini e donne che siano "terra buona", pronta ad accogliere il buon seme della sua Parola.
Primizia di questa nuova umanità è Gesù, Figlio di Dio e figlio di Maria. Lei, la Vergine Madre, è la "via" che Dio stesso si è preparata per venire nel mondo. Con tutta la sua umiltà, Maria cammina alla testa del nuovo Israele nell'esodo da ogni esilio, da ogni oppressione, da ogni schiavitù morale e materiale, verso "i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali abita la giustizia" (2 Pt 3,13). Alla sua materna intercessione affidiamo l'attesa di pace e di salvezza degli uomini del nostro tempo.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Nei giorni scorsi è morto il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Sua Santità Alessio II. Ci uniamo nella preghiera ai nostri fratelli ortodossi per raccomandare la sua anima alla bontà del Signore, affinché lo accolga nel suo Regno di luce e di pace.
Nel pomeriggio di giovedì prossimo, 11 dicembre, incontrerò nella Basilica di San Pietro gli universitari degli Atenei romani, al termine della Santa Messa che sarà presieduta dal Cardinale Agostino Vallini. In occasione dell'Anno Paolino, consegnerò ai giovani studenti la Lettera ai Romani dell'apostolo Paolo, e sarò lieto di salutarli, insieme con i Rettori, i docenti e il personale tecnico e amministrativo, in questo tradizionale appuntamento che prepara al Santo Natale.
Sono lieto di rivolgere un particolare saluto ai Chierici Mariani dell'Immacolata Concezione, che domani inizieranno il giubileo centenario della rinascita e della riforma della loro Congregazione. Cari Fratelli, la Vergine Maria vi ottenga abbondanti grazie e vi aiuti a rimanere sempre fedeli al vostro carisma.
Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Pian Camuno, Castro e Salerno, e i giovani dell'Oratorio San Giuseppe di Vittoria. Un saluto speciale rivolgo anche alla Banda Sociale di Dro e al Coro "Costalta" di Baselga di Piné, in Diocesi di Trento. A tutti auguro una buona domenica e una felice festa dell'Immacolata.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
E' lecito incoraggiare ricerche prenatali che possono indurre ad abortire? - Il prof. Carlo Bellieni* risponde alla domanda di un lettore
ROMA, domenica, 7 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Si fanno sempre più presenti, come in altri campi di ricerca, metodi medico/scientifici per diagnosticare nei primi mesi di vita intrauterina i bambini che avranno la sindrome di Down. Non sempre, ma almeno il 25% delle mamme decide di abortire. Vista la finalità, che pare semplicemente informativa per i genitori, o al massimo prepartiva a livello psicologico, fino a che punto è lecito incoraggiare queste ricerche o manifestazioni pubbliche a favore di esse?
G.B.
* * *
Risponde il prof. Bellieni*:
La diagnosi prenatale può essere ti tipo genetico e non genetico. La diagnosi genetica prenatale si esegue in via diretta (amniocentesi, villocentesi) o in via indiretta (con particolari ecografie mirate o con l'analisi del sangue materno alla ricerca di certi metaboliti). E' bene distinguere la diagnosi genetica prenatale dalla diagnosi prenatale in generale, sapendo che lo scopo della prima è di verificare l'assetto cromosomico del bambino, mentre la seconda comprende anche la prima, ma si estende a cercare malattie situazioni di tipo medico (ritardo di accrescimento, malformazioni, sofferenza fetale), molte delle quali sono curabili.
La ricerca in sé è sempre una cosa buona; il problema è valutare in prima cosa che a fronte di una imponente investimento di denaro per la diagnosi prenatale genetica, non c'è assolutamente altrettanto investimento per la ricerca della terapia di malattie come la sindrome Down. La pubblicizzazione di tecniche di diagnosi genetica prenatale può essere utile per evitare l'uso eccessivo di quelle invasive, ma può anche creare una mentalità in cui la coppia si senta obbligata a farla.
La preoccupazione del lettore è giustificata, perché non esiste nulla di eticamente neutro in medicina così come in altri aspetti della vita: tutto ciò che facciamo deve passare al vaglio del nostro giudizio; abdicare a questo è abdicare al governo di sé; di questo argomento ci siamo già occupati su ZENIT (25 maggio 2008) e con un recente documento che abbiamo pubblicato a cura di alcuni medici, bioeticisti e associazioni di disabili e cui può accedere cliccando su http://vocabolariodibioetica.splinder.com/post/17193474/Documento+diagnosi+prenatale.
Resta la necessità di avere dei punti di riferimento in questo ambito, in cui la possibilità di fare errori è alta, e per questo suggerisco dei punti per un atteggiamento etico verso la diagnosi prenatale, di cui alcuni rivolti alla famiglia, altri per chi governa la sanità pubblica.
Criteri per la famiglia
1. La diagnosi prenatale dovrebbe avere un intento positivo per la salute del figlio e della madre. La diagnosi genetica prenatale non ha al momento un'utilità curativa per il bambino.
2. Una diagnosi genetica prenatale può, in casi particolarmente densi di tensione, servire a rasserenare la coppia in caso di forte ansia sulla salute genetica del bambino, ma la sua esecuzione non dovrebbe essere routinaria per non creare la mentalità (nella coppia e nella popolazione) che il primo atteggiamento da avere verso il figlio sia "accertarne la normalità" .
3. La diagnosi genetica prenatale non può essere routine ("perché la fanno tutte") ma semmai deve essere una precisa scelta, perché ogni intervento medico ha alla base il consenso informato e la scelta libera del paziente. In questo caso, inoltre, il paziente su cui si fa l'indagine non è ancora nato e la scelta di fare su di lui/lei una diagnosi è presa per delega dal genitore che ne ha la responsabilità.
4. Intraprendendo la diagnosi genetica prenatale bisogna avere sempre la coscienza che stiamo facendo la diagnosi ad un bambino vero e proprio, anche se non ancora nato.
5. La diagnosi genetica prenatale diretta (amniocentesi, villocentesi) comporta dei rischi per la salute del bambino (rischio di aborto non voluto di circa 1 su 100 o 200 amniocentesi)
Criteri per chi offre la diagnosi
1. La diagnosi genetica prenatale deve essere preceduta da un colloquio che ne spieghi finalità e rischi; deve essere fornito un modulo che li riassuma e deve essere fatto firmare. Il modulo deve contenere anche la percentuale di rischio di aborto non voluto registrato presso la struttura che esegue l'intervento di diagnosi invasiva e la durata stessa del colloquio.
2. In caso di diagnosi di patologia, la donna o la coppia va indirizzata dallo specialista della patologia riscontrata col quale verrà approfondita la possibilità terapeutica e la reale entità del problema. Può essere utile coinvolgere anche associazioni ufficialmente riconosciute di familiari o di malati della patologia in questione.
***
*Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
[I lettori sono invitati a porre domande sui vari temi di bioetica scrivendo all'indirizzo: bioetica@zenit.org. I diversi esperti che collaborano con ZENIT provvederanno a rispondere ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]
480 persone si consacrano all'Immacolata - A San Martino di Schio sono state già consacrate alla Vergine 30.000 persone - di Antonio Gaspari
ROMA, domenica, 7 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Martedì 8 dicembre, tra le tante e molteplici celebrazioni della solennità dell'Immacolata Concezione, ci sarà anche quella di San Martino di Schio (Vicenza), nella quale 480 persone provenienti dal Triveneto, dall'Emilia Romagna, dalla Lombardia e dalla Liguria emetteranno l'atto di Consacrazione a Maria.
La consacrazione avviene dopo cinque settimane di percorso catechetico. Queste persone andranno ad aggiungersi alle circa trentamila che nel corso degli ultimi 20 anni si sono consacrate alla Vergine a S. Martino di Schio.
Per capire in che cosa consiste la consacrazione e il perché del successo popolare di questa iniziativa mariana, ZENIT ha intervistato Mirco Agerde, vicepresidente del Movimento mariano Regina dell'Amore (http://www.mariachiama.it/gruppogiovani/index.php?option=com_weblinks&view=category&id=1%3Amovimento-mariano-regina-dellamore&Itemid=5).
Agerde ha il compito specifico di preparare con una serie di catechesi tutte le persone che desiderano consacrarsi al Cuore Immacolato di Maria e che entrano a far parte del movimento nato a Schio (VI).
Che cosa significa che 480 persone si consacreranno al Cuore Immacolato di Maria?
Agerde: La consacrazione a Maria è un rinnovo delle promesse battesimali e - se vogliamo - un rinnovo della stessa Confermazione, attraverso cui desideriamo donare a Maria (e attraverso di Lei a Gesù) la nostra stessa vita perché Ella ci guidi a diventare altrettanti discepoli perfetti di Cristo e, quindi, suoi strumenti per una rinnovata e autentica testimonianza cristiana in tutti gli ambienti di vita sempre più bisognosi di una nuova evangelizzazione.
In fondo altre 480 persone che decidono di darsi a Maria è un fatto che rappresenta, al di là di tutto, un profondo desiderio di spiritualità soprattutto mariana, e il desiderio di uscire e salvarsi da quella che il nostro amato Pontefice Benedetto XVI, ha felicemente definito "dittatura del relativismo".
Che cos'è il Movimento mariano Regina dell'Amore di Schio, e quali sono i suoi apostolati?
Agerde: Il Movimento mariano Regina dell'Amore è nato in seguito alle Apparizioni della Madonna a Renato Baron, avvenute tra il 1985 e il 2004, nelle quali e attraverso le quali Lei si è definita Regina dell'Amore. Da una decina d'anni il Movimento è accolto dalla Chiesa di Vicenza come ecclesiale con la nomina da parte della Diocesi di un Assistente.
Il Movimento tuttavia si estende al di là del territorio berico con circa 300 gruppi di preghiera sparsi in oltre 5 Nazioni europee e altre extraeuropee.
Le sue finalità, suggerite dalla Madonna, sono la diffusione della devozione mariana attraverso la pratica della Consacrazione al suo Cuore Immacolato, la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, le opere di carità fraterna rivolte soprattutto a soli e abbandonati.
A tal proposito è stata anche costruita, in questi nostri luoghi, una casa per soli e abbandonati denominata "Casa Annunziata", che funziona già da 12 anni con più di 50 anziani che le famiglie non possono o non vogliono tenere. Contemporaneamente sono sorte anche due missioni in Kenya e Brasile che si occupano di più dei bambini poveri, soli e abbandonati.
Perché il Cuore Immacolato di Maria? Vi rifate a qualche tradizione particolare? Fate riferimento al messaggio della Madonna di Fatima?
Agerde: Il messaggio di Fatima è quanto mai presente nel nostro cammino, così come è presente il grande esempio del grande Papa del "Totus tuus" Giovanni Paolo II; è presente anche S. Luigi Grignon de Monfort, che speriamo di veder annoverato un giorno tra i dottori della Chiesa proprio perché egli ha capito più di tutti il grande valore e il segreto della Consacrazione alla Madonna. Ma certo la nostra spiritualità parte essenzialmente da quanto ricevuto qui, e che in fondo si pone in continuità con le grandi apparizioni del passato, ma con una sottolineatura profonda a professare pubblicamente la fede per essere popolo di Dio che converte il popolo di Dio.
A Oxford hanno cancellato il Natale. In Spagna un giudice ha ordinato di togliere i crocifissi dalle pareti. In un mondo così secolarizzato come si fa a preservare e tramandare la fede in Cristo attraverso Maria?
Agerde: Gran parte della società europea, e non solo, vive oggi come se Dio non ci fosse, anzi sembra volere scatenare una nuova persecuzione contro i cristiani e il cristianesimo in maniera cruenta e incruenta! In fondo noi stiamo vivendo tempi che potremmo definire "della nuova crocifissione di Gesù". Sotto la Croce però c'era Maria, che nel momento in cui Gesù moriva e gli Apostoli scappavano ha conservato tutta la fede e l'insegnamento del Figlio suo per poi ritrasmetterlo ai discepoli.
Anche oggi - in questa nuova crocifissione operata persino nell'Europa dalle radici cristiane - c'è Maria che ancora una volta opera come Madre e conserva la fede attraverso tanti uomini e donne di buona volontà; c'è con Lei lo Spirito Santo che sta suscitando nella chiesa tanti nuovi Movimenti che annunciano una nuova Pentecoste, una nuova primavera cristiana.
Quali sono le ragioni che vi spingono a recitare il rosario e a pregare Maria?
Agerde: Quando il Figlio dell'uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede? Per quanto detto sopra ci sentiamo di rispondere: "Sì", sì perché troverà Maria con tutte le conversioni e le vocazioni che Ella sta operando e suscitando in questi tempi attraverso la sua potente intercessione e azione materna. Per questo oggi è importantissima la devozione e la consacrazione mariana; attenzione però: chi è veramente devoto di Maria non si limita alle pratiche devozionali, ma attraverso queste sente crescere nel suo cuore la stessa ansia salvifica di Maria, il suo stesso desiderio di portare Gesù a tutti gli uomini; si innamora dei Sacramenti e in primis dell'Eucaristia, attraverso la Quale il vero devoto sente crescere l'anelito di consumare la sua vita, anche nelle sue proprie occupazioni quotidiane, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime; sente il desiderio di diventare veramente "Totus tuus" e spendersi totalmente per il trionfo del Cuore Immacolato di Maria nel mondo.
Dignità nel vivere e nel morire - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 7 dicembre 2008
Dignità di ogni persona umana
Secondo la tradizione del pensiero cristiano ogni persona è un modo di essere unico e irripetibile di ogni individuo nella natura umana. L’essere umano in ogni persona è come l’essere in se stesso e per se stesso e quindi di se stesso. Le persone sono ontologicamente capaci di esistere nella loro natura da essere capaci di decidere il loro modo di essere conformemente o difformemente da essa. Anche se l’uso di questa capacità è condizionato da vari fattori, quali ad esempio l’età, lo sviluppo neuronale o altre condizioni di salute. La persona designa un essere dono del Donatore divino originariamente proprio, che non troviamo in nessun’altra individualità. Percepirlo è cogliere la verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza, l’avvenimento di una conoscenza che rimanda all’origine del proprio e altrui essere e che risponde alle domande fondamentali in noi senza di noi: chi sono? Da dove vengo e dove vado?
Dignità di ogni persona indica questo modo proprio di essere: essere qualcuno è più che essere qualcosa di totalmente comprensibile, dicibile, prevedibile, programmabile: si tratta di un di più, di un’eccellenza e di una superiorità nell’essere. Dignità indica esigenza di essere riconosciuta in questo di più per cui possiede la propria natura umana. Ma allora cosa significa per ogni persona dignità nel vivere e nel morire conforme al proprio essere persona? Due premesse:
- ogni individuo umano è persona. Là dove vive un uomo c’è una persona umana: l’essere persona è dall’origine e in continuità la vita di ogni uomo. Non è possibile avere criteri per discernere fra gli individui umani chi è persona e chi non: è la pura e semplice appartenenza alla specie umana dal concepimento alla morte naturale.
- il modo proprio di essere persona è costitutivamente relazionato alle altre persone: nessuna persona è senza porte e senza finestre. Relazione fondamentale è il riconoscimento dell’altro come persona: vedi nell’altro e in tutto quello che lo circonda la verità del tuo e del suo essere dono unico e irripetibile del Donatore divino e quindi non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te – ama il prossimo come te stesso. Quando parlo di umanità non denoto una specie vivente come quando parlo di animalità, ma una famiglia umana e ciò che fa di ogni uomo una persona, sempre fine e mai riduttivamente mezzo per altri o per altro. Umanità denota non un insieme di tanti individui che realizzano la stessa specie, ma una comunità di persone legate dal vincolo del riconoscimento reciproco.
Quale vita? Dignità nel vivere
Una tendenza soggettivistica: dignità o indegnità del proprio vivere dipende esclusivamente dal giudizio di chi vive, dal proprio io? Ciascuno giudica se la propria vita è degna, se è una buona vita?
Una risposta positiva a questa domanda nasconde un grave errore, ma anche una verità. Errore perché dimentica che persona è relazione con il Donatore divino del proprio e altrui essere dono, come di tutto il mondo che la circonda e quindi esistono forme, stili di vita obiettivamente indegni di una persona umana, di un io in relazione con il Donatore divino, con gli altri esseri dono, prescindendo dal fatto che in esso la persona si senta o non si senta realizzata. E’ sempre un grave scandalo sia per la ragione e sia per la fede in un Donatore divino provvidente il vedere unite nella stessa persona una condizione di benessere e comportamenti di chiusura, di non dono nella relazione con altri in bisogno.
Ma c’è anche una sua verità. Ogni persona umana in forza della sua soggettività spirituale non è solo mossa ad un fine nella relazione, ma muove se stessa verso un fine. Parlare di “vita degna” all’insaputa e senza la condiscendenza di chi la vive, è un non senso.
“Dignità della vita” denota simultaneamente una condizione di bene comune condivisibile da ogni soggetto ragionevole e in cui il singolo in connubio possa dire: “come è bello vivere così!”
Quando può accadere una condizione obiettiva di vita degna ed una condizione soggettiva di intima soddisfazione per la qualità della propria esistenza? Quando i nostri e altrui bisogni sono ragionevolmente soddisfatti. E’ una esigenza originaria, naturale di ogni persona vivere in società: una vita asociale è indegna di ogni uomo. Tuttavia ci sono modi e modi, forme e forme di vivere associati. Vivere in una società emarginati non è una vita degna dell’uomo. La ragione umana condivisa è chiamata a scoprire la forma buona, degna di ogni persona, della vita associata. Chiamiamo le risposte ragionevoli in relazione alle esigenze naturali di ogni io umano che devono essere realizzate nell’agire beni morali cioè che riguardano il divenire ciò che originariamente siamo. E’ una vita umana degna quella della persona che viene in possesso dei beni morali, dei beni umani operabili. Vita umana degna è uguale a vita moralmente buona. Due osservazioni:
- esistono beni morali che possono essere realizzati non semplicemente operando, ma solo cooperando. Sono i beni che si compiono mediante la virtù della giustizia;
- i beni morali operabili non si collocano tutti sullo stesso piano, ma esiste fra essi una gerarchia: il martire rinuncia alla vita, che è un bene, pur di non spezzare la sua alleanza con Cristo, che è il bene vitale più grande.
Non c’è dubbio che la salute sia un bene umano, un bene morale. Una vita sana è più degna dell’uomo che una vita ammalata. Da questa basilare intuizione è nata la medicina come scienza e arte tesa a conservare o restituire alla persona e nella persona il bene della salute. Due riflessioni su questo:
- la salute diventa sempre più un bene co-operabile. Il bene della salute non si opera solo nel rapporto medico paziente, ma esso è il frutto anche di una organizzazione pubblica. Questo è un fatto positivo ma non deve farci dimenticare che la salute appartiene a quei beni umani che rispondono a bisogni umani che non sono “solvibili” e quindi non possono essere trattati solo con la logica di mercato. La salute è un bene che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità.
- Ma la salute non è un bene sommo. Ogni persona ha il dovere/diritto di fare uso di mezzi terapeutici proporzionati/ordinari, non sproporzionati/straordinari. E questo proprio perché la salute non è un bene sommo, e quindi essa può essere sacrificata per i beni ad essa superiori.
Quale morte? Dignità nel morire
Parlare di una “dignità nel morire” è diventato oggi, nella cultura post-moderna, un non senso: morire è semplicemente cessare di vivere.
Si va facendo strada oggi l’idea che l’unica nobilitazione della morte è di attribuirla pienamente all’autodeterminazione del singolo, sia attuale (suicidio puro e semplice) sia anticipata (suicidio assistito).
Questa nobilitazione è oggi inserita nel dibattito assai acceso circa un’eventuale legislazione – che oggi è diventata necessaria – sulla fine della vita.
Il prudente discernimento tra interventi terapeutici che hanno il profilo dell’accanimento terapeutico o di terapie proporzionate, rientra nel diritto di ogni persona di vivere una vita degna, che non esclude anzi comprende l’accettazione della morte.
E’ necessario poi distinguere nettamente fra terapia e cura della persona (idratazione, alimentazione, pulizia…). La seconda è sempre dovuta, e la sua omissione avrebbe eticamente il profilo dell’omicidio. La prima invece è dovuta fatte però le necessarie distinzioni.
Fatte queste chiarificazioni, possiamo parlare con verità di dignità nel morire? Quando la morte è degna di una persona umana?
Se guardiamo con sguardo fugace alla tradizione etica del nostro Occidente, costatiamo che indubbiamente il concetto di dignità della morte è presente. Sotto almeno tre figure.
- la figura della nobilitazione del suicidio. La morte del suicida acquista, secondo questa visione, una sua dignità come contestazione di un ordine delle cose umane ritenuto assolutamente assurdo.
- La figura del martire. Già presente nella tradizione giudaica (la grande epopea maccabaica), e non assente del tutto dalla grecità (morte di Socrate!), acquista una dignità incomparabile nel cristianesimo.
- E’ invece assolutamente originale la concezione cristiana della dignità nella morte. La morte di Cristo, il suo lasciarsi uccidere è stato l’atto supremo del suo amore poiché in essa è avvenuta la totale donazione di Se stesso a tutti e a tutto, della verità del proprio e altrui essere dono del Donatore divino. La morte come dono di sé è l’originalità del cristiano. E la morte del cristiano è partecipazione alla morte di Cristo: in questa partecipazione sta la sua eminente dignità.
Ma quale contenuto dare all’espressione “dignità nel morire”?
- E’ una morte degna quella di chi ha assicurata la cura della propria persona e le terapie proporzionate.
- E’ una morte degna quella di chi può godere delle cosiddette “cure palliative”, destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia. Anche mediante il ricorso a tipi di analgesici e sedativi che hanno collateralmente l’effetto di abbreviare la vita e perdita di coscienza.
- E’ una morte degna quella di chi è accompagnato dall’attenzione amorosa e costante di altre persone.
- E’ una morte degna quella di chi “muore nel Signore” con gli ultimi suoi gesti o sacramenti ecclesiali: vive la propria morte come atto di fiducioso abbandono nel Signore.
- E’ una morte indegna quella di chi viene privato delle terapie proporzionate e della cura della sua persona o viene sottoposto ad accanimento terapeutico.
- E’ una morte indegna quella di chi viene privato di cure palliative.
- E’ una morte indegna quella di chi viene abbandonato nella sua solitudine di fronte alla morte.
- E’ una morte indegna quella di chi credente nel Cristo, non è aiutato con i sacramenti della Chiesa ad unire le proprie sofferenze a quelle di Gesù per la salvezza dell’umanità.
- Se, infine, una legislazione civile rinunciasse al principio che la vita umana è un bene che non è a disposizione di nessuno, legittimando il suicidio assistito o l’abbandono terapeutico, toglierebbe uno dei pilastri, anzi la colonna portante di tutto l’edificio spirituale costruito sulla base del riconoscimento della dignità di ogni persona. Sarebbe questione di tempo, ma la rovina sarebbe totale!
Queste argomentazioni le ho tratte quasi completamente dalla relazione tenuta il 15 novembre 2008 dal cardinale Carlo Caffarra al Convegno organizzato dalla Associazione Medici Cattolici Italiani.
Il Crocifisso scomposto e ferito - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 6 dicembre 2008
In Spagna un tribunale ha deliberato sull’esposizione del Crocifisso in una scuola pubblica una sentenza che pone il divieto a affiggere simboli religiosi in un ambiente istituzionale. Sensibilità cattolica e ideali libertari confliggono, e allontanano il diritto di una storia che non può esser messa da parte con noncuranza, né eretta a baluardo di sovranità popolare.
Stato libero, fede e giustizia, equità e compassione, come se quel Cristo in croce rappresentasse un confine, un percorso poco frequentato dalla ragione, al punto da trasformare uno stato laico in una società laicista, e una cristianità millenaria in una commedia delle maschere dove ogni pellegrino è scambiato per un intruso, se non un nemico da tenere a bada.
Sul crocifisso si gioca una partita importante, ma è una partita truccata, perché non edifica giustizia, né idealità alcuna, tanto meno costruisce comunità condivisa, cittadinanza e regola che tutela il pensiero di ciascuno.
Così in Spagna, ma potrebbe accadere pure in Italia, in qualunque altro paese ove si alimenta distacco e dimenticanza alla propria tradizione e cultura, c’è il rischio di cadute di memoria in avanti, perché a ritroso ne abbiamo perduto il senso.
Non so se questa sentenza iberica farà davvero giurisprudenza, diverrà precedente importante, non mi pare che eliminare i crocifissi da enti e sedi istituzionali, sottenda rispetto per la Costituzione o per altra carta magna che dir si voglia.
Sono i giorni di una Croce che non accetta esilio, che non tace, che riconosce le nostre assenze, le invoca e rinnova in mille fremiti nuovi che non franano sui detriti del passato.
Cancellare il simbolo di una fede allo scopo di educare le nuove generazioni a un’etica più sociale e pubblica basata sui valori costituzionali e la dichiarazione dei diritti umani, sono introduzioni alte su parole pesanti, sono speranze e certezze che ogni uomo porta con sé.
Quel Volto sofferente, quella carne squarciata, non possiede lineamenti tramandati, ma occhi di pena, come quelli di nostra madre, di nostra figlia, di nostro fratello, del nostro amico.
Ci insegnano a non tradire noi stessi, per non tradire l’altro. a cancellare attimi che trapassano le nostre colpe, la nostra stessa ricerca di salvezza attraverso la condanna senza scampo degli altri.
Radici giudaico cristiane che non possono rinnegare la propria cultura, né possono riuscirci eventuali politiche carcerocentriche nei riguardi di una passione e di una fede che non viene meno, tant’è che le cattedrali fuori dai deserti cerebrali non sono state prese a cannonate né sporcate dalle parole lanciate malamente.
Quelle braccia allargate a mezz’aria, poste sopra la nostra testa confusa ci offrono uno sguardo coraggioso sulle sofferenze degli uomini, rappresentano l’amore che dedica la vita sino a donarla per tentare di abbandonare ogni altra morte vana.
Un pezzo di legno a forma di croce per salvare il mondo, non per detenere la coscienza acerba o meno formata, una croce per muovere la memoria sulle disonestà e i deliri di onnipotenza.
Togliere di mezzo il crocifisso? Come pensarlo, quando in noi cresce il desiderio di accorciare le distanze e avvicinarci a quei piedi scomposti e feriti, aggrappandoci a quelle ali dispiegate, nell’irrefrenabile bisogno di schiodare quel Corpo dalle travi incrociate, affinché possiamo liberare ciò che ci portiamo dentro: la libertà di amarlo davvero, vivere a tempo pieno, uscendo da noi stessi non più prigionieri in spazi chiusi costruiti a nostra misura.
PERFINO MARX (E ALTRI AVVERSARI) FURONO STUPITI E COMMOSSI DA GESU’… 07.12.2008 Un brano dal nuovo libro di Antonio Socci, “Indagine su Gesù” (Rizzoli).
Chi è Gesù di Nazaret? “Il più bello fra i figli dell’uomo”, risponde il Salmo 44. (…) Ma chi è precisamente questo enigmatico Gesù che da duemila anni affascina tutti, perfino i nemici? Chi è questo giovane rabbi ebreo, che doveva essere cancellato dalla faccia della terra 2000 anni fa con una feroce esecuzione capitale da schiavo, se oggi, dopo 20 secoli, quel suo supplizio è ricordato in ogni angolo del mondo? (…) Interroghiamo Jean Jacques Rousseau, che fu un nemico filosofico della Chiesa ed essendo stato un faro sia dei rivoluzionari francesi che dei romantici è un autore pressoché universale. Ecco quali pensieri e sentimenti rivela, parlando di Gesù, in un libro peraltro condannato sia nella Parigi cattolica che nella Ginevra calvinista:“Vi confesso che la santità del Vangelo parla al mio cuore. Osservate i libri dei filosofi, con tutta la loro pompa! Come sono piccoli in confronto a quello… Può darsi che Colui di cui fa la storia sia egli stesso un uomo? E’ questo il tono di un invasato o di un settario ambizioso? Che dolcezza, che purità nei suoi costumi! Quale grazia toccante nei suoi insegnamenti, quale elevatezza nelle sue massime, quale saggezza nei suoi discorsi, quale presenza di spirito, quale finezza, quale esattezza nelle sue risposte! Quale dominio delle passioni! Dove è l’uomo, dove è il saggio che sa agire, soffrire e morire senza debolezza e senza ostentazione? (…). Ma dove aveva Gesù preso i suoi precetti, presa questa morale elevata e pura, di cui Egli solo ha dato gli insegnamenti e gli esempi? (…) La morte di Socrate che filosofeggia tranquillamente coi suoi amici, è la più dolce che si possa desiderare; quella di Gesù che spira fra i tormenti, ingiuriato, canzonato, maledetto da tutto un popolo, è la più orribile che si possa temere. Socrate che prende la coppa avvelenata benedice colui che gliela offre e che piange; Gesù, nello spaventoso supplizio, prega per i suoi accaniti carnefici. Sì, se la vita e la morte di Socrate sono quelle di un saggio, la vita e la morte di Gesù sono di un Dio”.
Stupisce anche lo sguardo su Gesù del giovanissimo Karl Marx. Egli scrisse che “l’unione con Cristo dona un’elevazione interiore, conforto nel dolore, tranquilla certezza e cuore aperto all’amore del prossimo, ad ogni cosa nobile e grande, non già per ambizione né brama di gloria, ma solo per amore di Cristo, dunque l’unione con Cristo dona una letizia che invano l’epicureo nella sua filosofia superficiale, invano il più acuto pensatore nelle più riposte profondità del sapere, tentarono di cogliere; una letizia che solo può conoscere un animo schietto, infantile, unito a Cristo e attraverso di Lui a Dio, una letizia che innalza e più bella rende la vita”.
Indagando, interrogando, Gesù emerge sempre come l’uomo più sconvolgente di tutti i tempi (com’è noto il tempo stesso, in buona parte del mondo, da secoli, si computa a partire dalla sua nascita). Non c’è nessun individuo che gli si possa paragonare per l’importanza, la vastità e la durata della sua influenza. Nessuno scatena amore e odio come lui. E’ anche il più rappresentato e cantato dall’arte di tutti i tempi. Anche la letteratura moderna ne è testimone.
“Sembra che molti autori” scrive Luigi Pozzoli “pur non riconoscendo il Cristo della fede, siano pronti a condividere le parole e i sentimenti che Dostoevskij ha confidato un giorno a una persona amica”. Ecco le parole dello scrittore russo: “Non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo” e “non solo non c’è, ma non può esserci”.
A tal punto che “se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità”. Certo in Dostoevskij l’incontenibile ammirazione per Gesù arriva al paradosso, ma la sua osservazione esprime davvero il sentimento di molti: “Quest’uomo fu il più eccelso sulla terra, la ragione per cui la terra esiste. Tutto il nostro pianeta, con tutto ciò che contiene, sarebbe una follia senza quest’uomo. Non c’è stato e non ci sarà mai nulla che gli sia paragonabile. E’ qui il grande miracolo”.
In effetti la personalità di Gesù continua a sorprendere anche i non credenti. Dice Alfredo Oriani: “Creduli o increduli, nessuno sa sottrarsi all’incanto di quella figura, nessun dolore ha rinunciato sinceramente al fascino della sua promessa”.
Perfino il simbolo del laicismo italiano, Gaetano Salvemini, rimase folgorato dall’altezza sublime della sua figura e del suo insegnamento. Raccontò, in “Empirici e Teologi”, di essersi trovato in una stagione della vita come “sperduto nel buio e fu una impressione disperata”. Si sentì illuminato allora da una pagina di Pascal in cui una vecchietta dice: “io non so dimostrare a me stessa che c’è un Dio. Ma mi regolo come se ci fosse”. Salvemini spiega: “quella vecchierella mi insegnò la via da seguire. Debbo aggiungere che nel seguire quella via, ho trovato un’altra guida e mi sono trovato bene a lasciarmene guidare. E questa guida è stato Gesù Cristo che ha lasciato il più perfetto codice morale che l’umanità abbia mai conosciuto. Io non so se Gesù Cristo sia stato davvero figlio di Dio o no. Su problemi di questo genere sono cieco nato. Ma sulla necessità di seguire la moralità insegnata da Gesù Cristo non ho nessun dubbio”.
Sfogliando il diario del turbolento e inquieto autore di “On the road”, Jack Kerouac, ci si può imbattere in questa annotazione: “so che soltanto Gesù conosce la risposta definitiva”. Nell’itinerario tormentato di Giovanni Testori perfino la “bestemmia” è segno dell’impossibilità di dimenticarlo e proprio perché non si può sradicare dal cuore è spada che lacera. Nel tempo della sua lontananza dalla Chiesa il poeta lombardo scriveva: “T’ho amato con pietà/ Con furia T’ho adorato./ T’ho violato, sconciato,/ bestemmiato./ Tutto puoi dire di me/ Tranne che T’ho evitato”.
Sembra che sia rimasta nel mondo – per chi non è cristiano – una nostalgia incolmabile di lui. Con altrettanta drammaticità infatti Pier Paolo Pasolini grida al vuoto divorante della sua assenza: “Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto/ in ogni mio intuire. Ed è volgare,/ questo non essere completo, è volgare,/ mai fui così volgare come in questa ansia,/ questo ‘non avere Cristo’ ….”.
Jorge L. Borges, da non credente, dichiara: “Gli uomini hanno perduto un volto, un volto irrecuperabile e tutti vorrebbero essere quel pellegrino (…) che a Roma vede il sudario della Veronica e mormora con fede: Gesù Cristo, Dio mio, Dio vero, così era dunque la tua faccia? (…) Abbiamo perduto quei lineamenti come si può perdere un numero magico, fatto di cifre abituali, come si perde per sempre un’immagine nel caleidoscopio. Possiamo scorgerli e non riconoscerli”.
Lo scrittore argentino confessa di “non vedere” personalmente il volto di Cristo nella sua vita, tuttavia “insisterò a cercarlo fino al giorno dei miei ultimi passi sulla terra”. (…) Un grande scrittore ebreo, Franz Kafka, interpellato dall’amico Janouch con una domanda inattesa: “E Cristo?”, dette la sensazione di una scossa all’anima: “chinò il capo. ‘E’ un abisso pieno di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi’ ”. Umberto Saba, poeta triestino, ebreo, confidandosi in alcune sue lettere con l’amico monsignor Giovanni Fallani, dichiarava di non avere la fede, ma scriveva anche: “io amo Gesù come l’uomo che più si è avvicinato al divino o, almeno, a quello che i poveri uomini immaginano essere il divino. Sì, amo infinitamente Gesù, ma (se così oso dire) lo amo come un ponte fra l’uomo e il Divino. Lo amo come un ‘fratello’; infinitamente grande, infinitamente buono e amabile. Ho bisogno di credere, di appoggiare, in ogni caso, la mia disperazione a Gesù”.
Dal libro “Indagine su Gesù” (Rizzoli) di Antonio Socci
Il santo vescovo di Milano e la confutazione degli ariani - Ambrogio e il segreto della libertà di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
Gran parte delle più note e talora drammatiche scelte di sant'Ambrogio trovarono la loro origine e la loro forza nella sua coscienza di vescovo, libera da qualsiasi condizionamento che non fosse quello della verità, cioè di Dio, che in tale coscienza traspare con la sua legge. Ed è, così, subito menzionata la relazione "teologica", che per Ambrogio istituisce e fonda la stessa coscienza con i suoi imperativi e la sua indipendenza; o, più concretamente, la relazione cristologica, cioè la signoria di Cristo. Egli afferma: "Cristo solo è il Signore" (De Ioseph Patriarca, 9, 49); "Chi ha molti padroni non può dire a uno solo: "Signore Gesù, io appartengo a te" (Explanatio ps. 118, 12, 41). E, d'altra parte, proprio questa appartenenza esclusiva, mentre lo vincolava interiormente, lo liberava da ogni potere esteriore, fosse pure quello degli imperatori e della loro corte, che pretendesse di contrastare alle ragioni di verità della sua "coscienza interiore (interior coscientia)". Un vescovo ariano, che non riconosceva la divinità di Gesù e quindi la sua assoluta signoria su ogni potere umano, non poteva che essere cortigiano, e per ciò non libero, come il predecessore di Ambrogio, Aussenzio. Il vescovo di Milano dichiarerà senza timore alcuno: "Per quanto grande sia il potere imperiale, considera, o imperatore, quanto sia grande Dio: egli vede i cuori di tutti, interroga la coscienza interiore, conosce tutte le cose prima che avvengano, conosce l'intimo del tuo cuore" (Epistula extra collectionem, 10, 7). "È indegno di un imperatore - asseriva Ambrogio - soffocare la libertà di parola, ma è indegno di un vescovo tacere il proprio pensiero" (Epistula extra collectionem, 1a, 2). La coscienza è una luce che rischiara nell'intimo: "La tua coscienza, che bene riluce in questo corpo, è la luce della lampada: essa stessa è il tuo occhio" (Explanatio ps. 118, 14, 7); "Il tuo cubicolo è il segreto delle tue cose interiori: esso è la tua coscienza" (De institutione Virginis, 1, 7), la quale rimane infrangibile di fronte a tutti e solo giudicabile da Dio, che vede nel segreto. Nella "coscienza interiore" - come Ambrogio amava chiamarla - echeggia la voce di Dio, al quale essa è primariamente aperta e trasparente, al quale ultimamente risponde, con la conseguente libertà rispetto a qualsiasi altro giudizio: la legge e la presenza di Dio nella "retta coscienza dell'uomo" (De apologia David, 14, 66) generano l'incondizionabile e infrangibile libertà dell'uomo, che ritrova la garanzia di Dio. Per questa illustrazione della coscienza, Ambrogio torna spesso alla vicenda di Susanna. Egli osserva: di fronte ai lacci della falsa testimonianza "solo la sua coscienza restava libera in Dio" (Explanatio ps. 118, 17, 25). La coscienza sa parlare anche là dove non se ne sente in maniera sonora la voce; essa non chiede il giudizio dell'uomo, avendo la testimonianza e l'arbitrio del Signore. Susanna, "tacendo davanti agli uomini, parlò a Dio. (...) Parlava con la sua coscienza là dove non si udiva la sua voce" (De officis, i, 3, 9); e "sola, priva di ogni aiuto, in mezzo a uomini, nella coscienza della propria onestà, invocava Dio come giudice. (...) Accusata, taceva, e, condannata, stava silenziosa, contenta del giudizio della propria coscienza" (De Spiritu Sancto, IIi, 40-41). Sono ancora parole di sant'Ambrogio: "La buona coscienza non ha bisogno della difesa delle parole: fondata sulla propria testimonianza, è giudice di se stessa" (Explanatio ps. xII, 38, 13, 1), e "lieta rifulge della sua luce (laeta lucet conscientia)" (ibidem 37, 38, 2). Per Ambrogio "la disgrazia più grande" sarebbe "la coscienza incatenata" (Epistula extra collectionem, xi, 3). "Libero - insegnava sant'Ambrogio - è colui che lo è dentro di sé" (Epistula 7, 17) ; "schiavo chi non possiede la forza di una coscienza pura" (De Iacob et vita beata, II, 3). E ancora una vòlta alla radice della libertà sta Gesù Cristo, il quale ha redento l'uomo, e, sciogliendolo dalla schiavitù e affrancandolo per sé, lo ha reso suo liberto, "liberto di Cristo" (De Iacob et vita beata, i, 12).
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
All'inizio dell'Ottocento il primo console si chiedeva: «Quand'è che l'anima entra nel corpo?» - I dubbi di Napoleone e il dogma dell'Immacolata - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
Novembre 1801. Fervono i lavori per la redazione del Codice civile francese. In particolare, il 5 del mese il Consiglio di Stato discute gli articoli 2, 3 e 4 del progetto. Il tema, spinosissimo e misterioso, è quello della paternità. Le formule sotto esame prevedono che non possa ritenersi legittimo il bimbo nato prima di 186 giorni dalla celebrazione delle nozze (articolo 2), né quello nato 286 giorni dopo la loro cessazione (articolo 3). Si aggiunge anche (articolo 4) che la presunzione di paternità cessa laddove la distanza tra gli sposi sia stata tale da aver reso impossibile la coabitazione tra loro, o laddove essi fossero separati nei corpi e nei beni (in assenza di riunione di fatto e di riconciliazione). In tutti questi casi, sono troppi i dubbi sull'origine della prole: è impossibile riconoscerla come concepita dal marito e, quindi, è impossibile qualificarla come legittima. In quella lontana giornata di oltre due secoli fa, il Consiglio di Stato francese dibatteva dunque su uno dei nodi più intricati della storia umana, quello dell'identificazione del padre, la cui identità rispetto alla nascita del figlio fu, da sempre e per secoli, nascosta "dietro l'impenetrabile velo" posto dalla natura (secondo una formula molto amata dai giudici italiani nell'Ottocento). Ai lavori partecipa personalmente anche il primo console, intuendo di avviare, attraverso la codificazione del diritto, quello che si sarebbe rivelato il più grande fenomeno della modernità giuridica. Come afferma lo storico del diritto Paolo Grossi, mai prima di questo momento, nella storia, il potere era stato così presuntuoso da credere che in mille articoli si potessero condensare le regole della società civile. È la nascita - sempre nelle parole dello studioso fiorentino - dell'assolutismo giuridico, di un apparato mitologico - la cui dimensione mitica risiede proprio nell'assioma che la legge esprima sempre e comunque la volontà generale - erede della serrata del diritto e delle fonti voluta dalla Rivoluzione francese. Come noto, tra le priorità di Napoleone vi fu la volontà di ripristinare l'ordine sociale e giuridico disciplinando la realtà con estremo rigore partendo proprio dalla famiglia, l'unica società intermedia non eliminabile. Il progetto era davvero ambizioso e mirato: si voleva fare ordine in uno degli ambiti più intricati e intimi, con il potere paterno che doveva fungere da modello per l'ordine pubblico generale. Il problema, però, è che Napoleone aveva un grande nemico che da millenni stava lavorando per scompaginarne i progetti, rendendo non oggettivamente identificabile la paternità. Possibile, si domanda il Bonaparte, che si debba soccombere dinnanzi al silenzio della natura? Possibile, ripete più volte il primo console durante i lavoro preparatori, che ci si debba arrendere all'impossibilità di stabilire in modo preciso il momento del concepimento? Fare chiarezza in tema è fondamentale, ribadisce più volte Napoleone: è un preciso interesse dello Stato che il povero bambino non sia privato del suo stato di legittimo. Pur in presenza di dati vaghi, dobbiamo cercare di evitare in ogni modo d'infamare una creatura innocente. Il disappunto di Napoleone verso i medici e la scienza è enorme. "Un bimbo nato a sei mesi meno sei giorni può vivere?", domanda. "Si ritiene di no", risponde il consigliere di Stato Fourcroy. "Come facciamo a sapere quando un bimbo è stato concepito?", domanda ancora e ancora Napoleone. Nel corso del serrato interrogatorio, il primo console chiede addirittura, anticipando di oltre due secoli la domanda centrale di una diciassettenne in un film che farà tanto discutere: "Quando vengono le unghie ai feti?"; è sempre Fourcroy che risponde: intorno ai sei mesi. Leggendo i resoconti dei dibattiti dell'epoca, colpisce innanzitutto la profonda sfiducia verso i medici: il consigliere Fourcroy presenta una documentata relazione sulle posizioni dei migliori autori di medicina dal titolo Sur l'époque de la naissance humaine, et sur les naissances accélérées et tardives; un posto di tutto rispetto viene dato alle dottrine di Paolo Zacchia e di Haller. Napoleone non si commuove: se mi nascesse un bimbo a cinque mesi dalle nozze, lo considererei mio a prescindere dai medici. Il dato davvero interessante, però, è che, nel suo tentativo razionale di risolvere il problema, Napoleone si rivolge al nemico, al solo ambito che sembra possa effettivamente aiutarlo. "Secondo i teologi, quand'è che l'anima entra nel corpo?". Fourcroy spiega che non sono tutti d'accordo ("secondo alcuni a sei settimane, secondo altri..."), che il dibattito nella Chiesa è acceso. Effettivamente è così: da secoli il cristianesimo vede alternarsi le due posizioni dell'animazione immediata e dell'animazione ritardata. Ma in realtà, quando Napoleone pone la domanda, manca poco perché la questione venga risolta e definita una volta per tutte. Nel 1854, infatti, sarebbe stato pronunciato il dogma dell'Immacolata Concezione. "Affermiamo e definiamo rivelata da Dio la dottrina che sostiene che la beatissima Vergine Maria fu preservata, per particolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, immune da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento, e ciò deve pertanto essere oggetto di fede certo e immutabile per tutti i fedeli". L'intento diretto e primo non era certo quello di porre fine alla lunga diatriba, ma il messaggio insito nel dogma non lasciava adito a dubbi. Affermare la preservazione di Maria dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento, è un implicito e inequivoco riconoscimento dell'animazione immediata. A pensarci bene, anche dal punto di vista simbolico, il messaggio è estremamente significativo. Per risolvere e definire una questione che nasce e si dipana nel corpo delle donne - pur trattandosi di una questione che interessa tutta l'umanità senza distinzione di sorta - la Chiesa ha scelto di seguire Maria. E di seguirne non le parole, i silenzi o i gesti, ma l'evoluzione naturale.
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
L'opinione pubblica tra giustizia e pressioni - Difesa della vittima e abuso della pietà - di Oddone Camerana – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
La facciata di una casa che crolla. Un incendio che scoppia. Una scarica elettrica che parte. La paratia di una diga che cede. La gomma di un'autobotte che si squarcia. Una grondaia che si stacca. Un colpo di pistola che esplode. Il cambio ferroviario che non scatta. La barra di un passaggio a livello rimasta aperta. La fiala di un preparato che viene scambiata con un'altra. Un albero che cade. Un masso che frana. Un autobotte che si rovescia. Un'impalcatura che s'incrina. Crolli. Buchi. Squarci. Incendi. Cedimenti. Crepe. Schianti. Morti e feriti. Si contano le vittime e si cercano le ragioni. In certi casi si invoca la mano del destino, della fatalità. In altri, quella di una misteriosa e remota punizione di Dio. In altri ancora, se si tratta di un guasto meccanico, è il tributo dovuto alla tecnica che viene chiamato in causa. Ma quando c'è di mezzo il sospetto, l'eventualità, la probabilità che si tratti del mancato rispetto delle norme di sicurezza, allora il meccanismo della ricerca di un responsabile è pronto ad attivarsi. Di chi è la colpa? è la domanda che ci si pone in questi casi. Da quando la tradizione ebraico-cristiana ci ha insegnato a metterci dalla parte delle vittime, sono passati centinaia d'anni. Ciononostante è stupefacente constatare come in presenza di un'ingiustizia l'ostilità scatenata non si plachi fino a che non ha trovato qualcuno da mettere sotto accusa e subito. E questo indipendentemente dalla messa in moto del regolare intervento della giustizia che agisce con gli strumenti di cui le procure e i tribunali dispongono legittimamente, ma che non sembrano in grado di purificare l'ambiente ormai contaminato. Recenti casi di cronaca ci hanno mostrato come in molti casi di disgrazie - disgrazie che per la loro tragicità hanno colpito l'opinione pubblica - la ricerca dei responsabili da parte delle istituzioni sia accompagnata da un'azione parallela, un'azione nella quale il ruolo dei media è certamente preponderante, fatta di istigazioni, incitamenti e tambureggiamenti che occupano lo sfondo. Per quanto si dichiari il contrario, succede in questi casi che la ricerca della giustizia deve spesso fare i conti con le influenze suscitate da un'orchestrazione laterale autonoma, un concerto a cui prendono parte i più diversi attori sociali. A proposito dei quali non mancherà di apparire come questi ultimi siano molte volte mossi da motivazioni allo stesso tempo arcaiche, per ciò che riguarda le aspettative, e modernissime per ciò che riguarda gli strumenti di pressione messi in campo, motivazioni caratterizzate dal porsi al servizio del raggiungimento di obbiettivi diversi da quelli istituzionali della giustizia e alternativi a quelli della solidarietà, del sostegno e della partecipazione umana. È triste dirlo, ma c'è una frase dei Vangeli che anticipa e sintetizza questo stato di cose ed è quella pronunciata da Gesù: "Dovunque sarà il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi" (Matteo, 24, 28). Situazione già oggetto di esame da parte di René Girard, là dove lo studioso francese parla dell'effetto prodotto dalla corsa alla preoccupazione vittimaria o souci victimaire, tipica dei nostri giorni. Definibile anche come ricatto vittimario o "strategia del caso pietoso", così nei termini usati da Lucetta Scaraffia a commento, su "L'Osservatore Romano" (16 ottobre 2008) del caso del bimbo messo artificialmente al mondo per fornire al fratello talassemico il sangue ricavabile dal suo cordone ombelicale. Fatto sta che non si è mai parlato così tanto della necessità della difesa della vittima come da quando se ne fa un uso improprio e strategico, uso che ha poco a che fare con la difesa della vittima stessa, ma più con l'abuso della pietà che suscita, finalizzata, questa, a secondi fini. Globalizzata, planetaria e secolarizzata, sorta di ingiunzione totalitaria e inquisizione permanente, la compassione obbligatoria diventa così il punto di partenza che dà origine a quel tipo di emergenze umanitarie che possono degenerare in forme di falsificazioni e totalitarismi del bene che la storia ci ha mostrato. Ma per restare a casi più recenti, è evidente che, tanto per cominciare, essere e presentarsi sotto forma di vittima, magari incatenandosi come novelli Prometeo ai cancelli di un edificio o rinunciando a mangiare e a bere o rinchiudendosi in strutture mobili collocate sulla pubblica piazza, è diventato lo strumento più sicuro in grado di fornire oltre a visibilità, potere e consenso, anche la supremazia e la forza contrattuale necessarie al desiderio di dare soddisfazione alle proprie motivazioni. Niente, infatti, come manipolare il genere di situazioni vittimarie descritte assicura il vantaggio necessario a chi vuole prevalere sul bersaglio del momento, sia esso una istituzione da colpire o la Chiesa cattolica, spesso accusata di oscurantismo per aver tentato di ostacolare la scienza e di aver fatto pertanto della ricerca una nuova vittima. Ognuno può cercare, fra i tanti i casi o le tante situazioni in cui la manipolazione citata si verifica, quello o quella che più lo convince. Il meccanismo è in ogni modo sempre quello del lupo e dell'agnello del racconto di Fedro, con la differenza che oggi ad accusare l'agnello di avergli sporcato l'acqua da bere non è più il lupo, ma sono le "anime belle" che per difendere la vittima ne hanno indossato preventivamente l'aureola. Un certo genere di ambientalisti, di rivendicazionisti patentati, di pubblici accusatori a tempo pieno, di soccorritori e tutori mediatici, di indignati di professione sono il tipo di anime belle per le quali si può dire che le anime belle non sono poi così belle. Non sembrano certo esserlo gli autori di uno striscione comparso di recente all'esterno del liceo Darwin di Rivoli. "Come possiamo crepare in fabbrica se rischiamo di venire ammazzati prima?", una domanda nel porre la quale è fuor di dubbio che gli autori aspirassero a stabilire tra studenti e operai un tragico collegamento. Ciò non toglie che lo scopo raggiunto sia basato sulla presunzione dell'esistenza di colpevoli già individuati, se non ancora con nome e cognome, certo come categoria e appartenenza sociale e professionale.
In quanto capace di esprimere meglio di ogni altro il bisogno del risentimento di affiorare in superficie nelle parole prima ancora di essere soddisfatto, "rabbia" è il termine più evocato dai difensori delle vittime che si presentano nelle vesti di anime belle. Certo non è una parola che fa onore al genere umano. Ma è la parola che, tratta dal vocabolario della violenza, meglio esprime, in tempi esasperati dalla indifferenza come i nostri, quel bisogno di rivalsa e di soddisfazione inseguito in nome del bene e di una ipotetica armonia, sbandierati dalle anime belle. Ma di quale armonia si parla? Fermiamoci qui e cerchiamo la risposta in Dostoevskji, là dove nel testo del Grande Inquisitore l'autore dichiara: "Non voglio l'armonia, non la voglio, per l'amore dell'universo. Preferisco rimanere con le mie sofferenze invendicate. Preferisco rimanere con la mia indignazione insoddisfatta".
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
Uno sguardo diverso sulla crisi finanziaria - San Tommaso a Wall Street - di Luca M. Possati – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
San Tommaso non è mai stato a Wall Street. Non ha mai letto il "Financial Times", l'"Economist" o "Il Sole 24 Ore", e forse non li leggerebbe nemmeno se fosse ancora in vita. Certo, l'autore della Summa theologiae conosceva bene l'avarizia, il mondo degli affari, il denaro, l'usura, il commercio - e su questi fenomeni ha riflettuto a lungo interpretandone il senso alla luce dei Padri della Chiesa e della filosofia greca, araba ed ebraica - ma non poteva immaginare Lehmann Brothers, Goldman Sachs, l'economia di mercato, l'età del neoliberismo selvaggio. Eppure, oggi, ai manager e ai leader mondiali che cercano di fronteggiare la peggiore crisi finanziaria degli ultimi settant'anni, con tutti i suoi drammatici risvolti sociali e psicologici, san Tommaso può insegnare qualcosa di importante e unico. La voce dell'Aquinate torna a farsi sentire grazie a uno straordinario strumento interpretativo: De re oeconomica, il lessico settoriale tomistico dell'economia, tre volumi ideati e realizzati dalla Cael (l'associazione per la computerizzazione delle analisi ermeneutiche e lessicologiche), presentati a Benedetto XVI al termine dell'udienza generale dello scorso 26 novembre. Non libri da leggere, tanto meno interpretazioni: chi scorre le pagine di questi grandi volumi non si troverà di fronte a parole, a frasi, a un testo corrente, ma a numeri, sigle, citazioni, indici. Siamo al cospetto di "austeri documenti da studiare", come li definisce il promotore del progetto, il gesuita Roberto Busa, pioniere della linguistica computazionale e autore dell'Index Thomisticus.
Il De re oeconomica aiuta lo studioso a individuare i contesti effettivi nei quali san Tommaso si espresse in merito ai fatti economici. In termini tecnici è una "concordanza" - secondo l'ordine dei testi e non già quello alfabetico delle singole voci - nella quale sono riportati non solo i luoghi delle opere dove compaiono certe espressioni d'interesse economico, ma anche le singole frasi e i periodi costruiti attorno ad una stessa parola chiave.
L'operazione risponde allo spirito di un progetto più generale, quello del Lessico tomistico biculturale(Ltb), un "lessico che riflette e spiega le parole latine di san Tommaso nei termini della cultura di oggi", come afferma padre Busa.
L'Ltb è figlio della straordinaria impresa dell'Index, ma si spinge oltre. L'intento è microanalizzare di nuovo gli undici milioni di parole del corpus per aggiungere agli ipertesti interni già assegnati dall'Index, che codificano ogni parola secondo la morfologia, ulteriori ipertesti che ne codifichino la sintassi. Ma sono soprattutto i valori metodologici che si vogliono mettere in luce: l'attenzione dell'Aquinate al rigore, all'essenzialità e alla coerenza dell'esprimersi e del ragionare. Quest'angolazione - chiarisce padre Busa - "è l'unica possibile via per arrivare a documentare come i significati di ogni voce latina del 1200 vengano oggi variamente espressi, dopo settecento anni di evoluzione culturale, nel lessico delle varie principali lingue di oggi". Così, incrociando gli indici e seguendo il percorso di un termine - o, meglio, di un gruppo di termini affini - il ricercatore ha la possibilità di costruire una mappa precisa della presenza di quel termine nel corpus thomisticus, distillando le sfumature semantiche senza dimenticare la sintesi dottrinale. Ma può insegnarci qualcosa sul nostro presente uno strumento così raffinato e tecnico, in apparenza destinato a un'esigua cerchia di specialisti? L'attuale crisi finanziaria mondiale con tutte le sue conseguenze negative soprattutto per i Paesi più poveri - il massiccio intervento pubblico nei mercati rischia di innescare un'ondata di misure protezionistiche tali da mettere a repentaglio il finanziamento allo sviluppo, come ha dimostrato la scarsa partecipazione dei capi di Stato e di Governo alla recente conferenza di Doha - è solo l'ultimo atto di un processo iniziato molto tempo fa. L'età del neoliberismo sinonimo di deregolamentazione - o, ancora peggio, di "autoregolamentazione dei mercati" - e del primato del capitale sul lavoro - con l'effetto di un accesso illimitato al credito - non è sorta dal nulla. È figlia dell'oblio della genuina vocazione della attività finanziaria, che è quella di favorire l'impiego delle risorse risparmiate là dove esse possano favorire al meglio l'economia reale, il benessere, lo sviluppo integrale dei singoli e della società nel suo insieme. Proprio nella riscoperta di una tale vocazione le riflessioni in materia economico e sociale di Tommaso possono offrire quel che oggi davvero manca: una visione sintetica del sapere dell'uomo che sappia orientare la ragione pratica. "Soltanto da un attento studio del De re oeconomica - spiega ancora padre Busa - si possono cogliere i principali strumenti logici per comprendere l'economia, per come essa è illustrata e spiegata nei testi, e dunque applicare questa comprensione alla realtà dei fatti economici". Le chiavi che il maestro di Roccasecca ci dà "sono valori quali la sincerità, l'essere sempre guidati dalla verità, mirando al bene comune, senza partigianerie né esclusivismi". È un invito a tutti i pensatori cristiani: partire da Tommaso per costruire un nuovo pensiero economico integrale. Gli strumenti ci sono. Wall Street può imparare. Fermarsi, e capire che l'uomo è una realtà complessa: esiste come ogni altro ente, e tende a conservarsi; è un animale, e come tale cerca di potenziare la sua vita animale, di procreare ed espandersi; è razionale, e questa è la sua differenza specifica. Proprio in quanto essere razionale, l'uomo tende con la sua volontà, cioè consapevolmente e liberamente, al bene universale, al fine ultimo: l'attuazione di quello che, creandolo, Dio vuole che egli sia. È la lex naturalis: per sua stessa natura l'uomo tende alla contemplazione e alla giustizia; conoscere la verità intorno a Dio e vivere insieme agli altri e operare per il bene comune. Solo questo può soddisfare la sua sete di felicità. Non grazie a un'illuminazione divina o a un'estasi mistica, ma attraverso il corretto ragionamento pratico. Ragionare bene, appunto, perché Dio ci ha dato "il lume della ragione naturale per discernere cosa sia bene e cosa sia male" (Summa theologiae, ia IIae, q. 91, art. 2), che però dev'essere sorretto da quella virtù centrale che è la prudenza, recta ratio agibilium (IIa IIae, q. 47, art. 5). C'è da ripensare un pezzo della nostra storia, il potere del consumo, il ruolo distorto che la finanza ha assunto nelle nostre esistenze. "Il denaro c'è ma non si vede - diceva un mitico broker in doppio petto nella New York degli anni Ottanta, reso celebre dal film Wall Street di Oliver Stone - qualcuno vince, qualcuno perde. Il denaro di per sé non si fa né si perde, semplicemente si trasferisce, da un'intuizione ad un'altra, magicamente!". Se avesse letto san Tommaso, forse Gordon Gekko avrebbe cambiato mestiere.
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
Quattro pilastri per l’Europa del futuro - Mario Mauro - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Oggi 288 Membri del Parlamento europeo su un totale di 785 fanno parte del Gruppo PPE-DE, che è l’unico dei sette gruppi politici all’interno del Parlamento europeo che include membri provenienti da tutti i 27 paesi dell’Unione europea.
Il PPE-DE ha sempre lavorato negli anni utilizzando gli strumenti della moderazione e del dialogo per costruire un’Europa che possa offrire prospettive per il futuro, un’Europa migliore per tutti. Il Partito popolare europeo riafferma con forza il desiderio di vedere un’Europa generatrice di prospettive e prosperità all’interno di un mercato unico, un’Europa competitiva su scala globale che allo stesso tempo generi benessere per tutti, non solo in Europa, ma in tutto il Mondo.
Per questo il Gruppo PPE-DE, al cui vertice siede il francese Joseph Daul, ha recentemente fissato le dieci priorità per la prossima legislatura, dividendole in quattro grandi capitoli: un’Europa dei valori, un’Europa della crescita, un’Europa della sicurezza e un’Europa della solidarietà.
Capitolo primo: perseguire nella difesa di valori forti. L’UE deve aggiornare, confermare e modernizzare i propri valori per competere a livello mondiale e dialogare con le altre culture. Durante l'ultima legislatura è emerso con forza come il dialogo interreligioso e interculturale costituisca la via che i valori europei e quelli delle altre culture devono percorrere per interagire costruttivamente e positivamente per costruire un futuro comune migliore. In un mondo sempre più globalizzato, frenetico e complesso il dialogo tra culture e religioni deve essere il marchio dell'Europa.
Accanto al dialogo si ripropone con forza anche per la prossima legislatura il tema della libertà religiosa, perché è fondamento per lo sviluppo della democrazia e quindi rende possibile un compito comune, nel quale in amicizia è possibile ricordarci vicendevolmente che la violazione dei diritti umani è la fine di un rapporto di verità. Questo può accadere soltanto se l'Europa, si accorge che la negazione sistematica dei valori che hanno permesso 50 anni di prosperità porta a un regredire della nostra democrazia e della nostra capacità di influenza sullo scenario mondiale. Questi valori non sono soltanto quelli legati al rapporto con l'esterno, ma sono valori che riguardano ciò che siamo noi. Ciò che la nostra storia ci ha regalato. Valori come quelli della difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna o la difesa della vita umana dal concepimento alla morte. Questo è valido a cominciare dalle relazioni con gli Stati Uniti di Obama: anche in questo senso risulta un dovere e una priorità per l'Europa l'impegno a tessere rapporti profondi con gli Stati Uniti.
Altro tema importante è lo sviluppo e il rafforzamento della politica di vicinato e il proseguimento della politica di allargamento: l’UE deve promuovere i propri valori al di là delle frontiere europee. Per fare ciò è necessario attuare una politica estera e di sicurezza comune coerente, di apertura verso le altre realtà culturali, che non sia esclusivamente legata a interessi economici, ma che abbia come segno distintivo la promozione dei diritti umani.
Capitolo secondo: per un’Europa della crescita. La crisi finanziaria non sarà di breve durata, per questo bisogna proseguire con ancor più convinzione per un’ Europa della crescita e della prosperità. Il completamento di un mercato unico efficace e aperto e soprattutto il proseguimento degli obiettivi della strategia di Lisbona volti a promuovere, come risposta alla globalizzazione, una società europea dinamica, innovativa e basata sulla conoscenza si rivelano una condizione essenziale affinché possiamo agire da traino per la ripresa dell'intera economia mondiale.
Insieme a questo dobbiamo rafforzare le misure economico-finanziarie urgenti che stanno prendendo piede nell'ultimo periodo. In primis la riforma del bilancio dell’UE e la difesa della stabilità di bilancio e dell’indipendenza monetaria: l’UE deve disporre di risorse proprie nel prossimo futuro. Il nostro obiettivo sarà quello di garantire la stabilità di bilancio e l’indipendenza della politica monetaria nell’area dell’euro.
Ulteriori proposte concrete per risolvere la crisi finanziaria verteranno sulla stabilizzazione finanziaria, che è stata per ora garantita solo a livello nazionale. L'UE tuttavia dispone di un organismo, la Banca europea degli investimenti (BEI), che ha capacità di raccogliere risorse sul mercato dei capitali. Si può quindi riflettere sulla possibilità di fare della BEI un organo di stabilizzazione macrofinanziaria, ovviamente dopo averne opportunamente modificato la sua struttura di governance. Un'operazione del genere permetterebbe di non ricorrere ai bilanci nazionali e non peserebbe sui contribuenti.
Supervisione: il cosiddetto "collegio dei supervisori" per i gruppi transnazionali è certamente un ottimo progresso rispetto alla supervisione frammentata. Ora è però il momento di pensare ad andare oltre. Il supervisore unico, già proposto dall'Italia, diventa sempre più necessario specialmente per i grandi gruppi bancari europei. Si potrebbe prevedere un modello dove sia la Banca centrale europea ad avere tale responsabilità . Le attuali vicende dimostrano chiaramente la necessità di dotarsi di un supervisore unico.
Riduzione del rischio: la crisi è stata alimentata da chi originava strumenti di credito distribuendo poi il rischio ad altri soggetti nel mercato senza sopportarlo come nel modello bancario classico. In questa maniera l'emittente non ha incentivi per garantire la qualità del credito originato. Per rimediare a ciò bisogna agire in tre direzioni: obbligare gli emittenti a mantenere nei propri libri contabili una percentuale del credito emesso; obbligare gli emittenti a seguire il rischio afferente ai loro titoli di credito e a lavorare congiuntamente con le agenzie di rating perché questo avvenga con regolarità e non solo al momento dell'emissione del credito; prevedere la tracciabilità del credito al fine di ridurre la possibilità di commistione di credito di buona e di meno buona qualità.
Capitolo terzo: per un‘Europa della sicurezza. Non può non essere inserita tra le priorità anche la questione della sicurezza. Intensificazione della lotta contro il terrorismo e della protezione dei cittadini dalla criminalità organizzata: prevedere azioni comuni e una mobilitazione comune delle risorse di polizia e giudiziarie. Tutto questo senza tralasciare la questione collegata all'integrazione e all'immigrazione: un approccio europeo comune in materia di immigrazione diventerà una delle priorità strategiche.
L'appartenenza all'Unione Europea ci impone dei doveri che sono da ricordare, volentieri e giustamente, ai Paesi che vogliono addirittura esserne parte rilevante. La legalità quindi deve rappresentare il punto di partenza per chi viene accolto per soddisfare il proprio desiderio di integrazione, il primo passo per vivere nel rispetto della propria dignità di uomini. Costituisce la condizione indispensabile perché tutto ciò si possa realizzare.
Delicatissimo è il tema della politica energetica dopo le polemiche a cui è andata incontro la Commissione europea con la proposta molto ambiziosa sulla riduzione delle emissioni del 20%. Per questo ancor di più è necessario sviluppare una politica energetica coerente nel quadro della lotta contro il cambiamento climatico, ma senza ipocritamente dimenticare lo sviluppo sostenibile: sicurezza dell’approvvigionamento, competitività dell’economia e protezione dell’ambiente.
Capitolo quarto: per un’Europa della solidarietà. Sarà cruciale il mantenimento della politica di coesione e la difesa dei valori del modello sociale europeo: questo significa che dobbiamo sostenere il chiaro legame stabilitosi tra la strategia di Lisbona e la politica di coesione, nonché la conseguente forte sinergia tra le due politiche. La politica di coesione, pur perseguendo la propria missione, è uno strumento utile per il raggiungimento delle finalità e degli obiettivi della strategia di Lisbona. Essa è dunque strettamente legata al dibattito generale sul futuro dell’UE nel suo complesso. L'Unione europea non deve limitarsi a reagire al fenomeno della globalizzazione, ma deve controllarne gli aspetti più determinanti.
L'Europa deve infine continuare a migliorare nel soddisfacimento dei bisogni alimentari di tutti gli europei, che è una parte integrante della politica agricola comune (PAC) nonché uno dei principi fondatori del Trattato di Roma ed è per questo che l'Unione Europea deve rafforzare con tutte le misure necessarie il Programma di aiuto alimentare agli indigenti. La riforma della PAC andrà a incidere anche sulla sicurezza alimentare: l’agricoltura europea dovrà perseguire un duplice obiettivo strategico, cioè nutrire gli europei in maniera indipendente e sana.
Queste priorità rappresentano la continuazione del lavoro che negli ultimi 5 anni in cui ha avuto la maggioranza in Parlamento il Partito Popolare europeo ha portato avanti per cercare di rendere sempre di più l’Unione europea un’unica entità politica, un’entità politica sempre più vicina al modello di Stati Uniti d’Europa, in contrapposizione a quella parte politica che sogna da sempre un unico soggetto politico chiamato Unione delle Repubbliche socialiste (e politicamente corrette) europee.
ISTRUZIONE/ Libera scuola in libero Stato: tre ipotesi per liberare il sistema educativo - Giovanni Cominelli - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Il referendum giornaliero on line del Corriere della Sera proponeva sabato scorso ai propri lettori una domanda relativa alla restituzione alle scuole paritarie dei 120 mln. di Euro stornati improvvidamente dalla Finanziaria: «È giusto che il governo ci ripensi?». Il 23,3% ha risposto SI, il 76,7% ha risposto NO. Tutta la grande stampa e vari programmi TV hanno reagito con laico sdegno al ripensamento del governo. Nell’occasione è risorto persino Giorgio La Malfa. Non saremo noi ad indignarci dell’indignazione. Seguiremo il saggio consiglio di Baruch Spinoza: «nec ridére nec lugére, sed intellìgere!» Dunque, occorre «leggere dentro la realtà» i seguenti dati: la grande maggioranza degli italiani, compresi molti elettori di centro-destra, è convinta che l’unica scuola legittima sia quella dello Stato; che la libertà di scegliere la scuola per i figli sia un lusso privato, che si deve pagare privatamente; che la scuola privata sia per lo più una faccenda “cattolica”. Se questi dati non saranno modificati, ogni anno si dovrà ripartire con la campagna di mendicanza per i soldi alle paritarie. Del resto i 120 mln. di euro coprono solo il 2009! Al 2011 è previsto dal Piano triennale un calo dai 534 mln. di Euro a 306 mln. Che fare, dunque? Si possono seguire almeno tre strade, in sequenza o in parallelo.
La prima: rivedere i criteri di finanziamento della legge n.62 del 10 marzo 2000. Al momento sono finanziate “a piè di lista” le istituzioni scolastiche statali. Sono “soldi di Stato”. A quelle paritarie vengono dati solo dei “contributi”: sono “soldi di governo”. Poiché sembra esistere in Parlamento un discreto numero di deputati di ambedue gli schieramenti favorevoli alla libertà di educazione e poiché un nutrito gruppo di deputati afferisce all’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà non pare impossibile l’impresa di una revisione legislativa in tempi brevissimi.
La seconda: è possibile una soluzione legislativa più radicale, che passi dal finanziamento delle istituzioni scolastiche a quello delle famiglie. Il principio è molto semplice: ogni cittadino italiano, dai 2 fino ai 18 anni ha diritto a un finanziamento annuale per la sua istruzione. La famiglia sceglie l’istituto, quale ne sia la proprietà: statale o privata. Lo Stato fornisce alla famiglia informazioni accurate e valutazioni rigorose sulla qualità dell’offerta formativa degli istituti scolastici. Questa soluzione è la più coerente con il dettato costituzionale: l’istruzione è un inalienabile diritto della persona e del cittadino. I soldi devono seguire ogni ragazzo. Accade anche ora, ma solo se il ragazzo si presenti ad una scuola statale. Qui si tocca il nocciolo della questione politica e culturale: la vicenda delle scuole paritarie non si deve inscrivere sotto il capitolo dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa e tra la Chiesa italiana e il governo di turno, ma sotto quello dei rapporti tra i cittadini e lo Stato. Non è una faccenda confessionale, è una questione di esercizio delle libertà fondamentali dei cittadini. Nel pensiero e nella prassi politica dei cattolici si sono da sempre intrecciate due linee culturali: rassegnarsi culturalmente all’onnipervasività dello Stato e negoziare politicamente delle protezioni per delle piccole enclaves confessionali; oppure contestare culturalmente e, ove possibile, politicamente la torsione statalistica dei diritti fondamentali, facendo una battaglia laica per tutti, per liberare non solo i cattolici, ma i cittadini dall’oppressione dello Stato amministrativo. Giacché nel pensiero laico italico lo “Stato di diritto” non è lo Stato liberale che protegge i diritti naturali delle persone, ma è lo Stato hobbesiano-hegeliano che li produce. È uno stato omnipervasivo e tendenzialmente totalitario.
Non si può escludere una terza strada: che le scuole paritarie escano dal sistema statale, avaro e ingrato, per combattere il proprio struggle for life nella società e nello Stato. Nella società, per raccogliere i fondi necessari per sostenere l’apertura ai ragazzi di ogni ceto sociale, compresi i meritevoli e privi di mezzi. Nello Stato, per offrire alle famiglie un’educazione migliore di quanto il sistema statale sia ormai in grado di offrire, nonostante l’enorme spreco di risorse umane e finanziarie.
ELUANA/ Così i "falchi" del Pd vorrebbero fare entrare l'eutanasia nel testamento biologico (2) - Riccardo Marletta - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Prosegue il viaggio di Riccardo Marletta, avvocato e membro della Libera Associazione Forense, nell'analisi dei disegni di legge in discussione in commissione al Senato per arrivare a una legge sul fine vita da più parti auspicata. Oggi sono presi in considerazione i ddl VERONESI (Pd), PORETTI (Pd) e CARLONI (Pd). In questi progetti di legge, anche se si esalta il principio di autodeterminazione dell'individuo, lo si fa solo in modo funzionale ad introdurre in Italia l'eutanasia: la battaglia culturale e politica, a questo punto, è più che mai accesa.
Tra i progetti di legge sul fine vita in discussione nella Commissione “Igiene e Sanità” del Senato, certamente quelli presentati dai senatori del Partito Democratico Veronesi, Poretti e Carloni si caratterizzano per la dichiarata intenzione di attribuire la massima rilevanza al principio dell’autodeterminazione assoluta dell’individuo in questo campo.
Così nella relazione accompagnatoria del progetto di legge Poretti si precisa addirittura che il progetto “individua nel consenso della persona l’unico fondamento giuridico posto alla base dell’attività medica: non riconosce ad essa altra legittimazione se non la volontà della persona”.
Esaminando nel merito le previsioni di questi progetti di legge, si scopre però che sovente tale già di per sé discutibile principio viene di fatto sacrificato a favore della logica di cercare di estendere quanto più possibile la possibilità di rifiuto dei trattamenti sanitari, anche laddove non vi sia ragionevole certezza circa l’effettiva volontà manifestata dal soggetto o circa l’attualità della stessa.
I progetti di legge in esame prevedono la possibilità di rilasciare dichiarazioni anticipate di trattamento, mediante le quali gli interessati potrebbero esprimere la volontà di non sottoporsi a trattamenti sanitari al sopraggiungere di eventi che comportino la perdita della capacità naturale.
Nessuno dei progetti in questione prevede un termine temporale massimo di validità di tali dichiarazioni e tutti precisano che le stesse sarebbero vincolanti per medici ed operatori sanitari.
Il solo progetto di legge Veronesi contempla la possibilità dell’obiezione di coscienza, prevedendo che “qualora il medico non condivida il principio del diritto al rifiuto delle cure, si astiene dal curare il malato, lasciando il compito assistenziale ad altri”.
In omaggio al principio dell’autodeterminazione ad ogni costo il progetto Veronesi specifica poi che le dichiarazioni anticipate possono essere redatte da “ogni persona” e dunque, stando al tenore letterale della previsione, anche da minori di qualunque età e da soggetti in stato di incapacità.
Viceversa il progetto Poretti prevede che le dichiarazioni anticipate di trattamento possano essere presentate a partire dai 14 anni, un’età in cui una persona non può nemmeno richiedere la carta d’identità, è ben lontana dal poter decidere autonomamente dove vivere o, molto più banalmente, di restare a casa da scuola per un giorno o dal poter esercitare il diritto di voto alle elezioni politiche, ma avrebbe ex lege la maturità per decidere in merito all’accettazione o al rifiuto di trattamenti da dipendono la vita o la morte.
I progetti in esame precisano altresì che il rifiuto potrebbe riguardare l’alimentazione e l’idratazione artificiale (Veronesi e Poretti) e per mano di terzi (Poretti). Con riferimento a quest’ultima previsione resta da comprendere, a tacer d’altro, come possa essere definita “trattamento sanitario” che potrebbe essere rifiutato, l’azione di chi, senza possedere alcuna competenza medica, imbocchi un parente o un amico che non è in grado di alimentarsi da solo.
Stando alle previsioni del progetto Poretti potrebbe inoltre accadere di aver espresso una dichiarazione anticipata di trattamento senza saperlo.
Secondo tale proposta, la dichiarazione di accettazione o di rifiuto di un trattamento sanitario effettuata nel momento in cui tale trattamento dovrebbe essere prestato “resta valida e vincolante per i medici curanti anche per il tempo successivo alla perdita della capacità naturale ovvero alla perdita della facoltà naturale”.
Il che significa che un soggetto che rifiutasse un determinato trattamento nel momento in cui se ne presenta la necessità o l’opportunità, in assenza di una successiva espressa dichiarazione di segno contrario, rimarrebbe vincolato a quella decisione anche se nel frattempo avesse mutato determinazione o anche qualora il rifiuto fosse stato legato a valutazioni contingenti e non avesse avuto, nell’intenzione dell’interessato, indicazione di portata generale.
Il rischio di allontanarsi dalla volontà che l’interessato esprimerebbe nel caso concreto è ancora più evidente con riferimento ad altre previsioni contenute nei progetti in esame.
Così il progetto Veronesi precisa che sarebbe consentito delegare una persona di fiducia “a decidere in merito al trattamento sanitario”.
Anche secondo il progetto Poretti il fiduciario dovrebbe esprimersi circa l’accettazione od il rifiuto delle cure anche in assenza di dichiarazioni anticipate di trattamento; previsioni analoghe sono contenute anche nel progetto Carloni, il quale peraltro prevede che, su richiesta dell’istituto di ricovero o di cura ovvero “di chiunque sia venuto a conoscenza dello stato di incapacità”, il giudice tutelare dovrebbe comunque provvedere alla nomina del fiduciario.
Ove queste previsioni diventassero legge, i fiduciari si potrebbero dunque trovare a decidere della vita e della morte di una persona senza che l’interessato abbia fornito indicazioni circa i trattamenti che vuole accettare e a quelli che intende rifiutare; si aprirebbe inoltre di fatto la possibilità che, ove tali indicazioni non siano state formalizzate, i fiduciari decidano in difformità dalle stesse.
Inoltre un soggetto che avesse liberamente deciso di non indicare alcun fiduciario, rischierebbe di vedersene assegnato uno “d’ufficio” nel caso di sopravvenuta incapacità.
Con buona pace del principio di autodeterminazione dell’individuo solennemente proclamato nei progetti di legge in esame.
(Continua - 2)
ALESSIO II/ Addio al Patriarca di Mosca, salutò la fine del comunismo e l'inizio di un vero ecumenismo - INT. Romano Scalfi - sabato 6 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Il prossimo febbraio avrebbe compiuto 80 anni Alessio II, Aleksej nella sua lingua. Ma non c'è l'ha fatta a tagliare un traguardo che sarebbe stato l'ennesimo della sua vita. Il grande Patriarca di Mosca e della Chiesa Ortodossa Russa si è spento ieri dopo una lunga malattia che lo aveva segnato nel corpo ma non nello spirito. Fino agli ultimi giorni di vita infatti si è speso per ciò che più a cuore gli stava: l'unità dei cristiani. Salito alla nomina nel 1990, quasi a voler simboleggiare una svolta per il suo Paese, ma soprattutto per la sua Chiesa perseguitata per ben settant'anni di comunismo, Alessio II ha percorso un cammino di costruttivo dialogo con Chiesa Romana. Nutriva una sincera stima per Benedetto XVI, tanto da profetizzarne il pontificato come destinato ad essere uno dei più celebri e duraturi nella memoria dei cristiani. Padre Romano Scalfi, fondatore del Centro Studi “Russia Cristiana” ne commenta il patriarcato.
Padre Romano, che cosa ha significato il patriarcato di Alessio II nella storia della Chiesa ortodossa e universale? Qual è la misura di questa perdita?
Certamente quando il capo di una Chiesa viene a morire si tratta sempre di una grave perdita per un gran numero di persone. Alessio II è stato in primo luogo un cristiano, un uomo che ha dovuto parecchio soffrire. Ha sofferto l'influenza del terribile regime sovietico e, dopo il crollo del comunismo, ha dovuto reggere la propria Chiesa in una realtà condizionata da una più sottile forma di totalitarismo, quella dei nostri giorni. Si aggiunga poi la forte connotazione che il nazionalismo, come ideologia, ha avuto negli ultimi decenni in Russia. Basti pensare che molti individui si sono convertiti al cristianesimo ortodosso non tanto per un'autentica esperienza di fede, ma per un senso della tradizione legato alla nazione.
Di fronte a tutto questo Alessio II è stato in grado di reggere le sorti della propria comunità cristiana con grandissima abilità e di mantenerne integra la sua origine più pura. Posso garantire che non si è per nulla trattato di un compito facile, ma che egli è riuscito a svolgere fino all'ultimo giorno della propria vita.
Che rapporto ebbe il Patriarca con la Chiesa Cattolica?
Anche nei nostri confronti, sebbene attraverso le problematiche cui ho accennato poc'anzi, Alessio II è stato responsabile di un periodo di particolare attenzione e benevolenza. Si pensi, ad esempio, all'accoglienza riservata all'elezione del vescovo cattolico di Mosca, Sua Eccellenza Mons. Paolo Pezzi. Ma anche il nostro lavoro culturale di “Russia Cristiana” è stato reso possibile in Russia grazie alla sua buona disposizione nei nostri riguardi.
Per fare un esempio dico solo che presso la nostra biblioteca a Mosca, la “Biblioteca dello Spirito”, è stato recentemente presentato il libro di Benedetto XVI, Gesù di Nazareth tradotto in lingua russa: alla presentazione è intervenuto in qualità di relatore niente meno che il rappresentante del Patriarca, Padre Igor. Spesso alle nostre riunioni sono poi presenti molti ecclesiastici ortodossi, che risentono del clima di nuovo riavvicinamento favorito da Alessio II
Qual era l'opinione di Alessio II nei confronti di Benedetto XVI?
La stima che Alessio II ha avuto e che i maggiorenti attuali ortodossi hanno per il Pontefice è indubbia. In primo luogo Alessio II apprezzò e riconobbe sempre l'autentico desiderio di Benedetto XVI dell'unità fra i cristiani. Ma valutò anche molto positivamente il fatto che il Papa sia così legato alla tradizione, fatto che per gli ortodossi è particolarmente rilevante. Un altro fattore di stima nei confronti di Ratzinger è la sua teologia profondamente radicata all'insegnamento dei Padri della Chiesa.
Insomma, tutto questo ha fatto sì che ci fossero condizioni oggettive e provvidenziali per cui i rapporti fra cattolici e ortodossi siano cresciuti notevolmente. Stiamo camminando insieme verso l'unità. Speriamo che si possa camminare anche dopo la sua dipartita.
A proposito di questo cammino. Crede che la morte del Patriarca possa compromettere la strada di riavvicinamento intrapresa fra le due confessioni?
No, io non credo. Su questo sono positivo. Si continuerà su una strada positiva anche perché gli intellettuali ortodossi, le persone che si sono avvicinate a noi, promettono bene in tal senso.
Questo è un momento storico in cui per i cristiani ci sono da combattere relativismo e secolarismi. Stare uniti in una battaglia comune è un bene sia per gli uni sia per gli altri. Non credo dunque che le cose cambieranno in peggio. Sia ben chiaro poi che noi lavoriamo sì sui rapporti ai vertici fra le Chiese, ma allo stesso tempo il nostro tentativo è il recupero delle persone, del popolo, al cristianesimo.
Quali sono gli aspetti più rivoluzionari, se così si possono definire, del patriarcato di Alessio II?
Per tanti anni è venuta a mancare in Russia la possibilità di fare missione. Alessio II ha puntato moltissimo quindi sulla liturgia, altro aspetto che lo rende simile a Benedetto XVI. La correttezza delle funzioni liturgiche è il primo fondamento della missione.
In secondo luogo ha lavorato moltissimo per il ritorno della fede vissuta nella quotidianità. Durante il comunismo infatti l'unico luogo in cui si potesse parlare di Cristo era fra le mura di una chiesa. Fuori non era assolutamente possibile, nel senso proprio che si rischiava di finire in carcere. Ciò ha creato una mentalità in Russia che resiste tutt'oggi. Anche quando venne proposta l'ora di religione a scuola la reazione non fu di carattere ostile quanto stupito. «Che cosa c'entra Gesù con la scuola?» era la domanda che ci si poneva di fronte a questa proposta. Un atteggiamento simile a quello dell'Europa occidentale sebbene proveniente da tutt'altra storia ideologica.
Quale fu il giudizio del Patriarca sul comunismo, una volta che poté finalmente esprimersi in merito con libertà?
Fu la giusta percezione che il comunismo era un'ideologia che distruggendo la Chiesa avrebbe inevitabilmente distrutto l'uomo, la capacità degli uomini di avere fede in qualsiasi senso ciò venga inteso. Ma la Chiesa, quella “vera” tenne duro.
Recentemente c'è stato l'episodio di un gruppo di nazionalisti i quali han deciso di convertirsi al cristianesimo ortodosso e hanno chiesto al Patriarca di inserire Stalin nel numero dei santi da venerare. A questo si aggiunge un prete che ha introdotto l'icona di Stalin nella propria chiesa. Ebbene, di fronte a simili atteggiamenti, la reazione di Alessio II non s'è fatta attendere. La condanna a un tale modo di concepire il cristianesimo è stata espressa inequivocabilmente. Non c'era e non ci sarà speranza di compromessi con il comunismo dopo il patriarcato di Alessio II.
Nei confronti delle altre chiese ortodosse come si comportò?
Uno dei suoi meriti è senz'altro quello di essere riuscito a unire la Chiesa ortodossa russa all'estero a quella nazionale. Prima di lui le due confessioni non si riconoscevano. Coi greci rimane invece un'incomprensione reciproca, ma quella con Costantinopoli è una vicenda molto più complicata e intrinsecamente legata alla storia secolare dell'ortodossia.
1) 08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.
2) 08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.
3) Benedetto XVI: in Avvento Dio vuole "parlare al cuore del suo Popolo" - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
4) E' lecito incoraggiare ricerche prenatali che possono indurre ad abortire? - Il prof. Carlo Bellieni* risponde alla domanda di un lettore
5) 480 persone si consacrano all'Immacolata - A San Martino di Schio sono state già consacrate alla Vergine 30.000 persone - di Antonio Gaspari
6) Dignità nel vivere e nel morire - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 7 dicembre 2008
7) Il Crocifisso scomposto e ferito - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 6 dicembre 2008
8) PERFINO MARX (E ALTRI AVVERSARI) FURONO STUPITI E COMMOSSI DA GESU’… 07.12.2008 Un brano dal nuovo libro di Antonio Socci, “Indagine su Gesù” (Rizzoli).
9) Il santo vescovo di Milano e la confutazione degli ariani - Ambrogio e il segreto della libertà di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
10) All'inizio dell'Ottocento il primo console si chiedeva: «Quand'è che l'anima entra nel corpo?» - I dubbi di Napoleone e il dogma dell'Immacolata - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
11) L'opinione pubblica tra giustizia e pressioni - Difesa della vittima e abuso della pietà - di Oddone Camerana – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
12) Uno sguardo diverso sulla crisi finanziaria - San Tommaso a Wall Street - di Luca M. Possati – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
13) Quattro pilastri per l’Europa del futuro - Mario Mauro - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
14) ISTRUZIONE/ Libera scuola in libero Stato: tre ipotesi per liberare il sistema educativo - Giovanni Cominelli - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
15) ELUANA/ Così i "falchi" del Pd vorrebbero fare entrare l'eutanasia nel testamento biologico (2) - Riccardo Marletta - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
16) ALESSIO II/ Addio al Patriarca di Mosca, salutò la fine del comunismo e l'inizio di un vero ecumenismo - INT. Romano Scalfi - sabato 6 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.
Roma (AsiaNews) – “I bambini, … soprattutto quelli gravemente malati”; “i ragazzi disagiati”; gli “anziani soli”; “gli ammalati”, “gli immigrati che fanno fatica ad ambientarsi”; “i nuclei familiari che stentano a far quadrare il bilancio”; “le persone che non trovano occupazione, o hanno perso un lavoro indispensabile per andare avanti”: sono quelle che Benedetto XVI ha chiamato “le spine”, comprese nel cesto di rose bianche che il pontefice ha offerto alla statua dell’Immacolata in piazza di Spagna, nel tradizionale atto di omaggio che si celebra ogni 8 dicembre. Il pontefice è giunto in piazza di Spagna verso le 16 e ha dato inizio a un momento di preghiera, circondato da migliaia di fedeli , pellegrini e turisti.
Dopo aver offerto il cesto di rose, il papa ha commentato: “Le rose possono esprimere quanto di bello e di buono abbiamo realizzato durante l’anno, perché in questo ormai tradizionale appuntamento tutto vorremmo offrire alla Madre, convinti che nulla avremmo potuto fare senza la sua protezione e senza le grazie che quotidianamente ci ottiene da Dio. Ma – come si suol dire – non c’è rosa senza spine, e anche sugli steli di queste stupende rose bianche non mancano le spine, che per noi rappresentano le difficoltà, le sofferenze, i mali che pure hanno segnato e segnano la vita delle persone e delle nostre comunità. Alla Madre si presentano le gioie, ma si confidano anche le preoccupazioni, sicuri di trovare in lei conforto per non abbattersi e sostegno per andare avanti”.
L’elenco delle “spine” è una spinta alla condivisione e alla solidarietà: “Insegnaci, Maria – ha continuato il pontefice - ad essere solidali con chi è in difficoltà, a colmare le sempre più vaste disparità sociali; aiutaci a coltivare un più vivo senso del bene comune, del rispetto di ciò che è pubblico, spronaci a sentire la città – e più che mai questa nostra Città di Roma – come patrimonio di tutti, ed a fare ciascuno, con coscienza ed impegno, la nostra parte per costruire una società più giusta e solidale”.
La festa di oggi chiude il giubileo dei 150 anni delle apparizioni di Lourdes, dove la Vergine è apparsa a Bernadette Soubirous, definendosi proprio con le parole “Immacolata concezione”, contenuto del dogma stabilito nel 1854. Benedetto XVI si è recato a Lourdes nel settembre scorso.
“Immacolata Concezione: anche noi ripetiamo con commozione quel nome misterioso. Lo ripetiamo qui, ai piedi di questo monumento nel cuore di Roma; e innumerevoli nostri fratelli e sorelle fanno altrettanto in mille altri luoghi del mondo, santuari e cappelle, come pure nelle case di famiglie cristiane. Dovunque vi sia una comunità cattolica, là oggi si venera la Madonna con questo nome stupendo e meraviglioso: Immacolata Concezione”.
“Nella festa odierna – ha continuato il papa - così cara al popolo cristiano, questa espressione sale dal cuore e affiora alle labbra come il nome della nostra Madre celeste. Come un figlio alza gli occhi al viso della mamma e, vedendolo sorridente, dimentica ogni paura e ogni dolore, così noi, volgendo lo sguardo a Maria, riconosciamo in lei il ‘sorriso di Dio’, il riflesso immacolato della luce divina, ritroviamo in lei nuova speranza pur in mezzo ai problemi e ai drammi del mondo”.
“La tua Bellezza – Tota Pulchra, cantiamo quest’oggi - ci assicura che è possibile la vittoria dell’amore; anzi, che è certa; ci assicura che la grazia è più forte del peccato, e dunque è possibile il riscatto da qualunque schiavitù”
“Sì, o Maria – ha concluso - tu ci aiuti a credere con più fiducia nel bene, a scommettere sulla gratuità, sul servizio, sulla non violenza, sulla forza della verità; ci incoraggi a rimanere svegli, a non cedere alla tentazione di facili evasioni, ad affrontare la realtà, coi suoi problemi, con coraggio e responsabilità. Così hai fatto tu, giovane donna, chiamata a rischiare tutto sulla Parola del Signore. Sii madre amorevole per i nostri giovani, perché abbiano il coraggio di essere “sentinelle del mattino”, e dona questa virtù a tutti i cristiani, perché siano anima del mondo in questa non facile stagione della storia. Vergine Immacolata, Madre di Dio e Madre nostra, Salus Populi Romani, prega per noi!”
08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.
Roma (AsiaNews) – “I bambini, … soprattutto quelli gravemente malati”; “i ragazzi disagiati”; gli “anziani soli”; “gli ammalati”, “gli immigrati che fanno fatica ad ambientarsi”; “i nuclei familiari che stentano a far quadrare il bilancio”; “le persone che non trovano occupazione, o hanno perso un lavoro indispensabile per andare avanti”: sono quelle che Benedetto XVI ha chiamato “le spine”, comprese nel cesto di rose bianche che il pontefice ha offerto alla statua dell’Immacolata in piazza di Spagna, nel tradizionale atto di omaggio che si celebra ogni 8 dicembre. Il pontefice è giunto in piazza di Spagna verso le 16 e ha dato inizio a un momento di preghiera, circondato da migliaia di fedeli , pellegrini e turisti.
Dopo aver offerto il cesto di rose, il papa ha commentato: “Le rose possono esprimere quanto di bello e di buono abbiamo realizzato durante l’anno, perché in questo ormai tradizionale appuntamento tutto vorremmo offrire alla Madre, convinti che nulla avremmo potuto fare senza la sua protezione e senza le grazie che quotidianamente ci ottiene da Dio. Ma – come si suol dire – non c’è rosa senza spine, e anche sugli steli di queste stupende rose bianche non mancano le spine, che per noi rappresentano le difficoltà, le sofferenze, i mali che pure hanno segnato e segnano la vita delle persone e delle nostre comunità. Alla Madre si presentano le gioie, ma si confidano anche le preoccupazioni, sicuri di trovare in lei conforto per non abbattersi e sostegno per andare avanti”.
L’elenco delle “spine” è una spinta alla condivisione e alla solidarietà: “Insegnaci, Maria – ha continuato il pontefice - ad essere solidali con chi è in difficoltà, a colmare le sempre più vaste disparità sociali; aiutaci a coltivare un più vivo senso del bene comune, del rispetto di ciò che è pubblico, spronaci a sentire la città – e più che mai questa nostra Città di Roma – come patrimonio di tutti, ed a fare ciascuno, con coscienza ed impegno, la nostra parte per costruire una società più giusta e solidale”.
La festa di oggi chiude il giubileo dei 150 anni delle apparizioni di Lourdes, dove la Vergine è apparsa a Bernadette Soubirous, definendosi proprio con le parole “Immacolata concezione”, contenuto del dogma stabilito nel 1854. Benedetto XVI si è recato a Lourdes nel settembre scorso.
“Immacolata Concezione: anche noi ripetiamo con commozione quel nome misterioso. Lo ripetiamo qui, ai piedi di questo monumento nel cuore di Roma; e innumerevoli nostri fratelli e sorelle fanno altrettanto in mille altri luoghi del mondo, santuari e cappelle, come pure nelle case di famiglie cristiane. Dovunque vi sia una comunità cattolica, là oggi si venera la Madonna con questo nome stupendo e meraviglioso: Immacolata Concezione”.
“Nella festa odierna – ha continuato il papa - così cara al popolo cristiano, questa espressione sale dal cuore e affiora alle labbra come il nome della nostra Madre celeste. Come un figlio alza gli occhi al viso della mamma e, vedendolo sorridente, dimentica ogni paura e ogni dolore, così noi, volgendo lo sguardo a Maria, riconosciamo in lei il ‘sorriso di Dio’, il riflesso immacolato della luce divina, ritroviamo in lei nuova speranza pur in mezzo ai problemi e ai drammi del mondo”.
“La tua Bellezza – Tota Pulchra, cantiamo quest’oggi - ci assicura che è possibile la vittoria dell’amore; anzi, che è certa; ci assicura che la grazia è più forte del peccato, e dunque è possibile il riscatto da qualunque schiavitù”
“Sì, o Maria – ha concluso - tu ci aiuti a credere con più fiducia nel bene, a scommettere sulla gratuità, sul servizio, sulla non violenza, sulla forza della verità; ci incoraggi a rimanere svegli, a non cedere alla tentazione di facili evasioni, ad affrontare la realtà, coi suoi problemi, con coraggio e responsabilità. Così hai fatto tu, giovane donna, chiamata a rischiare tutto sulla Parola del Signore. Sii madre amorevole per i nostri giovani, perché abbiano il coraggio di essere “sentinelle del mattino”, e dona questa virtù a tutti i cristiani, perché siano anima del mondo in questa non facile stagione della storia. Vergine Immacolata, Madre di Dio e Madre nostra, Salus Populi Romani, prega per noi!”
Benedetto XVI: in Avvento Dio vuole "parlare al cuore del suo Popolo" - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 7 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questa domenica a mezzogiorno da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro in Vaticano.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Da una settimana stiamo vivendo il tempo liturgico dell'Avvento: tempo di apertura al futuro di Dio, tempo di preparazione al santo Natale, quando Lui, il Signore, che è la novità assoluta, è venuto ad abitare in mezzo a questa umanità decaduta per rinnovarla dall'interno. Nella liturgia dell'Avvento risuona un messaggio pieno di speranza, che invita ad alzare lo sguardo all'orizzonte ultimo, ma al tempo stesso a riconoscere nel presente i segni del Dio-con-noi. In questa seconda Domenica di Avvento la Parola di Dio assume gli accenti commoventi del cosiddetto Secondo Isaia, che agli Israeliti, provati da decenni di amaro esilio in Babilonia, annunciò finalmente la liberazione: "Consolate, consolate il mio popolo - dice il profeta a nome di Dio -. Parlate al cuore di Gerusalemme e ditele che la sua tribolazione è compiuta" (Is 40,1-2). Questo vuole fare il Signore in Avvento: parlare al cuore del suo Popolo e, per suo tramite, all'umanità intera, per annunciare la salvezza. Anche oggi si leva la voce della Chiesa: "Nel deserto preparate la via del Signore" (Is 40, 3). Per le popolazioni sfinite dalla miseria e dalla fame, per le schiere dei profughi, per quanti patiscono gravi e sistematiche violazioni dei loro diritti, la Chiesa si pone come sentinella sul monte alto della fede e annuncia: "Ecco il vostro Dio! Ecco il Signore Dio viene con potenza" (Is 40,11).
Questo annuncio profetico si è realizzato in Gesù Cristo. Egli, con la sua predicazione e poi con la sua morte e risurrezione, ha portato a compimento le antiche promesse, rivelando una prospettiva più profonda e universale. Ha inaugurato un esodo non più solo terreno, storico, e come tale provvisorio, ma radicale e definitivo: il passaggio dal regno del male al regno di Dio, dal dominio del peccato e della morte a quello dell'amore e della vita. Pertanto, la speranza cristiana va oltre la legittima attesa di una liberazione sociale e politica, perché ciò che Gesù ha iniziato è un'umanità nuova, che viene "da Dio", ma al tempo stesso germoglia in questa nostra terra, nella misura in cui essa si lascia fecondare dallo Spirito del Signore. Si tratta perciò di entrare pienamente nella logica della fede: credere in Dio, nel suo disegno di salvezza, ed al tempo stesso impegnarsi per la costruzione del suo Regno. La giustizia e la pace, infatti, sono dono di Dio, ma richiedono uomini e donne che siano "terra buona", pronta ad accogliere il buon seme della sua Parola.
Primizia di questa nuova umanità è Gesù, Figlio di Dio e figlio di Maria. Lei, la Vergine Madre, è la "via" che Dio stesso si è preparata per venire nel mondo. Con tutta la sua umiltà, Maria cammina alla testa del nuovo Israele nell'esodo da ogni esilio, da ogni oppressione, da ogni schiavitù morale e materiale, verso "i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali abita la giustizia" (2 Pt 3,13). Alla sua materna intercessione affidiamo l'attesa di pace e di salvezza degli uomini del nostro tempo.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Nei giorni scorsi è morto il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Sua Santità Alessio II. Ci uniamo nella preghiera ai nostri fratelli ortodossi per raccomandare la sua anima alla bontà del Signore, affinché lo accolga nel suo Regno di luce e di pace.
Nel pomeriggio di giovedì prossimo, 11 dicembre, incontrerò nella Basilica di San Pietro gli universitari degli Atenei romani, al termine della Santa Messa che sarà presieduta dal Cardinale Agostino Vallini. In occasione dell'Anno Paolino, consegnerò ai giovani studenti la Lettera ai Romani dell'apostolo Paolo, e sarò lieto di salutarli, insieme con i Rettori, i docenti e il personale tecnico e amministrativo, in questo tradizionale appuntamento che prepara al Santo Natale.
Sono lieto di rivolgere un particolare saluto ai Chierici Mariani dell'Immacolata Concezione, che domani inizieranno il giubileo centenario della rinascita e della riforma della loro Congregazione. Cari Fratelli, la Vergine Maria vi ottenga abbondanti grazie e vi aiuti a rimanere sempre fedeli al vostro carisma.
Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Pian Camuno, Castro e Salerno, e i giovani dell'Oratorio San Giuseppe di Vittoria. Un saluto speciale rivolgo anche alla Banda Sociale di Dro e al Coro "Costalta" di Baselga di Piné, in Diocesi di Trento. A tutti auguro una buona domenica e una felice festa dell'Immacolata.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
E' lecito incoraggiare ricerche prenatali che possono indurre ad abortire? - Il prof. Carlo Bellieni* risponde alla domanda di un lettore
ROMA, domenica, 7 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Si fanno sempre più presenti, come in altri campi di ricerca, metodi medico/scientifici per diagnosticare nei primi mesi di vita intrauterina i bambini che avranno la sindrome di Down. Non sempre, ma almeno il 25% delle mamme decide di abortire. Vista la finalità, che pare semplicemente informativa per i genitori, o al massimo prepartiva a livello psicologico, fino a che punto è lecito incoraggiare queste ricerche o manifestazioni pubbliche a favore di esse?
G.B.
* * *
Risponde il prof. Bellieni*:
La diagnosi prenatale può essere ti tipo genetico e non genetico. La diagnosi genetica prenatale si esegue in via diretta (amniocentesi, villocentesi) o in via indiretta (con particolari ecografie mirate o con l'analisi del sangue materno alla ricerca di certi metaboliti). E' bene distinguere la diagnosi genetica prenatale dalla diagnosi prenatale in generale, sapendo che lo scopo della prima è di verificare l'assetto cromosomico del bambino, mentre la seconda comprende anche la prima, ma si estende a cercare malattie situazioni di tipo medico (ritardo di accrescimento, malformazioni, sofferenza fetale), molte delle quali sono curabili.
La ricerca in sé è sempre una cosa buona; il problema è valutare in prima cosa che a fronte di una imponente investimento di denaro per la diagnosi prenatale genetica, non c'è assolutamente altrettanto investimento per la ricerca della terapia di malattie come la sindrome Down. La pubblicizzazione di tecniche di diagnosi genetica prenatale può essere utile per evitare l'uso eccessivo di quelle invasive, ma può anche creare una mentalità in cui la coppia si senta obbligata a farla.
La preoccupazione del lettore è giustificata, perché non esiste nulla di eticamente neutro in medicina così come in altri aspetti della vita: tutto ciò che facciamo deve passare al vaglio del nostro giudizio; abdicare a questo è abdicare al governo di sé; di questo argomento ci siamo già occupati su ZENIT (25 maggio 2008) e con un recente documento che abbiamo pubblicato a cura di alcuni medici, bioeticisti e associazioni di disabili e cui può accedere cliccando su http://vocabolariodibioetica.splinder.com/post/17193474/Documento+diagnosi+prenatale.
Resta la necessità di avere dei punti di riferimento in questo ambito, in cui la possibilità di fare errori è alta, e per questo suggerisco dei punti per un atteggiamento etico verso la diagnosi prenatale, di cui alcuni rivolti alla famiglia, altri per chi governa la sanità pubblica.
Criteri per la famiglia
1. La diagnosi prenatale dovrebbe avere un intento positivo per la salute del figlio e della madre. La diagnosi genetica prenatale non ha al momento un'utilità curativa per il bambino.
2. Una diagnosi genetica prenatale può, in casi particolarmente densi di tensione, servire a rasserenare la coppia in caso di forte ansia sulla salute genetica del bambino, ma la sua esecuzione non dovrebbe essere routinaria per non creare la mentalità (nella coppia e nella popolazione) che il primo atteggiamento da avere verso il figlio sia "accertarne la normalità" .
3. La diagnosi genetica prenatale non può essere routine ("perché la fanno tutte") ma semmai deve essere una precisa scelta, perché ogni intervento medico ha alla base il consenso informato e la scelta libera del paziente. In questo caso, inoltre, il paziente su cui si fa l'indagine non è ancora nato e la scelta di fare su di lui/lei una diagnosi è presa per delega dal genitore che ne ha la responsabilità.
4. Intraprendendo la diagnosi genetica prenatale bisogna avere sempre la coscienza che stiamo facendo la diagnosi ad un bambino vero e proprio, anche se non ancora nato.
5. La diagnosi genetica prenatale diretta (amniocentesi, villocentesi) comporta dei rischi per la salute del bambino (rischio di aborto non voluto di circa 1 su 100 o 200 amniocentesi)
Criteri per chi offre la diagnosi
1. La diagnosi genetica prenatale deve essere preceduta da un colloquio che ne spieghi finalità e rischi; deve essere fornito un modulo che li riassuma e deve essere fatto firmare. Il modulo deve contenere anche la percentuale di rischio di aborto non voluto registrato presso la struttura che esegue l'intervento di diagnosi invasiva e la durata stessa del colloquio.
2. In caso di diagnosi di patologia, la donna o la coppia va indirizzata dallo specialista della patologia riscontrata col quale verrà approfondita la possibilità terapeutica e la reale entità del problema. Può essere utile coinvolgere anche associazioni ufficialmente riconosciute di familiari o di malati della patologia in questione.
***
*Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
[I lettori sono invitati a porre domande sui vari temi di bioetica scrivendo all'indirizzo: bioetica@zenit.org. I diversi esperti che collaborano con ZENIT provvederanno a rispondere ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]
480 persone si consacrano all'Immacolata - A San Martino di Schio sono state già consacrate alla Vergine 30.000 persone - di Antonio Gaspari
ROMA, domenica, 7 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Martedì 8 dicembre, tra le tante e molteplici celebrazioni della solennità dell'Immacolata Concezione, ci sarà anche quella di San Martino di Schio (Vicenza), nella quale 480 persone provenienti dal Triveneto, dall'Emilia Romagna, dalla Lombardia e dalla Liguria emetteranno l'atto di Consacrazione a Maria.
La consacrazione avviene dopo cinque settimane di percorso catechetico. Queste persone andranno ad aggiungersi alle circa trentamila che nel corso degli ultimi 20 anni si sono consacrate alla Vergine a S. Martino di Schio.
Per capire in che cosa consiste la consacrazione e il perché del successo popolare di questa iniziativa mariana, ZENIT ha intervistato Mirco Agerde, vicepresidente del Movimento mariano Regina dell'Amore (http://www.mariachiama.it/gruppogiovani/index.php?option=com_weblinks&view=category&id=1%3Amovimento-mariano-regina-dellamore&Itemid=5).
Agerde ha il compito specifico di preparare con una serie di catechesi tutte le persone che desiderano consacrarsi al Cuore Immacolato di Maria e che entrano a far parte del movimento nato a Schio (VI).
Che cosa significa che 480 persone si consacreranno al Cuore Immacolato di Maria?
Agerde: La consacrazione a Maria è un rinnovo delle promesse battesimali e - se vogliamo - un rinnovo della stessa Confermazione, attraverso cui desideriamo donare a Maria (e attraverso di Lei a Gesù) la nostra stessa vita perché Ella ci guidi a diventare altrettanti discepoli perfetti di Cristo e, quindi, suoi strumenti per una rinnovata e autentica testimonianza cristiana in tutti gli ambienti di vita sempre più bisognosi di una nuova evangelizzazione.
In fondo altre 480 persone che decidono di darsi a Maria è un fatto che rappresenta, al di là di tutto, un profondo desiderio di spiritualità soprattutto mariana, e il desiderio di uscire e salvarsi da quella che il nostro amato Pontefice Benedetto XVI, ha felicemente definito "dittatura del relativismo".
Che cos'è il Movimento mariano Regina dell'Amore di Schio, e quali sono i suoi apostolati?
Agerde: Il Movimento mariano Regina dell'Amore è nato in seguito alle Apparizioni della Madonna a Renato Baron, avvenute tra il 1985 e il 2004, nelle quali e attraverso le quali Lei si è definita Regina dell'Amore. Da una decina d'anni il Movimento è accolto dalla Chiesa di Vicenza come ecclesiale con la nomina da parte della Diocesi di un Assistente.
Il Movimento tuttavia si estende al di là del territorio berico con circa 300 gruppi di preghiera sparsi in oltre 5 Nazioni europee e altre extraeuropee.
Le sue finalità, suggerite dalla Madonna, sono la diffusione della devozione mariana attraverso la pratica della Consacrazione al suo Cuore Immacolato, la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, le opere di carità fraterna rivolte soprattutto a soli e abbandonati.
A tal proposito è stata anche costruita, in questi nostri luoghi, una casa per soli e abbandonati denominata "Casa Annunziata", che funziona già da 12 anni con più di 50 anziani che le famiglie non possono o non vogliono tenere. Contemporaneamente sono sorte anche due missioni in Kenya e Brasile che si occupano di più dei bambini poveri, soli e abbandonati.
Perché il Cuore Immacolato di Maria? Vi rifate a qualche tradizione particolare? Fate riferimento al messaggio della Madonna di Fatima?
Agerde: Il messaggio di Fatima è quanto mai presente nel nostro cammino, così come è presente il grande esempio del grande Papa del "Totus tuus" Giovanni Paolo II; è presente anche S. Luigi Grignon de Monfort, che speriamo di veder annoverato un giorno tra i dottori della Chiesa proprio perché egli ha capito più di tutti il grande valore e il segreto della Consacrazione alla Madonna. Ma certo la nostra spiritualità parte essenzialmente da quanto ricevuto qui, e che in fondo si pone in continuità con le grandi apparizioni del passato, ma con una sottolineatura profonda a professare pubblicamente la fede per essere popolo di Dio che converte il popolo di Dio.
A Oxford hanno cancellato il Natale. In Spagna un giudice ha ordinato di togliere i crocifissi dalle pareti. In un mondo così secolarizzato come si fa a preservare e tramandare la fede in Cristo attraverso Maria?
Agerde: Gran parte della società europea, e non solo, vive oggi come se Dio non ci fosse, anzi sembra volere scatenare una nuova persecuzione contro i cristiani e il cristianesimo in maniera cruenta e incruenta! In fondo noi stiamo vivendo tempi che potremmo definire "della nuova crocifissione di Gesù". Sotto la Croce però c'era Maria, che nel momento in cui Gesù moriva e gli Apostoli scappavano ha conservato tutta la fede e l'insegnamento del Figlio suo per poi ritrasmetterlo ai discepoli.
Anche oggi - in questa nuova crocifissione operata persino nell'Europa dalle radici cristiane - c'è Maria che ancora una volta opera come Madre e conserva la fede attraverso tanti uomini e donne di buona volontà; c'è con Lei lo Spirito Santo che sta suscitando nella chiesa tanti nuovi Movimenti che annunciano una nuova Pentecoste, una nuova primavera cristiana.
Quali sono le ragioni che vi spingono a recitare il rosario e a pregare Maria?
Agerde: Quando il Figlio dell'uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede? Per quanto detto sopra ci sentiamo di rispondere: "Sì", sì perché troverà Maria con tutte le conversioni e le vocazioni che Ella sta operando e suscitando in questi tempi attraverso la sua potente intercessione e azione materna. Per questo oggi è importantissima la devozione e la consacrazione mariana; attenzione però: chi è veramente devoto di Maria non si limita alle pratiche devozionali, ma attraverso queste sente crescere nel suo cuore la stessa ansia salvifica di Maria, il suo stesso desiderio di portare Gesù a tutti gli uomini; si innamora dei Sacramenti e in primis dell'Eucaristia, attraverso la Quale il vero devoto sente crescere l'anelito di consumare la sua vita, anche nelle sue proprie occupazioni quotidiane, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime; sente il desiderio di diventare veramente "Totus tuus" e spendersi totalmente per il trionfo del Cuore Immacolato di Maria nel mondo.
Dignità nel vivere e nel morire - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 7 dicembre 2008
Dignità di ogni persona umana
Secondo la tradizione del pensiero cristiano ogni persona è un modo di essere unico e irripetibile di ogni individuo nella natura umana. L’essere umano in ogni persona è come l’essere in se stesso e per se stesso e quindi di se stesso. Le persone sono ontologicamente capaci di esistere nella loro natura da essere capaci di decidere il loro modo di essere conformemente o difformemente da essa. Anche se l’uso di questa capacità è condizionato da vari fattori, quali ad esempio l’età, lo sviluppo neuronale o altre condizioni di salute. La persona designa un essere dono del Donatore divino originariamente proprio, che non troviamo in nessun’altra individualità. Percepirlo è cogliere la verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza, l’avvenimento di una conoscenza che rimanda all’origine del proprio e altrui essere e che risponde alle domande fondamentali in noi senza di noi: chi sono? Da dove vengo e dove vado?
Dignità di ogni persona indica questo modo proprio di essere: essere qualcuno è più che essere qualcosa di totalmente comprensibile, dicibile, prevedibile, programmabile: si tratta di un di più, di un’eccellenza e di una superiorità nell’essere. Dignità indica esigenza di essere riconosciuta in questo di più per cui possiede la propria natura umana. Ma allora cosa significa per ogni persona dignità nel vivere e nel morire conforme al proprio essere persona? Due premesse:
- ogni individuo umano è persona. Là dove vive un uomo c’è una persona umana: l’essere persona è dall’origine e in continuità la vita di ogni uomo. Non è possibile avere criteri per discernere fra gli individui umani chi è persona e chi non: è la pura e semplice appartenenza alla specie umana dal concepimento alla morte naturale.
- il modo proprio di essere persona è costitutivamente relazionato alle altre persone: nessuna persona è senza porte e senza finestre. Relazione fondamentale è il riconoscimento dell’altro come persona: vedi nell’altro e in tutto quello che lo circonda la verità del tuo e del suo essere dono unico e irripetibile del Donatore divino e quindi non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te – ama il prossimo come te stesso. Quando parlo di umanità non denoto una specie vivente come quando parlo di animalità, ma una famiglia umana e ciò che fa di ogni uomo una persona, sempre fine e mai riduttivamente mezzo per altri o per altro. Umanità denota non un insieme di tanti individui che realizzano la stessa specie, ma una comunità di persone legate dal vincolo del riconoscimento reciproco.
Quale vita? Dignità nel vivere
Una tendenza soggettivistica: dignità o indegnità del proprio vivere dipende esclusivamente dal giudizio di chi vive, dal proprio io? Ciascuno giudica se la propria vita è degna, se è una buona vita?
Una risposta positiva a questa domanda nasconde un grave errore, ma anche una verità. Errore perché dimentica che persona è relazione con il Donatore divino del proprio e altrui essere dono, come di tutto il mondo che la circonda e quindi esistono forme, stili di vita obiettivamente indegni di una persona umana, di un io in relazione con il Donatore divino, con gli altri esseri dono, prescindendo dal fatto che in esso la persona si senta o non si senta realizzata. E’ sempre un grave scandalo sia per la ragione e sia per la fede in un Donatore divino provvidente il vedere unite nella stessa persona una condizione di benessere e comportamenti di chiusura, di non dono nella relazione con altri in bisogno.
Ma c’è anche una sua verità. Ogni persona umana in forza della sua soggettività spirituale non è solo mossa ad un fine nella relazione, ma muove se stessa verso un fine. Parlare di “vita degna” all’insaputa e senza la condiscendenza di chi la vive, è un non senso.
“Dignità della vita” denota simultaneamente una condizione di bene comune condivisibile da ogni soggetto ragionevole e in cui il singolo in connubio possa dire: “come è bello vivere così!”
Quando può accadere una condizione obiettiva di vita degna ed una condizione soggettiva di intima soddisfazione per la qualità della propria esistenza? Quando i nostri e altrui bisogni sono ragionevolmente soddisfatti. E’ una esigenza originaria, naturale di ogni persona vivere in società: una vita asociale è indegna di ogni uomo. Tuttavia ci sono modi e modi, forme e forme di vivere associati. Vivere in una società emarginati non è una vita degna dell’uomo. La ragione umana condivisa è chiamata a scoprire la forma buona, degna di ogni persona, della vita associata. Chiamiamo le risposte ragionevoli in relazione alle esigenze naturali di ogni io umano che devono essere realizzate nell’agire beni morali cioè che riguardano il divenire ciò che originariamente siamo. E’ una vita umana degna quella della persona che viene in possesso dei beni morali, dei beni umani operabili. Vita umana degna è uguale a vita moralmente buona. Due osservazioni:
- esistono beni morali che possono essere realizzati non semplicemente operando, ma solo cooperando. Sono i beni che si compiono mediante la virtù della giustizia;
- i beni morali operabili non si collocano tutti sullo stesso piano, ma esiste fra essi una gerarchia: il martire rinuncia alla vita, che è un bene, pur di non spezzare la sua alleanza con Cristo, che è il bene vitale più grande.
Non c’è dubbio che la salute sia un bene umano, un bene morale. Una vita sana è più degna dell’uomo che una vita ammalata. Da questa basilare intuizione è nata la medicina come scienza e arte tesa a conservare o restituire alla persona e nella persona il bene della salute. Due riflessioni su questo:
- la salute diventa sempre più un bene co-operabile. Il bene della salute non si opera solo nel rapporto medico paziente, ma esso è il frutto anche di una organizzazione pubblica. Questo è un fatto positivo ma non deve farci dimenticare che la salute appartiene a quei beni umani che rispondono a bisogni umani che non sono “solvibili” e quindi non possono essere trattati solo con la logica di mercato. La salute è un bene che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità.
- Ma la salute non è un bene sommo. Ogni persona ha il dovere/diritto di fare uso di mezzi terapeutici proporzionati/ordinari, non sproporzionati/straordinari. E questo proprio perché la salute non è un bene sommo, e quindi essa può essere sacrificata per i beni ad essa superiori.
Quale morte? Dignità nel morire
Parlare di una “dignità nel morire” è diventato oggi, nella cultura post-moderna, un non senso: morire è semplicemente cessare di vivere.
Si va facendo strada oggi l’idea che l’unica nobilitazione della morte è di attribuirla pienamente all’autodeterminazione del singolo, sia attuale (suicidio puro e semplice) sia anticipata (suicidio assistito).
Questa nobilitazione è oggi inserita nel dibattito assai acceso circa un’eventuale legislazione – che oggi è diventata necessaria – sulla fine della vita.
Il prudente discernimento tra interventi terapeutici che hanno il profilo dell’accanimento terapeutico o di terapie proporzionate, rientra nel diritto di ogni persona di vivere una vita degna, che non esclude anzi comprende l’accettazione della morte.
E’ necessario poi distinguere nettamente fra terapia e cura della persona (idratazione, alimentazione, pulizia…). La seconda è sempre dovuta, e la sua omissione avrebbe eticamente il profilo dell’omicidio. La prima invece è dovuta fatte però le necessarie distinzioni.
Fatte queste chiarificazioni, possiamo parlare con verità di dignità nel morire? Quando la morte è degna di una persona umana?
Se guardiamo con sguardo fugace alla tradizione etica del nostro Occidente, costatiamo che indubbiamente il concetto di dignità della morte è presente. Sotto almeno tre figure.
- la figura della nobilitazione del suicidio. La morte del suicida acquista, secondo questa visione, una sua dignità come contestazione di un ordine delle cose umane ritenuto assolutamente assurdo.
- La figura del martire. Già presente nella tradizione giudaica (la grande epopea maccabaica), e non assente del tutto dalla grecità (morte di Socrate!), acquista una dignità incomparabile nel cristianesimo.
- E’ invece assolutamente originale la concezione cristiana della dignità nella morte. La morte di Cristo, il suo lasciarsi uccidere è stato l’atto supremo del suo amore poiché in essa è avvenuta la totale donazione di Se stesso a tutti e a tutto, della verità del proprio e altrui essere dono del Donatore divino. La morte come dono di sé è l’originalità del cristiano. E la morte del cristiano è partecipazione alla morte di Cristo: in questa partecipazione sta la sua eminente dignità.
Ma quale contenuto dare all’espressione “dignità nel morire”?
- E’ una morte degna quella di chi ha assicurata la cura della propria persona e le terapie proporzionate.
- E’ una morte degna quella di chi può godere delle cosiddette “cure palliative”, destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia. Anche mediante il ricorso a tipi di analgesici e sedativi che hanno collateralmente l’effetto di abbreviare la vita e perdita di coscienza.
- E’ una morte degna quella di chi è accompagnato dall’attenzione amorosa e costante di altre persone.
- E’ una morte degna quella di chi “muore nel Signore” con gli ultimi suoi gesti o sacramenti ecclesiali: vive la propria morte come atto di fiducioso abbandono nel Signore.
- E’ una morte indegna quella di chi viene privato delle terapie proporzionate e della cura della sua persona o viene sottoposto ad accanimento terapeutico.
- E’ una morte indegna quella di chi viene privato di cure palliative.
- E’ una morte indegna quella di chi viene abbandonato nella sua solitudine di fronte alla morte.
- E’ una morte indegna quella di chi credente nel Cristo, non è aiutato con i sacramenti della Chiesa ad unire le proprie sofferenze a quelle di Gesù per la salvezza dell’umanità.
- Se, infine, una legislazione civile rinunciasse al principio che la vita umana è un bene che non è a disposizione di nessuno, legittimando il suicidio assistito o l’abbandono terapeutico, toglierebbe uno dei pilastri, anzi la colonna portante di tutto l’edificio spirituale costruito sulla base del riconoscimento della dignità di ogni persona. Sarebbe questione di tempo, ma la rovina sarebbe totale!
Queste argomentazioni le ho tratte quasi completamente dalla relazione tenuta il 15 novembre 2008 dal cardinale Carlo Caffarra al Convegno organizzato dalla Associazione Medici Cattolici Italiani.
Il Crocifisso scomposto e ferito - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 6 dicembre 2008
In Spagna un tribunale ha deliberato sull’esposizione del Crocifisso in una scuola pubblica una sentenza che pone il divieto a affiggere simboli religiosi in un ambiente istituzionale. Sensibilità cattolica e ideali libertari confliggono, e allontanano il diritto di una storia che non può esser messa da parte con noncuranza, né eretta a baluardo di sovranità popolare.
Stato libero, fede e giustizia, equità e compassione, come se quel Cristo in croce rappresentasse un confine, un percorso poco frequentato dalla ragione, al punto da trasformare uno stato laico in una società laicista, e una cristianità millenaria in una commedia delle maschere dove ogni pellegrino è scambiato per un intruso, se non un nemico da tenere a bada.
Sul crocifisso si gioca una partita importante, ma è una partita truccata, perché non edifica giustizia, né idealità alcuna, tanto meno costruisce comunità condivisa, cittadinanza e regola che tutela il pensiero di ciascuno.
Così in Spagna, ma potrebbe accadere pure in Italia, in qualunque altro paese ove si alimenta distacco e dimenticanza alla propria tradizione e cultura, c’è il rischio di cadute di memoria in avanti, perché a ritroso ne abbiamo perduto il senso.
Non so se questa sentenza iberica farà davvero giurisprudenza, diverrà precedente importante, non mi pare che eliminare i crocifissi da enti e sedi istituzionali, sottenda rispetto per la Costituzione o per altra carta magna che dir si voglia.
Sono i giorni di una Croce che non accetta esilio, che non tace, che riconosce le nostre assenze, le invoca e rinnova in mille fremiti nuovi che non franano sui detriti del passato.
Cancellare il simbolo di una fede allo scopo di educare le nuove generazioni a un’etica più sociale e pubblica basata sui valori costituzionali e la dichiarazione dei diritti umani, sono introduzioni alte su parole pesanti, sono speranze e certezze che ogni uomo porta con sé.
Quel Volto sofferente, quella carne squarciata, non possiede lineamenti tramandati, ma occhi di pena, come quelli di nostra madre, di nostra figlia, di nostro fratello, del nostro amico.
Ci insegnano a non tradire noi stessi, per non tradire l’altro. a cancellare attimi che trapassano le nostre colpe, la nostra stessa ricerca di salvezza attraverso la condanna senza scampo degli altri.
Radici giudaico cristiane che non possono rinnegare la propria cultura, né possono riuscirci eventuali politiche carcerocentriche nei riguardi di una passione e di una fede che non viene meno, tant’è che le cattedrali fuori dai deserti cerebrali non sono state prese a cannonate né sporcate dalle parole lanciate malamente.
Quelle braccia allargate a mezz’aria, poste sopra la nostra testa confusa ci offrono uno sguardo coraggioso sulle sofferenze degli uomini, rappresentano l’amore che dedica la vita sino a donarla per tentare di abbandonare ogni altra morte vana.
Un pezzo di legno a forma di croce per salvare il mondo, non per detenere la coscienza acerba o meno formata, una croce per muovere la memoria sulle disonestà e i deliri di onnipotenza.
Togliere di mezzo il crocifisso? Come pensarlo, quando in noi cresce il desiderio di accorciare le distanze e avvicinarci a quei piedi scomposti e feriti, aggrappandoci a quelle ali dispiegate, nell’irrefrenabile bisogno di schiodare quel Corpo dalle travi incrociate, affinché possiamo liberare ciò che ci portiamo dentro: la libertà di amarlo davvero, vivere a tempo pieno, uscendo da noi stessi non più prigionieri in spazi chiusi costruiti a nostra misura.
PERFINO MARX (E ALTRI AVVERSARI) FURONO STUPITI E COMMOSSI DA GESU’… 07.12.2008 Un brano dal nuovo libro di Antonio Socci, “Indagine su Gesù” (Rizzoli).
Chi è Gesù di Nazaret? “Il più bello fra i figli dell’uomo”, risponde il Salmo 44. (…) Ma chi è precisamente questo enigmatico Gesù che da duemila anni affascina tutti, perfino i nemici? Chi è questo giovane rabbi ebreo, che doveva essere cancellato dalla faccia della terra 2000 anni fa con una feroce esecuzione capitale da schiavo, se oggi, dopo 20 secoli, quel suo supplizio è ricordato in ogni angolo del mondo? (…) Interroghiamo Jean Jacques Rousseau, che fu un nemico filosofico della Chiesa ed essendo stato un faro sia dei rivoluzionari francesi che dei romantici è un autore pressoché universale. Ecco quali pensieri e sentimenti rivela, parlando di Gesù, in un libro peraltro condannato sia nella Parigi cattolica che nella Ginevra calvinista:“Vi confesso che la santità del Vangelo parla al mio cuore. Osservate i libri dei filosofi, con tutta la loro pompa! Come sono piccoli in confronto a quello… Può darsi che Colui di cui fa la storia sia egli stesso un uomo? E’ questo il tono di un invasato o di un settario ambizioso? Che dolcezza, che purità nei suoi costumi! Quale grazia toccante nei suoi insegnamenti, quale elevatezza nelle sue massime, quale saggezza nei suoi discorsi, quale presenza di spirito, quale finezza, quale esattezza nelle sue risposte! Quale dominio delle passioni! Dove è l’uomo, dove è il saggio che sa agire, soffrire e morire senza debolezza e senza ostentazione? (…). Ma dove aveva Gesù preso i suoi precetti, presa questa morale elevata e pura, di cui Egli solo ha dato gli insegnamenti e gli esempi? (…) La morte di Socrate che filosofeggia tranquillamente coi suoi amici, è la più dolce che si possa desiderare; quella di Gesù che spira fra i tormenti, ingiuriato, canzonato, maledetto da tutto un popolo, è la più orribile che si possa temere. Socrate che prende la coppa avvelenata benedice colui che gliela offre e che piange; Gesù, nello spaventoso supplizio, prega per i suoi accaniti carnefici. Sì, se la vita e la morte di Socrate sono quelle di un saggio, la vita e la morte di Gesù sono di un Dio”.
Stupisce anche lo sguardo su Gesù del giovanissimo Karl Marx. Egli scrisse che “l’unione con Cristo dona un’elevazione interiore, conforto nel dolore, tranquilla certezza e cuore aperto all’amore del prossimo, ad ogni cosa nobile e grande, non già per ambizione né brama di gloria, ma solo per amore di Cristo, dunque l’unione con Cristo dona una letizia che invano l’epicureo nella sua filosofia superficiale, invano il più acuto pensatore nelle più riposte profondità del sapere, tentarono di cogliere; una letizia che solo può conoscere un animo schietto, infantile, unito a Cristo e attraverso di Lui a Dio, una letizia che innalza e più bella rende la vita”.
Indagando, interrogando, Gesù emerge sempre come l’uomo più sconvolgente di tutti i tempi (com’è noto il tempo stesso, in buona parte del mondo, da secoli, si computa a partire dalla sua nascita). Non c’è nessun individuo che gli si possa paragonare per l’importanza, la vastità e la durata della sua influenza. Nessuno scatena amore e odio come lui. E’ anche il più rappresentato e cantato dall’arte di tutti i tempi. Anche la letteratura moderna ne è testimone.
“Sembra che molti autori” scrive Luigi Pozzoli “pur non riconoscendo il Cristo della fede, siano pronti a condividere le parole e i sentimenti che Dostoevskij ha confidato un giorno a una persona amica”. Ecco le parole dello scrittore russo: “Non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo” e “non solo non c’è, ma non può esserci”.
A tal punto che “se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità”. Certo in Dostoevskij l’incontenibile ammirazione per Gesù arriva al paradosso, ma la sua osservazione esprime davvero il sentimento di molti: “Quest’uomo fu il più eccelso sulla terra, la ragione per cui la terra esiste. Tutto il nostro pianeta, con tutto ciò che contiene, sarebbe una follia senza quest’uomo. Non c’è stato e non ci sarà mai nulla che gli sia paragonabile. E’ qui il grande miracolo”.
In effetti la personalità di Gesù continua a sorprendere anche i non credenti. Dice Alfredo Oriani: “Creduli o increduli, nessuno sa sottrarsi all’incanto di quella figura, nessun dolore ha rinunciato sinceramente al fascino della sua promessa”.
Perfino il simbolo del laicismo italiano, Gaetano Salvemini, rimase folgorato dall’altezza sublime della sua figura e del suo insegnamento. Raccontò, in “Empirici e Teologi”, di essersi trovato in una stagione della vita come “sperduto nel buio e fu una impressione disperata”. Si sentì illuminato allora da una pagina di Pascal in cui una vecchietta dice: “io non so dimostrare a me stessa che c’è un Dio. Ma mi regolo come se ci fosse”. Salvemini spiega: “quella vecchierella mi insegnò la via da seguire. Debbo aggiungere che nel seguire quella via, ho trovato un’altra guida e mi sono trovato bene a lasciarmene guidare. E questa guida è stato Gesù Cristo che ha lasciato il più perfetto codice morale che l’umanità abbia mai conosciuto. Io non so se Gesù Cristo sia stato davvero figlio di Dio o no. Su problemi di questo genere sono cieco nato. Ma sulla necessità di seguire la moralità insegnata da Gesù Cristo non ho nessun dubbio”.
Sfogliando il diario del turbolento e inquieto autore di “On the road”, Jack Kerouac, ci si può imbattere in questa annotazione: “so che soltanto Gesù conosce la risposta definitiva”. Nell’itinerario tormentato di Giovanni Testori perfino la “bestemmia” è segno dell’impossibilità di dimenticarlo e proprio perché non si può sradicare dal cuore è spada che lacera. Nel tempo della sua lontananza dalla Chiesa il poeta lombardo scriveva: “T’ho amato con pietà/ Con furia T’ho adorato./ T’ho violato, sconciato,/ bestemmiato./ Tutto puoi dire di me/ Tranne che T’ho evitato”.
Sembra che sia rimasta nel mondo – per chi non è cristiano – una nostalgia incolmabile di lui. Con altrettanta drammaticità infatti Pier Paolo Pasolini grida al vuoto divorante della sua assenza: “Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto/ in ogni mio intuire. Ed è volgare,/ questo non essere completo, è volgare,/ mai fui così volgare come in questa ansia,/ questo ‘non avere Cristo’ ….”.
Jorge L. Borges, da non credente, dichiara: “Gli uomini hanno perduto un volto, un volto irrecuperabile e tutti vorrebbero essere quel pellegrino (…) che a Roma vede il sudario della Veronica e mormora con fede: Gesù Cristo, Dio mio, Dio vero, così era dunque la tua faccia? (…) Abbiamo perduto quei lineamenti come si può perdere un numero magico, fatto di cifre abituali, come si perde per sempre un’immagine nel caleidoscopio. Possiamo scorgerli e non riconoscerli”.
Lo scrittore argentino confessa di “non vedere” personalmente il volto di Cristo nella sua vita, tuttavia “insisterò a cercarlo fino al giorno dei miei ultimi passi sulla terra”. (…) Un grande scrittore ebreo, Franz Kafka, interpellato dall’amico Janouch con una domanda inattesa: “E Cristo?”, dette la sensazione di una scossa all’anima: “chinò il capo. ‘E’ un abisso pieno di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi’ ”. Umberto Saba, poeta triestino, ebreo, confidandosi in alcune sue lettere con l’amico monsignor Giovanni Fallani, dichiarava di non avere la fede, ma scriveva anche: “io amo Gesù come l’uomo che più si è avvicinato al divino o, almeno, a quello che i poveri uomini immaginano essere il divino. Sì, amo infinitamente Gesù, ma (se così oso dire) lo amo come un ponte fra l’uomo e il Divino. Lo amo come un ‘fratello’; infinitamente grande, infinitamente buono e amabile. Ho bisogno di credere, di appoggiare, in ogni caso, la mia disperazione a Gesù”.
Dal libro “Indagine su Gesù” (Rizzoli) di Antonio Socci
Il santo vescovo di Milano e la confutazione degli ariani - Ambrogio e il segreto della libertà di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
Gran parte delle più note e talora drammatiche scelte di sant'Ambrogio trovarono la loro origine e la loro forza nella sua coscienza di vescovo, libera da qualsiasi condizionamento che non fosse quello della verità, cioè di Dio, che in tale coscienza traspare con la sua legge. Ed è, così, subito menzionata la relazione "teologica", che per Ambrogio istituisce e fonda la stessa coscienza con i suoi imperativi e la sua indipendenza; o, più concretamente, la relazione cristologica, cioè la signoria di Cristo. Egli afferma: "Cristo solo è il Signore" (De Ioseph Patriarca, 9, 49); "Chi ha molti padroni non può dire a uno solo: "Signore Gesù, io appartengo a te" (Explanatio ps. 118, 12, 41). E, d'altra parte, proprio questa appartenenza esclusiva, mentre lo vincolava interiormente, lo liberava da ogni potere esteriore, fosse pure quello degli imperatori e della loro corte, che pretendesse di contrastare alle ragioni di verità della sua "coscienza interiore (interior coscientia)". Un vescovo ariano, che non riconosceva la divinità di Gesù e quindi la sua assoluta signoria su ogni potere umano, non poteva che essere cortigiano, e per ciò non libero, come il predecessore di Ambrogio, Aussenzio. Il vescovo di Milano dichiarerà senza timore alcuno: "Per quanto grande sia il potere imperiale, considera, o imperatore, quanto sia grande Dio: egli vede i cuori di tutti, interroga la coscienza interiore, conosce tutte le cose prima che avvengano, conosce l'intimo del tuo cuore" (Epistula extra collectionem, 10, 7). "È indegno di un imperatore - asseriva Ambrogio - soffocare la libertà di parola, ma è indegno di un vescovo tacere il proprio pensiero" (Epistula extra collectionem, 1a, 2). La coscienza è una luce che rischiara nell'intimo: "La tua coscienza, che bene riluce in questo corpo, è la luce della lampada: essa stessa è il tuo occhio" (Explanatio ps. 118, 14, 7); "Il tuo cubicolo è il segreto delle tue cose interiori: esso è la tua coscienza" (De institutione Virginis, 1, 7), la quale rimane infrangibile di fronte a tutti e solo giudicabile da Dio, che vede nel segreto. Nella "coscienza interiore" - come Ambrogio amava chiamarla - echeggia la voce di Dio, al quale essa è primariamente aperta e trasparente, al quale ultimamente risponde, con la conseguente libertà rispetto a qualsiasi altro giudizio: la legge e la presenza di Dio nella "retta coscienza dell'uomo" (De apologia David, 14, 66) generano l'incondizionabile e infrangibile libertà dell'uomo, che ritrova la garanzia di Dio. Per questa illustrazione della coscienza, Ambrogio torna spesso alla vicenda di Susanna. Egli osserva: di fronte ai lacci della falsa testimonianza "solo la sua coscienza restava libera in Dio" (Explanatio ps. 118, 17, 25). La coscienza sa parlare anche là dove non se ne sente in maniera sonora la voce; essa non chiede il giudizio dell'uomo, avendo la testimonianza e l'arbitrio del Signore. Susanna, "tacendo davanti agli uomini, parlò a Dio. (...) Parlava con la sua coscienza là dove non si udiva la sua voce" (De officis, i, 3, 9); e "sola, priva di ogni aiuto, in mezzo a uomini, nella coscienza della propria onestà, invocava Dio come giudice. (...) Accusata, taceva, e, condannata, stava silenziosa, contenta del giudizio della propria coscienza" (De Spiritu Sancto, IIi, 40-41). Sono ancora parole di sant'Ambrogio: "La buona coscienza non ha bisogno della difesa delle parole: fondata sulla propria testimonianza, è giudice di se stessa" (Explanatio ps. xII, 38, 13, 1), e "lieta rifulge della sua luce (laeta lucet conscientia)" (ibidem 37, 38, 2). Per Ambrogio "la disgrazia più grande" sarebbe "la coscienza incatenata" (Epistula extra collectionem, xi, 3). "Libero - insegnava sant'Ambrogio - è colui che lo è dentro di sé" (Epistula 7, 17) ; "schiavo chi non possiede la forza di una coscienza pura" (De Iacob et vita beata, II, 3). E ancora una vòlta alla radice della libertà sta Gesù Cristo, il quale ha redento l'uomo, e, sciogliendolo dalla schiavitù e affrancandolo per sé, lo ha reso suo liberto, "liberto di Cristo" (De Iacob et vita beata, i, 12).
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
All'inizio dell'Ottocento il primo console si chiedeva: «Quand'è che l'anima entra nel corpo?» - I dubbi di Napoleone e il dogma dell'Immacolata - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
Novembre 1801. Fervono i lavori per la redazione del Codice civile francese. In particolare, il 5 del mese il Consiglio di Stato discute gli articoli 2, 3 e 4 del progetto. Il tema, spinosissimo e misterioso, è quello della paternità. Le formule sotto esame prevedono che non possa ritenersi legittimo il bimbo nato prima di 186 giorni dalla celebrazione delle nozze (articolo 2), né quello nato 286 giorni dopo la loro cessazione (articolo 3). Si aggiunge anche (articolo 4) che la presunzione di paternità cessa laddove la distanza tra gli sposi sia stata tale da aver reso impossibile la coabitazione tra loro, o laddove essi fossero separati nei corpi e nei beni (in assenza di riunione di fatto e di riconciliazione). In tutti questi casi, sono troppi i dubbi sull'origine della prole: è impossibile riconoscerla come concepita dal marito e, quindi, è impossibile qualificarla come legittima. In quella lontana giornata di oltre due secoli fa, il Consiglio di Stato francese dibatteva dunque su uno dei nodi più intricati della storia umana, quello dell'identificazione del padre, la cui identità rispetto alla nascita del figlio fu, da sempre e per secoli, nascosta "dietro l'impenetrabile velo" posto dalla natura (secondo una formula molto amata dai giudici italiani nell'Ottocento). Ai lavori partecipa personalmente anche il primo console, intuendo di avviare, attraverso la codificazione del diritto, quello che si sarebbe rivelato il più grande fenomeno della modernità giuridica. Come afferma lo storico del diritto Paolo Grossi, mai prima di questo momento, nella storia, il potere era stato così presuntuoso da credere che in mille articoli si potessero condensare le regole della società civile. È la nascita - sempre nelle parole dello studioso fiorentino - dell'assolutismo giuridico, di un apparato mitologico - la cui dimensione mitica risiede proprio nell'assioma che la legge esprima sempre e comunque la volontà generale - erede della serrata del diritto e delle fonti voluta dalla Rivoluzione francese. Come noto, tra le priorità di Napoleone vi fu la volontà di ripristinare l'ordine sociale e giuridico disciplinando la realtà con estremo rigore partendo proprio dalla famiglia, l'unica società intermedia non eliminabile. Il progetto era davvero ambizioso e mirato: si voleva fare ordine in uno degli ambiti più intricati e intimi, con il potere paterno che doveva fungere da modello per l'ordine pubblico generale. Il problema, però, è che Napoleone aveva un grande nemico che da millenni stava lavorando per scompaginarne i progetti, rendendo non oggettivamente identificabile la paternità. Possibile, si domanda il Bonaparte, che si debba soccombere dinnanzi al silenzio della natura? Possibile, ripete più volte il primo console durante i lavoro preparatori, che ci si debba arrendere all'impossibilità di stabilire in modo preciso il momento del concepimento? Fare chiarezza in tema è fondamentale, ribadisce più volte Napoleone: è un preciso interesse dello Stato che il povero bambino non sia privato del suo stato di legittimo. Pur in presenza di dati vaghi, dobbiamo cercare di evitare in ogni modo d'infamare una creatura innocente. Il disappunto di Napoleone verso i medici e la scienza è enorme. "Un bimbo nato a sei mesi meno sei giorni può vivere?", domanda. "Si ritiene di no", risponde il consigliere di Stato Fourcroy. "Come facciamo a sapere quando un bimbo è stato concepito?", domanda ancora e ancora Napoleone. Nel corso del serrato interrogatorio, il primo console chiede addirittura, anticipando di oltre due secoli la domanda centrale di una diciassettenne in un film che farà tanto discutere: "Quando vengono le unghie ai feti?"; è sempre Fourcroy che risponde: intorno ai sei mesi. Leggendo i resoconti dei dibattiti dell'epoca, colpisce innanzitutto la profonda sfiducia verso i medici: il consigliere Fourcroy presenta una documentata relazione sulle posizioni dei migliori autori di medicina dal titolo Sur l'époque de la naissance humaine, et sur les naissances accélérées et tardives; un posto di tutto rispetto viene dato alle dottrine di Paolo Zacchia e di Haller. Napoleone non si commuove: se mi nascesse un bimbo a cinque mesi dalle nozze, lo considererei mio a prescindere dai medici. Il dato davvero interessante, però, è che, nel suo tentativo razionale di risolvere il problema, Napoleone si rivolge al nemico, al solo ambito che sembra possa effettivamente aiutarlo. "Secondo i teologi, quand'è che l'anima entra nel corpo?". Fourcroy spiega che non sono tutti d'accordo ("secondo alcuni a sei settimane, secondo altri..."), che il dibattito nella Chiesa è acceso. Effettivamente è così: da secoli il cristianesimo vede alternarsi le due posizioni dell'animazione immediata e dell'animazione ritardata. Ma in realtà, quando Napoleone pone la domanda, manca poco perché la questione venga risolta e definita una volta per tutte. Nel 1854, infatti, sarebbe stato pronunciato il dogma dell'Immacolata Concezione. "Affermiamo e definiamo rivelata da Dio la dottrina che sostiene che la beatissima Vergine Maria fu preservata, per particolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, immune da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento, e ciò deve pertanto essere oggetto di fede certo e immutabile per tutti i fedeli". L'intento diretto e primo non era certo quello di porre fine alla lunga diatriba, ma il messaggio insito nel dogma non lasciava adito a dubbi. Affermare la preservazione di Maria dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento, è un implicito e inequivoco riconoscimento dell'animazione immediata. A pensarci bene, anche dal punto di vista simbolico, il messaggio è estremamente significativo. Per risolvere e definire una questione che nasce e si dipana nel corpo delle donne - pur trattandosi di una questione che interessa tutta l'umanità senza distinzione di sorta - la Chiesa ha scelto di seguire Maria. E di seguirne non le parole, i silenzi o i gesti, ma l'evoluzione naturale.
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
L'opinione pubblica tra giustizia e pressioni - Difesa della vittima e abuso della pietà - di Oddone Camerana – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
La facciata di una casa che crolla. Un incendio che scoppia. Una scarica elettrica che parte. La paratia di una diga che cede. La gomma di un'autobotte che si squarcia. Una grondaia che si stacca. Un colpo di pistola che esplode. Il cambio ferroviario che non scatta. La barra di un passaggio a livello rimasta aperta. La fiala di un preparato che viene scambiata con un'altra. Un albero che cade. Un masso che frana. Un autobotte che si rovescia. Un'impalcatura che s'incrina. Crolli. Buchi. Squarci. Incendi. Cedimenti. Crepe. Schianti. Morti e feriti. Si contano le vittime e si cercano le ragioni. In certi casi si invoca la mano del destino, della fatalità. In altri, quella di una misteriosa e remota punizione di Dio. In altri ancora, se si tratta di un guasto meccanico, è il tributo dovuto alla tecnica che viene chiamato in causa. Ma quando c'è di mezzo il sospetto, l'eventualità, la probabilità che si tratti del mancato rispetto delle norme di sicurezza, allora il meccanismo della ricerca di un responsabile è pronto ad attivarsi. Di chi è la colpa? è la domanda che ci si pone in questi casi. Da quando la tradizione ebraico-cristiana ci ha insegnato a metterci dalla parte delle vittime, sono passati centinaia d'anni. Ciononostante è stupefacente constatare come in presenza di un'ingiustizia l'ostilità scatenata non si plachi fino a che non ha trovato qualcuno da mettere sotto accusa e subito. E questo indipendentemente dalla messa in moto del regolare intervento della giustizia che agisce con gli strumenti di cui le procure e i tribunali dispongono legittimamente, ma che non sembrano in grado di purificare l'ambiente ormai contaminato. Recenti casi di cronaca ci hanno mostrato come in molti casi di disgrazie - disgrazie che per la loro tragicità hanno colpito l'opinione pubblica - la ricerca dei responsabili da parte delle istituzioni sia accompagnata da un'azione parallela, un'azione nella quale il ruolo dei media è certamente preponderante, fatta di istigazioni, incitamenti e tambureggiamenti che occupano lo sfondo. Per quanto si dichiari il contrario, succede in questi casi che la ricerca della giustizia deve spesso fare i conti con le influenze suscitate da un'orchestrazione laterale autonoma, un concerto a cui prendono parte i più diversi attori sociali. A proposito dei quali non mancherà di apparire come questi ultimi siano molte volte mossi da motivazioni allo stesso tempo arcaiche, per ciò che riguarda le aspettative, e modernissime per ciò che riguarda gli strumenti di pressione messi in campo, motivazioni caratterizzate dal porsi al servizio del raggiungimento di obbiettivi diversi da quelli istituzionali della giustizia e alternativi a quelli della solidarietà, del sostegno e della partecipazione umana. È triste dirlo, ma c'è una frase dei Vangeli che anticipa e sintetizza questo stato di cose ed è quella pronunciata da Gesù: "Dovunque sarà il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi" (Matteo, 24, 28). Situazione già oggetto di esame da parte di René Girard, là dove lo studioso francese parla dell'effetto prodotto dalla corsa alla preoccupazione vittimaria o souci victimaire, tipica dei nostri giorni. Definibile anche come ricatto vittimario o "strategia del caso pietoso", così nei termini usati da Lucetta Scaraffia a commento, su "L'Osservatore Romano" (16 ottobre 2008) del caso del bimbo messo artificialmente al mondo per fornire al fratello talassemico il sangue ricavabile dal suo cordone ombelicale. Fatto sta che non si è mai parlato così tanto della necessità della difesa della vittima come da quando se ne fa un uso improprio e strategico, uso che ha poco a che fare con la difesa della vittima stessa, ma più con l'abuso della pietà che suscita, finalizzata, questa, a secondi fini. Globalizzata, planetaria e secolarizzata, sorta di ingiunzione totalitaria e inquisizione permanente, la compassione obbligatoria diventa così il punto di partenza che dà origine a quel tipo di emergenze umanitarie che possono degenerare in forme di falsificazioni e totalitarismi del bene che la storia ci ha mostrato. Ma per restare a casi più recenti, è evidente che, tanto per cominciare, essere e presentarsi sotto forma di vittima, magari incatenandosi come novelli Prometeo ai cancelli di un edificio o rinunciando a mangiare e a bere o rinchiudendosi in strutture mobili collocate sulla pubblica piazza, è diventato lo strumento più sicuro in grado di fornire oltre a visibilità, potere e consenso, anche la supremazia e la forza contrattuale necessarie al desiderio di dare soddisfazione alle proprie motivazioni. Niente, infatti, come manipolare il genere di situazioni vittimarie descritte assicura il vantaggio necessario a chi vuole prevalere sul bersaglio del momento, sia esso una istituzione da colpire o la Chiesa cattolica, spesso accusata di oscurantismo per aver tentato di ostacolare la scienza e di aver fatto pertanto della ricerca una nuova vittima. Ognuno può cercare, fra i tanti i casi o le tante situazioni in cui la manipolazione citata si verifica, quello o quella che più lo convince. Il meccanismo è in ogni modo sempre quello del lupo e dell'agnello del racconto di Fedro, con la differenza che oggi ad accusare l'agnello di avergli sporcato l'acqua da bere non è più il lupo, ma sono le "anime belle" che per difendere la vittima ne hanno indossato preventivamente l'aureola. Un certo genere di ambientalisti, di rivendicazionisti patentati, di pubblici accusatori a tempo pieno, di soccorritori e tutori mediatici, di indignati di professione sono il tipo di anime belle per le quali si può dire che le anime belle non sono poi così belle. Non sembrano certo esserlo gli autori di uno striscione comparso di recente all'esterno del liceo Darwin di Rivoli. "Come possiamo crepare in fabbrica se rischiamo di venire ammazzati prima?", una domanda nel porre la quale è fuor di dubbio che gli autori aspirassero a stabilire tra studenti e operai un tragico collegamento. Ciò non toglie che lo scopo raggiunto sia basato sulla presunzione dell'esistenza di colpevoli già individuati, se non ancora con nome e cognome, certo come categoria e appartenenza sociale e professionale.
In quanto capace di esprimere meglio di ogni altro il bisogno del risentimento di affiorare in superficie nelle parole prima ancora di essere soddisfatto, "rabbia" è il termine più evocato dai difensori delle vittime che si presentano nelle vesti di anime belle. Certo non è una parola che fa onore al genere umano. Ma è la parola che, tratta dal vocabolario della violenza, meglio esprime, in tempi esasperati dalla indifferenza come i nostri, quel bisogno di rivalsa e di soddisfazione inseguito in nome del bene e di una ipotetica armonia, sbandierati dalle anime belle. Ma di quale armonia si parla? Fermiamoci qui e cerchiamo la risposta in Dostoevskji, là dove nel testo del Grande Inquisitore l'autore dichiara: "Non voglio l'armonia, non la voglio, per l'amore dell'universo. Preferisco rimanere con le mie sofferenze invendicate. Preferisco rimanere con la mia indignazione insoddisfatta".
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
Uno sguardo diverso sulla crisi finanziaria - San Tommaso a Wall Street - di Luca M. Possati – L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2008
San Tommaso non è mai stato a Wall Street. Non ha mai letto il "Financial Times", l'"Economist" o "Il Sole 24 Ore", e forse non li leggerebbe nemmeno se fosse ancora in vita. Certo, l'autore della Summa theologiae conosceva bene l'avarizia, il mondo degli affari, il denaro, l'usura, il commercio - e su questi fenomeni ha riflettuto a lungo interpretandone il senso alla luce dei Padri della Chiesa e della filosofia greca, araba ed ebraica - ma non poteva immaginare Lehmann Brothers, Goldman Sachs, l'economia di mercato, l'età del neoliberismo selvaggio. Eppure, oggi, ai manager e ai leader mondiali che cercano di fronteggiare la peggiore crisi finanziaria degli ultimi settant'anni, con tutti i suoi drammatici risvolti sociali e psicologici, san Tommaso può insegnare qualcosa di importante e unico. La voce dell'Aquinate torna a farsi sentire grazie a uno straordinario strumento interpretativo: De re oeconomica, il lessico settoriale tomistico dell'economia, tre volumi ideati e realizzati dalla Cael (l'associazione per la computerizzazione delle analisi ermeneutiche e lessicologiche), presentati a Benedetto XVI al termine dell'udienza generale dello scorso 26 novembre. Non libri da leggere, tanto meno interpretazioni: chi scorre le pagine di questi grandi volumi non si troverà di fronte a parole, a frasi, a un testo corrente, ma a numeri, sigle, citazioni, indici. Siamo al cospetto di "austeri documenti da studiare", come li definisce il promotore del progetto, il gesuita Roberto Busa, pioniere della linguistica computazionale e autore dell'Index Thomisticus.
Il De re oeconomica aiuta lo studioso a individuare i contesti effettivi nei quali san Tommaso si espresse in merito ai fatti economici. In termini tecnici è una "concordanza" - secondo l'ordine dei testi e non già quello alfabetico delle singole voci - nella quale sono riportati non solo i luoghi delle opere dove compaiono certe espressioni d'interesse economico, ma anche le singole frasi e i periodi costruiti attorno ad una stessa parola chiave.
L'operazione risponde allo spirito di un progetto più generale, quello del Lessico tomistico biculturale(Ltb), un "lessico che riflette e spiega le parole latine di san Tommaso nei termini della cultura di oggi", come afferma padre Busa.
L'Ltb è figlio della straordinaria impresa dell'Index, ma si spinge oltre. L'intento è microanalizzare di nuovo gli undici milioni di parole del corpus per aggiungere agli ipertesti interni già assegnati dall'Index, che codificano ogni parola secondo la morfologia, ulteriori ipertesti che ne codifichino la sintassi. Ma sono soprattutto i valori metodologici che si vogliono mettere in luce: l'attenzione dell'Aquinate al rigore, all'essenzialità e alla coerenza dell'esprimersi e del ragionare. Quest'angolazione - chiarisce padre Busa - "è l'unica possibile via per arrivare a documentare come i significati di ogni voce latina del 1200 vengano oggi variamente espressi, dopo settecento anni di evoluzione culturale, nel lessico delle varie principali lingue di oggi". Così, incrociando gli indici e seguendo il percorso di un termine - o, meglio, di un gruppo di termini affini - il ricercatore ha la possibilità di costruire una mappa precisa della presenza di quel termine nel corpus thomisticus, distillando le sfumature semantiche senza dimenticare la sintesi dottrinale. Ma può insegnarci qualcosa sul nostro presente uno strumento così raffinato e tecnico, in apparenza destinato a un'esigua cerchia di specialisti? L'attuale crisi finanziaria mondiale con tutte le sue conseguenze negative soprattutto per i Paesi più poveri - il massiccio intervento pubblico nei mercati rischia di innescare un'ondata di misure protezionistiche tali da mettere a repentaglio il finanziamento allo sviluppo, come ha dimostrato la scarsa partecipazione dei capi di Stato e di Governo alla recente conferenza di Doha - è solo l'ultimo atto di un processo iniziato molto tempo fa. L'età del neoliberismo sinonimo di deregolamentazione - o, ancora peggio, di "autoregolamentazione dei mercati" - e del primato del capitale sul lavoro - con l'effetto di un accesso illimitato al credito - non è sorta dal nulla. È figlia dell'oblio della genuina vocazione della attività finanziaria, che è quella di favorire l'impiego delle risorse risparmiate là dove esse possano favorire al meglio l'economia reale, il benessere, lo sviluppo integrale dei singoli e della società nel suo insieme. Proprio nella riscoperta di una tale vocazione le riflessioni in materia economico e sociale di Tommaso possono offrire quel che oggi davvero manca: una visione sintetica del sapere dell'uomo che sappia orientare la ragione pratica. "Soltanto da un attento studio del De re oeconomica - spiega ancora padre Busa - si possono cogliere i principali strumenti logici per comprendere l'economia, per come essa è illustrata e spiegata nei testi, e dunque applicare questa comprensione alla realtà dei fatti economici". Le chiavi che il maestro di Roccasecca ci dà "sono valori quali la sincerità, l'essere sempre guidati dalla verità, mirando al bene comune, senza partigianerie né esclusivismi". È un invito a tutti i pensatori cristiani: partire da Tommaso per costruire un nuovo pensiero economico integrale. Gli strumenti ci sono. Wall Street può imparare. Fermarsi, e capire che l'uomo è una realtà complessa: esiste come ogni altro ente, e tende a conservarsi; è un animale, e come tale cerca di potenziare la sua vita animale, di procreare ed espandersi; è razionale, e questa è la sua differenza specifica. Proprio in quanto essere razionale, l'uomo tende con la sua volontà, cioè consapevolmente e liberamente, al bene universale, al fine ultimo: l'attuazione di quello che, creandolo, Dio vuole che egli sia. È la lex naturalis: per sua stessa natura l'uomo tende alla contemplazione e alla giustizia; conoscere la verità intorno a Dio e vivere insieme agli altri e operare per il bene comune. Solo questo può soddisfare la sua sete di felicità. Non grazie a un'illuminazione divina o a un'estasi mistica, ma attraverso il corretto ragionamento pratico. Ragionare bene, appunto, perché Dio ci ha dato "il lume della ragione naturale per discernere cosa sia bene e cosa sia male" (Summa theologiae, ia IIae, q. 91, art. 2), che però dev'essere sorretto da quella virtù centrale che è la prudenza, recta ratio agibilium (IIa IIae, q. 47, art. 5). C'è da ripensare un pezzo della nostra storia, il potere del consumo, il ruolo distorto che la finanza ha assunto nelle nostre esistenze. "Il denaro c'è ma non si vede - diceva un mitico broker in doppio petto nella New York degli anni Ottanta, reso celebre dal film Wall Street di Oliver Stone - qualcuno vince, qualcuno perde. Il denaro di per sé non si fa né si perde, semplicemente si trasferisce, da un'intuizione ad un'altra, magicamente!". Se avesse letto san Tommaso, forse Gordon Gekko avrebbe cambiato mestiere.
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
Quattro pilastri per l’Europa del futuro - Mario Mauro - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Oggi 288 Membri del Parlamento europeo su un totale di 785 fanno parte del Gruppo PPE-DE, che è l’unico dei sette gruppi politici all’interno del Parlamento europeo che include membri provenienti da tutti i 27 paesi dell’Unione europea.
Il PPE-DE ha sempre lavorato negli anni utilizzando gli strumenti della moderazione e del dialogo per costruire un’Europa che possa offrire prospettive per il futuro, un’Europa migliore per tutti. Il Partito popolare europeo riafferma con forza il desiderio di vedere un’Europa generatrice di prospettive e prosperità all’interno di un mercato unico, un’Europa competitiva su scala globale che allo stesso tempo generi benessere per tutti, non solo in Europa, ma in tutto il Mondo.
Per questo il Gruppo PPE-DE, al cui vertice siede il francese Joseph Daul, ha recentemente fissato le dieci priorità per la prossima legislatura, dividendole in quattro grandi capitoli: un’Europa dei valori, un’Europa della crescita, un’Europa della sicurezza e un’Europa della solidarietà.
Capitolo primo: perseguire nella difesa di valori forti. L’UE deve aggiornare, confermare e modernizzare i propri valori per competere a livello mondiale e dialogare con le altre culture. Durante l'ultima legislatura è emerso con forza come il dialogo interreligioso e interculturale costituisca la via che i valori europei e quelli delle altre culture devono percorrere per interagire costruttivamente e positivamente per costruire un futuro comune migliore. In un mondo sempre più globalizzato, frenetico e complesso il dialogo tra culture e religioni deve essere il marchio dell'Europa.
Accanto al dialogo si ripropone con forza anche per la prossima legislatura il tema della libertà religiosa, perché è fondamento per lo sviluppo della democrazia e quindi rende possibile un compito comune, nel quale in amicizia è possibile ricordarci vicendevolmente che la violazione dei diritti umani è la fine di un rapporto di verità. Questo può accadere soltanto se l'Europa, si accorge che la negazione sistematica dei valori che hanno permesso 50 anni di prosperità porta a un regredire della nostra democrazia e della nostra capacità di influenza sullo scenario mondiale. Questi valori non sono soltanto quelli legati al rapporto con l'esterno, ma sono valori che riguardano ciò che siamo noi. Ciò che la nostra storia ci ha regalato. Valori come quelli della difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna o la difesa della vita umana dal concepimento alla morte. Questo è valido a cominciare dalle relazioni con gli Stati Uniti di Obama: anche in questo senso risulta un dovere e una priorità per l'Europa l'impegno a tessere rapporti profondi con gli Stati Uniti.
Altro tema importante è lo sviluppo e il rafforzamento della politica di vicinato e il proseguimento della politica di allargamento: l’UE deve promuovere i propri valori al di là delle frontiere europee. Per fare ciò è necessario attuare una politica estera e di sicurezza comune coerente, di apertura verso le altre realtà culturali, che non sia esclusivamente legata a interessi economici, ma che abbia come segno distintivo la promozione dei diritti umani.
Capitolo secondo: per un’Europa della crescita. La crisi finanziaria non sarà di breve durata, per questo bisogna proseguire con ancor più convinzione per un’ Europa della crescita e della prosperità. Il completamento di un mercato unico efficace e aperto e soprattutto il proseguimento degli obiettivi della strategia di Lisbona volti a promuovere, come risposta alla globalizzazione, una società europea dinamica, innovativa e basata sulla conoscenza si rivelano una condizione essenziale affinché possiamo agire da traino per la ripresa dell'intera economia mondiale.
Insieme a questo dobbiamo rafforzare le misure economico-finanziarie urgenti che stanno prendendo piede nell'ultimo periodo. In primis la riforma del bilancio dell’UE e la difesa della stabilità di bilancio e dell’indipendenza monetaria: l’UE deve disporre di risorse proprie nel prossimo futuro. Il nostro obiettivo sarà quello di garantire la stabilità di bilancio e l’indipendenza della politica monetaria nell’area dell’euro.
Ulteriori proposte concrete per risolvere la crisi finanziaria verteranno sulla stabilizzazione finanziaria, che è stata per ora garantita solo a livello nazionale. L'UE tuttavia dispone di un organismo, la Banca europea degli investimenti (BEI), che ha capacità di raccogliere risorse sul mercato dei capitali. Si può quindi riflettere sulla possibilità di fare della BEI un organo di stabilizzazione macrofinanziaria, ovviamente dopo averne opportunamente modificato la sua struttura di governance. Un'operazione del genere permetterebbe di non ricorrere ai bilanci nazionali e non peserebbe sui contribuenti.
Supervisione: il cosiddetto "collegio dei supervisori" per i gruppi transnazionali è certamente un ottimo progresso rispetto alla supervisione frammentata. Ora è però il momento di pensare ad andare oltre. Il supervisore unico, già proposto dall'Italia, diventa sempre più necessario specialmente per i grandi gruppi bancari europei. Si potrebbe prevedere un modello dove sia la Banca centrale europea ad avere tale responsabilità . Le attuali vicende dimostrano chiaramente la necessità di dotarsi di un supervisore unico.
Riduzione del rischio: la crisi è stata alimentata da chi originava strumenti di credito distribuendo poi il rischio ad altri soggetti nel mercato senza sopportarlo come nel modello bancario classico. In questa maniera l'emittente non ha incentivi per garantire la qualità del credito originato. Per rimediare a ciò bisogna agire in tre direzioni: obbligare gli emittenti a mantenere nei propri libri contabili una percentuale del credito emesso; obbligare gli emittenti a seguire il rischio afferente ai loro titoli di credito e a lavorare congiuntamente con le agenzie di rating perché questo avvenga con regolarità e non solo al momento dell'emissione del credito; prevedere la tracciabilità del credito al fine di ridurre la possibilità di commistione di credito di buona e di meno buona qualità.
Capitolo terzo: per un‘Europa della sicurezza. Non può non essere inserita tra le priorità anche la questione della sicurezza. Intensificazione della lotta contro il terrorismo e della protezione dei cittadini dalla criminalità organizzata: prevedere azioni comuni e una mobilitazione comune delle risorse di polizia e giudiziarie. Tutto questo senza tralasciare la questione collegata all'integrazione e all'immigrazione: un approccio europeo comune in materia di immigrazione diventerà una delle priorità strategiche.
L'appartenenza all'Unione Europea ci impone dei doveri che sono da ricordare, volentieri e giustamente, ai Paesi che vogliono addirittura esserne parte rilevante. La legalità quindi deve rappresentare il punto di partenza per chi viene accolto per soddisfare il proprio desiderio di integrazione, il primo passo per vivere nel rispetto della propria dignità di uomini. Costituisce la condizione indispensabile perché tutto ciò si possa realizzare.
Delicatissimo è il tema della politica energetica dopo le polemiche a cui è andata incontro la Commissione europea con la proposta molto ambiziosa sulla riduzione delle emissioni del 20%. Per questo ancor di più è necessario sviluppare una politica energetica coerente nel quadro della lotta contro il cambiamento climatico, ma senza ipocritamente dimenticare lo sviluppo sostenibile: sicurezza dell’approvvigionamento, competitività dell’economia e protezione dell’ambiente.
Capitolo quarto: per un’Europa della solidarietà. Sarà cruciale il mantenimento della politica di coesione e la difesa dei valori del modello sociale europeo: questo significa che dobbiamo sostenere il chiaro legame stabilitosi tra la strategia di Lisbona e la politica di coesione, nonché la conseguente forte sinergia tra le due politiche. La politica di coesione, pur perseguendo la propria missione, è uno strumento utile per il raggiungimento delle finalità e degli obiettivi della strategia di Lisbona. Essa è dunque strettamente legata al dibattito generale sul futuro dell’UE nel suo complesso. L'Unione europea non deve limitarsi a reagire al fenomeno della globalizzazione, ma deve controllarne gli aspetti più determinanti.
L'Europa deve infine continuare a migliorare nel soddisfacimento dei bisogni alimentari di tutti gli europei, che è una parte integrante della politica agricola comune (PAC) nonché uno dei principi fondatori del Trattato di Roma ed è per questo che l'Unione Europea deve rafforzare con tutte le misure necessarie il Programma di aiuto alimentare agli indigenti. La riforma della PAC andrà a incidere anche sulla sicurezza alimentare: l’agricoltura europea dovrà perseguire un duplice obiettivo strategico, cioè nutrire gli europei in maniera indipendente e sana.
Queste priorità rappresentano la continuazione del lavoro che negli ultimi 5 anni in cui ha avuto la maggioranza in Parlamento il Partito Popolare europeo ha portato avanti per cercare di rendere sempre di più l’Unione europea un’unica entità politica, un’entità politica sempre più vicina al modello di Stati Uniti d’Europa, in contrapposizione a quella parte politica che sogna da sempre un unico soggetto politico chiamato Unione delle Repubbliche socialiste (e politicamente corrette) europee.
ISTRUZIONE/ Libera scuola in libero Stato: tre ipotesi per liberare il sistema educativo - Giovanni Cominelli - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Il referendum giornaliero on line del Corriere della Sera proponeva sabato scorso ai propri lettori una domanda relativa alla restituzione alle scuole paritarie dei 120 mln. di Euro stornati improvvidamente dalla Finanziaria: «È giusto che il governo ci ripensi?». Il 23,3% ha risposto SI, il 76,7% ha risposto NO. Tutta la grande stampa e vari programmi TV hanno reagito con laico sdegno al ripensamento del governo. Nell’occasione è risorto persino Giorgio La Malfa. Non saremo noi ad indignarci dell’indignazione. Seguiremo il saggio consiglio di Baruch Spinoza: «nec ridére nec lugére, sed intellìgere!» Dunque, occorre «leggere dentro la realtà» i seguenti dati: la grande maggioranza degli italiani, compresi molti elettori di centro-destra, è convinta che l’unica scuola legittima sia quella dello Stato; che la libertà di scegliere la scuola per i figli sia un lusso privato, che si deve pagare privatamente; che la scuola privata sia per lo più una faccenda “cattolica”. Se questi dati non saranno modificati, ogni anno si dovrà ripartire con la campagna di mendicanza per i soldi alle paritarie. Del resto i 120 mln. di euro coprono solo il 2009! Al 2011 è previsto dal Piano triennale un calo dai 534 mln. di Euro a 306 mln. Che fare, dunque? Si possono seguire almeno tre strade, in sequenza o in parallelo.
La prima: rivedere i criteri di finanziamento della legge n.62 del 10 marzo 2000. Al momento sono finanziate “a piè di lista” le istituzioni scolastiche statali. Sono “soldi di Stato”. A quelle paritarie vengono dati solo dei “contributi”: sono “soldi di governo”. Poiché sembra esistere in Parlamento un discreto numero di deputati di ambedue gli schieramenti favorevoli alla libertà di educazione e poiché un nutrito gruppo di deputati afferisce all’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà non pare impossibile l’impresa di una revisione legislativa in tempi brevissimi.
La seconda: è possibile una soluzione legislativa più radicale, che passi dal finanziamento delle istituzioni scolastiche a quello delle famiglie. Il principio è molto semplice: ogni cittadino italiano, dai 2 fino ai 18 anni ha diritto a un finanziamento annuale per la sua istruzione. La famiglia sceglie l’istituto, quale ne sia la proprietà: statale o privata. Lo Stato fornisce alla famiglia informazioni accurate e valutazioni rigorose sulla qualità dell’offerta formativa degli istituti scolastici. Questa soluzione è la più coerente con il dettato costituzionale: l’istruzione è un inalienabile diritto della persona e del cittadino. I soldi devono seguire ogni ragazzo. Accade anche ora, ma solo se il ragazzo si presenti ad una scuola statale. Qui si tocca il nocciolo della questione politica e culturale: la vicenda delle scuole paritarie non si deve inscrivere sotto il capitolo dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa e tra la Chiesa italiana e il governo di turno, ma sotto quello dei rapporti tra i cittadini e lo Stato. Non è una faccenda confessionale, è una questione di esercizio delle libertà fondamentali dei cittadini. Nel pensiero e nella prassi politica dei cattolici si sono da sempre intrecciate due linee culturali: rassegnarsi culturalmente all’onnipervasività dello Stato e negoziare politicamente delle protezioni per delle piccole enclaves confessionali; oppure contestare culturalmente e, ove possibile, politicamente la torsione statalistica dei diritti fondamentali, facendo una battaglia laica per tutti, per liberare non solo i cattolici, ma i cittadini dall’oppressione dello Stato amministrativo. Giacché nel pensiero laico italico lo “Stato di diritto” non è lo Stato liberale che protegge i diritti naturali delle persone, ma è lo Stato hobbesiano-hegeliano che li produce. È uno stato omnipervasivo e tendenzialmente totalitario.
Non si può escludere una terza strada: che le scuole paritarie escano dal sistema statale, avaro e ingrato, per combattere il proprio struggle for life nella società e nello Stato. Nella società, per raccogliere i fondi necessari per sostenere l’apertura ai ragazzi di ogni ceto sociale, compresi i meritevoli e privi di mezzi. Nello Stato, per offrire alle famiglie un’educazione migliore di quanto il sistema statale sia ormai in grado di offrire, nonostante l’enorme spreco di risorse umane e finanziarie.
ELUANA/ Così i "falchi" del Pd vorrebbero fare entrare l'eutanasia nel testamento biologico (2) - Riccardo Marletta - martedì 9 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Prosegue il viaggio di Riccardo Marletta, avvocato e membro della Libera Associazione Forense, nell'analisi dei disegni di legge in discussione in commissione al Senato per arrivare a una legge sul fine vita da più parti auspicata. Oggi sono presi in considerazione i ddl VERONESI (Pd), PORETTI (Pd) e CARLONI (Pd). In questi progetti di legge, anche se si esalta il principio di autodeterminazione dell'individuo, lo si fa solo in modo funzionale ad introdurre in Italia l'eutanasia: la battaglia culturale e politica, a questo punto, è più che mai accesa.
Tra i progetti di legge sul fine vita in discussione nella Commissione “Igiene e Sanità” del Senato, certamente quelli presentati dai senatori del Partito Democratico Veronesi, Poretti e Carloni si caratterizzano per la dichiarata intenzione di attribuire la massima rilevanza al principio dell’autodeterminazione assoluta dell’individuo in questo campo.
Così nella relazione accompagnatoria del progetto di legge Poretti si precisa addirittura che il progetto “individua nel consenso della persona l’unico fondamento giuridico posto alla base dell’attività medica: non riconosce ad essa altra legittimazione se non la volontà della persona”.
Esaminando nel merito le previsioni di questi progetti di legge, si scopre però che sovente tale già di per sé discutibile principio viene di fatto sacrificato a favore della logica di cercare di estendere quanto più possibile la possibilità di rifiuto dei trattamenti sanitari, anche laddove non vi sia ragionevole certezza circa l’effettiva volontà manifestata dal soggetto o circa l’attualità della stessa.
I progetti di legge in esame prevedono la possibilità di rilasciare dichiarazioni anticipate di trattamento, mediante le quali gli interessati potrebbero esprimere la volontà di non sottoporsi a trattamenti sanitari al sopraggiungere di eventi che comportino la perdita della capacità naturale.
Nessuno dei progetti in questione prevede un termine temporale massimo di validità di tali dichiarazioni e tutti precisano che le stesse sarebbero vincolanti per medici ed operatori sanitari.
Il solo progetto di legge Veronesi contempla la possibilità dell’obiezione di coscienza, prevedendo che “qualora il medico non condivida il principio del diritto al rifiuto delle cure, si astiene dal curare il malato, lasciando il compito assistenziale ad altri”.
In omaggio al principio dell’autodeterminazione ad ogni costo il progetto Veronesi specifica poi che le dichiarazioni anticipate possono essere redatte da “ogni persona” e dunque, stando al tenore letterale della previsione, anche da minori di qualunque età e da soggetti in stato di incapacità.
Viceversa il progetto Poretti prevede che le dichiarazioni anticipate di trattamento possano essere presentate a partire dai 14 anni, un’età in cui una persona non può nemmeno richiedere la carta d’identità, è ben lontana dal poter decidere autonomamente dove vivere o, molto più banalmente, di restare a casa da scuola per un giorno o dal poter esercitare il diritto di voto alle elezioni politiche, ma avrebbe ex lege la maturità per decidere in merito all’accettazione o al rifiuto di trattamenti da dipendono la vita o la morte.
I progetti in esame precisano altresì che il rifiuto potrebbe riguardare l’alimentazione e l’idratazione artificiale (Veronesi e Poretti) e per mano di terzi (Poretti). Con riferimento a quest’ultima previsione resta da comprendere, a tacer d’altro, come possa essere definita “trattamento sanitario” che potrebbe essere rifiutato, l’azione di chi, senza possedere alcuna competenza medica, imbocchi un parente o un amico che non è in grado di alimentarsi da solo.
Stando alle previsioni del progetto Poretti potrebbe inoltre accadere di aver espresso una dichiarazione anticipata di trattamento senza saperlo.
Secondo tale proposta, la dichiarazione di accettazione o di rifiuto di un trattamento sanitario effettuata nel momento in cui tale trattamento dovrebbe essere prestato “resta valida e vincolante per i medici curanti anche per il tempo successivo alla perdita della capacità naturale ovvero alla perdita della facoltà naturale”.
Il che significa che un soggetto che rifiutasse un determinato trattamento nel momento in cui se ne presenta la necessità o l’opportunità, in assenza di una successiva espressa dichiarazione di segno contrario, rimarrebbe vincolato a quella decisione anche se nel frattempo avesse mutato determinazione o anche qualora il rifiuto fosse stato legato a valutazioni contingenti e non avesse avuto, nell’intenzione dell’interessato, indicazione di portata generale.
Il rischio di allontanarsi dalla volontà che l’interessato esprimerebbe nel caso concreto è ancora più evidente con riferimento ad altre previsioni contenute nei progetti in esame.
Così il progetto Veronesi precisa che sarebbe consentito delegare una persona di fiducia “a decidere in merito al trattamento sanitario”.
Anche secondo il progetto Poretti il fiduciario dovrebbe esprimersi circa l’accettazione od il rifiuto delle cure anche in assenza di dichiarazioni anticipate di trattamento; previsioni analoghe sono contenute anche nel progetto Carloni, il quale peraltro prevede che, su richiesta dell’istituto di ricovero o di cura ovvero “di chiunque sia venuto a conoscenza dello stato di incapacità”, il giudice tutelare dovrebbe comunque provvedere alla nomina del fiduciario.
Ove queste previsioni diventassero legge, i fiduciari si potrebbero dunque trovare a decidere della vita e della morte di una persona senza che l’interessato abbia fornito indicazioni circa i trattamenti che vuole accettare e a quelli che intende rifiutare; si aprirebbe inoltre di fatto la possibilità che, ove tali indicazioni non siano state formalizzate, i fiduciari decidano in difformità dalle stesse.
Inoltre un soggetto che avesse liberamente deciso di non indicare alcun fiduciario, rischierebbe di vedersene assegnato uno “d’ufficio” nel caso di sopravvenuta incapacità.
Con buona pace del principio di autodeterminazione dell’individuo solennemente proclamato nei progetti di legge in esame.
(Continua - 2)
ALESSIO II/ Addio al Patriarca di Mosca, salutò la fine del comunismo e l'inizio di un vero ecumenismo - INT. Romano Scalfi - sabato 6 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Il prossimo febbraio avrebbe compiuto 80 anni Alessio II, Aleksej nella sua lingua. Ma non c'è l'ha fatta a tagliare un traguardo che sarebbe stato l'ennesimo della sua vita. Il grande Patriarca di Mosca e della Chiesa Ortodossa Russa si è spento ieri dopo una lunga malattia che lo aveva segnato nel corpo ma non nello spirito. Fino agli ultimi giorni di vita infatti si è speso per ciò che più a cuore gli stava: l'unità dei cristiani. Salito alla nomina nel 1990, quasi a voler simboleggiare una svolta per il suo Paese, ma soprattutto per la sua Chiesa perseguitata per ben settant'anni di comunismo, Alessio II ha percorso un cammino di costruttivo dialogo con Chiesa Romana. Nutriva una sincera stima per Benedetto XVI, tanto da profetizzarne il pontificato come destinato ad essere uno dei più celebri e duraturi nella memoria dei cristiani. Padre Romano Scalfi, fondatore del Centro Studi “Russia Cristiana” ne commenta il patriarcato.
Padre Romano, che cosa ha significato il patriarcato di Alessio II nella storia della Chiesa ortodossa e universale? Qual è la misura di questa perdita?
Certamente quando il capo di una Chiesa viene a morire si tratta sempre di una grave perdita per un gran numero di persone. Alessio II è stato in primo luogo un cristiano, un uomo che ha dovuto parecchio soffrire. Ha sofferto l'influenza del terribile regime sovietico e, dopo il crollo del comunismo, ha dovuto reggere la propria Chiesa in una realtà condizionata da una più sottile forma di totalitarismo, quella dei nostri giorni. Si aggiunga poi la forte connotazione che il nazionalismo, come ideologia, ha avuto negli ultimi decenni in Russia. Basti pensare che molti individui si sono convertiti al cristianesimo ortodosso non tanto per un'autentica esperienza di fede, ma per un senso della tradizione legato alla nazione.
Di fronte a tutto questo Alessio II è stato in grado di reggere le sorti della propria comunità cristiana con grandissima abilità e di mantenerne integra la sua origine più pura. Posso garantire che non si è per nulla trattato di un compito facile, ma che egli è riuscito a svolgere fino all'ultimo giorno della propria vita.
Che rapporto ebbe il Patriarca con la Chiesa Cattolica?
Anche nei nostri confronti, sebbene attraverso le problematiche cui ho accennato poc'anzi, Alessio II è stato responsabile di un periodo di particolare attenzione e benevolenza. Si pensi, ad esempio, all'accoglienza riservata all'elezione del vescovo cattolico di Mosca, Sua Eccellenza Mons. Paolo Pezzi. Ma anche il nostro lavoro culturale di “Russia Cristiana” è stato reso possibile in Russia grazie alla sua buona disposizione nei nostri riguardi.
Per fare un esempio dico solo che presso la nostra biblioteca a Mosca, la “Biblioteca dello Spirito”, è stato recentemente presentato il libro di Benedetto XVI, Gesù di Nazareth tradotto in lingua russa: alla presentazione è intervenuto in qualità di relatore niente meno che il rappresentante del Patriarca, Padre Igor. Spesso alle nostre riunioni sono poi presenti molti ecclesiastici ortodossi, che risentono del clima di nuovo riavvicinamento favorito da Alessio II
Qual era l'opinione di Alessio II nei confronti di Benedetto XVI?
La stima che Alessio II ha avuto e che i maggiorenti attuali ortodossi hanno per il Pontefice è indubbia. In primo luogo Alessio II apprezzò e riconobbe sempre l'autentico desiderio di Benedetto XVI dell'unità fra i cristiani. Ma valutò anche molto positivamente il fatto che il Papa sia così legato alla tradizione, fatto che per gli ortodossi è particolarmente rilevante. Un altro fattore di stima nei confronti di Ratzinger è la sua teologia profondamente radicata all'insegnamento dei Padri della Chiesa.
Insomma, tutto questo ha fatto sì che ci fossero condizioni oggettive e provvidenziali per cui i rapporti fra cattolici e ortodossi siano cresciuti notevolmente. Stiamo camminando insieme verso l'unità. Speriamo che si possa camminare anche dopo la sua dipartita.
A proposito di questo cammino. Crede che la morte del Patriarca possa compromettere la strada di riavvicinamento intrapresa fra le due confessioni?
No, io non credo. Su questo sono positivo. Si continuerà su una strada positiva anche perché gli intellettuali ortodossi, le persone che si sono avvicinate a noi, promettono bene in tal senso.
Questo è un momento storico in cui per i cristiani ci sono da combattere relativismo e secolarismi. Stare uniti in una battaglia comune è un bene sia per gli uni sia per gli altri. Non credo dunque che le cose cambieranno in peggio. Sia ben chiaro poi che noi lavoriamo sì sui rapporti ai vertici fra le Chiese, ma allo stesso tempo il nostro tentativo è il recupero delle persone, del popolo, al cristianesimo.
Quali sono gli aspetti più rivoluzionari, se così si possono definire, del patriarcato di Alessio II?
Per tanti anni è venuta a mancare in Russia la possibilità di fare missione. Alessio II ha puntato moltissimo quindi sulla liturgia, altro aspetto che lo rende simile a Benedetto XVI. La correttezza delle funzioni liturgiche è il primo fondamento della missione.
In secondo luogo ha lavorato moltissimo per il ritorno della fede vissuta nella quotidianità. Durante il comunismo infatti l'unico luogo in cui si potesse parlare di Cristo era fra le mura di una chiesa. Fuori non era assolutamente possibile, nel senso proprio che si rischiava di finire in carcere. Ciò ha creato una mentalità in Russia che resiste tutt'oggi. Anche quando venne proposta l'ora di religione a scuola la reazione non fu di carattere ostile quanto stupito. «Che cosa c'entra Gesù con la scuola?» era la domanda che ci si poneva di fronte a questa proposta. Un atteggiamento simile a quello dell'Europa occidentale sebbene proveniente da tutt'altra storia ideologica.
Quale fu il giudizio del Patriarca sul comunismo, una volta che poté finalmente esprimersi in merito con libertà?
Fu la giusta percezione che il comunismo era un'ideologia che distruggendo la Chiesa avrebbe inevitabilmente distrutto l'uomo, la capacità degli uomini di avere fede in qualsiasi senso ciò venga inteso. Ma la Chiesa, quella “vera” tenne duro.
Recentemente c'è stato l'episodio di un gruppo di nazionalisti i quali han deciso di convertirsi al cristianesimo ortodosso e hanno chiesto al Patriarca di inserire Stalin nel numero dei santi da venerare. A questo si aggiunge un prete che ha introdotto l'icona di Stalin nella propria chiesa. Ebbene, di fronte a simili atteggiamenti, la reazione di Alessio II non s'è fatta attendere. La condanna a un tale modo di concepire il cristianesimo è stata espressa inequivocabilmente. Non c'era e non ci sarà speranza di compromessi con il comunismo dopo il patriarcato di Alessio II.
Nei confronti delle altre chiese ortodosse come si comportò?
Uno dei suoi meriti è senz'altro quello di essere riuscito a unire la Chiesa ortodossa russa all'estero a quella nazionale. Prima di lui le due confessioni non si riconoscevano. Coi greci rimane invece un'incomprensione reciproca, ma quella con Costantinopoli è una vicenda molto più complicata e intrinsecamente legata alla storia secolare dell'ortodossia.