Nella rassegna stampa di oggi:
1) 15/12/2008 14.46.14 – Radio Vaticana - Il Papa riceve don Julián Carrón. Intervista con il presidente di CL
2) IL CASO/ Mia figlia è come Eluana, ma ha imparato a mangiare e dice di non voler morire - Redazione - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
3) DIGNITAS PERSONAE/ Non divieti ma un appello a seguire la verità e la bellezza della vita - INT. Roberto Colombo - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
4) UE/ Doppietta italiana - Mario Mauro - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
5) SCUOLA/ Oliva: la parità è un bene per tutti, altro che un favore alla Cei - INT. Attilio Oliva - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
6) RICORDO/ Heinrich Schlier, l'uomo che difese la figura di San Paolo dalla mentalità dominante - Pigi Colognesi - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) CINEMA/ Come dio comanda: il rapporto padre-figlio estremo e scioccante affascina e delude - Antonio Autieri - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) 15/12/2008 – INDIA - Orissa: il Natale di Namrata, la piccola Dalit sfigurata da una bomba - di Nirmala Carvalho - È il volto più noto fra le vittime degli attacchi contro i cristiani. Dopo 45 giorni di ospedale, ora è guarita. La sua famiglia di braccianti giornalieri, ha perduto ogni cosa. I timori e le speranze nell’imminenza del Natale.
9) 15/12/2008 12:55 – VIETNAM - Ora tocca a Vinh Long: si abbatte un monastero per fare un parco - di J.B. An Dang - Come già accaduto per la ex delegazione apostolica ed il terreno della parrocchia di Thai Ha, le autorità locali prima tentano di cedere a privati beni dei quali si sono impadronite, poi, davanti alle proteste, ne fanno un parco.
10) Il tempo dell'attesa - I tre Avventi - In occasione del quarantesimo anniversario della morte del monaco statunitense pubblichiamo una sua breve riflessione sul periodo della preparazione al Natale estratto da un suo testo pubblicato in Italia da Rusconi nel 1977 con il titolo Stagioni liturgiche. - di Thomas Merton – L’Osservatore Romano, 15-16 dicembre 2008
11) Ru486: via libera alla "favola dell’aborto facile" - Autore: Morresi, Assuntina - Fonte: ilsussidiario.net - lunedì 15 dicembre 2008 - In ospedale ti daranno una pillola
12) SCUOLA/ La vittoria di Pirro - Giovanni Cominelli - martedì 16 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
13) BIOETICA/ Sgreccia: su aborto ed eutanasia l’Italia rischia un pericoloso scivolamento - INT. Elio Sgreccia - martedì 16 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
14) SAPPIAMO DI QUEL CHE SI TRATTA? - SARÀ UN ABORTO LUNGO BEN TRE GIORNI - MARINA CORRADI – Avvenire, 16 dicembre 2008
15) Firenze: fede e ragione, alleate nella sfida educativa - DA FIRENZE RICCARDO BIGI – Avvenire, 16 dicembre 2008
16) INTERVISTA. I tre grandi scrittori e polemisti francesi come «profeti» dei mostri della società contemporanea. Parla il saggista Julliard - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ - Bernanos, Péguy, Claudel: i postmoderni – Avvenire, 16 dicembre 2008
15/12/2008 14.46.14 – Radio Vaticana - Il Papa riceve don Julián Carrón. Intervista con il presidente di CL
Benedetto XVI ha ricevuto stamani, in Vaticano, don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Al termine dell’udienza, il successore di don Giussani si è soffermato con Alessandro Gisotti sul significato di questo incontro con il Santo Padre:http://62.77.60.84/audio/ra/00142296.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00142296.RM
R. – Un anno dopo l’incontro di Piazza San Pietro di tutto il movimento di Comunione e Liberazione con il Papa, abbiamo chiesto di poterlo rivedere per raccontargli quello che è successo e condividere con lui i frutti di quell’incontro.
D. – Sappiamo quanto Joseph Ratzinger prima e Benedetto XVI poi sia legato a CL e alla figura di don Giussani. Basti pensare alla rivista “Communio”... Questo, chiaramente è importante per voi…
R. – Assolutamente! Per la nostra storia è stato molto significativo per il rapporto che don Giussani ha sempre mantenuto con l’allora cardinale Ratzinger. Noi, soprattutto adesso, sentiamo il suo Magistero decisivo per la nostra vita di movimento, per la nostra storia. Siamo sempre molto attenti a quello che il Papa ci dice, per orientarci nella nostra strada.
D. – Sappiamo quanto Comunione e Liberazione sia impegnata nell’evangelizzazione nel mondo della cultura…
R. – Noi siamo attenti a tutto quanto il Papa dice riguardo alla presenza culturale della fede. Per esempio, noi abbiamo apprezzato tantissimo, oltre il grande discorso di Regensburg, il recente discorso fatto a Parigi, agli uomini di cultura, che noi abbiamo distribuito a tutto il movimento. Ci siamo impegnati a presentarlo ovunque. Diffondere questa perfezione della cultura che nasce dall’appartenenza all’esperienza cristiana, che è in grado di generare un’umanità con una razionalità tutta aperta, come il Papa ci testimonia in continuazione.
D. – Il tema dell’ultimo meeting di Rimini era “Protagonisti o nessuno”. Ecco, questo tema è particolarmente significativo in un periodo come l’Avvento, in cui aspettiamo Qualcuno, quel Qualcuno che cambia la vita di ogni uomo…
R. – Assolutamente! Per noi questo è decisivo perché è l’incontro con l’unico protagonista della storia a rendere gli uomini protagonisti, altrimenti siamo sazi, travolti dal torrente delle circostanze, dell’ideologia, dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, e soltanto l’incontro con Lui che - per usare una parola grata a don Giussani - “calamita” tutto l’essere, tutta l’affezione, tutta la ragione, che può veramente far sì che un uomo sia un protagonista della vita, e perciò dia un contributo reale al rinnovamento della società, un contributo per una umanità diversa.
IL CASO/ Mia figlia è come Eluana, ma ha imparato a mangiare e dice di non voler morire - Redazione - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
«E’ sbagliato parlare ancora di stato vegetativo: lo stato vegetativo non esiste, e quando si usa questa espressione, anche se sono scienziati a farlo, si crea solo confusione. Induciamo la gente a pensare che si tratti di persone non più vive. Invece mia figlia è viva, è come me». Cesare Lia, avvocato pugliese, è nella stessa condizione di Peppino Englaro: una figlia, Emanuela, che in seguito a un incidente stradale si trova da quasi sedici anni nella medesime condizioni di disabilità di Eluana. Ma la battaglia, sua e di tutta la sua famiglia, per affermare la vita di Emanuela lo ha portato ad ottenere risultati che definire sorprendenti è poco.
Avvocato, in che condizioni è sua figlia?
Mia figlia Emanuela innanzitutto è una persona viva, che riesce a comunicare con il mondo esterno. Certo, lo fa in modo diverso da quello che utilizziamo noi che non siamo disabili, in un modo che è difficile da intendere: cenni, piccoli gesti, movimenti degli occhi. Ma le persone che le sono vicine, che la seguono ogni giorno capiscono benissimo cosa lei dice, cosa vuole comunicare.
Ci racconti la sua storia: che cosa è accaduto a Emanuela?
Tutta questa dolorosa vicenda ha avuto inizio la notte del 31 dicembre del 1992, quasi contemporaneamente all’inizio della vicenda di Eluana Englaro. Emanuela quella notte ha avuto un gravissimo incidente stradale, che le ha provocato gravi lesioni. È stata in rianimazione a Lecce, per quattro mesi. Dopo di che abbiamo deciso di portarla ad Innsbruk. Lì, dopo averla curata, i medici ci hanno dato un responso gravissimo che non lasciava alcuna speranza: Emanuela sarebbe morta dopo pochi mesi.
Perché?
Anch’io rimasi molto colpito da queste conclusioni, dal momento che il corpo di Emanuela, a parte i danni cerebrali, non aveva altre gravi lesioni. Quando chiesi il perché ai medici, mi dissero che probabilmente sarebbe morta a causa delle infezioni, che potevano essere provocate soprattutto dal sondino, la PEG, con cui Emanuela veniva nutrita.
Allora voi cosa avete deciso di fare?
L’abbiamo portata a casa, e abbiamo deciso che da quel momento in poi ce ne saremmo occupati direttamente noi. La prima cosa che necessariamente bisognava ottenere era fare in modo che Emanuela non venisse più alimentata dal sondino, proprio per togliere il pericolo di infezione. Provammo ad abituarla a mangiare in modo naturale, ovviamente imboccata. All’inizio sembrava un’impresa disperata: bastava un piccolo cucchiaio d’acqua per rischiare che lei si soffocasse. Eppure, a poco a poco, con una pazienza che non saprei descrivere, siamo riusciti a rieducarla. Ora non ha più il sondino, viene imboccata, e riusciamo a darle piccole dosi di cibo, ma molto energetiche.
Oltre al problema del cibo, come vive Emanuela il resto della giornata?
Innanzitutto, come dicevo, Emanuela da allora è sempre stata a casa e non in ospedale. Per fare questo abbiamo in un certo senso “ripensato” tutta la casa, per farla diventare come un piccolo ospedale che ci permettesse di accudirla nel modo migliore. Abbiamo anche costruito una piscina per un certo tipo di terapia. Tutto questo per un motivo molto semplice: Emanuela deve poter vivere la sua quotidianità insieme a noi. È una cosa di un’importanza fondamentale, per noi e per lei: Emanuela vive con noi, è in contatto continuo con le persone che le sono vicine, partecipa della nostra vita quotidiana. E questo ha un effetto straordinario: lei dà dei segni chiari di questa sua particolare partecipazione. Quando guardiamo la televisione, magari qualche film leggero, è evidente che lei è lì con noi e gode di questa condizione.
Quindi nonostante lei non parli voi riuscite a comunicare con lei. Questo vi permette anche di conoscere la sua volontà? Si tratta di un passaggio fondamentale nella sentenza sul caso di Eluana…
Noi riusciamo chiaramente a capire qual è la volontà di Emanuela. Le dico una cosa di più: Emanuela, prima dell’incidente, era una ragazza molto simile a Eluana. Noi spesso la rimproveravamo per il fatto che tornava a casa tardi, che viveva da “scapicollata”. Lei reagiva dicendo che sarebbe vissuta solo vent’anni. Inoltre, c’erano stati ben due casi di ragazzi della sua scuola che avevano subito lesioni gravi in conseguenza di incidenti: ebbene, lei disse più volte che non avrebbe voluto vivere in quelle condizioni. Ora noi le chiediamo se preferirebbe morire: lei con tutta evidenza, con quel linguaggio che noi abbiamo imparato con certezza assoluta, ci dice sempre di no. La sua volontà, da allora, è cambiata.
Come è possibile che in queste condizioni sua figlia sia riuscita a fare dei progressi così incredibili, che l’hanno portata a imparare a mangiare e riuscire a comunicare?
La condizione indispensabile perché questo avvenga, ripeto, è il fatto che lei sia in casa e non in ospedale. Il contatto continuo con i famigliari e ciò che permette che questo accada. Certo, non è per nulla una cosa facile, e bisognerebbe che lo Stato aiutasse molto di più le famiglie in queste condizioni. Noi abbiamo una situazione economica che ci ha permesso di fare tutto questo, ma altri non possono, ed è inaccettabile. Poi, oltre al problema finanziario, ci sono altri elementi che rendono necessario un aiuto: i familiari si trovano spesso in gravi difficoltà psicologiche, perché sono situazioni che creano forti depressioni. Il contatto continuo con una persona gravemente disabile è impossibile, genera frustrazioni, e per questo è necessario fare continuamente dei turni. Il servizio sanitario dovrebbe mettere a disposizione personale per questo tipo di necessità.
Cosa fare per sensibilizzare di più l’opinione pubblica intorno a questo problema?
Bisognerebbe far vedere più spesso alla televisione chi lotta per la vita. Invece si vedono solo e unicamente coloro che decidono per la morte: abbiamo visto in questi giorni il caso del video del suicidio assistito trasmesso da una tv inglese. Ma lo stesso è stato per il caso di Welby, e per il caso Englaro. La scelta per la morte è molto più “pubblicizzata”. Invece bisognerebbe porre l’attenzione di tutti sulla vita, e su chi lotta per affermarla. Noi abbiamo anche deciso di diffondere un video che faccia vedere Emanuela, perché ci sembra che possa aiutare a capire il valore di quello che facciamo per lei.
DIGNITAS PERSONAE/ Non divieti ma un appello a seguire la verità e la bellezza della vita - INT. Roberto Colombo - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Presentando il testo alla stampa, mons. Rino Fisichella ha spiegato che i tempi sono «favorevoli» per uno sforzo comune di «credenti e non credenti» sui temi della vita, visto che viviamo «un momento di passaggio culturale caratterizzato dalla mutazione dei concetti fondamentali che abbiamo usato fino ad oggi», e questo a causa della «sperimentazione selvaggia». Abbiamo chiesto a don Roberto Colombo, direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare e Genetica Umana dell'Università Cattolica Milano, di approfondire le ragioni che hanno portato alla stesura del documento.
Perché, dopo più di vent’anni, la Congregazione per la dottrina della fede ha sentito la necessità di aggiornare il documento Donum vitae?
L’istruzione su “Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione” (Donum vitae) era apparsa nel febbraio del 1987, dopo una decina di anni dall’inizio dell’applicazione clinica umana delle prime tecniche di fecondazione in vitro (la prima nata da queste procedure fu Louise Brown, nel 1978). Inoltre, in quegli anni, si stavano anche sviluppando forme di sperimentazione in laboratorio sull’embrione umano e la diagnosi prenatale finalizzata all’aborto selettivo trovava più estese applicazioni grazie ai nuovi modelli di strumenti per ecografia ostetrica ed alla diffusione dei prelievi di cellule fetali presenti nel liquido amniotico (amniocentesi). Nei due decenni successivi alla pubblicazione di Donum vitae ulteriori e diversi attentati alla vita ed alla integrità dell’embrione umano (quali la diagnosi genetica sull’embrione prima dell’impianto in utero, i tentativi di clonazione umana e di ibridazione animale-uomo, la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane) ed alla dignità della procreazione (come la iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo ed altre nuove tecniche di fertilizzazione extracorporea) hanno suggerito alla Chiesa cattolica di precisare e completare il giudizio - alla luce della ragione e della fede - su quanto sta avvenendo nel mondo della ricerca biomedica e della pratica clinica. Come afferma lo stesso testo di Dignitas personae, non si tratta di enunciare nuovi principi, ma di affrontare «alcune problematiche recenti alla luce dei criteri enunciati dall’Istruzione Donum vitae» e riprendere «in esame alcuni temi già trattati, ma ritenuti bisognosi di ulteriori chiarimenti» (Introd., n. 1).
I media hanno subito rilevato che nel testo si trova l’affermazione: «l’embrione ha fin dall’inizio la dignità propria della persona». Perché è stata scelta quest’affermazione? La Chiesa non ha sempre sostenuto che l’embrione è persona?
Richiamando quanto affermato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae, Dignitas personae ricorda che il Magistero della Chiesa non si è mai impegnato «espressamente su un’affermazione d’indole filosofica» e che «Donum vitae non ha definito che l’embrione è persona» (Parte I, n. 5). La categoria di “persona” e la sua capacità antropologica di abbracciare il concepito sin dall’inizio della sua esistenza è oggetto di un intenso dibattito filosofico nel quale la Chiesa non intende entrare in modo definitorio, la sua missione essendo quella di educare all’amore alla vita umana in tutte le stagioni della sua esistenza e di richiamare al rispetto dovuto all’embrione e al feto in quanto esseri umani all’inizio del loro sviluppo. Così scriveva, nel 1995, Giovanni Paolo II: «Come un individuo umano non sarebbe una persona umana? Del resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell’obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l’embrione umano» (Evangelium vitae, n. 60). Anche laddove non sono stare raggiunte certezze filosofiche unanimi sulla persona dell’embrione, è perfettamente ragionevole ammettere che «l’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento» (Donum vitae, Parte I, n. 1). È una certezza morale quella che qui viene affermata. E, nella vita pratica, le certezze morali contano più di quelle filosofiche.
Come va letto il documento? Che cosa accomuna i “no” che vi sono contenuti?
Come in altre circostanze della vita individuale e sociale, i “no” possono essere pronunciati solo perché prima si è detto un “sì”. Non sarebbe ragionevole chiedere il sacrificio di una rinuncia se esso non fosse per un bene grande, fondamentale, personale e di tutti. Un bene così grande da rendere accettabile e corrispondente alle esigenze della ragione un passo indietro rispetto a quello che l’intelligenza ha progettato e che la volontà si appresterebbe a compiere. Così è anche per la ricerca scientifica in campo biomedico e per il desiderio dei coniugi affetti da sterilità di poter abbracciare un figlio. Il grande “sì” che il testo ci suggerisce è quello alla vita. Alla vita di ogni uomo e di tutti gli uomini, dal più piccolo e indifeso, quale è l’embrione umano nei primi stadi del suo sviluppo, sino all’adulto malato che non è più autosufficiente, che giace immobile in un letto e con il quale non siamo più in grado di comunicare. Dignitas personae stima e valorizza gli sforzi dei ricercatori e dei medici e la domanda di un figlio da parte di una coppia di sposi, ma li invita anche ad essere «il custode del valore e dell’intrinseca bellezza» di tutto l’uomo e di ciascun uomo (Concl., n. 36). Un invito a contemplare la verità e la bellezza della vita come sorgente normativa delle scelte della famiglia, della scienza e della medicina.
Se il matrimonio è aperto alla procreazione, perché il desiderio di avere figli non può essere comunque e sempre soddisfatto? Dare la vita non è una cosa comunque e sempre buona?
Il desiderio è umano, degno della statura antropologica e morale dell’uomo, solo se è desiderio di un bene e se il conseguimento di tale bene è perseguito attraverso atti buoni. Come dicevano i medioevali, non si può volere se non “sub specie boni”. Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, «l’atto moralmente buono suppone, ad un tempo, la bontà dell’oggetto, del fine e delle circostanze». Così, «un’intenzione buona (per esempio, aiutare il prossimo), non rende né buono né giusto un comportamento in sé stesso scorretto (come la menzogna e la maldicenza). Il fine non giustifica i mezzi» (nn. 1753 e 1755). La moralità consiste nel riconoscere ed attuare il nesso tra un’azione ed il significato del tutto implicato in quell’atto. Come potrebbero dei coniugi cercare di concepire un figlio dimenticando il valore fondamentale della vita di ogni concepito, trascurandone la dignità ed il valore e mettendo a rischio la vita di altri embrioni per far nascere un bambino, pur desiderato e a lungo atteso? Non si può amare la vita di un uomo o di una donna, di un bambino, senza, al contempo, portare rispetto e venerazione per ogni vita che Dio dona, anche al più piccolo essere umano vivente che viene al mondo. L’oggetto di un desiderio (in questo caso, dovremmo parlare di un “soggetto”, dato che è un uomo) impone il metodo della sua ricerca, del suo conseguimento, che non può avvenire in qualunque modo, ad ogni costo.
Secondo alcuni commentatori, il documento Dignitas personae, a differenza di Donum vitae, direbbe sì alla procreazione medicalmente assistita. E’ vero?
Si tratta di una lettura superficiale e distratta dei due testi della Congregazione per la Dottrina della Fede. Le “tecniche di aiuto alla fertilità” (o “cura dell’infertilità”, come le chiama anche Dignitas personae al n. 12 della Parte II) sono di diversa natura clinica. La medicina e la chirurgia non offrono solo la possibilità della fecondazione in vitro con trasferimento in utero degli embrioni (FIVET, ICSI ed altre procedure di manipolazione dei gameti e fecondazione extracorporea). Come già Donum vitae aveva fatto, il nuovo documento distingue accuratamente tra «interventi che mirano a rimuovere ostacoli che si oppongono alla fertilità naturale» (Parte II, n. 13: terapie farmacologiche, interventi di microchirurgia, ecc.), al fine di consentire una fecondazione nella sue sede fisiologica attraverso l’incontro dei gameti, dalle tecniche di fecondazione al di fuori del corpo femminile, quelle di cui si occupa estesamente - tra l’altro - le legge italiana n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Queste ultime, per il credente, restano moralmente inaccettabili, perché - come già aveva messo in luce Donum vitae - comportano «la dissociazione della procreazione dal contesto integralmente personale dell’atto coniugale» (Parte II, n. 16). Generare un figlio è e deve restare un atto personale dell’uomo e della donna chiamati da Dio ad essere padre e madre attraverso il reciproco amore consacrato, un atto non “vicariabile” da parte della biologia e della medicina. Queste ultime posso aiutare il compimento della finalità procreativa dell’atto coniugale rendendo possibile la fertilizzazione intracorporea qualora ostacoli di natura patologica la impediscano, ma con discrezione, non sostituendosi al compito irripetibile che Dio ha affidato ai coniugi.
UE/ Doppietta italiana - Mario Mauro - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
I Capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri dell'Unione europea si sono riuniti a Bruxelles l'11 e 12 dicembre scorsi. Si è trattato di un Consiglio europeo caldissimo sin dai giorni che lo hanno preceduto: sono stati affrontati temi estremamente delicati i cui risultati sono ancora molto difficili da decifrare. In particolare le questioni finanziarie ed economiche, l'energia e i cambiamenti climatici, il trattato di Lisbona e l'Europa della difesa sono stati al centro di un dibattito che alla vigilia si preannunciava come quello più acceso e insidioso: il pacchetto 20-20-20 su clima ed energia, ovvero l'ambizioso programma per ridurre entro il 2020 le emissioni di CO2 del 20% e contemporaneamente aumentare della stessa percentuale l'efficienza energetica e la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili.
Doveva essere il Consiglio della grande rottura tra Unione europea e Italia, il cui veto avrebbe impedito l'approvazione di misure sulle quali i vertici dell'Unione europea, ed in particolare Il presidente del Consiglio di turno Sarkozy e il Presidente della Commissione europea Barroso, avevano concentrato buona parte dei loro sforzi e delle loro aspettative per il futuro. Sarkozy, infatti, ha sempre sottolineato l'intenzione dell'Europa di non fare marcia indietro. Ma allo stesso tempo ha messo anche in evidenza la ragionevolezza della posizione di coloro, e tra questi anche l'Italia, che allertano su quelli che possono essere i rischi per l'occupazione e la sostenibilità del sistema industriale di vari Paesi. Su posizioni simili è sempre stato anche il Presidente della Commissione Barroso secondo il quale gli obiettivi del pacchetto non sono negoziabili, ma è comunque necessario garantire un’equa distribuzione dei costi del pacchetto con una flessibilità a fronte di "preoccupazioni giustificate".
L'intesa sul pacchetto clima - l'argomento centrale di questo summit tra i premier europei - è stata raggiunta con sforzi e trattative che hanno visto protagonista il governo italiano. Il piano sui cambiamenti climatici, modificato con degli emendamenti per alleggerire il suo impatto sull’industria e sugli stati Ue più poveri e un accordo d'incentivi per la ripresa economica da 200 miliardi di euro, è stato avallato, concludendo così nel migliore dei modi la riunione dei leader dei Ventisette. Sono state soddisfatte le richieste italiane alla luce del fatto che si è valutato attentamente tutti gli aspetti legati all'impatto e alla competitività.
L'accordo riflette un ammorbidimento delle posizioni iniziali ed è stato lo stesso presidente Berlusconi - il quale ha ricevuto i ringraziamenti di Sarkozy per aver agevolato il rapido raggiungimento dell'intesa - a spiegare che le misure saranno adottate dopo il 2013 e che dopo il 2010 ci sarà una rivisitazione di queste misure sulla base dei risultati della conferenza di Copenhagen. In questo modo l’Europa - e con lei l'Italia - si è posta all’avanguardia sull’ambiente, ma senza pagare per tutti. Un risultato pieno e soddisfacente dato che il parere italiano è stato ascoltato in ben 15 casi, in particolare sulla difesa delle industrie manifatturiere. Sono perciò saldi gli obiettivi di riduzione dei gas serra tenendo in considerazione le esigenze dei diversi paesi. Si punta alla sostenibilità delle misure delle diverse economie nazionali nel segno della concretezza, come l’Italia pretendeva negli interessi dell'economia globale.
Dal summit è arrivata inoltre la conferma di un accordo di principio fra i capi di governo sulle concessioni all'Irlanda che consentirà a Dublino di tenere un secondo referendum entro il novembre dell'anno prossimo sul trattato di Lisbona. In base all'intesa, all'Irlanda verrà concessa la garanzia che tutti gli stati dell'Ue avranno il diritto di avere un posto nella Commissione, cancellando l'idea di voler rendere più agile la massima espressione dell'esecutivo Ue, come era stato stabilito nel trattato. Infine, due punti che forse hanno avuto meno attenzione da parte dei media, ma che hanno certamente un'importanza centrale all'interno delle politiche europee: le questioni economiche e il tema della sicurezza e della difesa.
Sul primo punto l'Europa si è espressa a favore di un rafforzamento della stabilità, della supervisione e della trasparenza nell'ambito del settore economico-finanziario, sul secondo si è espressa ancora una volta verso nuovi obiettivi per garantire ai cittadini europei la sicurezza internazionale. Alla luce degli arresti avvenuti qualche giorno fa a Bruxelles che hanno modificato i piani di 16 terroristi pronti a colpire il cuore delle istituzioni europee, si intuisce quanto l'Europa sia chiamata a non far calare l'attenzione su questi temi.
SCUOLA/ Oliva: la parità è un bene per tutti, altro che un favore alla Cei - INT. Attilio Oliva - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Cei chiama, governo risponde (forse). In questi termini, secondo Attilio Oliva, è stata ancora una volta vissuta, da politici e media, la questione dei finanziamenti pubblici alla scuola paritaria. Cosa sia e quali benefici possa portare all’intero sistema scolastico una vera parità sembra un problema che non interessi a nessuno. Eppure, studi, ricerche e raffronti internazionali (attività in cui eccelle l’Associazione TreeLLLe di cui Oliva è presidente) sono lì a dimostrare chiaramente quanto un sano confronto tra scuole statali e non statali, e tra modelli organizzativi e didattici diversi, faccia bene al sistema di istruzione.
Non le sembra che il nostro Paese sia ancora fermo ai tempi della breccia di Porta Pia?
Questa è purtroppo la situazione in Italia: la questione della parità scolastica si configura ancora all’interno dei rapporti tra Stato e Chiesa. C’è ancora una coda ideologica che ci pone sulla scia della scuola da sottrarre ai gesuiti e al clero da parte di uno Stato laico e democratico che avanza. Il fatto di vivere ancora questa contrapposizione ci isola dal resto d’Europa: ci sono paesi di grande civiltà liberale e altri di grande tradizione democratica, e socialdemocratica, dove il ruolo della scuola paritaria, religiosa o non religiosa, è largamente riconosciuto e finanziato in tutto o in parte dallo Stato. Questo accade in Olanda, in Belgio, in Francia e in altri paesi, dove la percentuale delle scuole non statali raggiunge il 15 o il 20% del totale. E ripeto: è finanziata dallo Stato, con modalità che variano da paese a paese.
Quali ragioni ci differenziano dal resto d’Europa?
Ciò che ci distingue è quel retaggio ideologico che sfalsa e corrompe un sano e costruttivo dialogo intorno a questo tema. Forse questo accade per la nostra storia, perché siamo il paese dove risiede il Papa, e dove il clero ha avuto un ruolo particolarmente forte anche all’interno dei poteri secolari. Ci sono dunque ragioni storiche che ci possono portare a comprendere perché certe reazioni siano dure a spegnersi. Ragioni che si possono comprendere, ma non certo giustificare. Detto in parole povere, siamo fuori tempo massimo: all’inizio del 2000 non possiamo permetterci di mantenere viva questa contrapposizione. E soprattutto non dovrebbero permetterselo i media, che troppo spesso alimentano lo scontro.
Eppure la parità esiste, ed è anche riconosciuta dalla legge
Certo, la legge sulla parità esiste, ed è stato un salto formidabile realizzato dal ministro Berlinguer sin dal 2000. Dobbiamo ammettere che la sinistra riformista è riuscita a fare quello in cui nemmeno i democristiani erano riusciti. Il problema è che ci siamo illusi che questo potesse segnare la fine di una storia non più adeguata ai nostri tempi. Ora dobbiamo purtroppo ammettere che così non è stato, e che ancora ricadiamo in una contrapposizione antica, che ci rende anche un po’ infantili.
Al di là delle contrapposizioni ideologiche, quali altri motivi frenano la strada della parità?
Il freno maggiore è dato dal fatto che non si riesca a far propria l’idea che il quasi monopolio statale di oggi e per di più a gestione fortemente centralizzata è un limite potente all’innovazione. Se abbiamo a cuore che la scuola migliori, e che migliorino i suoi protagonisti, insegnanti e presidi, allora abbiamo tutto l’interesse ad attivarci perché si crei un meccanismo di emulazione tra tutti i soggetti: tra scuola e scuola, tra insegnante e insegnante, tra preside e preside. L'obiettivo strategico è dunque che, attraverso il confronto, la stessa scuola statale possa migliorare. La tensione al miglioramento viene solo dal confronto, e dalla valutazione qualitativa degli apprendimenti, dall’organizzazione delle scuole e dal confronto della loro efficacia ed efficienza (anche il controllo dei costi è tutt’altro che irrilevante). E qui veniamo al grande buco nero della nostra scuola.
Quale?
La valutazione. Da noi è una cosa che non esiste, non si valutano con test nazionali oggettivi gli apprendimenti degli studenti così come avviene da anni in molti paesi europei. Non si valutano i docenti, non si valutano i presidi, non si valutano le scuole. Ciò che invece può portare a un vero progresso sono proprio i confronti, tra scuole di tutti i tipi, statali e non statali, che siano di stimolo l’una all’altra mettendo in gioco tutta la propria capacità di iniziativa e di innovazione, didattica e organizzativa. Luigi Einaudi diceva chiaramente che una scuola figlia del monopolio statale sarebbe stata vittima della staticità e della scarsità di innovazione. Quindi il confronto tra scuole statali e non statali è un bene intrinseco, e se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. In Italia la scuola statale comprende il 95% degli studenti; se noi, riducendo i finanziamenti, schiacciamo anche quel 5%, che sarebbe bene incrementare, non faremmo altro che l’ultimo passo verso il monopolio assoluto dello Stato. E sarebbe un gravissimo errore strategico.
Per quanto riguarda i modelli di finanziamento, non ritiene che i soldi dovrebbero essere affidati direttamente agli utenti, che poi decidono come e dove spenderli?
Per rispondere mi ricollego ancora al problema della valutazione: allo stato attuale mi parrebbe una fuga in avanti, perché dare agli studenti e alle famiglie i soldi per scegliere, dal momento che manca un sistema di valutazione che possa dare ai cittadini le indicazioni utili per scegliere la scuola migliore, sarebbe una cosa sostanzialmente inutile. È come mettere in mano a una persona uno strumento che non è in grado di utilizzare. Per cui questo tipo di finanziamento è comunque da subordinare all’introduzione di un serio sistema di valutazione.
Mentre parliamo di riforme, il governo ha deciso di rinviare di un anno la riorganizzazione della scuola superiore: non le sembra l’ultima di una lunga serie di timidezze della politica sul fronte scolastico?
Il sistema scuola è un sistema che è rimasto sostanzialmente uguale a se stesso da mezzo secolo: se tutto il mondo cambia e la scuola non cambia, qualche problema ci sarà. Ora, per affrontare questi problemi l’unico modo è che le forze politiche, come succede in tutti i paesi più evoluti, lavorino in stretta collaborazione. Ci sono paesi d’Europa in cui le riforme sulla scuola necessitano in Parlamento di una maggioranza qualificata. Da noi invece chiunque vada al governo viene fin da subito assalito dall’opposizione per qualunque modifica anche ragionevole voglia portare avanti. È avvenuto a Berlinguer, ed è avvenuto alla Moratti, ora alla Gelmini.
Come se ne esce?
Per ora non se ne esce: anche questo governo è partito lancia in resta, con proposte buone o meno buone, ma certo con uno spirito di innovazione, ad esempio per ridurre gli sprechi e per utilizzare i soldi meglio. E d è stato aggredito come tutti sappiamo; ma la stessa sorte avevano avuto i governi di sinistra, in particolare quando era ministro Berlinguer. Se ne uscirebbe solo se le forze politiche di maggioranza e opposizione si sedessero intorno a un tavolo e decidessero cosa si deve fare: e tutti sanno benissimo che cosa bisogna fare. Fuori da questa strada continueremo con la politica degli annunci e dei rinvii. È una situazione ormai drammatica: dopo la riforma delle medie negli anni 60 non è più stato fatto nulla per l’istruzione secondaria, sia tecnica che liceale. Una cosa inconcepibile.
(Rossano Salini)
RICORDO/ Heinrich Schlier, l'uomo che difese la figura di San Paolo dalla mentalità dominante - Pigi Colognesi - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Siamo nel pieno dell’anno dedicato a san Paolo. Di tanto in tanto qualche improvvisato teologo ed esegeta spara sui quotidiani la sua personale interpretazione delle lettere dell’apostolo delle genti. Di solito si tratta di rimasticature di vecchie teorie che fanno del convertito sulla via di Damasco l’arcigno «inventore» del cristianesimo o, protestanicamente, il paladino della fede autentica contro le deviazioni cattoliche. È quindi essenziale scoprire il vero volto dell’ebreo di Tarso, persecutore dei cristiani e poi, in forza di una personalissima esperienza di Cristo, annunciatore instancabile del Vangelo, a costo del martirio, subito a Roma.
Forse nessun autore è più adatto a comprendere la figura e il pensiero di san Paolo di Heinrich Schlier. Il suo denso Linee fondamentali di una teologia paolina (Morcelliana 2005) è un capolavoro di sintesi, mentre i due monumentali commenti alle lettere agli Efesini e ai Romani (entrambi di Paideia) introducono alla comprensione analitica di questi due fondamentali testi. Sono stati tradotti anche scritti più divulgativi, come La lettera ai Filippesi (Jaca Book 1993) e altri studi di esegesi neotestamentaria.
Val la pena parlare di Schlier anche perché proprio in questi giorni, precisamente il 26 dicembre, ricorre il trentesimo anniversario della sua morte. Schlier era nato nel 1900 in una cittadina della Baviera, da famiglia luterana. Egli stesso divenne pastore luterano e insegnante di esegesi; materia nella quale tenne per anni la cattedra all’università di Bonn. Proprio lo studio dei primi documenti scritti del cristianesimo lo ha condotto alla conversione al cattolicesimo, ufficializzata nel 1953 a Roma.
Egli stesso ha raccontato - in uno scritto intitolato Breve rendiconto (Nuova Omicron 1999) - le ragioni che lo hanno portato ad aderire alla Chiesa cattolica, proprio lui che era uno dei più apprezzati studiosi di quel san Paolo che Lutero aveva eretto come vessillo contro il cattolicesimo. Schlier inizia il racconto della propria conversione con queste parole: «La strada che conduce alla Chiesa non me la sono aperta da solo, l’ho presa. Era la strada che mi era data; ma era anche la strada che dovevo seguire». Dichiara poi di aver voluto spiegare le ragioni della propria conversione al cattolicesimo non per «soddisfare una pia curiosità», ma per «portare una testimonianza di verità». Egli non sta quindi a narrare tutte le varie vicende personali che lo hanno portato dal luteranesimo al cattolicesimo, ma si concentra sulle ragioni che lo hanno convinto proprio a partire dallo studio del Nuovo testamento e di san Paolo in particolare.
Tra queste ragioni credo che ce ne sia una da riportare, perché particolarmente interessante nel contesto attuale. Ci troviamo, infatti, in un clima di rinascente spiritualismo, nel quale anche il cristianesimo rischia di essere interpretato – seppure in termini esteriormente elogiativi – come una delle tante possibili spiritualità intimistiche. Scrive, invece, Schlier: «Il Verbo si è fatto carne. Questa è stata la chiave che mi ha aperto alla comprensione sempre più chiara di tutto il cristianesimo. Ciò posto, tutto è pronto per comprendere la Chiesa romano-cattolica. È su questo che nella cristianità si sono divisi da sempre e anche oggi si dividono gli animi. Anche la Chiesa evangelica e la sua teologia riconoscono che il Verbo si è fatto carne. Ma non è pienamente riconosciuto ciò che questo comporta e non se ne tirano le conseguenze. Il farsi carne del Logos [il Verbo] significa la sua venuta nell’uomo Gesù e perciò nel mondo degli uomini come mondo suo e a servizio della sua rivelazione. È una venuta nell’uomo Gesù e nel suo mondo fino al punto che il Logos sempiterno, per il quale tutto è stato creato e illuminato, si cela ora nella storia “di carne” di questo mondo e attraverso la storia “di carne” di questo mondo si rivela come Logos: in questo e in nessun altro modo; ma proprio in questo modo la sua doxa, la sua luminosa realtà si lascia incontrare e si dà a conoscere pienamente e interamente. Perciò della carne, della sostanza storica del mondo e soprattutto delle strutture mondane non c’è niente che non possa essere mezzo, strumento, veicolo, abitazione dell’opera efficace del Logos che entra nella nostra storia e nel nostro mondo».
Quanto appena detto dimostra, agli occhi di Schlier, il valore del tanto deprecato “materialismo” della Chiesa cattolica. Aggiunge poi: «La parola è diventata “carne” e non parola». Da questo derivano le conseguenze che differenziano il cattolicesimo dal protestantesimo (e, aggiungiamo oggi, da tanto cattolicesimo protestantizzato): «Poiché il Verbo si è fatto carne e non solo parola, c’è ora non solo predicazione ma anche il sacramento; c’è il dogma e non solo la testimonianza; c’è anche santificazione e quell’andare di gloria in gloria di cui parla l’apostolo Paolo, e non solo l’attuarsi dell’esistenza nella fede; c’è infine la presenza reale di Cristo nella Chiesa, nella sua istituzione, nel suo diritto, nella sua liturgia e non solo il suo fuggevole balenare, a partire dalla Scrittura, nell’anima di un uomo».
In definitiva, «la Chiesa è un mondo. Come corpo di Cristo o come dimensione di Dio essa è concreto tempio, concreta città, concreta casa di Dio». Schlier trae da ciò un’altra importante conseguenza: «La Chiesa sta prima del singolo cristiano. Essa è corpo di Cristo: nei suoi membri, e perciò, da una parte, sempre più della somma dei suoi membri, e dall’altra anche sempre “prima” dei suoi membri. Essa è il corpo della testa, è il corpo del secondo, del’”ultimo” Adamo. E se, come uomini, da Adamo veniamo e in Adamo viviamo e anzitutto, ciascuno a suo modo, portiamo in noi l’impronta di Adamo, così che è lui che gli altri incontrano, come membra battezzate del corpo di Cristo veniamo da Lui, Cristo, e siamo in Lui, per “imitarlo” adesso, vivendo del suo corpo, e per portarne in futuro la sua “immagine”».
CINEMA/ Come dio comanda: il rapporto padre-figlio estremo e scioccante affascina e delude - Antonio Autieri - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Un padre violento ma innamorato visceralmente del proprio figlio 14enne, con cui vive da solo. E un amico matto, l’unico che sta con loro. Ma una notte una tragedia cambia il corso di vite già di per sé piene di disagio.
Girato in un Friuli aspro e desolato (ma in realtà non si danno punti di riferimento espliciti: si intuisce solo che siamo nel nord, meglio nord-est, italiano), Come dio comanda mette al centro il rapporto estremo tra un padre e un figlio, che vivono soli e senza prospettive. Rino è disoccupato, beve, è aggressivo e violento, si circonda di simboli nazisti e odia “negri e slavi che vengono a rubarci il pane di bocca”; soprattutto, impone al figlio Cristiano, di 14 anni, un codice fatto di odio, onore e vendetta, di culto del loro rapporto e di volontà di replicare a soprusi veri o presunti. Però Rino ama davvero il figlio, anche se è un amore malato, chiuso, possessivo. Il ragazzo è timido, emarginato a scuola, ma nel rapporto con il padre – che pure a tratti soffre – si esalta: si picchiano e si adorano, fanno muro contro tutti (a cominciare dall’assistente sociale, che minaccia di togliere il figlio a Rino se non trova un lavoro e non smette “di fare casini”), si cacciano nei guai, guardano con sospetto il mondo. L’unico amico è Quattro Formaggi che, a causa di un incidente con i fili dell’alta tensione nella cava in cui lavorava, non ci sta con la testa ma è affezionatissimo a padre e figlio. Quattro Formaggi è gentile, ama fare presepi con personaggi strampalati, pensa sempre a Dio e ama una pornostar di cui vede ossessivamente un film a luci rosse sognando che si rivolga a lui (con tanto di braccia apposta ai lati della tv, per farsi a”accarezzare” dallo schermo-donna). Ma quando pensa di riconoscere la bionda Ramona Superstar in una ragazzina, compagna di classe di Cristiano, iniziano i problemi per tutti. Una tragedia manderà in pezzi il fragile equilibrio del terzetto. Soprattutto, Cristiano guarderà al padre con dolore e sgomento.
Il 13° film di Gabriele Salvatores riprende un romanzo di Niccolò Ammaniti; ed è la seconda volta che accade, dopo il bel Io non ho paura. In questo caso l’esito è meno felice, diseguale, non del tutto convincente. Anche se non mancano gli elementi di interesse. In primo luogo, è azzeccato l’aspetto visivo, dove lo squallore dei paesaggi urbani e periferici si somma con l’angoscia di un bosco notturno da tregenda, flagellato da una pioggia incessante che insieme al fango e alla paura di chi ci si ritroverà immerso delineano uno scenario da incubo. Anche la storia è ricca di spunti e in effetti questo rapporto padre-figlio estremo e a tratti scioccante affascina come un abisso vertiginoso, grazie soprattutto alla veridicità delle interpretazioni.
Se di Filippo Timi (intenso, roccioso, inquietante; peccato solo per il tono di voce, non sempre all’altezza della presa diretta) si conosceva la bravura ma per la prima volta il suo ruolo ne esalta lo spessore (e adesso lo aspettiamo nei panni di un giovane Mussolini in Vincere di Marco Bellocchio), il ragazzino esordiente Alvaro Caleca gli tiene testa con insospettabile energia; due personaggi “sbagliati” ma amati dal regista, che giustamente evita di farne bersagli di un’accusa totale (anche perché nessuno, tanto meno il “bravo” assistente sociale, li aiuta davvero a uscire da quella dimensione alienata e da una vita squallida). Mentre Elio Germano, che non ha bisogno ormai di conferme, disegna un folle un po’ prevedibile ma con tenera umanità. Piuttosto i punti deboli sono in ruoli di contorno, a cominciare da un Fabio De Luigi fuori parte nei panni dell’assistente sociale. Ma i punti deboli di un film, pur apprezzabile e interessante, sono in alcuni snodi improbabili (un’Ipod che continua a suonare per giorni, senza scaricarsi), in alcune scelte discutibili (una famosa canzone di Robbie Williams, già stucchevole di suo, ripetuta in vari momenti della storia con insistenza irritante), in dettagli che non convincono (un 14enne, che pure ne dimostra di più, che sposta da solo pesi insostenibili per un ragazzino; la scena del delitto pasticciata e tirata per le lunghe). Quello che però delude maggiormente è in realtà un mancato apprendimento di temi che avrebbero meritato maggiore sviluppo, dall’evoluzione del rapporto tra i personaggi (delineati all’inizio, le loro reazioni sono un po’ meccaniche; ma il finale sembrerebbe concedere una possibillità a padre e figlio) all’evocazione superficiale di un Dio lontano, assente e distratto di fronte al dolore e che probabilmente non c’è nemmeno.
Un Dio che ci si ostina a scrivere con l’iniziale minuscola, come nel titolo, quasi a fargli un dispetto (forse anche per rafforzare il paragone con un padre che si fa Dio per il figlio, ma che Dio non è), ma che soprattutto ci si limita a nominare invano, di cui si condanna il comportamento.
Ma che nessuno cerca davvero di conoscere.
15/12/2008 – INDIA - Orissa: il Natale di Namrata, la piccola Dalit sfigurata da una bomba - di Nirmala Carvalho - È il volto più noto fra le vittime degli attacchi contro i cristiani. Dopo 45 giorni di ospedale, ora è guarita. La sua famiglia di braccianti giornalieri, ha perduto ogni cosa. I timori e le speranze nell’imminenza del Natale.
Bangalore (AsiaNews) – Namrata Nayak è una piccola Dalit di 10 anni, del villaggio di Sahi Panchayat, vicino a Raikia (distretto di Kandhamal, Orissa). Tre mesi fa, allo scoppio delle violenze contro i cristiani, la piccola è stata sfigurata in volto da una bomba lanciata dagli estremisti indù. Dopo 45 giorni di ospedale, la piccola è guarita e ora saltella felice. “Natale è gioia e pace” racconta Namrata, “e io sono così felice qui: tante persone che si prendono cura di noi; tanti che pregano per noi e per la pace e la giustizia a Kandhamal…”. Namrata, insieme a sua mamma Sudhamani e altre 20 persone sono giunte a Bangalore dai campi di rifugio dell’Orissa grazie all’impegno del Global Council of Indian Christians.
La piccola è stata sfigurata il 26 agosto. Quando è arrivata all’ospedale di Berahampur aveva ustioni al 40% del corpo. Ora è praticamente guarita. “Per me – dice Namrita ad AsiaNews – Natale è un tempo per ringraziare Gesù Bambino che mi ha salvata dal fuoco ed ha salvato la mia faccia, che era sfigurata e ferita. Sono una delle poche fortunate che è sfuggita alla morte, anche se ho dovuto passare un lungo periodo in ospedale. Mi sento molto amata dalla gente dell’India e da tanti nel mondo che hanno visto la mia foto e hanno pregato per me.
“A Kandhamal c’è tanto dolore e sofferenza e non so per quanto tempo le Forze speciali ci proteggeranno. Ma Natale è un tempo di gratitudine. Temo che la mia gente sarà ancora attaccata, ma questa è la nostra vita. Se Dio ha salvato me, potrà salvare anche altri cristiani”.
I radicali indù hanno promesso di organizzare ancora uno sciopero il giorno di Natale se non verranno arrestati i responsabili dell’uccisione di Swami Laxamananda Saraswati, il leader indù, dal cui assassinio ha preso il via il pogrom contro i cristiani lo scorso 23 agosto. Le Chiese temono che i raduni dei radicali indù possano sfociare ancora una volta in violenze incontrollate. “Natale è anche tempo di perdono – afferma Namrata – e noi perdoniamo i radicali indù che ci hanno attaccato, hanno bruciato le nostre case. Erano persone fuori di sé, che non conoscono l’amore di Gesù. Per questo ora voglio studiare con molto impegno perché quando sarò grande voglio raccontare a tutti quanto Gesù ci ama. Questo è il mio futuro. Il mondo ha visto la mia faccia distrutta dal fuoco, ora deve conoscere il mio sorriso pieno di amore e di pace. Voglio dedicare la mia vita a diffondere il Vangelo”.
I genitori di Namrata (Akhaya Kumar , 45 anni e la signora Sudhamani, 38) sono braccianti agricoli a giornata. Le 3 figlie e un figlio sono studenti. Per aiutare i magri introiti della famiglia, la figlia più grande, Trusita (18 anni), lavora anche come domestica nella casa di un indù convertito, il sig. Harihar Das. Quando sono scoppiate le violenze contro i cristiani, Akhaya e Sudhamani sono fuggiti nella foresta; mandando le figli a nascondersi nella casa di Harihar Das.
La notte del 26 agosto, i radicali indù sono entrati nella sua casa e hanno distrutto la porta, distruggendo e bruciando ogni cosa. La famiglia di Harihar Das, Namrata e le sorelle si sono nascoste in una piccola toeletta. Prima di andare via, i fanatici indù hanno lasciato una bomba in un armadio. Tornata la calma, tutti i superstiti sono usciti, ma la piccola Namrata, per curiosità è rimasta nella casa a guardare i danni. La bomba è scoppiata bruciando il volto della piccola, mentre alcune schegge l’hanno ferita alla faccia, alle mani e alla schiena.
Sudhamani continua il racconto: “L’indomani io e mio marito siamo usciti dalla foresta correndo verso la casa di Harihar. Vedendo tutto bruciato abbiamo temuto che tutti fossero periti nelle fiamme. Invece, grazie a Dio, tutti erano salvi. Solo la mia bambina aveva subito delle ustioni. Ma Gesù ha preso cura di lei. L’abbiamo portata all’ospedale di Berhampur ancora incosciente e tutta ferita. Ma dopo 45 giorni di cure, ora sta bene”.
“La mia speranza – confessa ad AsiaNews – è che possiamo avere ancora un futuro a Raikia. Noi non possediamo nulla e potremmo anche emigrare, ma a Sahi Panchayat abbiamo qualche parente, i nostri vicini. Se andiamo via di qui saremo dei vagabondi.
Natale porta speranza. La speranza è la nostra unica ricchezza ora: eravamo poveri e ora è stato distrutto anche quel poco che avevamo…Ma Natale significa che Cristo nasce e ogni nascita significa una nuova vita. Gesù è disceso dal cielo per salvarci da questa miseria, da questo dolore, dall’abbandono e dalla nostro essere senza tetto. Il suo potere ci riempie di speranza, di amore e di perdono”.
15/12/2008 12:55 – VIETNAM - Ora tocca a Vinh Long: si abbatte un monastero per fare un parco - di J.B. An Dang - Come già accaduto per la ex delegazione apostolica ed il terreno della parrocchia di Thai Ha, le autorità locali prima tentano di cedere a privati beni dei quali si sono impadronite, poi, davanti alle proteste, ne fanno un parco.
Hanoi (AsiaNews) – Dopo la ex delegazione apostolica e Thai Ha, ora tocca al monastero di San Paolo di Vinh Long, delle suore della carità di San Vincenzo De Paoli, ad essere abbattuto (nella foto), per farne un parco pubblico. Appropriarsi di beni ecclesiastici e trasformarli in parchi sembra stia diventando una linea politica delle autorità vietnamite, O magari una vendetta, perché le proteste dei cattolici non hanno consentito di concedere a privati quei terreni.
L’annuncio della nuova destinazione del terreno del monastero distrutto è stato dato dal Comitato del popolo della provincia di Vinh Long nel corso di una conferenza stampa, tenuta il 12 dicembre. L’annuncio ha fatto seguito alle consuete accuse di questi casi contro le suore. Esse “sfruttano la libertà religiosa per ispirare proteste contro lo Stato della Repubblica socialista del Vietnam e di conseguenza danneggiare l’unità del popolo”.
L’attacco governativo è arrivato dopo l’inizio delle proteste delle suore, che a maggio avevano saputo del progetto del governo locale di trasformare il loro monastero in un albergo a cinque stelle.
In una lettera del 18 maggio, indirizzata a sacerdoti, religiosi e laici, il vescovo di Vinh Long, Thomas Nguyen Van Tan ripercorreva la storia della controversia. “Il 7 settembre 1977 – scriveva – può essere visto come il giorno del diasastro per la nostra diocesi”. “Quel giorno le autorità locali hanno mobilitato le loro forze di sicurezza per bloccare e assalire il Collegio della Santa Croce, il monastero di San Paolo ed il seminario maggiore. Poi si sono impadroniti delle proprietà ed hanno arrestato coloro che si occupavano degli edifici. Io stesso – sottolineava il vescovo – sono stato uno degli arrestati”.
“Invano, in seguito, rappresentanti del superiore provinciale delle Suore della carità di San Vincenzo De Paoli e l’ufficio del vescovo hanno inviato petizioni alle autorità locali e nazionali. Ad esse non è mai stato risposto”. “Recentamente – proseguiva la lettera – il governo locale ha emanato un decreto per costruire un albergo su un terreno di 10.235 metri quadrati di proprietà delle suore”.
Il tempo dell'attesa - I tre Avventi - In occasione del quarantesimo anniversario della morte del monaco statunitense pubblichiamo una sua breve riflessione sul periodo della preparazione al Natale estratto da un suo testo pubblicato in Italia da Rusconi nel 1977 con il titolo Stagioni liturgiche. - di Thomas Merton – L’Osservatore Romano, 16 dicembre 2008
San Bernardo torna frequentemente sull'idea dei "tre Avventi" di Cristo. Il primo è quello con il quale è entrato nel mondo, dopo aver ricevuto la natura umana nel seno della benedetta Vergine Maria. Il terzo è l'Avvento che lo porterà nel mondo alla fine del tempo per giudicare i vivi e i morti o piuttosto per rendere manifesto il giudizio che gli indifferenti hanno voluto far ricadere su se stessi rifiutando di accogliere il suo amore e la salvezza, e che gli eletti hanno accettato dalle mani della sua misericordia.
Il primo Avvento è quello nel quale egli viene a cercare e a salvare ciò che era perduto. Il terzo è quello nel quale egli viene per trarci a sé. Il primo è una promessa; il terzo è il suo adempimento. (...).I tre Avventi di Cristo sono la realizzazione completa della pascha Christi. Ma finora abbiamo parlato esplicitamente soltanto del primo e del terzo. Il secondo è, in un certo senso, il più importante per noi. Il "secondo Avvento" - per mezzo del quale Cristo è presente adesso nelle nostre anime - dipende dal nostro attuale riconoscimento della sua pascha, o transitus, il passaggio di Cristo attraverso il mondo, attraverso le nostre stesse vite.
Meditando l'Avvento passato e l'Avvento futuro, impariamo a riconoscere l'Avvento presente, che si situa in ogni momento della nostra vita di pellegrini terreni. Raggiungiamo la consapevolezza del fatto che ogni momento del tempo è un momento di giudizio, che Cristo sta passando e che noi siamo giudicati dalla maggiore o minore coscienza di questo suo passaggio. Se ci uniamo a lui e ci mettiamo in cammino, con lui, verso il suo regno, il giudizio diventa salvezza per noi. Ma se lo trascuriamo e se lo lasciamo andare oltre, la nostra indifferenza diventa la nostra condanna. La meditazione sul primo Avvento ci dà la speranza nella promessa che ci è stata fatta. Il ricordo del terzo serve a tener vivo il timore di non essere in grado di vedere adempiuta questa promessa. Il secondo Avvento, il presente, posto fra questi due termini estremi, diventa necessariamente un tempo di angoscia, un tempo di conflitto fra il timore e la gioia. Ma com'è salutare questa lotta, che termina nella salvezza e nella vittoria perché purifica il nostro intero essere! Il medius Adventus, nonostante ciò, è tempo più di consolazione che di sofferenza, se riflettiamo che anche in esso Cristo viene realmente a noi, ci dà realmente se stesso perché, nella speranza, possediamo già il cielo. "Questo secondo Avvento è la via che noi percorriamo per passare dal primo al terzo. Nel primo, Cristo era la nostra redenzione, nell'ultimo ci apparirà come la nostra vita. In quello presente, mentre dormiamo nella nostra eredità, egli è il nostro riposo e la nostra consolazione" (Sermo v de Adventu, 1). In questo "sonno" non c'è però alcuna idea di inattività. Indubbiamente può significare quiete, oscurità e vuoto per la nostra attività naturale. Ma in questa "oscurità" Dio viene a noi e opera misteriosamente dentro di noi in spirito e verità, per far sì che il frutto della sua opera diventi manifesto nel terzo Avvento, quando egli verrà in tutta la sua maestà e in tutta la sua gloria.
(©L'Osservatore Romano - 15-16 dicembre 2008)
Ru486: via libera alla "favola dell’aborto facile" - Autore: Morresi, Assuntina - Fonte: ilsussidiario.net - lunedì 15 dicembre 2008 - In ospedale ti daranno una pillola
Per un beffardo paradosso, a meno di eventi improvvisi ed imprevedibili, la pillola abortiva Ru486 sarà utilizzata in Italia proprio quando è sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella la quale, insieme a chi scrive, ha condotto negli ultimi tre anni una lunga e pubblica battaglia contro questo composto chimico.
La parte tecnico scientifica della procedura di approvazione della Ru486 è stata conclusa dall’Aifa, l’ente di farmacovigilanza italiano, lo scorso febbraio, quando ne era Direttore Nello Martini, e Ministro della Salute Livia Turco. I primi di agosto la ditta produttrice del mifepristone – principio attivo della Ru486 – ha inviato all’Aifa il dossier prezzi del medicinale in vista della trattativa sul prezzo, e la prossima settimana inizierà l’ultimo passaggio, al Consiglio di Amministrazione dell’Aifa.
“La favola dell’aborto facile”, è il titolo del libro che abbiamo scritto insieme Eugenia Roccella ed io, in cui spiegavamo che l’aborto con la pillola è tutt’altro che semplice, come invece veniva propagandato fino a qualche anno fa. L’aborto viene semplificato nell’immaginario – in fondo, sono solo due pillole – ma nella realtà quello chimico è più lungo, doloroso e psicologicamente più pesante rispetto al chirurgico: l’intera procedura dura almeno quindici giorni, più della metà delle donne dichiara di aver riconosciuto l’embrione abortito, gli effetti collaterali sono numerosi e gravosi, e soprattutto preoccupano quelle morti, oramai salite ad almeno diciassette, venute alla luce una ad una, per la maggior parte scoperte da noi, e che mai sarebbero state conosciute in Europa se non ne avessimo scritto sulle colonne di Avvenire e del Foglio.
La polemica sulle morti per aborto farmacologico era nata negli Usa dopo che la diciottenne californiana Holly Patterson era stata colpita da una rarissima e fatale infezione, nel settembre del 2003: il padre iniziò subito una battaglia giudiziaria per conoscere la verità sulle cause della morte della figlia, ma la notizia è giunta in Italia solo due anni dopo, nel 2005, grazie ai nostri articoli (i principali si possono leggere sul sito http://www.salutefemminile.it , alla voce Ru486).
Il numero delle morti è ancora incerto – almeno diciassette, ma ricordiamo che dalla Cina e dall’India ci viene raccontato solo che “tante donne muoiono”, senza la possibilità di conoscere i numeri effettivi. Quel che preoccupa, però, è che per la maggior parte non sono emerse da regolari denunce delle autorità sanitarie agli enti di farmacovigilanza dei rispettivi paesi, ma sono state segnalate una ad una da parenti, attivisti pro-life, femministe, giornalisti, in generale da persone interessate all’argomento.
Sappiamo che l’Aifa ha preso in considerazione le morti da noi segnalate – erano sedici, lo scorso anno - ma che questo non è stato sufficiente per bloccare l’ingresso del farmaco del nostro paese, e che è prevalso il parere positivo espresso in sede europea.
D’altra parte, solo dopo le nostre denunce i media italiani hanno cominciato ad essere più cauti nel parlare di aborto chimico, e altre pubblicazioni contro la pillola abortiva hanno affiancato le nostre.
Nei paesi in cui è stata diffusa la Ru486, l’aborto è tornato fra le mura di casa: un aborto a domicilio, per il quale è più difficile intervenire con misure di prevenzione e di sostegno alla maternità.
Un modo per scardinare nei fatti la legge 194, che prevede che l’aborto avvenga interamente all’interno delle strutture sanitarie pubbliche: anche nell’unica sperimentazione ufficiale avvenuta in Italia, quella diretta dal ginecologo radicale Silvio Viale all’ospedale Sant’Anna a Torino, la stragrande maggioranza delle donne è tornata a casa sia dopo la prima pillola – la vera e propria Ru486, che fa morire l’embrione in pancia– che dopo la seconda – il misoprostolo, che induce l’espulsione dell’embrione - nonostante il protocollo di sperimentazione prevedesse il ricovero ospedaliero. E proprio il fatto che diverse donne avessero abortito fuori dall’ospedale ha fatto scattare un’inchiesta della magistratura torinese.
Dalla valutazione tecnico scientifica dell’Aifa non si può più tornare indietro, a meno che non siano segnalati gravi eventi avversi nel nostro paese.
Al Ministero del Welfare rimane ancora un margine per intervenire: c’è ancora da definire il prezzo e soprattutto le modalità di somministrazione e il protocollo da seguire. L’obbligo previsto dalla legge 194 di abortire presso strutture pubbliche rappresenta sicuramente un ostacolo alla diffusione del metodo farmacologico; nella stessa direzione è anche il parere del Consiglio Superiore di Sanità, che ha stabilito che il rischio che si corre con la procedura chirurgica è pari a quello con il metodo chimico solamente se in entrambe i casi si ricorre al ricovero ospedaliero.
Il Ministero del Welfare stabilirà sicuramente protocolli rigorosi per lo svolgimento di questo tipo di aborti. Ma il giorno in cui la Ru486 entrerà definitivamente in commercio in Italia, prevenire l’aborto sarà più difficile.
SCUOLA/ La vittoria di Pirro - Giovanni Cominelli - martedì 16 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La decisione di rinviare i Regolamenti concernenti l’istruzione secondaria di secondo grado è stata accompagnata da uno squillante comunicato ministeriale, in cui si dà la buona novella di una “svolta storica” imminente e di una riorganizzazione radicale del sistema di istruzione. Non subito! A partire dal 2010. Il rinvio viene giustificato con la necessità di spiegare meglio, di discutere di più.
Poiché la discussione dura dal 1996, per tacere dei quarant’anni precedenti, è ovvio che la ragione del rinvio è altra. E poiché è altra, anche la data prevista del nuovo inizio – autunno 2010 – è fasulla. Dal giugno 2008 il Ministro dell’Istruzione era stato informato da Tremonti della richiesta di tagli per 7,8 mld. e “invitato” a fare un Piano. Da allora il Ministro dell’istruzione ha delegato per intero all’apparato ministeriale la questione, malamente spacciata per “tecnica”, e si è dedicato ad altro: interviste su svolte epocali, un Decreto tra i più innocui della storia dell’istruzione, l’aggiunta forzosa al Decreto per mano esterno-tremontiana del “maestro unico”, la presentazione del Piano dei tagli alla Commissione cultura della Camera e del Senato. Nel frattempo già da ottobre circolavano bozze di Regolamenti, mentre una circolare spostava al 28 febbraio 2009 le iscrizioni al nuovo anno scolastico. Dunque, anche secondo il Ministro c’erano i tempi tecnici per spiegare “al colto e all’inclita” i Regolamenti.
La ragione del rinvio è in realtà l’opposizione scatenata dai sindacati e dalla sinistra nelle scuole e nelle piazze, che chiedevano il ritiro dei Regolamenti e dei tagli. La loro piattaforma era inequivoca: più soldi, nessun cambiamento. Il rinvio al 2010 è la risposta positiva alla “piattaforma” della piazza. Dopo tale risposta, l’opposizione è più forte: la mobilitazione paga! Difficile negarlo. Perciò non c’è nessun motivo per pensare che entro giugno 2009 – allorché si esaurirà il tempo della Delega per i Regolamenti – l’accoglienza dei Regolamenti delle superiori sarà più soave e l’opposizione meno disarmata. Anche perché Gelmini ha ritirato generosamente i Regolamenti, ma Tremonti non ha ritirato i tagli! Farà un piccolo sconto di 45 mln. Quanto alla vicenda del “maestro unico” non sarà una passeggiata: perché la scuola primaria si vive, non a torto, come quella che funziona meglio e come quella peggio tartassata, mentre le superiori sono irriformate dal 1923; perché nei modelli oltre le 24 ore e al di qua delle 40 ore lo scenario che si profila è quello di togliere dalle 3 alle 6 ore ai bambini e contemporaneamente di collocare “in soprannumero” molti insegnanti elementari. Potrebbe verificarsi il paradosso kafkiano: bambini per strada, a carico delle famiglie, e insegnanti a scuola, ma senza classi, pagati – perché di ruolo – a carico anch’essi delle tasse delle famiglie.
Certo, se la comunicazione dell’opposizione è faziosa e menzognera, quella del governo continua ad essere confusa. Mentre il Ministro annuncia in TV che il modello del “maestro unico” a 24 ore è l’unico possibile, quasi in contemporanea Berlusconi da Bruxelles dichiara audacemente di non aver mai parlato di “maestro unico”, bensì di “maestro prevalente ” e che ci sarà il “doposcuola” (sic!) per le famiglie che lo richiedano. Né convince il vecchio sketch italico di proclamare “ritirata tattica” la rotta di Caporetto. La conclusione è che nel dicembre 2008 il Ministro è più debole che nel giugno 2008 e che sarà ancora più debole nella primavera 2009. La storia degli ultimi tre ministri dell’Istruzione insegna che le riforme sono sempre incerte, certissimi i rinvii sine die.
Questo ha tutta l’aria di un rinvio di legislatura. Del resto, la primavera 2009 apre un anno di scadenze elettorali: le elezioni amministrative ed europee del 2009, quelle regionali nel 2010. E qui si tocca il fondo delle ragioni vere, che hanno portato Berlusconi a porgere orecchio al grido di dolore della Gelmini: le prossime scadenze elettorali fino all’elezione nel 2013 del successore di Napolitano. La filosofia politica che ha ispirato questa ritirata non è esattamente quella liberal-democratica, che prevede che il governo attui i punti dell’agenda approvata dagli elettori e ne risponda alla scadenza della legislatura. La filosofia rischia di essere quella del consenso, che così diviene diviene il fine della politica, non il mezzo. In quest'ottica inevitabilmente le policies non hanno consistenza in quanto risolvano i problemi drammatici del Paese, ma in quanto servano a far vincere la prossima scadenza elettorale. Dal punto di vista dei riformisti di questo Paese si chiamano “vittorie di Pirro”…
BIOETICA/ Sgreccia: su aborto ed eutanasia l’Italia rischia un pericoloso scivolamento - INT. Elio Sgreccia - martedì 16 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Monsignor Sgreccia, qual è il nuovo contributo che viene dato dall’Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Dignitas Personae? E che cosa ha reso necessaria la pubblicazione di questo testo?
Anzitutto nella Dignitas Personae c’è una trattazione ufficiale di alcuni aspetti che nella precedente analoga Istruzione, la Donum Vitae, non si trovavano, se non per un breve accenno ridotto a qualche parola. Per esempio non era affrontato il problema della clonazione terapeutica o riproduttiva, nonché tutti gli aspetti relativi all’utilizzo delle cellule staminali. Poi, da un punto di vista più generale, grazie a questo documento risulta ora più chiara la definizione di che cos’è embrione e di qual è la sua dignità; una definizione che già era implicita nel documento precedente, ma che qui risulta più chiara. Ora nessuno potrà più sostenere che la Chiesa abbia difficoltà a riconoscere la persona nella fase prenatale, perché dal punto di vista ontologico nella Dignitas Personae la dignità dell’embrione è dichiarata identica alla dignità della persona.
Si è discusso anche del fatto che nel documento non si parli esplicitamente di embrione come “persona”, ma come “avente dignità di persona”: che differenza c’è?
Dire che è persona potrebbe provocare la protesta di un giurista, secondo il quale la persona ha bisogno della maturità decisionale; oppure di uno psicologo, secondo cui la persona ha bisogno dello sviluppo affettivo e della coscienza. Queste scienze umane hanno concetti di persona discordanti; mentre a noi quello che interessa è il concetto di persona reale, sostanziale, che poi si sviluppa con l’età, secondo la distinzione tra persona e personalità. Alla luce di tutto questo, per evitare contrasti su determinati punti, si è evitato di entrare in discussioni fuorvianti, ma si è fatto chiarezza sul punto che veramente interessa, e cioè che l’embrione deve essere trattato come un essere umano. A questo dovevamo rispondere, e questo è stato acquisito.
Proprio nei giorni della pubblicazione di questo documento, si è diffusa la notizia che la Ru486 sarà a breve diffusa anche in Italia: che rischi porta la diffusione dell’aborto chimico?
Contrariamente a quello che si coglie dal modo con cui la notizia è stata diffusa dalla stampa, non si tratta affatto di una sostituzione dell’aborto chimico all’aborto chirurgico. Si tratta semmai di un’addizione, e direi quasi di un incoraggiamento all’aborto, sulla spinta dell’idea che ora sia meno doloroso e più facile. Tutto questo manca di un’adeguata valutazione. Innanzitutto sempre aborto è, nel senso che si sopprime una vita umana; secondo, non è vero che alla donna faccia meno male, perché dolori fisici ne ha, e i dolori morali sono identici. La scelta dell’aborto, infatti, è sempre dolorosa, quando la donna sa che questa è dipesa dalla sua decisione; che poi il feto sia stato espulso con uno strumento chirurgico o con una pillola, questo non cambia nulla, e certo non addormenta le coscienze. Terzo fattore molto importante, è necessario ricordare che ci sono state durante il periodo della sperimentazione molti episodi su cui bisognerebbe aprire una riflessione. Se un altro farmaco dovesse provocare gli stessi effetti (e qua stiamo parlando anche della morte di alcune persone) non c’è alcun dubbio che verrebbero immediatamente bloccati.
E perché in questo caso non si è bloccata la sperimentazione?
Perché ci sono grandi interessi, soprattutto in termini di investimenti da parte delle industrie farmaceutiche. Il lassismo della legge è passato sopra una norma deontologica che è alla base di tutte le scuole di medicina: quando si verifica l’evento avverso, subito si blocca la sperimentazione. Qui invece non si è bloccato niente, nonostante si sappia benissimo che per la donna è una cosa rischiosa.
Come si concilia l’utilizzo della pillola Ru486 con quanto previsto dalla legge 194?
Su questo fronte si apre una problematica molto complessa, cui l’asettico comunicato Aifa che dà il via all’utilizzo della pillola non fa riferimento. Dove vanno a finire la pausa di riflessione, la dissuasione o l’aiuto a superare le cause materiali che portano all’aborto, cioè tutte quelle cose di cui si parla nella legge194? La legge impone al medico di fare un’opera di verifica e di sostegno, nel caso ci siano delle paure o delle fragilità: con l’uso della pillola rimangono questi aspetti, o si arriva a ledere anche la 194? Quello che risulta evidente è che era altra la cosa da fare: non facilitare l’aborto aggirando la legge, ma semmai rivedere la legge stessa, mettendola in armonia rispetto ai principi che enuncia, e superando le contraddizioni che ha in sé. Io mi auguro che le coscienze comincino a risvegliarsi, e che si cominci a parlare di revisioni della 194, e non di introduzione di facilitazioni.
Diamo uno sguardo al polo opposto della difesa della vita: la sua naturale conclusione. Tutta l’attenzione è adesso rivolta al caso Englaro: a prescindere da quello che accadrà, che segni lascia questa vicenda sulla cultura e sulla società italiana?
Io spero che la cultura e la società italiana non ripetano lo scivolamento tragico che c’è stato con la legge 194: si è pensato di fare qualcosa che alleggerisse la situazione relativa alla pratica dell’aborto, e invece non s’è fatto altro che aprire le porte all’aborto al di là di ogni previsione Sul piano dell’eutanasia, mi auguro che non solo la Chiesa, ma tutte le ragionevoli coscienze illuminate possano fare barriera per difendere il paziente, il morente, da ogni anticipazione di morte, attiva o omissiva che sia. Dovremmo invece occuparci di altre urgenze: estendere le terapie palliative, la cura del dolore, l’assistenza conveniente, il superamento dell’isolamento del morente. Ci sono dunque ben altre cose da fare. Poi c’è anche un problema sociale: una società che si definisce solidaristica deve avere ripugnanza verso la soppressione della vita, nascente e morente. Se è solidale lo deve essere ancor più in questi casi. Possiamo affermare a parole che la nostra Costituzione, la nostra Repubblica e la nostra società ha un impianto solidaristico; ma se andiamo per questa strada arriviamo a soluzioni che non contemplano affatto la solidarietà.
In questi giorni si è anche riaperto un dibattito, all’interno del mondo cattolico, intorno al concetto di vita umana come valore indisponibile: qual è la sua posizione?
Io affermo che la vita è un valore indisponibile. Le cosiddette eccezioni che sono state discusse, come ad esempio il martirio, o la legittima difesa, sono casistiche che non fanno altro che confermare la regola. Se una persona si difende, ciò che intende fare è appunto difendere la propria vita e salvare se stesso, non uccidere l’altro. Così anche il martirio: il martire non provoca la morte, perché la morte la danno gli altri. Ci sono discussioni che si possono e si debbono fare, ma non scardinano il principio secondo cui nessuno ha il diritto di sopprimere la vita propria o altrui, dal momento che noi non siamo padroni della vita. E questo non riguarda solo noi credenti, ma tutti gli uomini.
SAPPIAMO DI QUEL CHE SI TRATTA? - SARÀ UN ABORTO LUNGO BEN TRE GIORNI - MARINA CORRADI – Avvenire, 16 dicembre 2008
La ratifica finale del via libera dell’Agenzia del farmaco alla pillola abortiva sarebbe imminente. Se davvero accadrà, se davverò la porta aperta nello scorso febbraio resterà aperta, in ospedale le donne potranno optare per l’aborto chimico. Nonostante i rischi di effetti collaterali della Ru486, stando alla letteratura scientifica, siano più elevati, l’introduzione in Italia è da anni sostenuta da un fronte politico e mediatico massiccio. Per la Ru486 sono intervenute coralmente le più autorevoli voci progressiste. L’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti ebbe a dire che l’ introduzione della Ru era indice del «grado di civiltà e rispetto della persona », e su 'Repubblica' Miriam Mafai spiegò alle lettrici come la contrarietà dei cattolici alla Ru486 fosse reazione «contro la pretesa della donna di abortire senza adeguata sofferenza». Inoltre, argomento facile, in Europa molti Paesi hanno già adottato la pillola; e si sa che l’adeguarsi al trend degli 'altri' è tema di forte presa, in un’Italia che ha sempre il complesso di essere in ritardo su una altrui pretesa modernità.
Dunque, nonostante nuove e lodevoli verifiche inducano a non dare per scontato alcunché, avremo anche noi la 'nostra' Ru486: 48 ore per uccidere l’embrione e, dopo una seconda dose, 24 per espellerlo. Un aborto lungo tre giorni. Proviamo a metterci in una prospettiva puramente femminile. Immaginiamo una donna che scelga la pillola abortiva: sia per il battage che ne è stato fatto, sia perché sembra cosa meno cruenta che un intervento. Assumerà il mifepristone e aspetterà per 48 ore la morte dell’ embrione, prima che la seconda dose al terzo giorno lo snidi dall’utero. 72 ore così possono essere lunghissime; nell’ambivalenza che tante in sé hanno verso un figlio pure razionalmente non voluto; nel rimpianto di quelle che lo avrebbero tenuto, ma pensano di non potercela fare. Tre giorni come questi sembrano una prova aspra per chiunque non sia completamente assente da se stessa. Il parlare di Ru486 come di aborto «con minore dolore» sta nella logica per cui il dolore è solo fisico; logica maschile, elementare, che ignora come sciocche favole il lavorìo dei pensieri e del cuore . E il dibattersi, se non in tutte certo in molte donne che interrompono la gravidanza, di una profonda radice, che anche nella negazione con quella creatura concepita ha comunque un istintivo legame, e non dimenticherà.
L’aborto semplice, l’aborto da bere – promettono – libererà le nostre figlie dai ferri del chirurgo. È probabile che, a diciott’anni, alla scoperta di essere incinte per sbaglio saranno più tranquille: «In fondo, è una pillola». Solo una pillola. E una rimozione, più facile soltanto nell’immediato, dell’evento drammatico che è per una donna un aborto; e insieme una semplificazione per le strutture sanitarie che risparmiano anestesie, e per i ginecologi, che da un ruolo attivo e penoso diventano asettici somministratori di pastiglie.Un affare, per molti. Poi, in ospedale o fuori, l’aborto in un bicchiere d’acqua resta a totale carico della madre mancata: lucida e sola in quelle ore di agonia con i suoi pensieri, che ben difficilmente troveranno il luogo per dirsi, e meno ancora di quanto non sia sempre stato. L’aborto più 'facile' sarà il più duramente censurato nel dolore – che non viene solo dal bisturi. Procedure più agili, costi minori, medici liberati da un pesante fardello: l’aborto da bere, quasi invisibile, ha la stessa efficacia pragmatica della cultura che teorizza l’eliminazione dei figli malformati e la soppressione dei malati in stato vegetativo. Promette una rapida cancellazione di tutto ciò che è 'problema'. Se diventerà possibile, avrà successo. Le donne però sono più complicate di quanto questo pragmatismo comandi. La banalizzazione del dolore non le renderà più libere, né più felici.
Firenze: fede e ragione, alleate nella sfida educativa - DA FIRENZE RICCARDO BIGI – Avvenire, 16 dicembre 2008
«Un Dio soltanto pensato non è il vero Dio: se Egli non si mostra, noi non giungiamo a Lui. Proprio questa è la novità dell’annuncio cristiano: dire ai popoli che Dio si è mostrato. La cosa nuova del nostro annuncio non è un pensiero, ma un fatto». Muove da questa affermazione la prolusione che il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, ha tenuto ieri a Firenze per l’inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà teologica dell’Italia centrale. Un discorso iniziato parlando di quel «desiderio della felicità che mi sta fisso nell’animo», di cui parlava Leopardi, per dire come l’inquietudine, la ricerca di una beatitudine piena, è lo sprone che fa muovere e progredire l’uomo. Di fronte a questa domanda di felicità, ha aggiunto Caffarra, serve una «alleanza tra fede e ragione» perché la ragione possa elevarsi alla contemplazione delle «cose ultime ». Dio e la ragione umana, in questa prospettiva, «non sono più nemici, e neppure estranei, ma alleati nel dare risposta soddisfacente alla domanda che è nel cuore di ciascuno, e che non può essere elusa».
«Italia, c’è una crisi di futuro»
La cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico – che si è svolta nella chiesa dei Santi Michele e Gaetano, il più pregevole esempio di arte barocca nel cuore di Firenze – si era aperta con il saluto dell’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori, che è anche Gran Cancelliere della Facoltà teologica dell’Italia centrale. Betori ha messo l’accento sulla «sfida educativa», di fronte alla quale un’istituzione accademica deve sentirsi impegnata in prima linea: «Siamo di fronte a una situazione difficile – ha affermato –. La crisi di futuro del nostro Paese si manifesta infatti nei due indicatori più ovvi, la bassissima crescita demografica e le pesanti difficoltà del processo educativo, i cui luoghi principali sono certo la scuola e l’università, anche se non sono i soli: basterebbe pensare al ruolo assolutamente importante dei media per la formazione dell’ethos condiviso. La Chiesa in Italia esorta da tempo a un maggiore impegno sul fronte educativo e intende farlo sempre di più per i prossimi anni». «La nostra capacità di annunciare Cristo risorto, speranza del mondo – ha proseguito Betori – passa per una paziente opera educativa, nella quale ci troviamo tutti coinvolti». Un’opera educativa che richiede insieme «lo sforzo della ragione» e la «fedeltà alla tradizione», la quale dal punto di vista cattolico «viene incarnata dalla comunità ecclesiale, che a un tempo la preserva e la trasmette». La storia, ha affermato ancora l’arcivescovo di Firenze, «sembra aver fatto giustizia dell’idea secondo la quale la religione era destinata a un inesorabile declino». Dall’altro lato però, ha aggiunto Betori, stiamo facendo ancora i conti con «la premessa epistemologica del secolarismo », quel «culto dei fatti» secondo cui, «se si prendessero sul serio i 'fatti' non ci sarebbero più credenti in un Dio trascendente; si penserebbe piuttosto a porre concretamente rimedio ai problemi delle vecchie e nuove povertà. Una simile posizione non offre alcuna giustificazione della presunta inefficacia della religione: si limita ad affermarla a priori, per l’appunto in forza di un presupposto ideologico».
Il preside: crescono gli iscritti laici
Il preside della Facoltà Teologica, don Andrea Bellandi, ha dato alcune cifre indicative sul lavoro dell’istituzione accademica: il numero degli iscritti, in crescita costante negli ultimi anni, vede una presenza sempre maggiore di laici (oltre un terzo degli studenti totali; circa la metà se si considerano solo gli iscritti italiani). «C’è una domanda di conoscenza sul contenuto della fede criticamente pensato – ha sottolineato – che non riguarda solo chi è orientato alla vita ministeriale, ma che nasce probabilmente da una ricerca di senso». Il preside ha ricordato anche il lavoro della biblioteca, che si è recentemente arricchita grazie a numerose acquisizioni e donazioni.
Facoltà teologica dell’Italia centrale: inaugurato l’anno accademico. La prolusione di Caffarra: «Il fatto cristiano incontra il nostro desiderio di felicità». Betori: «Formare un ethos condiviso»
INTERVISTA. I tre grandi scrittori e polemisti francesi come «profeti» dei mostri della società contemporanea. Parla il saggista Julliard - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ - Bernanos, Péguy, Claudel: i postmoderni – Avvenire, 16 dicembre 2008
« D i Péguy, Bernanos e Claudel talora non ho condiviso le idee politiche o religiose. Ma vi è in loro sempre un’autenticità che ne fa per me, se non dei maestri, dei pungoli costanti». Un’ammirazione personale tanto forte per i tre scrittori cattolici da aver spinto il saggista francese Jacques Julliard, noto anche come storico ed editorialista, a dedicare loro un libro: L’argent, Dieu et le Diable.
Péguy, Bernanos et Claudel face au monde moderne (Flammarion). Il saggio, appassionato e ricco di spunti folgoranti, sta riaccendendo il dibattito sull’attualità di tre grandi figure della prima metà del Novecento. Julliard ammette che l’attuale crisi economica può aiutare a comprendere meglio il loro messaggio: «In questi mesi è più forte la sensibilità verso il ruolo del denaro come elemento distruttore della società».
Com’è nato il suo rapporto con Péguy, Bernanos e Claudel?
«Si tratta di figure che hanno giocato un ruolo nella mia formazione intellettuale.
M’interesso da tempo all’atteggiamento degli intellettuali di fronte al mondo moderno; un’attitudine che si riduce spesso a una critica abbastanza convenzionale. Invece i nostri tre criticano la modernità in nome di un’idea della persona umana e del posto dell’uomo nell’universo. Non si tratta di critiche estetiche o antiborghesi, ma di tipo antropologico, oltre che religioso».
Per quali ragioni consiglia di rileggerli?
«Péguy e Bernanos possono apparire come nostalgici del vecchio regime, Claudel molto meno. Il loro atteggiamento conserva in ogni caso una distanza critica verso il mondo contemporaneo. Ma ciò, anziché portarli verso il passato, li proietta al contrario verso l’avvenire. Molte loro critiche al mondo moderno si ritroveranno paradossalmente in movimenti modernisti. C’è chi ha scoperto Péguy durante il Sessantotto. E chi lo cita per denunciare oggi un mondo ridotto a pura mercanzia».
Cosa rappresenta, per questi autori, il mondo moderno?
«Un mondo in cui tutti i valori possono essere ricondotti a quello del denaro. Nelle società classiche, la sfera del denaro aveva dei confini. Si pensi a Pascal, con la sua distinzione fra il mondo materiale, ovvero del corpo e della forza, e quello spirituale. Péguy si rende conto della frattura di questa frontiera ed è il punto che egli critica nel capitalismo moderno.
Ma in fondo anche Adam Smith, teorico del liberismo, era cosciente che un mondo puramente mercantile è destinato a disfarsi.
Nelle società aristocratiche, era l’onore a segnare la frontiera. Per il cristianesimo, è il dovere della carità. Nel socialismo, l’obbligo della solidarietà».
Nella visione dei tre scrittori, il denaro conserva sempre questo potenziale onnivoro e distruttivo?
«No. Claudel è anche sensibile a una forma di riabilitazione del denaro, dato che esso è più uno strumento di liberazione che d’asservimento. Fungendo da equivalente universale, il denaro permette libertà che non esistevano nel sistema feudale».
La riflessione sul denaro e quella sui dissidi della morale sono fra loro intimamente legate?
«Sì, soprattutto nei romanzi di Bernanos, spesso centrati su una lotta personale contro il male.
Quest’ultimo è rappresentato al contempo dal denaro e da una sorta di spirito di speculazione senza contenuto. Nel suo ultimo romanzo, Il signor Ouine, si traccia il ritratto di un intellettuale sospeso sempre fra il sì e il no, che soppesa tutto rifiutando in fondo qualsiasi forma d’impegno. La speculazione a oltranza si trasforma in una forma di perversità. Per Bernanos, era André Gide il simbolo vivente di un simile intellettuale».
Nel caso di Péguy, lei sottolinea anche la concezione degli eventi come scuola intellettuale e civile.
«Ci fu in lui una sorta di umiltà di fronte all’evento. Come intellettuale, non cercò mai di sovrapporre alla realtà una visione astratta fabbricata altrove. In ciò mi pare molto cristiano, in questa capacità cioè di accogliere gli esseri e le cose allo stato nascente. Si tratta del contrario del dogmatismo. Vi è una disponibilità di spirito, ma ciò non vuol dire lasciarsi schiacciare dagli eventi».
Furono scrittori e intellettuali più liberi di altri della stessa epoca, così piena di stravolgimenti?
«Lo furono, a mio parere, in quanto scrittori per così dire minoritari.
Come scrittori cattolici, furono in parte vittime di una sorta di esclusione dalla società letteraria.
Ma essi la trasformarono in una sorta di secessione volontaria, in un polo di libertà. Il loro stile fu sempre polemico e combattivo, dalla poesia di Péguy al teatro di Claudel, passando per i romanzi di Bernanos. Quest’ultimo, poi, fu talora molto duro anche contro il conformismo cattolico e le sue compromissioni».
Lei sostiene che i tre saranno riconosciuti prima o poi come scrittori post-moderni. Perché?
«Credo che la nostra epoca sia divenuta péguysta o bernanosiana. Nelle loro anticipazioni o autentiche profezie, ritroviamo molti caratteri mostruosi del mondo contemporaneo. I loro scritti mi paiono oggi ben più attuali di 30 o 40 anni fa».
«Tutt’e tre criticano un mondo in cui tutti i valori sono ricondotti al denaro e proprio ciò li rende quanto mai attuali in epoca di crisi» «Come autori cattolici furono vittime di esclusione dalla società letteraria, ma seppero trasformarla in una secessione volontaria, in un polo di libertà»
1) 15/12/2008 14.46.14 – Radio Vaticana - Il Papa riceve don Julián Carrón. Intervista con il presidente di CL
2) IL CASO/ Mia figlia è come Eluana, ma ha imparato a mangiare e dice di non voler morire - Redazione - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
3) DIGNITAS PERSONAE/ Non divieti ma un appello a seguire la verità e la bellezza della vita - INT. Roberto Colombo - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
4) UE/ Doppietta italiana - Mario Mauro - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
5) SCUOLA/ Oliva: la parità è un bene per tutti, altro che un favore alla Cei - INT. Attilio Oliva - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
6) RICORDO/ Heinrich Schlier, l'uomo che difese la figura di San Paolo dalla mentalità dominante - Pigi Colognesi - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) CINEMA/ Come dio comanda: il rapporto padre-figlio estremo e scioccante affascina e delude - Antonio Autieri - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) 15/12/2008 – INDIA - Orissa: il Natale di Namrata, la piccola Dalit sfigurata da una bomba - di Nirmala Carvalho - È il volto più noto fra le vittime degli attacchi contro i cristiani. Dopo 45 giorni di ospedale, ora è guarita. La sua famiglia di braccianti giornalieri, ha perduto ogni cosa. I timori e le speranze nell’imminenza del Natale.
9) 15/12/2008 12:55 – VIETNAM - Ora tocca a Vinh Long: si abbatte un monastero per fare un parco - di J.B. An Dang - Come già accaduto per la ex delegazione apostolica ed il terreno della parrocchia di Thai Ha, le autorità locali prima tentano di cedere a privati beni dei quali si sono impadronite, poi, davanti alle proteste, ne fanno un parco.
10) Il tempo dell'attesa - I tre Avventi - In occasione del quarantesimo anniversario della morte del monaco statunitense pubblichiamo una sua breve riflessione sul periodo della preparazione al Natale estratto da un suo testo pubblicato in Italia da Rusconi nel 1977 con il titolo Stagioni liturgiche. - di Thomas Merton – L’Osservatore Romano, 15-16 dicembre 2008
11) Ru486: via libera alla "favola dell’aborto facile" - Autore: Morresi, Assuntina - Fonte: ilsussidiario.net - lunedì 15 dicembre 2008 - In ospedale ti daranno una pillola
12) SCUOLA/ La vittoria di Pirro - Giovanni Cominelli - martedì 16 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
13) BIOETICA/ Sgreccia: su aborto ed eutanasia l’Italia rischia un pericoloso scivolamento - INT. Elio Sgreccia - martedì 16 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
14) SAPPIAMO DI QUEL CHE SI TRATTA? - SARÀ UN ABORTO LUNGO BEN TRE GIORNI - MARINA CORRADI – Avvenire, 16 dicembre 2008
15) Firenze: fede e ragione, alleate nella sfida educativa - DA FIRENZE RICCARDO BIGI – Avvenire, 16 dicembre 2008
16) INTERVISTA. I tre grandi scrittori e polemisti francesi come «profeti» dei mostri della società contemporanea. Parla il saggista Julliard - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ - Bernanos, Péguy, Claudel: i postmoderni – Avvenire, 16 dicembre 2008
15/12/2008 14.46.14 – Radio Vaticana - Il Papa riceve don Julián Carrón. Intervista con il presidente di CL
Benedetto XVI ha ricevuto stamani, in Vaticano, don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Al termine dell’udienza, il successore di don Giussani si è soffermato con Alessandro Gisotti sul significato di questo incontro con il Santo Padre:http://62.77.60.84/audio/ra/00142296.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00142296.RM
R. – Un anno dopo l’incontro di Piazza San Pietro di tutto il movimento di Comunione e Liberazione con il Papa, abbiamo chiesto di poterlo rivedere per raccontargli quello che è successo e condividere con lui i frutti di quell’incontro.
D. – Sappiamo quanto Joseph Ratzinger prima e Benedetto XVI poi sia legato a CL e alla figura di don Giussani. Basti pensare alla rivista “Communio”... Questo, chiaramente è importante per voi…
R. – Assolutamente! Per la nostra storia è stato molto significativo per il rapporto che don Giussani ha sempre mantenuto con l’allora cardinale Ratzinger. Noi, soprattutto adesso, sentiamo il suo Magistero decisivo per la nostra vita di movimento, per la nostra storia. Siamo sempre molto attenti a quello che il Papa ci dice, per orientarci nella nostra strada.
D. – Sappiamo quanto Comunione e Liberazione sia impegnata nell’evangelizzazione nel mondo della cultura…
R. – Noi siamo attenti a tutto quanto il Papa dice riguardo alla presenza culturale della fede. Per esempio, noi abbiamo apprezzato tantissimo, oltre il grande discorso di Regensburg, il recente discorso fatto a Parigi, agli uomini di cultura, che noi abbiamo distribuito a tutto il movimento. Ci siamo impegnati a presentarlo ovunque. Diffondere questa perfezione della cultura che nasce dall’appartenenza all’esperienza cristiana, che è in grado di generare un’umanità con una razionalità tutta aperta, come il Papa ci testimonia in continuazione.
D. – Il tema dell’ultimo meeting di Rimini era “Protagonisti o nessuno”. Ecco, questo tema è particolarmente significativo in un periodo come l’Avvento, in cui aspettiamo Qualcuno, quel Qualcuno che cambia la vita di ogni uomo…
R. – Assolutamente! Per noi questo è decisivo perché è l’incontro con l’unico protagonista della storia a rendere gli uomini protagonisti, altrimenti siamo sazi, travolti dal torrente delle circostanze, dell’ideologia, dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, e soltanto l’incontro con Lui che - per usare una parola grata a don Giussani - “calamita” tutto l’essere, tutta l’affezione, tutta la ragione, che può veramente far sì che un uomo sia un protagonista della vita, e perciò dia un contributo reale al rinnovamento della società, un contributo per una umanità diversa.
IL CASO/ Mia figlia è come Eluana, ma ha imparato a mangiare e dice di non voler morire - Redazione - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
«E’ sbagliato parlare ancora di stato vegetativo: lo stato vegetativo non esiste, e quando si usa questa espressione, anche se sono scienziati a farlo, si crea solo confusione. Induciamo la gente a pensare che si tratti di persone non più vive. Invece mia figlia è viva, è come me». Cesare Lia, avvocato pugliese, è nella stessa condizione di Peppino Englaro: una figlia, Emanuela, che in seguito a un incidente stradale si trova da quasi sedici anni nella medesime condizioni di disabilità di Eluana. Ma la battaglia, sua e di tutta la sua famiglia, per affermare la vita di Emanuela lo ha portato ad ottenere risultati che definire sorprendenti è poco.
Avvocato, in che condizioni è sua figlia?
Mia figlia Emanuela innanzitutto è una persona viva, che riesce a comunicare con il mondo esterno. Certo, lo fa in modo diverso da quello che utilizziamo noi che non siamo disabili, in un modo che è difficile da intendere: cenni, piccoli gesti, movimenti degli occhi. Ma le persone che le sono vicine, che la seguono ogni giorno capiscono benissimo cosa lei dice, cosa vuole comunicare.
Ci racconti la sua storia: che cosa è accaduto a Emanuela?
Tutta questa dolorosa vicenda ha avuto inizio la notte del 31 dicembre del 1992, quasi contemporaneamente all’inizio della vicenda di Eluana Englaro. Emanuela quella notte ha avuto un gravissimo incidente stradale, che le ha provocato gravi lesioni. È stata in rianimazione a Lecce, per quattro mesi. Dopo di che abbiamo deciso di portarla ad Innsbruk. Lì, dopo averla curata, i medici ci hanno dato un responso gravissimo che non lasciava alcuna speranza: Emanuela sarebbe morta dopo pochi mesi.
Perché?
Anch’io rimasi molto colpito da queste conclusioni, dal momento che il corpo di Emanuela, a parte i danni cerebrali, non aveva altre gravi lesioni. Quando chiesi il perché ai medici, mi dissero che probabilmente sarebbe morta a causa delle infezioni, che potevano essere provocate soprattutto dal sondino, la PEG, con cui Emanuela veniva nutrita.
Allora voi cosa avete deciso di fare?
L’abbiamo portata a casa, e abbiamo deciso che da quel momento in poi ce ne saremmo occupati direttamente noi. La prima cosa che necessariamente bisognava ottenere era fare in modo che Emanuela non venisse più alimentata dal sondino, proprio per togliere il pericolo di infezione. Provammo ad abituarla a mangiare in modo naturale, ovviamente imboccata. All’inizio sembrava un’impresa disperata: bastava un piccolo cucchiaio d’acqua per rischiare che lei si soffocasse. Eppure, a poco a poco, con una pazienza che non saprei descrivere, siamo riusciti a rieducarla. Ora non ha più il sondino, viene imboccata, e riusciamo a darle piccole dosi di cibo, ma molto energetiche.
Oltre al problema del cibo, come vive Emanuela il resto della giornata?
Innanzitutto, come dicevo, Emanuela da allora è sempre stata a casa e non in ospedale. Per fare questo abbiamo in un certo senso “ripensato” tutta la casa, per farla diventare come un piccolo ospedale che ci permettesse di accudirla nel modo migliore. Abbiamo anche costruito una piscina per un certo tipo di terapia. Tutto questo per un motivo molto semplice: Emanuela deve poter vivere la sua quotidianità insieme a noi. È una cosa di un’importanza fondamentale, per noi e per lei: Emanuela vive con noi, è in contatto continuo con le persone che le sono vicine, partecipa della nostra vita quotidiana. E questo ha un effetto straordinario: lei dà dei segni chiari di questa sua particolare partecipazione. Quando guardiamo la televisione, magari qualche film leggero, è evidente che lei è lì con noi e gode di questa condizione.
Quindi nonostante lei non parli voi riuscite a comunicare con lei. Questo vi permette anche di conoscere la sua volontà? Si tratta di un passaggio fondamentale nella sentenza sul caso di Eluana…
Noi riusciamo chiaramente a capire qual è la volontà di Emanuela. Le dico una cosa di più: Emanuela, prima dell’incidente, era una ragazza molto simile a Eluana. Noi spesso la rimproveravamo per il fatto che tornava a casa tardi, che viveva da “scapicollata”. Lei reagiva dicendo che sarebbe vissuta solo vent’anni. Inoltre, c’erano stati ben due casi di ragazzi della sua scuola che avevano subito lesioni gravi in conseguenza di incidenti: ebbene, lei disse più volte che non avrebbe voluto vivere in quelle condizioni. Ora noi le chiediamo se preferirebbe morire: lei con tutta evidenza, con quel linguaggio che noi abbiamo imparato con certezza assoluta, ci dice sempre di no. La sua volontà, da allora, è cambiata.
Come è possibile che in queste condizioni sua figlia sia riuscita a fare dei progressi così incredibili, che l’hanno portata a imparare a mangiare e riuscire a comunicare?
La condizione indispensabile perché questo avvenga, ripeto, è il fatto che lei sia in casa e non in ospedale. Il contatto continuo con i famigliari e ciò che permette che questo accada. Certo, non è per nulla una cosa facile, e bisognerebbe che lo Stato aiutasse molto di più le famiglie in queste condizioni. Noi abbiamo una situazione economica che ci ha permesso di fare tutto questo, ma altri non possono, ed è inaccettabile. Poi, oltre al problema finanziario, ci sono altri elementi che rendono necessario un aiuto: i familiari si trovano spesso in gravi difficoltà psicologiche, perché sono situazioni che creano forti depressioni. Il contatto continuo con una persona gravemente disabile è impossibile, genera frustrazioni, e per questo è necessario fare continuamente dei turni. Il servizio sanitario dovrebbe mettere a disposizione personale per questo tipo di necessità.
Cosa fare per sensibilizzare di più l’opinione pubblica intorno a questo problema?
Bisognerebbe far vedere più spesso alla televisione chi lotta per la vita. Invece si vedono solo e unicamente coloro che decidono per la morte: abbiamo visto in questi giorni il caso del video del suicidio assistito trasmesso da una tv inglese. Ma lo stesso è stato per il caso di Welby, e per il caso Englaro. La scelta per la morte è molto più “pubblicizzata”. Invece bisognerebbe porre l’attenzione di tutti sulla vita, e su chi lotta per affermarla. Noi abbiamo anche deciso di diffondere un video che faccia vedere Emanuela, perché ci sembra che possa aiutare a capire il valore di quello che facciamo per lei.
DIGNITAS PERSONAE/ Non divieti ma un appello a seguire la verità e la bellezza della vita - INT. Roberto Colombo - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Presentando il testo alla stampa, mons. Rino Fisichella ha spiegato che i tempi sono «favorevoli» per uno sforzo comune di «credenti e non credenti» sui temi della vita, visto che viviamo «un momento di passaggio culturale caratterizzato dalla mutazione dei concetti fondamentali che abbiamo usato fino ad oggi», e questo a causa della «sperimentazione selvaggia». Abbiamo chiesto a don Roberto Colombo, direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare e Genetica Umana dell'Università Cattolica Milano, di approfondire le ragioni che hanno portato alla stesura del documento.
Perché, dopo più di vent’anni, la Congregazione per la dottrina della fede ha sentito la necessità di aggiornare il documento Donum vitae?
L’istruzione su “Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione” (Donum vitae) era apparsa nel febbraio del 1987, dopo una decina di anni dall’inizio dell’applicazione clinica umana delle prime tecniche di fecondazione in vitro (la prima nata da queste procedure fu Louise Brown, nel 1978). Inoltre, in quegli anni, si stavano anche sviluppando forme di sperimentazione in laboratorio sull’embrione umano e la diagnosi prenatale finalizzata all’aborto selettivo trovava più estese applicazioni grazie ai nuovi modelli di strumenti per ecografia ostetrica ed alla diffusione dei prelievi di cellule fetali presenti nel liquido amniotico (amniocentesi). Nei due decenni successivi alla pubblicazione di Donum vitae ulteriori e diversi attentati alla vita ed alla integrità dell’embrione umano (quali la diagnosi genetica sull’embrione prima dell’impianto in utero, i tentativi di clonazione umana e di ibridazione animale-uomo, la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane) ed alla dignità della procreazione (come la iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo ed altre nuove tecniche di fertilizzazione extracorporea) hanno suggerito alla Chiesa cattolica di precisare e completare il giudizio - alla luce della ragione e della fede - su quanto sta avvenendo nel mondo della ricerca biomedica e della pratica clinica. Come afferma lo stesso testo di Dignitas personae, non si tratta di enunciare nuovi principi, ma di affrontare «alcune problematiche recenti alla luce dei criteri enunciati dall’Istruzione Donum vitae» e riprendere «in esame alcuni temi già trattati, ma ritenuti bisognosi di ulteriori chiarimenti» (Introd., n. 1).
I media hanno subito rilevato che nel testo si trova l’affermazione: «l’embrione ha fin dall’inizio la dignità propria della persona». Perché è stata scelta quest’affermazione? La Chiesa non ha sempre sostenuto che l’embrione è persona?
Richiamando quanto affermato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae, Dignitas personae ricorda che il Magistero della Chiesa non si è mai impegnato «espressamente su un’affermazione d’indole filosofica» e che «Donum vitae non ha definito che l’embrione è persona» (Parte I, n. 5). La categoria di “persona” e la sua capacità antropologica di abbracciare il concepito sin dall’inizio della sua esistenza è oggetto di un intenso dibattito filosofico nel quale la Chiesa non intende entrare in modo definitorio, la sua missione essendo quella di educare all’amore alla vita umana in tutte le stagioni della sua esistenza e di richiamare al rispetto dovuto all’embrione e al feto in quanto esseri umani all’inizio del loro sviluppo. Così scriveva, nel 1995, Giovanni Paolo II: «Come un individuo umano non sarebbe una persona umana? Del resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell’obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l’embrione umano» (Evangelium vitae, n. 60). Anche laddove non sono stare raggiunte certezze filosofiche unanimi sulla persona dell’embrione, è perfettamente ragionevole ammettere che «l’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento» (Donum vitae, Parte I, n. 1). È una certezza morale quella che qui viene affermata. E, nella vita pratica, le certezze morali contano più di quelle filosofiche.
Come va letto il documento? Che cosa accomuna i “no” che vi sono contenuti?
Come in altre circostanze della vita individuale e sociale, i “no” possono essere pronunciati solo perché prima si è detto un “sì”. Non sarebbe ragionevole chiedere il sacrificio di una rinuncia se esso non fosse per un bene grande, fondamentale, personale e di tutti. Un bene così grande da rendere accettabile e corrispondente alle esigenze della ragione un passo indietro rispetto a quello che l’intelligenza ha progettato e che la volontà si appresterebbe a compiere. Così è anche per la ricerca scientifica in campo biomedico e per il desiderio dei coniugi affetti da sterilità di poter abbracciare un figlio. Il grande “sì” che il testo ci suggerisce è quello alla vita. Alla vita di ogni uomo e di tutti gli uomini, dal più piccolo e indifeso, quale è l’embrione umano nei primi stadi del suo sviluppo, sino all’adulto malato che non è più autosufficiente, che giace immobile in un letto e con il quale non siamo più in grado di comunicare. Dignitas personae stima e valorizza gli sforzi dei ricercatori e dei medici e la domanda di un figlio da parte di una coppia di sposi, ma li invita anche ad essere «il custode del valore e dell’intrinseca bellezza» di tutto l’uomo e di ciascun uomo (Concl., n. 36). Un invito a contemplare la verità e la bellezza della vita come sorgente normativa delle scelte della famiglia, della scienza e della medicina.
Se il matrimonio è aperto alla procreazione, perché il desiderio di avere figli non può essere comunque e sempre soddisfatto? Dare la vita non è una cosa comunque e sempre buona?
Il desiderio è umano, degno della statura antropologica e morale dell’uomo, solo se è desiderio di un bene e se il conseguimento di tale bene è perseguito attraverso atti buoni. Come dicevano i medioevali, non si può volere se non “sub specie boni”. Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, «l’atto moralmente buono suppone, ad un tempo, la bontà dell’oggetto, del fine e delle circostanze». Così, «un’intenzione buona (per esempio, aiutare il prossimo), non rende né buono né giusto un comportamento in sé stesso scorretto (come la menzogna e la maldicenza). Il fine non giustifica i mezzi» (nn. 1753 e 1755). La moralità consiste nel riconoscere ed attuare il nesso tra un’azione ed il significato del tutto implicato in quell’atto. Come potrebbero dei coniugi cercare di concepire un figlio dimenticando il valore fondamentale della vita di ogni concepito, trascurandone la dignità ed il valore e mettendo a rischio la vita di altri embrioni per far nascere un bambino, pur desiderato e a lungo atteso? Non si può amare la vita di un uomo o di una donna, di un bambino, senza, al contempo, portare rispetto e venerazione per ogni vita che Dio dona, anche al più piccolo essere umano vivente che viene al mondo. L’oggetto di un desiderio (in questo caso, dovremmo parlare di un “soggetto”, dato che è un uomo) impone il metodo della sua ricerca, del suo conseguimento, che non può avvenire in qualunque modo, ad ogni costo.
Secondo alcuni commentatori, il documento Dignitas personae, a differenza di Donum vitae, direbbe sì alla procreazione medicalmente assistita. E’ vero?
Si tratta di una lettura superficiale e distratta dei due testi della Congregazione per la Dottrina della Fede. Le “tecniche di aiuto alla fertilità” (o “cura dell’infertilità”, come le chiama anche Dignitas personae al n. 12 della Parte II) sono di diversa natura clinica. La medicina e la chirurgia non offrono solo la possibilità della fecondazione in vitro con trasferimento in utero degli embrioni (FIVET, ICSI ed altre procedure di manipolazione dei gameti e fecondazione extracorporea). Come già Donum vitae aveva fatto, il nuovo documento distingue accuratamente tra «interventi che mirano a rimuovere ostacoli che si oppongono alla fertilità naturale» (Parte II, n. 13: terapie farmacologiche, interventi di microchirurgia, ecc.), al fine di consentire una fecondazione nella sue sede fisiologica attraverso l’incontro dei gameti, dalle tecniche di fecondazione al di fuori del corpo femminile, quelle di cui si occupa estesamente - tra l’altro - le legge italiana n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Queste ultime, per il credente, restano moralmente inaccettabili, perché - come già aveva messo in luce Donum vitae - comportano «la dissociazione della procreazione dal contesto integralmente personale dell’atto coniugale» (Parte II, n. 16). Generare un figlio è e deve restare un atto personale dell’uomo e della donna chiamati da Dio ad essere padre e madre attraverso il reciproco amore consacrato, un atto non “vicariabile” da parte della biologia e della medicina. Queste ultime posso aiutare il compimento della finalità procreativa dell’atto coniugale rendendo possibile la fertilizzazione intracorporea qualora ostacoli di natura patologica la impediscano, ma con discrezione, non sostituendosi al compito irripetibile che Dio ha affidato ai coniugi.
UE/ Doppietta italiana - Mario Mauro - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
I Capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri dell'Unione europea si sono riuniti a Bruxelles l'11 e 12 dicembre scorsi. Si è trattato di un Consiglio europeo caldissimo sin dai giorni che lo hanno preceduto: sono stati affrontati temi estremamente delicati i cui risultati sono ancora molto difficili da decifrare. In particolare le questioni finanziarie ed economiche, l'energia e i cambiamenti climatici, il trattato di Lisbona e l'Europa della difesa sono stati al centro di un dibattito che alla vigilia si preannunciava come quello più acceso e insidioso: il pacchetto 20-20-20 su clima ed energia, ovvero l'ambizioso programma per ridurre entro il 2020 le emissioni di CO2 del 20% e contemporaneamente aumentare della stessa percentuale l'efficienza energetica e la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili.
Doveva essere il Consiglio della grande rottura tra Unione europea e Italia, il cui veto avrebbe impedito l'approvazione di misure sulle quali i vertici dell'Unione europea, ed in particolare Il presidente del Consiglio di turno Sarkozy e il Presidente della Commissione europea Barroso, avevano concentrato buona parte dei loro sforzi e delle loro aspettative per il futuro. Sarkozy, infatti, ha sempre sottolineato l'intenzione dell'Europa di non fare marcia indietro. Ma allo stesso tempo ha messo anche in evidenza la ragionevolezza della posizione di coloro, e tra questi anche l'Italia, che allertano su quelli che possono essere i rischi per l'occupazione e la sostenibilità del sistema industriale di vari Paesi. Su posizioni simili è sempre stato anche il Presidente della Commissione Barroso secondo il quale gli obiettivi del pacchetto non sono negoziabili, ma è comunque necessario garantire un’equa distribuzione dei costi del pacchetto con una flessibilità a fronte di "preoccupazioni giustificate".
L'intesa sul pacchetto clima - l'argomento centrale di questo summit tra i premier europei - è stata raggiunta con sforzi e trattative che hanno visto protagonista il governo italiano. Il piano sui cambiamenti climatici, modificato con degli emendamenti per alleggerire il suo impatto sull’industria e sugli stati Ue più poveri e un accordo d'incentivi per la ripresa economica da 200 miliardi di euro, è stato avallato, concludendo così nel migliore dei modi la riunione dei leader dei Ventisette. Sono state soddisfatte le richieste italiane alla luce del fatto che si è valutato attentamente tutti gli aspetti legati all'impatto e alla competitività.
L'accordo riflette un ammorbidimento delle posizioni iniziali ed è stato lo stesso presidente Berlusconi - il quale ha ricevuto i ringraziamenti di Sarkozy per aver agevolato il rapido raggiungimento dell'intesa - a spiegare che le misure saranno adottate dopo il 2013 e che dopo il 2010 ci sarà una rivisitazione di queste misure sulla base dei risultati della conferenza di Copenhagen. In questo modo l’Europa - e con lei l'Italia - si è posta all’avanguardia sull’ambiente, ma senza pagare per tutti. Un risultato pieno e soddisfacente dato che il parere italiano è stato ascoltato in ben 15 casi, in particolare sulla difesa delle industrie manifatturiere. Sono perciò saldi gli obiettivi di riduzione dei gas serra tenendo in considerazione le esigenze dei diversi paesi. Si punta alla sostenibilità delle misure delle diverse economie nazionali nel segno della concretezza, come l’Italia pretendeva negli interessi dell'economia globale.
Dal summit è arrivata inoltre la conferma di un accordo di principio fra i capi di governo sulle concessioni all'Irlanda che consentirà a Dublino di tenere un secondo referendum entro il novembre dell'anno prossimo sul trattato di Lisbona. In base all'intesa, all'Irlanda verrà concessa la garanzia che tutti gli stati dell'Ue avranno il diritto di avere un posto nella Commissione, cancellando l'idea di voler rendere più agile la massima espressione dell'esecutivo Ue, come era stato stabilito nel trattato. Infine, due punti che forse hanno avuto meno attenzione da parte dei media, ma che hanno certamente un'importanza centrale all'interno delle politiche europee: le questioni economiche e il tema della sicurezza e della difesa.
Sul primo punto l'Europa si è espressa a favore di un rafforzamento della stabilità, della supervisione e della trasparenza nell'ambito del settore economico-finanziario, sul secondo si è espressa ancora una volta verso nuovi obiettivi per garantire ai cittadini europei la sicurezza internazionale. Alla luce degli arresti avvenuti qualche giorno fa a Bruxelles che hanno modificato i piani di 16 terroristi pronti a colpire il cuore delle istituzioni europee, si intuisce quanto l'Europa sia chiamata a non far calare l'attenzione su questi temi.
SCUOLA/ Oliva: la parità è un bene per tutti, altro che un favore alla Cei - INT. Attilio Oliva - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Cei chiama, governo risponde (forse). In questi termini, secondo Attilio Oliva, è stata ancora una volta vissuta, da politici e media, la questione dei finanziamenti pubblici alla scuola paritaria. Cosa sia e quali benefici possa portare all’intero sistema scolastico una vera parità sembra un problema che non interessi a nessuno. Eppure, studi, ricerche e raffronti internazionali (attività in cui eccelle l’Associazione TreeLLLe di cui Oliva è presidente) sono lì a dimostrare chiaramente quanto un sano confronto tra scuole statali e non statali, e tra modelli organizzativi e didattici diversi, faccia bene al sistema di istruzione.
Non le sembra che il nostro Paese sia ancora fermo ai tempi della breccia di Porta Pia?
Questa è purtroppo la situazione in Italia: la questione della parità scolastica si configura ancora all’interno dei rapporti tra Stato e Chiesa. C’è ancora una coda ideologica che ci pone sulla scia della scuola da sottrarre ai gesuiti e al clero da parte di uno Stato laico e democratico che avanza. Il fatto di vivere ancora questa contrapposizione ci isola dal resto d’Europa: ci sono paesi di grande civiltà liberale e altri di grande tradizione democratica, e socialdemocratica, dove il ruolo della scuola paritaria, religiosa o non religiosa, è largamente riconosciuto e finanziato in tutto o in parte dallo Stato. Questo accade in Olanda, in Belgio, in Francia e in altri paesi, dove la percentuale delle scuole non statali raggiunge il 15 o il 20% del totale. E ripeto: è finanziata dallo Stato, con modalità che variano da paese a paese.
Quali ragioni ci differenziano dal resto d’Europa?
Ciò che ci distingue è quel retaggio ideologico che sfalsa e corrompe un sano e costruttivo dialogo intorno a questo tema. Forse questo accade per la nostra storia, perché siamo il paese dove risiede il Papa, e dove il clero ha avuto un ruolo particolarmente forte anche all’interno dei poteri secolari. Ci sono dunque ragioni storiche che ci possono portare a comprendere perché certe reazioni siano dure a spegnersi. Ragioni che si possono comprendere, ma non certo giustificare. Detto in parole povere, siamo fuori tempo massimo: all’inizio del 2000 non possiamo permetterci di mantenere viva questa contrapposizione. E soprattutto non dovrebbero permetterselo i media, che troppo spesso alimentano lo scontro.
Eppure la parità esiste, ed è anche riconosciuta dalla legge
Certo, la legge sulla parità esiste, ed è stato un salto formidabile realizzato dal ministro Berlinguer sin dal 2000. Dobbiamo ammettere che la sinistra riformista è riuscita a fare quello in cui nemmeno i democristiani erano riusciti. Il problema è che ci siamo illusi che questo potesse segnare la fine di una storia non più adeguata ai nostri tempi. Ora dobbiamo purtroppo ammettere che così non è stato, e che ancora ricadiamo in una contrapposizione antica, che ci rende anche un po’ infantili.
Al di là delle contrapposizioni ideologiche, quali altri motivi frenano la strada della parità?
Il freno maggiore è dato dal fatto che non si riesca a far propria l’idea che il quasi monopolio statale di oggi e per di più a gestione fortemente centralizzata è un limite potente all’innovazione. Se abbiamo a cuore che la scuola migliori, e che migliorino i suoi protagonisti, insegnanti e presidi, allora abbiamo tutto l’interesse ad attivarci perché si crei un meccanismo di emulazione tra tutti i soggetti: tra scuola e scuola, tra insegnante e insegnante, tra preside e preside. L'obiettivo strategico è dunque che, attraverso il confronto, la stessa scuola statale possa migliorare. La tensione al miglioramento viene solo dal confronto, e dalla valutazione qualitativa degli apprendimenti, dall’organizzazione delle scuole e dal confronto della loro efficacia ed efficienza (anche il controllo dei costi è tutt’altro che irrilevante). E qui veniamo al grande buco nero della nostra scuola.
Quale?
La valutazione. Da noi è una cosa che non esiste, non si valutano con test nazionali oggettivi gli apprendimenti degli studenti così come avviene da anni in molti paesi europei. Non si valutano i docenti, non si valutano i presidi, non si valutano le scuole. Ciò che invece può portare a un vero progresso sono proprio i confronti, tra scuole di tutti i tipi, statali e non statali, che siano di stimolo l’una all’altra mettendo in gioco tutta la propria capacità di iniziativa e di innovazione, didattica e organizzativa. Luigi Einaudi diceva chiaramente che una scuola figlia del monopolio statale sarebbe stata vittima della staticità e della scarsità di innovazione. Quindi il confronto tra scuole statali e non statali è un bene intrinseco, e se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. In Italia la scuola statale comprende il 95% degli studenti; se noi, riducendo i finanziamenti, schiacciamo anche quel 5%, che sarebbe bene incrementare, non faremmo altro che l’ultimo passo verso il monopolio assoluto dello Stato. E sarebbe un gravissimo errore strategico.
Per quanto riguarda i modelli di finanziamento, non ritiene che i soldi dovrebbero essere affidati direttamente agli utenti, che poi decidono come e dove spenderli?
Per rispondere mi ricollego ancora al problema della valutazione: allo stato attuale mi parrebbe una fuga in avanti, perché dare agli studenti e alle famiglie i soldi per scegliere, dal momento che manca un sistema di valutazione che possa dare ai cittadini le indicazioni utili per scegliere la scuola migliore, sarebbe una cosa sostanzialmente inutile. È come mettere in mano a una persona uno strumento che non è in grado di utilizzare. Per cui questo tipo di finanziamento è comunque da subordinare all’introduzione di un serio sistema di valutazione.
Mentre parliamo di riforme, il governo ha deciso di rinviare di un anno la riorganizzazione della scuola superiore: non le sembra l’ultima di una lunga serie di timidezze della politica sul fronte scolastico?
Il sistema scuola è un sistema che è rimasto sostanzialmente uguale a se stesso da mezzo secolo: se tutto il mondo cambia e la scuola non cambia, qualche problema ci sarà. Ora, per affrontare questi problemi l’unico modo è che le forze politiche, come succede in tutti i paesi più evoluti, lavorino in stretta collaborazione. Ci sono paesi d’Europa in cui le riforme sulla scuola necessitano in Parlamento di una maggioranza qualificata. Da noi invece chiunque vada al governo viene fin da subito assalito dall’opposizione per qualunque modifica anche ragionevole voglia portare avanti. È avvenuto a Berlinguer, ed è avvenuto alla Moratti, ora alla Gelmini.
Come se ne esce?
Per ora non se ne esce: anche questo governo è partito lancia in resta, con proposte buone o meno buone, ma certo con uno spirito di innovazione, ad esempio per ridurre gli sprechi e per utilizzare i soldi meglio. E d è stato aggredito come tutti sappiamo; ma la stessa sorte avevano avuto i governi di sinistra, in particolare quando era ministro Berlinguer. Se ne uscirebbe solo se le forze politiche di maggioranza e opposizione si sedessero intorno a un tavolo e decidessero cosa si deve fare: e tutti sanno benissimo che cosa bisogna fare. Fuori da questa strada continueremo con la politica degli annunci e dei rinvii. È una situazione ormai drammatica: dopo la riforma delle medie negli anni 60 non è più stato fatto nulla per l’istruzione secondaria, sia tecnica che liceale. Una cosa inconcepibile.
(Rossano Salini)
RICORDO/ Heinrich Schlier, l'uomo che difese la figura di San Paolo dalla mentalità dominante - Pigi Colognesi - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Siamo nel pieno dell’anno dedicato a san Paolo. Di tanto in tanto qualche improvvisato teologo ed esegeta spara sui quotidiani la sua personale interpretazione delle lettere dell’apostolo delle genti. Di solito si tratta di rimasticature di vecchie teorie che fanno del convertito sulla via di Damasco l’arcigno «inventore» del cristianesimo o, protestanicamente, il paladino della fede autentica contro le deviazioni cattoliche. È quindi essenziale scoprire il vero volto dell’ebreo di Tarso, persecutore dei cristiani e poi, in forza di una personalissima esperienza di Cristo, annunciatore instancabile del Vangelo, a costo del martirio, subito a Roma.
Forse nessun autore è più adatto a comprendere la figura e il pensiero di san Paolo di Heinrich Schlier. Il suo denso Linee fondamentali di una teologia paolina (Morcelliana 2005) è un capolavoro di sintesi, mentre i due monumentali commenti alle lettere agli Efesini e ai Romani (entrambi di Paideia) introducono alla comprensione analitica di questi due fondamentali testi. Sono stati tradotti anche scritti più divulgativi, come La lettera ai Filippesi (Jaca Book 1993) e altri studi di esegesi neotestamentaria.
Val la pena parlare di Schlier anche perché proprio in questi giorni, precisamente il 26 dicembre, ricorre il trentesimo anniversario della sua morte. Schlier era nato nel 1900 in una cittadina della Baviera, da famiglia luterana. Egli stesso divenne pastore luterano e insegnante di esegesi; materia nella quale tenne per anni la cattedra all’università di Bonn. Proprio lo studio dei primi documenti scritti del cristianesimo lo ha condotto alla conversione al cattolicesimo, ufficializzata nel 1953 a Roma.
Egli stesso ha raccontato - in uno scritto intitolato Breve rendiconto (Nuova Omicron 1999) - le ragioni che lo hanno portato ad aderire alla Chiesa cattolica, proprio lui che era uno dei più apprezzati studiosi di quel san Paolo che Lutero aveva eretto come vessillo contro il cattolicesimo. Schlier inizia il racconto della propria conversione con queste parole: «La strada che conduce alla Chiesa non me la sono aperta da solo, l’ho presa. Era la strada che mi era data; ma era anche la strada che dovevo seguire». Dichiara poi di aver voluto spiegare le ragioni della propria conversione al cattolicesimo non per «soddisfare una pia curiosità», ma per «portare una testimonianza di verità». Egli non sta quindi a narrare tutte le varie vicende personali che lo hanno portato dal luteranesimo al cattolicesimo, ma si concentra sulle ragioni che lo hanno convinto proprio a partire dallo studio del Nuovo testamento e di san Paolo in particolare.
Tra queste ragioni credo che ce ne sia una da riportare, perché particolarmente interessante nel contesto attuale. Ci troviamo, infatti, in un clima di rinascente spiritualismo, nel quale anche il cristianesimo rischia di essere interpretato – seppure in termini esteriormente elogiativi – come una delle tante possibili spiritualità intimistiche. Scrive, invece, Schlier: «Il Verbo si è fatto carne. Questa è stata la chiave che mi ha aperto alla comprensione sempre più chiara di tutto il cristianesimo. Ciò posto, tutto è pronto per comprendere la Chiesa romano-cattolica. È su questo che nella cristianità si sono divisi da sempre e anche oggi si dividono gli animi. Anche la Chiesa evangelica e la sua teologia riconoscono che il Verbo si è fatto carne. Ma non è pienamente riconosciuto ciò che questo comporta e non se ne tirano le conseguenze. Il farsi carne del Logos [il Verbo] significa la sua venuta nell’uomo Gesù e perciò nel mondo degli uomini come mondo suo e a servizio della sua rivelazione. È una venuta nell’uomo Gesù e nel suo mondo fino al punto che il Logos sempiterno, per il quale tutto è stato creato e illuminato, si cela ora nella storia “di carne” di questo mondo e attraverso la storia “di carne” di questo mondo si rivela come Logos: in questo e in nessun altro modo; ma proprio in questo modo la sua doxa, la sua luminosa realtà si lascia incontrare e si dà a conoscere pienamente e interamente. Perciò della carne, della sostanza storica del mondo e soprattutto delle strutture mondane non c’è niente che non possa essere mezzo, strumento, veicolo, abitazione dell’opera efficace del Logos che entra nella nostra storia e nel nostro mondo».
Quanto appena detto dimostra, agli occhi di Schlier, il valore del tanto deprecato “materialismo” della Chiesa cattolica. Aggiunge poi: «La parola è diventata “carne” e non parola». Da questo derivano le conseguenze che differenziano il cattolicesimo dal protestantesimo (e, aggiungiamo oggi, da tanto cattolicesimo protestantizzato): «Poiché il Verbo si è fatto carne e non solo parola, c’è ora non solo predicazione ma anche il sacramento; c’è il dogma e non solo la testimonianza; c’è anche santificazione e quell’andare di gloria in gloria di cui parla l’apostolo Paolo, e non solo l’attuarsi dell’esistenza nella fede; c’è infine la presenza reale di Cristo nella Chiesa, nella sua istituzione, nel suo diritto, nella sua liturgia e non solo il suo fuggevole balenare, a partire dalla Scrittura, nell’anima di un uomo».
In definitiva, «la Chiesa è un mondo. Come corpo di Cristo o come dimensione di Dio essa è concreto tempio, concreta città, concreta casa di Dio». Schlier trae da ciò un’altra importante conseguenza: «La Chiesa sta prima del singolo cristiano. Essa è corpo di Cristo: nei suoi membri, e perciò, da una parte, sempre più della somma dei suoi membri, e dall’altra anche sempre “prima” dei suoi membri. Essa è il corpo della testa, è il corpo del secondo, del’”ultimo” Adamo. E se, come uomini, da Adamo veniamo e in Adamo viviamo e anzitutto, ciascuno a suo modo, portiamo in noi l’impronta di Adamo, così che è lui che gli altri incontrano, come membra battezzate del corpo di Cristo veniamo da Lui, Cristo, e siamo in Lui, per “imitarlo” adesso, vivendo del suo corpo, e per portarne in futuro la sua “immagine”».
CINEMA/ Come dio comanda: il rapporto padre-figlio estremo e scioccante affascina e delude - Antonio Autieri - lunedì 15 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Un padre violento ma innamorato visceralmente del proprio figlio 14enne, con cui vive da solo. E un amico matto, l’unico che sta con loro. Ma una notte una tragedia cambia il corso di vite già di per sé piene di disagio.
Girato in un Friuli aspro e desolato (ma in realtà non si danno punti di riferimento espliciti: si intuisce solo che siamo nel nord, meglio nord-est, italiano), Come dio comanda mette al centro il rapporto estremo tra un padre e un figlio, che vivono soli e senza prospettive. Rino è disoccupato, beve, è aggressivo e violento, si circonda di simboli nazisti e odia “negri e slavi che vengono a rubarci il pane di bocca”; soprattutto, impone al figlio Cristiano, di 14 anni, un codice fatto di odio, onore e vendetta, di culto del loro rapporto e di volontà di replicare a soprusi veri o presunti. Però Rino ama davvero il figlio, anche se è un amore malato, chiuso, possessivo. Il ragazzo è timido, emarginato a scuola, ma nel rapporto con il padre – che pure a tratti soffre – si esalta: si picchiano e si adorano, fanno muro contro tutti (a cominciare dall’assistente sociale, che minaccia di togliere il figlio a Rino se non trova un lavoro e non smette “di fare casini”), si cacciano nei guai, guardano con sospetto il mondo. L’unico amico è Quattro Formaggi che, a causa di un incidente con i fili dell’alta tensione nella cava in cui lavorava, non ci sta con la testa ma è affezionatissimo a padre e figlio. Quattro Formaggi è gentile, ama fare presepi con personaggi strampalati, pensa sempre a Dio e ama una pornostar di cui vede ossessivamente un film a luci rosse sognando che si rivolga a lui (con tanto di braccia apposta ai lati della tv, per farsi a”accarezzare” dallo schermo-donna). Ma quando pensa di riconoscere la bionda Ramona Superstar in una ragazzina, compagna di classe di Cristiano, iniziano i problemi per tutti. Una tragedia manderà in pezzi il fragile equilibrio del terzetto. Soprattutto, Cristiano guarderà al padre con dolore e sgomento.
Il 13° film di Gabriele Salvatores riprende un romanzo di Niccolò Ammaniti; ed è la seconda volta che accade, dopo il bel Io non ho paura. In questo caso l’esito è meno felice, diseguale, non del tutto convincente. Anche se non mancano gli elementi di interesse. In primo luogo, è azzeccato l’aspetto visivo, dove lo squallore dei paesaggi urbani e periferici si somma con l’angoscia di un bosco notturno da tregenda, flagellato da una pioggia incessante che insieme al fango e alla paura di chi ci si ritroverà immerso delineano uno scenario da incubo. Anche la storia è ricca di spunti e in effetti questo rapporto padre-figlio estremo e a tratti scioccante affascina come un abisso vertiginoso, grazie soprattutto alla veridicità delle interpretazioni.
Se di Filippo Timi (intenso, roccioso, inquietante; peccato solo per il tono di voce, non sempre all’altezza della presa diretta) si conosceva la bravura ma per la prima volta il suo ruolo ne esalta lo spessore (e adesso lo aspettiamo nei panni di un giovane Mussolini in Vincere di Marco Bellocchio), il ragazzino esordiente Alvaro Caleca gli tiene testa con insospettabile energia; due personaggi “sbagliati” ma amati dal regista, che giustamente evita di farne bersagli di un’accusa totale (anche perché nessuno, tanto meno il “bravo” assistente sociale, li aiuta davvero a uscire da quella dimensione alienata e da una vita squallida). Mentre Elio Germano, che non ha bisogno ormai di conferme, disegna un folle un po’ prevedibile ma con tenera umanità. Piuttosto i punti deboli sono in ruoli di contorno, a cominciare da un Fabio De Luigi fuori parte nei panni dell’assistente sociale. Ma i punti deboli di un film, pur apprezzabile e interessante, sono in alcuni snodi improbabili (un’Ipod che continua a suonare per giorni, senza scaricarsi), in alcune scelte discutibili (una famosa canzone di Robbie Williams, già stucchevole di suo, ripetuta in vari momenti della storia con insistenza irritante), in dettagli che non convincono (un 14enne, che pure ne dimostra di più, che sposta da solo pesi insostenibili per un ragazzino; la scena del delitto pasticciata e tirata per le lunghe). Quello che però delude maggiormente è in realtà un mancato apprendimento di temi che avrebbero meritato maggiore sviluppo, dall’evoluzione del rapporto tra i personaggi (delineati all’inizio, le loro reazioni sono un po’ meccaniche; ma il finale sembrerebbe concedere una possibillità a padre e figlio) all’evocazione superficiale di un Dio lontano, assente e distratto di fronte al dolore e che probabilmente non c’è nemmeno.
Un Dio che ci si ostina a scrivere con l’iniziale minuscola, come nel titolo, quasi a fargli un dispetto (forse anche per rafforzare il paragone con un padre che si fa Dio per il figlio, ma che Dio non è), ma che soprattutto ci si limita a nominare invano, di cui si condanna il comportamento.
Ma che nessuno cerca davvero di conoscere.
15/12/2008 – INDIA - Orissa: il Natale di Namrata, la piccola Dalit sfigurata da una bomba - di Nirmala Carvalho - È il volto più noto fra le vittime degli attacchi contro i cristiani. Dopo 45 giorni di ospedale, ora è guarita. La sua famiglia di braccianti giornalieri, ha perduto ogni cosa. I timori e le speranze nell’imminenza del Natale.
Bangalore (AsiaNews) – Namrata Nayak è una piccola Dalit di 10 anni, del villaggio di Sahi Panchayat, vicino a Raikia (distretto di Kandhamal, Orissa). Tre mesi fa, allo scoppio delle violenze contro i cristiani, la piccola è stata sfigurata in volto da una bomba lanciata dagli estremisti indù. Dopo 45 giorni di ospedale, la piccola è guarita e ora saltella felice. “Natale è gioia e pace” racconta Namrata, “e io sono così felice qui: tante persone che si prendono cura di noi; tanti che pregano per noi e per la pace e la giustizia a Kandhamal…”. Namrata, insieme a sua mamma Sudhamani e altre 20 persone sono giunte a Bangalore dai campi di rifugio dell’Orissa grazie all’impegno del Global Council of Indian Christians.
La piccola è stata sfigurata il 26 agosto. Quando è arrivata all’ospedale di Berahampur aveva ustioni al 40% del corpo. Ora è praticamente guarita. “Per me – dice Namrita ad AsiaNews – Natale è un tempo per ringraziare Gesù Bambino che mi ha salvata dal fuoco ed ha salvato la mia faccia, che era sfigurata e ferita. Sono una delle poche fortunate che è sfuggita alla morte, anche se ho dovuto passare un lungo periodo in ospedale. Mi sento molto amata dalla gente dell’India e da tanti nel mondo che hanno visto la mia foto e hanno pregato per me.
“A Kandhamal c’è tanto dolore e sofferenza e non so per quanto tempo le Forze speciali ci proteggeranno. Ma Natale è un tempo di gratitudine. Temo che la mia gente sarà ancora attaccata, ma questa è la nostra vita. Se Dio ha salvato me, potrà salvare anche altri cristiani”.
I radicali indù hanno promesso di organizzare ancora uno sciopero il giorno di Natale se non verranno arrestati i responsabili dell’uccisione di Swami Laxamananda Saraswati, il leader indù, dal cui assassinio ha preso il via il pogrom contro i cristiani lo scorso 23 agosto. Le Chiese temono che i raduni dei radicali indù possano sfociare ancora una volta in violenze incontrollate. “Natale è anche tempo di perdono – afferma Namrata – e noi perdoniamo i radicali indù che ci hanno attaccato, hanno bruciato le nostre case. Erano persone fuori di sé, che non conoscono l’amore di Gesù. Per questo ora voglio studiare con molto impegno perché quando sarò grande voglio raccontare a tutti quanto Gesù ci ama. Questo è il mio futuro. Il mondo ha visto la mia faccia distrutta dal fuoco, ora deve conoscere il mio sorriso pieno di amore e di pace. Voglio dedicare la mia vita a diffondere il Vangelo”.
I genitori di Namrata (Akhaya Kumar , 45 anni e la signora Sudhamani, 38) sono braccianti agricoli a giornata. Le 3 figlie e un figlio sono studenti. Per aiutare i magri introiti della famiglia, la figlia più grande, Trusita (18 anni), lavora anche come domestica nella casa di un indù convertito, il sig. Harihar Das. Quando sono scoppiate le violenze contro i cristiani, Akhaya e Sudhamani sono fuggiti nella foresta; mandando le figli a nascondersi nella casa di Harihar Das.
La notte del 26 agosto, i radicali indù sono entrati nella sua casa e hanno distrutto la porta, distruggendo e bruciando ogni cosa. La famiglia di Harihar Das, Namrata e le sorelle si sono nascoste in una piccola toeletta. Prima di andare via, i fanatici indù hanno lasciato una bomba in un armadio. Tornata la calma, tutti i superstiti sono usciti, ma la piccola Namrata, per curiosità è rimasta nella casa a guardare i danni. La bomba è scoppiata bruciando il volto della piccola, mentre alcune schegge l’hanno ferita alla faccia, alle mani e alla schiena.
Sudhamani continua il racconto: “L’indomani io e mio marito siamo usciti dalla foresta correndo verso la casa di Harihar. Vedendo tutto bruciato abbiamo temuto che tutti fossero periti nelle fiamme. Invece, grazie a Dio, tutti erano salvi. Solo la mia bambina aveva subito delle ustioni. Ma Gesù ha preso cura di lei. L’abbiamo portata all’ospedale di Berhampur ancora incosciente e tutta ferita. Ma dopo 45 giorni di cure, ora sta bene”.
“La mia speranza – confessa ad AsiaNews – è che possiamo avere ancora un futuro a Raikia. Noi non possediamo nulla e potremmo anche emigrare, ma a Sahi Panchayat abbiamo qualche parente, i nostri vicini. Se andiamo via di qui saremo dei vagabondi.
Natale porta speranza. La speranza è la nostra unica ricchezza ora: eravamo poveri e ora è stato distrutto anche quel poco che avevamo…Ma Natale significa che Cristo nasce e ogni nascita significa una nuova vita. Gesù è disceso dal cielo per salvarci da questa miseria, da questo dolore, dall’abbandono e dalla nostro essere senza tetto. Il suo potere ci riempie di speranza, di amore e di perdono”.
15/12/2008 12:55 – VIETNAM - Ora tocca a Vinh Long: si abbatte un monastero per fare un parco - di J.B. An Dang - Come già accaduto per la ex delegazione apostolica ed il terreno della parrocchia di Thai Ha, le autorità locali prima tentano di cedere a privati beni dei quali si sono impadronite, poi, davanti alle proteste, ne fanno un parco.
Hanoi (AsiaNews) – Dopo la ex delegazione apostolica e Thai Ha, ora tocca al monastero di San Paolo di Vinh Long, delle suore della carità di San Vincenzo De Paoli, ad essere abbattuto (nella foto), per farne un parco pubblico. Appropriarsi di beni ecclesiastici e trasformarli in parchi sembra stia diventando una linea politica delle autorità vietnamite, O magari una vendetta, perché le proteste dei cattolici non hanno consentito di concedere a privati quei terreni.
L’annuncio della nuova destinazione del terreno del monastero distrutto è stato dato dal Comitato del popolo della provincia di Vinh Long nel corso di una conferenza stampa, tenuta il 12 dicembre. L’annuncio ha fatto seguito alle consuete accuse di questi casi contro le suore. Esse “sfruttano la libertà religiosa per ispirare proteste contro lo Stato della Repubblica socialista del Vietnam e di conseguenza danneggiare l’unità del popolo”.
L’attacco governativo è arrivato dopo l’inizio delle proteste delle suore, che a maggio avevano saputo del progetto del governo locale di trasformare il loro monastero in un albergo a cinque stelle.
In una lettera del 18 maggio, indirizzata a sacerdoti, religiosi e laici, il vescovo di Vinh Long, Thomas Nguyen Van Tan ripercorreva la storia della controversia. “Il 7 settembre 1977 – scriveva – può essere visto come il giorno del diasastro per la nostra diocesi”. “Quel giorno le autorità locali hanno mobilitato le loro forze di sicurezza per bloccare e assalire il Collegio della Santa Croce, il monastero di San Paolo ed il seminario maggiore. Poi si sono impadroniti delle proprietà ed hanno arrestato coloro che si occupavano degli edifici. Io stesso – sottolineava il vescovo – sono stato uno degli arrestati”.
“Invano, in seguito, rappresentanti del superiore provinciale delle Suore della carità di San Vincenzo De Paoli e l’ufficio del vescovo hanno inviato petizioni alle autorità locali e nazionali. Ad esse non è mai stato risposto”. “Recentamente – proseguiva la lettera – il governo locale ha emanato un decreto per costruire un albergo su un terreno di 10.235 metri quadrati di proprietà delle suore”.
Il tempo dell'attesa - I tre Avventi - In occasione del quarantesimo anniversario della morte del monaco statunitense pubblichiamo una sua breve riflessione sul periodo della preparazione al Natale estratto da un suo testo pubblicato in Italia da Rusconi nel 1977 con il titolo Stagioni liturgiche. - di Thomas Merton – L’Osservatore Romano, 16 dicembre 2008
San Bernardo torna frequentemente sull'idea dei "tre Avventi" di Cristo. Il primo è quello con il quale è entrato nel mondo, dopo aver ricevuto la natura umana nel seno della benedetta Vergine Maria. Il terzo è l'Avvento che lo porterà nel mondo alla fine del tempo per giudicare i vivi e i morti o piuttosto per rendere manifesto il giudizio che gli indifferenti hanno voluto far ricadere su se stessi rifiutando di accogliere il suo amore e la salvezza, e che gli eletti hanno accettato dalle mani della sua misericordia.
Il primo Avvento è quello nel quale egli viene a cercare e a salvare ciò che era perduto. Il terzo è quello nel quale egli viene per trarci a sé. Il primo è una promessa; il terzo è il suo adempimento. (...).I tre Avventi di Cristo sono la realizzazione completa della pascha Christi. Ma finora abbiamo parlato esplicitamente soltanto del primo e del terzo. Il secondo è, in un certo senso, il più importante per noi. Il "secondo Avvento" - per mezzo del quale Cristo è presente adesso nelle nostre anime - dipende dal nostro attuale riconoscimento della sua pascha, o transitus, il passaggio di Cristo attraverso il mondo, attraverso le nostre stesse vite.
Meditando l'Avvento passato e l'Avvento futuro, impariamo a riconoscere l'Avvento presente, che si situa in ogni momento della nostra vita di pellegrini terreni. Raggiungiamo la consapevolezza del fatto che ogni momento del tempo è un momento di giudizio, che Cristo sta passando e che noi siamo giudicati dalla maggiore o minore coscienza di questo suo passaggio. Se ci uniamo a lui e ci mettiamo in cammino, con lui, verso il suo regno, il giudizio diventa salvezza per noi. Ma se lo trascuriamo e se lo lasciamo andare oltre, la nostra indifferenza diventa la nostra condanna. La meditazione sul primo Avvento ci dà la speranza nella promessa che ci è stata fatta. Il ricordo del terzo serve a tener vivo il timore di non essere in grado di vedere adempiuta questa promessa. Il secondo Avvento, il presente, posto fra questi due termini estremi, diventa necessariamente un tempo di angoscia, un tempo di conflitto fra il timore e la gioia. Ma com'è salutare questa lotta, che termina nella salvezza e nella vittoria perché purifica il nostro intero essere! Il medius Adventus, nonostante ciò, è tempo più di consolazione che di sofferenza, se riflettiamo che anche in esso Cristo viene realmente a noi, ci dà realmente se stesso perché, nella speranza, possediamo già il cielo. "Questo secondo Avvento è la via che noi percorriamo per passare dal primo al terzo. Nel primo, Cristo era la nostra redenzione, nell'ultimo ci apparirà come la nostra vita. In quello presente, mentre dormiamo nella nostra eredità, egli è il nostro riposo e la nostra consolazione" (Sermo v de Adventu, 1). In questo "sonno" non c'è però alcuna idea di inattività. Indubbiamente può significare quiete, oscurità e vuoto per la nostra attività naturale. Ma in questa "oscurità" Dio viene a noi e opera misteriosamente dentro di noi in spirito e verità, per far sì che il frutto della sua opera diventi manifesto nel terzo Avvento, quando egli verrà in tutta la sua maestà e in tutta la sua gloria.
(©L'Osservatore Romano - 15-16 dicembre 2008)
Ru486: via libera alla "favola dell’aborto facile" - Autore: Morresi, Assuntina - Fonte: ilsussidiario.net - lunedì 15 dicembre 2008 - In ospedale ti daranno una pillola
Per un beffardo paradosso, a meno di eventi improvvisi ed imprevedibili, la pillola abortiva Ru486 sarà utilizzata in Italia proprio quando è sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella la quale, insieme a chi scrive, ha condotto negli ultimi tre anni una lunga e pubblica battaglia contro questo composto chimico.
La parte tecnico scientifica della procedura di approvazione della Ru486 è stata conclusa dall’Aifa, l’ente di farmacovigilanza italiano, lo scorso febbraio, quando ne era Direttore Nello Martini, e Ministro della Salute Livia Turco. I primi di agosto la ditta produttrice del mifepristone – principio attivo della Ru486 – ha inviato all’Aifa il dossier prezzi del medicinale in vista della trattativa sul prezzo, e la prossima settimana inizierà l’ultimo passaggio, al Consiglio di Amministrazione dell’Aifa.
“La favola dell’aborto facile”, è il titolo del libro che abbiamo scritto insieme Eugenia Roccella ed io, in cui spiegavamo che l’aborto con la pillola è tutt’altro che semplice, come invece veniva propagandato fino a qualche anno fa. L’aborto viene semplificato nell’immaginario – in fondo, sono solo due pillole – ma nella realtà quello chimico è più lungo, doloroso e psicologicamente più pesante rispetto al chirurgico: l’intera procedura dura almeno quindici giorni, più della metà delle donne dichiara di aver riconosciuto l’embrione abortito, gli effetti collaterali sono numerosi e gravosi, e soprattutto preoccupano quelle morti, oramai salite ad almeno diciassette, venute alla luce una ad una, per la maggior parte scoperte da noi, e che mai sarebbero state conosciute in Europa se non ne avessimo scritto sulle colonne di Avvenire e del Foglio.
La polemica sulle morti per aborto farmacologico era nata negli Usa dopo che la diciottenne californiana Holly Patterson era stata colpita da una rarissima e fatale infezione, nel settembre del 2003: il padre iniziò subito una battaglia giudiziaria per conoscere la verità sulle cause della morte della figlia, ma la notizia è giunta in Italia solo due anni dopo, nel 2005, grazie ai nostri articoli (i principali si possono leggere sul sito http://www.salutefemminile.it , alla voce Ru486).
Il numero delle morti è ancora incerto – almeno diciassette, ma ricordiamo che dalla Cina e dall’India ci viene raccontato solo che “tante donne muoiono”, senza la possibilità di conoscere i numeri effettivi. Quel che preoccupa, però, è che per la maggior parte non sono emerse da regolari denunce delle autorità sanitarie agli enti di farmacovigilanza dei rispettivi paesi, ma sono state segnalate una ad una da parenti, attivisti pro-life, femministe, giornalisti, in generale da persone interessate all’argomento.
Sappiamo che l’Aifa ha preso in considerazione le morti da noi segnalate – erano sedici, lo scorso anno - ma che questo non è stato sufficiente per bloccare l’ingresso del farmaco del nostro paese, e che è prevalso il parere positivo espresso in sede europea.
D’altra parte, solo dopo le nostre denunce i media italiani hanno cominciato ad essere più cauti nel parlare di aborto chimico, e altre pubblicazioni contro la pillola abortiva hanno affiancato le nostre.
Nei paesi in cui è stata diffusa la Ru486, l’aborto è tornato fra le mura di casa: un aborto a domicilio, per il quale è più difficile intervenire con misure di prevenzione e di sostegno alla maternità.
Un modo per scardinare nei fatti la legge 194, che prevede che l’aborto avvenga interamente all’interno delle strutture sanitarie pubbliche: anche nell’unica sperimentazione ufficiale avvenuta in Italia, quella diretta dal ginecologo radicale Silvio Viale all’ospedale Sant’Anna a Torino, la stragrande maggioranza delle donne è tornata a casa sia dopo la prima pillola – la vera e propria Ru486, che fa morire l’embrione in pancia– che dopo la seconda – il misoprostolo, che induce l’espulsione dell’embrione - nonostante il protocollo di sperimentazione prevedesse il ricovero ospedaliero. E proprio il fatto che diverse donne avessero abortito fuori dall’ospedale ha fatto scattare un’inchiesta della magistratura torinese.
Dalla valutazione tecnico scientifica dell’Aifa non si può più tornare indietro, a meno che non siano segnalati gravi eventi avversi nel nostro paese.
Al Ministero del Welfare rimane ancora un margine per intervenire: c’è ancora da definire il prezzo e soprattutto le modalità di somministrazione e il protocollo da seguire. L’obbligo previsto dalla legge 194 di abortire presso strutture pubbliche rappresenta sicuramente un ostacolo alla diffusione del metodo farmacologico; nella stessa direzione è anche il parere del Consiglio Superiore di Sanità, che ha stabilito che il rischio che si corre con la procedura chirurgica è pari a quello con il metodo chimico solamente se in entrambe i casi si ricorre al ricovero ospedaliero.
Il Ministero del Welfare stabilirà sicuramente protocolli rigorosi per lo svolgimento di questo tipo di aborti. Ma il giorno in cui la Ru486 entrerà definitivamente in commercio in Italia, prevenire l’aborto sarà più difficile.
SCUOLA/ La vittoria di Pirro - Giovanni Cominelli - martedì 16 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La decisione di rinviare i Regolamenti concernenti l’istruzione secondaria di secondo grado è stata accompagnata da uno squillante comunicato ministeriale, in cui si dà la buona novella di una “svolta storica” imminente e di una riorganizzazione radicale del sistema di istruzione. Non subito! A partire dal 2010. Il rinvio viene giustificato con la necessità di spiegare meglio, di discutere di più.
Poiché la discussione dura dal 1996, per tacere dei quarant’anni precedenti, è ovvio che la ragione del rinvio è altra. E poiché è altra, anche la data prevista del nuovo inizio – autunno 2010 – è fasulla. Dal giugno 2008 il Ministro dell’Istruzione era stato informato da Tremonti della richiesta di tagli per 7,8 mld. e “invitato” a fare un Piano. Da allora il Ministro dell’istruzione ha delegato per intero all’apparato ministeriale la questione, malamente spacciata per “tecnica”, e si è dedicato ad altro: interviste su svolte epocali, un Decreto tra i più innocui della storia dell’istruzione, l’aggiunta forzosa al Decreto per mano esterno-tremontiana del “maestro unico”, la presentazione del Piano dei tagli alla Commissione cultura della Camera e del Senato. Nel frattempo già da ottobre circolavano bozze di Regolamenti, mentre una circolare spostava al 28 febbraio 2009 le iscrizioni al nuovo anno scolastico. Dunque, anche secondo il Ministro c’erano i tempi tecnici per spiegare “al colto e all’inclita” i Regolamenti.
La ragione del rinvio è in realtà l’opposizione scatenata dai sindacati e dalla sinistra nelle scuole e nelle piazze, che chiedevano il ritiro dei Regolamenti e dei tagli. La loro piattaforma era inequivoca: più soldi, nessun cambiamento. Il rinvio al 2010 è la risposta positiva alla “piattaforma” della piazza. Dopo tale risposta, l’opposizione è più forte: la mobilitazione paga! Difficile negarlo. Perciò non c’è nessun motivo per pensare che entro giugno 2009 – allorché si esaurirà il tempo della Delega per i Regolamenti – l’accoglienza dei Regolamenti delle superiori sarà più soave e l’opposizione meno disarmata. Anche perché Gelmini ha ritirato generosamente i Regolamenti, ma Tremonti non ha ritirato i tagli! Farà un piccolo sconto di 45 mln. Quanto alla vicenda del “maestro unico” non sarà una passeggiata: perché la scuola primaria si vive, non a torto, come quella che funziona meglio e come quella peggio tartassata, mentre le superiori sono irriformate dal 1923; perché nei modelli oltre le 24 ore e al di qua delle 40 ore lo scenario che si profila è quello di togliere dalle 3 alle 6 ore ai bambini e contemporaneamente di collocare “in soprannumero” molti insegnanti elementari. Potrebbe verificarsi il paradosso kafkiano: bambini per strada, a carico delle famiglie, e insegnanti a scuola, ma senza classi, pagati – perché di ruolo – a carico anch’essi delle tasse delle famiglie.
Certo, se la comunicazione dell’opposizione è faziosa e menzognera, quella del governo continua ad essere confusa. Mentre il Ministro annuncia in TV che il modello del “maestro unico” a 24 ore è l’unico possibile, quasi in contemporanea Berlusconi da Bruxelles dichiara audacemente di non aver mai parlato di “maestro unico”, bensì di “maestro prevalente ” e che ci sarà il “doposcuola” (sic!) per le famiglie che lo richiedano. Né convince il vecchio sketch italico di proclamare “ritirata tattica” la rotta di Caporetto. La conclusione è che nel dicembre 2008 il Ministro è più debole che nel giugno 2008 e che sarà ancora più debole nella primavera 2009. La storia degli ultimi tre ministri dell’Istruzione insegna che le riforme sono sempre incerte, certissimi i rinvii sine die.
Questo ha tutta l’aria di un rinvio di legislatura. Del resto, la primavera 2009 apre un anno di scadenze elettorali: le elezioni amministrative ed europee del 2009, quelle regionali nel 2010. E qui si tocca il fondo delle ragioni vere, che hanno portato Berlusconi a porgere orecchio al grido di dolore della Gelmini: le prossime scadenze elettorali fino all’elezione nel 2013 del successore di Napolitano. La filosofia politica che ha ispirato questa ritirata non è esattamente quella liberal-democratica, che prevede che il governo attui i punti dell’agenda approvata dagli elettori e ne risponda alla scadenza della legislatura. La filosofia rischia di essere quella del consenso, che così diviene diviene il fine della politica, non il mezzo. In quest'ottica inevitabilmente le policies non hanno consistenza in quanto risolvano i problemi drammatici del Paese, ma in quanto servano a far vincere la prossima scadenza elettorale. Dal punto di vista dei riformisti di questo Paese si chiamano “vittorie di Pirro”…
BIOETICA/ Sgreccia: su aborto ed eutanasia l’Italia rischia un pericoloso scivolamento - INT. Elio Sgreccia - martedì 16 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Monsignor Sgreccia, qual è il nuovo contributo che viene dato dall’Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Dignitas Personae? E che cosa ha reso necessaria la pubblicazione di questo testo?
Anzitutto nella Dignitas Personae c’è una trattazione ufficiale di alcuni aspetti che nella precedente analoga Istruzione, la Donum Vitae, non si trovavano, se non per un breve accenno ridotto a qualche parola. Per esempio non era affrontato il problema della clonazione terapeutica o riproduttiva, nonché tutti gli aspetti relativi all’utilizzo delle cellule staminali. Poi, da un punto di vista più generale, grazie a questo documento risulta ora più chiara la definizione di che cos’è embrione e di qual è la sua dignità; una definizione che già era implicita nel documento precedente, ma che qui risulta più chiara. Ora nessuno potrà più sostenere che la Chiesa abbia difficoltà a riconoscere la persona nella fase prenatale, perché dal punto di vista ontologico nella Dignitas Personae la dignità dell’embrione è dichiarata identica alla dignità della persona.
Si è discusso anche del fatto che nel documento non si parli esplicitamente di embrione come “persona”, ma come “avente dignità di persona”: che differenza c’è?
Dire che è persona potrebbe provocare la protesta di un giurista, secondo il quale la persona ha bisogno della maturità decisionale; oppure di uno psicologo, secondo cui la persona ha bisogno dello sviluppo affettivo e della coscienza. Queste scienze umane hanno concetti di persona discordanti; mentre a noi quello che interessa è il concetto di persona reale, sostanziale, che poi si sviluppa con l’età, secondo la distinzione tra persona e personalità. Alla luce di tutto questo, per evitare contrasti su determinati punti, si è evitato di entrare in discussioni fuorvianti, ma si è fatto chiarezza sul punto che veramente interessa, e cioè che l’embrione deve essere trattato come un essere umano. A questo dovevamo rispondere, e questo è stato acquisito.
Proprio nei giorni della pubblicazione di questo documento, si è diffusa la notizia che la Ru486 sarà a breve diffusa anche in Italia: che rischi porta la diffusione dell’aborto chimico?
Contrariamente a quello che si coglie dal modo con cui la notizia è stata diffusa dalla stampa, non si tratta affatto di una sostituzione dell’aborto chimico all’aborto chirurgico. Si tratta semmai di un’addizione, e direi quasi di un incoraggiamento all’aborto, sulla spinta dell’idea che ora sia meno doloroso e più facile. Tutto questo manca di un’adeguata valutazione. Innanzitutto sempre aborto è, nel senso che si sopprime una vita umana; secondo, non è vero che alla donna faccia meno male, perché dolori fisici ne ha, e i dolori morali sono identici. La scelta dell’aborto, infatti, è sempre dolorosa, quando la donna sa che questa è dipesa dalla sua decisione; che poi il feto sia stato espulso con uno strumento chirurgico o con una pillola, questo non cambia nulla, e certo non addormenta le coscienze. Terzo fattore molto importante, è necessario ricordare che ci sono state durante il periodo della sperimentazione molti episodi su cui bisognerebbe aprire una riflessione. Se un altro farmaco dovesse provocare gli stessi effetti (e qua stiamo parlando anche della morte di alcune persone) non c’è alcun dubbio che verrebbero immediatamente bloccati.
E perché in questo caso non si è bloccata la sperimentazione?
Perché ci sono grandi interessi, soprattutto in termini di investimenti da parte delle industrie farmaceutiche. Il lassismo della legge è passato sopra una norma deontologica che è alla base di tutte le scuole di medicina: quando si verifica l’evento avverso, subito si blocca la sperimentazione. Qui invece non si è bloccato niente, nonostante si sappia benissimo che per la donna è una cosa rischiosa.
Come si concilia l’utilizzo della pillola Ru486 con quanto previsto dalla legge 194?
Su questo fronte si apre una problematica molto complessa, cui l’asettico comunicato Aifa che dà il via all’utilizzo della pillola non fa riferimento. Dove vanno a finire la pausa di riflessione, la dissuasione o l’aiuto a superare le cause materiali che portano all’aborto, cioè tutte quelle cose di cui si parla nella legge194? La legge impone al medico di fare un’opera di verifica e di sostegno, nel caso ci siano delle paure o delle fragilità: con l’uso della pillola rimangono questi aspetti, o si arriva a ledere anche la 194? Quello che risulta evidente è che era altra la cosa da fare: non facilitare l’aborto aggirando la legge, ma semmai rivedere la legge stessa, mettendola in armonia rispetto ai principi che enuncia, e superando le contraddizioni che ha in sé. Io mi auguro che le coscienze comincino a risvegliarsi, e che si cominci a parlare di revisioni della 194, e non di introduzione di facilitazioni.
Diamo uno sguardo al polo opposto della difesa della vita: la sua naturale conclusione. Tutta l’attenzione è adesso rivolta al caso Englaro: a prescindere da quello che accadrà, che segni lascia questa vicenda sulla cultura e sulla società italiana?
Io spero che la cultura e la società italiana non ripetano lo scivolamento tragico che c’è stato con la legge 194: si è pensato di fare qualcosa che alleggerisse la situazione relativa alla pratica dell’aborto, e invece non s’è fatto altro che aprire le porte all’aborto al di là di ogni previsione Sul piano dell’eutanasia, mi auguro che non solo la Chiesa, ma tutte le ragionevoli coscienze illuminate possano fare barriera per difendere il paziente, il morente, da ogni anticipazione di morte, attiva o omissiva che sia. Dovremmo invece occuparci di altre urgenze: estendere le terapie palliative, la cura del dolore, l’assistenza conveniente, il superamento dell’isolamento del morente. Ci sono dunque ben altre cose da fare. Poi c’è anche un problema sociale: una società che si definisce solidaristica deve avere ripugnanza verso la soppressione della vita, nascente e morente. Se è solidale lo deve essere ancor più in questi casi. Possiamo affermare a parole che la nostra Costituzione, la nostra Repubblica e la nostra società ha un impianto solidaristico; ma se andiamo per questa strada arriviamo a soluzioni che non contemplano affatto la solidarietà.
In questi giorni si è anche riaperto un dibattito, all’interno del mondo cattolico, intorno al concetto di vita umana come valore indisponibile: qual è la sua posizione?
Io affermo che la vita è un valore indisponibile. Le cosiddette eccezioni che sono state discusse, come ad esempio il martirio, o la legittima difesa, sono casistiche che non fanno altro che confermare la regola. Se una persona si difende, ciò che intende fare è appunto difendere la propria vita e salvare se stesso, non uccidere l’altro. Così anche il martirio: il martire non provoca la morte, perché la morte la danno gli altri. Ci sono discussioni che si possono e si debbono fare, ma non scardinano il principio secondo cui nessuno ha il diritto di sopprimere la vita propria o altrui, dal momento che noi non siamo padroni della vita. E questo non riguarda solo noi credenti, ma tutti gli uomini.
SAPPIAMO DI QUEL CHE SI TRATTA? - SARÀ UN ABORTO LUNGO BEN TRE GIORNI - MARINA CORRADI – Avvenire, 16 dicembre 2008
La ratifica finale del via libera dell’Agenzia del farmaco alla pillola abortiva sarebbe imminente. Se davvero accadrà, se davverò la porta aperta nello scorso febbraio resterà aperta, in ospedale le donne potranno optare per l’aborto chimico. Nonostante i rischi di effetti collaterali della Ru486, stando alla letteratura scientifica, siano più elevati, l’introduzione in Italia è da anni sostenuta da un fronte politico e mediatico massiccio. Per la Ru486 sono intervenute coralmente le più autorevoli voci progressiste. L’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti ebbe a dire che l’ introduzione della Ru era indice del «grado di civiltà e rispetto della persona », e su 'Repubblica' Miriam Mafai spiegò alle lettrici come la contrarietà dei cattolici alla Ru486 fosse reazione «contro la pretesa della donna di abortire senza adeguata sofferenza». Inoltre, argomento facile, in Europa molti Paesi hanno già adottato la pillola; e si sa che l’adeguarsi al trend degli 'altri' è tema di forte presa, in un’Italia che ha sempre il complesso di essere in ritardo su una altrui pretesa modernità.
Dunque, nonostante nuove e lodevoli verifiche inducano a non dare per scontato alcunché, avremo anche noi la 'nostra' Ru486: 48 ore per uccidere l’embrione e, dopo una seconda dose, 24 per espellerlo. Un aborto lungo tre giorni. Proviamo a metterci in una prospettiva puramente femminile. Immaginiamo una donna che scelga la pillola abortiva: sia per il battage che ne è stato fatto, sia perché sembra cosa meno cruenta che un intervento. Assumerà il mifepristone e aspetterà per 48 ore la morte dell’ embrione, prima che la seconda dose al terzo giorno lo snidi dall’utero. 72 ore così possono essere lunghissime; nell’ambivalenza che tante in sé hanno verso un figlio pure razionalmente non voluto; nel rimpianto di quelle che lo avrebbero tenuto, ma pensano di non potercela fare. Tre giorni come questi sembrano una prova aspra per chiunque non sia completamente assente da se stessa. Il parlare di Ru486 come di aborto «con minore dolore» sta nella logica per cui il dolore è solo fisico; logica maschile, elementare, che ignora come sciocche favole il lavorìo dei pensieri e del cuore . E il dibattersi, se non in tutte certo in molte donne che interrompono la gravidanza, di una profonda radice, che anche nella negazione con quella creatura concepita ha comunque un istintivo legame, e non dimenticherà.
L’aborto semplice, l’aborto da bere – promettono – libererà le nostre figlie dai ferri del chirurgo. È probabile che, a diciott’anni, alla scoperta di essere incinte per sbaglio saranno più tranquille: «In fondo, è una pillola». Solo una pillola. E una rimozione, più facile soltanto nell’immediato, dell’evento drammatico che è per una donna un aborto; e insieme una semplificazione per le strutture sanitarie che risparmiano anestesie, e per i ginecologi, che da un ruolo attivo e penoso diventano asettici somministratori di pastiglie.Un affare, per molti. Poi, in ospedale o fuori, l’aborto in un bicchiere d’acqua resta a totale carico della madre mancata: lucida e sola in quelle ore di agonia con i suoi pensieri, che ben difficilmente troveranno il luogo per dirsi, e meno ancora di quanto non sia sempre stato. L’aborto più 'facile' sarà il più duramente censurato nel dolore – che non viene solo dal bisturi. Procedure più agili, costi minori, medici liberati da un pesante fardello: l’aborto da bere, quasi invisibile, ha la stessa efficacia pragmatica della cultura che teorizza l’eliminazione dei figli malformati e la soppressione dei malati in stato vegetativo. Promette una rapida cancellazione di tutto ciò che è 'problema'. Se diventerà possibile, avrà successo. Le donne però sono più complicate di quanto questo pragmatismo comandi. La banalizzazione del dolore non le renderà più libere, né più felici.
Firenze: fede e ragione, alleate nella sfida educativa - DA FIRENZE RICCARDO BIGI – Avvenire, 16 dicembre 2008
«Un Dio soltanto pensato non è il vero Dio: se Egli non si mostra, noi non giungiamo a Lui. Proprio questa è la novità dell’annuncio cristiano: dire ai popoli che Dio si è mostrato. La cosa nuova del nostro annuncio non è un pensiero, ma un fatto». Muove da questa affermazione la prolusione che il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, ha tenuto ieri a Firenze per l’inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà teologica dell’Italia centrale. Un discorso iniziato parlando di quel «desiderio della felicità che mi sta fisso nell’animo», di cui parlava Leopardi, per dire come l’inquietudine, la ricerca di una beatitudine piena, è lo sprone che fa muovere e progredire l’uomo. Di fronte a questa domanda di felicità, ha aggiunto Caffarra, serve una «alleanza tra fede e ragione» perché la ragione possa elevarsi alla contemplazione delle «cose ultime ». Dio e la ragione umana, in questa prospettiva, «non sono più nemici, e neppure estranei, ma alleati nel dare risposta soddisfacente alla domanda che è nel cuore di ciascuno, e che non può essere elusa».
«Italia, c’è una crisi di futuro»
La cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico – che si è svolta nella chiesa dei Santi Michele e Gaetano, il più pregevole esempio di arte barocca nel cuore di Firenze – si era aperta con il saluto dell’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori, che è anche Gran Cancelliere della Facoltà teologica dell’Italia centrale. Betori ha messo l’accento sulla «sfida educativa», di fronte alla quale un’istituzione accademica deve sentirsi impegnata in prima linea: «Siamo di fronte a una situazione difficile – ha affermato –. La crisi di futuro del nostro Paese si manifesta infatti nei due indicatori più ovvi, la bassissima crescita demografica e le pesanti difficoltà del processo educativo, i cui luoghi principali sono certo la scuola e l’università, anche se non sono i soli: basterebbe pensare al ruolo assolutamente importante dei media per la formazione dell’ethos condiviso. La Chiesa in Italia esorta da tempo a un maggiore impegno sul fronte educativo e intende farlo sempre di più per i prossimi anni». «La nostra capacità di annunciare Cristo risorto, speranza del mondo – ha proseguito Betori – passa per una paziente opera educativa, nella quale ci troviamo tutti coinvolti». Un’opera educativa che richiede insieme «lo sforzo della ragione» e la «fedeltà alla tradizione», la quale dal punto di vista cattolico «viene incarnata dalla comunità ecclesiale, che a un tempo la preserva e la trasmette». La storia, ha affermato ancora l’arcivescovo di Firenze, «sembra aver fatto giustizia dell’idea secondo la quale la religione era destinata a un inesorabile declino». Dall’altro lato però, ha aggiunto Betori, stiamo facendo ancora i conti con «la premessa epistemologica del secolarismo », quel «culto dei fatti» secondo cui, «se si prendessero sul serio i 'fatti' non ci sarebbero più credenti in un Dio trascendente; si penserebbe piuttosto a porre concretamente rimedio ai problemi delle vecchie e nuove povertà. Una simile posizione non offre alcuna giustificazione della presunta inefficacia della religione: si limita ad affermarla a priori, per l’appunto in forza di un presupposto ideologico».
Il preside: crescono gli iscritti laici
Il preside della Facoltà Teologica, don Andrea Bellandi, ha dato alcune cifre indicative sul lavoro dell’istituzione accademica: il numero degli iscritti, in crescita costante negli ultimi anni, vede una presenza sempre maggiore di laici (oltre un terzo degli studenti totali; circa la metà se si considerano solo gli iscritti italiani). «C’è una domanda di conoscenza sul contenuto della fede criticamente pensato – ha sottolineato – che non riguarda solo chi è orientato alla vita ministeriale, ma che nasce probabilmente da una ricerca di senso». Il preside ha ricordato anche il lavoro della biblioteca, che si è recentemente arricchita grazie a numerose acquisizioni e donazioni.
Facoltà teologica dell’Italia centrale: inaugurato l’anno accademico. La prolusione di Caffarra: «Il fatto cristiano incontra il nostro desiderio di felicità». Betori: «Formare un ethos condiviso»
INTERVISTA. I tre grandi scrittori e polemisti francesi come «profeti» dei mostri della società contemporanea. Parla il saggista Julliard - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ - Bernanos, Péguy, Claudel: i postmoderni – Avvenire, 16 dicembre 2008
« D i Péguy, Bernanos e Claudel talora non ho condiviso le idee politiche o religiose. Ma vi è in loro sempre un’autenticità che ne fa per me, se non dei maestri, dei pungoli costanti». Un’ammirazione personale tanto forte per i tre scrittori cattolici da aver spinto il saggista francese Jacques Julliard, noto anche come storico ed editorialista, a dedicare loro un libro: L’argent, Dieu et le Diable.
Péguy, Bernanos et Claudel face au monde moderne (Flammarion). Il saggio, appassionato e ricco di spunti folgoranti, sta riaccendendo il dibattito sull’attualità di tre grandi figure della prima metà del Novecento. Julliard ammette che l’attuale crisi economica può aiutare a comprendere meglio il loro messaggio: «In questi mesi è più forte la sensibilità verso il ruolo del denaro come elemento distruttore della società».
Com’è nato il suo rapporto con Péguy, Bernanos e Claudel?
«Si tratta di figure che hanno giocato un ruolo nella mia formazione intellettuale.
M’interesso da tempo all’atteggiamento degli intellettuali di fronte al mondo moderno; un’attitudine che si riduce spesso a una critica abbastanza convenzionale. Invece i nostri tre criticano la modernità in nome di un’idea della persona umana e del posto dell’uomo nell’universo. Non si tratta di critiche estetiche o antiborghesi, ma di tipo antropologico, oltre che religioso».
Per quali ragioni consiglia di rileggerli?
«Péguy e Bernanos possono apparire come nostalgici del vecchio regime, Claudel molto meno. Il loro atteggiamento conserva in ogni caso una distanza critica verso il mondo contemporaneo. Ma ciò, anziché portarli verso il passato, li proietta al contrario verso l’avvenire. Molte loro critiche al mondo moderno si ritroveranno paradossalmente in movimenti modernisti. C’è chi ha scoperto Péguy durante il Sessantotto. E chi lo cita per denunciare oggi un mondo ridotto a pura mercanzia».
Cosa rappresenta, per questi autori, il mondo moderno?
«Un mondo in cui tutti i valori possono essere ricondotti a quello del denaro. Nelle società classiche, la sfera del denaro aveva dei confini. Si pensi a Pascal, con la sua distinzione fra il mondo materiale, ovvero del corpo e della forza, e quello spirituale. Péguy si rende conto della frattura di questa frontiera ed è il punto che egli critica nel capitalismo moderno.
Ma in fondo anche Adam Smith, teorico del liberismo, era cosciente che un mondo puramente mercantile è destinato a disfarsi.
Nelle società aristocratiche, era l’onore a segnare la frontiera. Per il cristianesimo, è il dovere della carità. Nel socialismo, l’obbligo della solidarietà».
Nella visione dei tre scrittori, il denaro conserva sempre questo potenziale onnivoro e distruttivo?
«No. Claudel è anche sensibile a una forma di riabilitazione del denaro, dato che esso è più uno strumento di liberazione che d’asservimento. Fungendo da equivalente universale, il denaro permette libertà che non esistevano nel sistema feudale».
La riflessione sul denaro e quella sui dissidi della morale sono fra loro intimamente legate?
«Sì, soprattutto nei romanzi di Bernanos, spesso centrati su una lotta personale contro il male.
Quest’ultimo è rappresentato al contempo dal denaro e da una sorta di spirito di speculazione senza contenuto. Nel suo ultimo romanzo, Il signor Ouine, si traccia il ritratto di un intellettuale sospeso sempre fra il sì e il no, che soppesa tutto rifiutando in fondo qualsiasi forma d’impegno. La speculazione a oltranza si trasforma in una forma di perversità. Per Bernanos, era André Gide il simbolo vivente di un simile intellettuale».
Nel caso di Péguy, lei sottolinea anche la concezione degli eventi come scuola intellettuale e civile.
«Ci fu in lui una sorta di umiltà di fronte all’evento. Come intellettuale, non cercò mai di sovrapporre alla realtà una visione astratta fabbricata altrove. In ciò mi pare molto cristiano, in questa capacità cioè di accogliere gli esseri e le cose allo stato nascente. Si tratta del contrario del dogmatismo. Vi è una disponibilità di spirito, ma ciò non vuol dire lasciarsi schiacciare dagli eventi».
Furono scrittori e intellettuali più liberi di altri della stessa epoca, così piena di stravolgimenti?
«Lo furono, a mio parere, in quanto scrittori per così dire minoritari.
Come scrittori cattolici, furono in parte vittime di una sorta di esclusione dalla società letteraria.
Ma essi la trasformarono in una sorta di secessione volontaria, in un polo di libertà. Il loro stile fu sempre polemico e combattivo, dalla poesia di Péguy al teatro di Claudel, passando per i romanzi di Bernanos. Quest’ultimo, poi, fu talora molto duro anche contro il conformismo cattolico e le sue compromissioni».
Lei sostiene che i tre saranno riconosciuti prima o poi come scrittori post-moderni. Perché?
«Credo che la nostra epoca sia divenuta péguysta o bernanosiana. Nelle loro anticipazioni o autentiche profezie, ritroviamo molti caratteri mostruosi del mondo contemporaneo. I loro scritti mi paiono oggi ben più attuali di 30 o 40 anni fa».
«Tutt’e tre criticano un mondo in cui tutti i valori sono ricondotti al denaro e proprio ciò li rende quanto mai attuali in epoca di crisi» «Come autori cattolici furono vittime di esclusione dalla società letteraria, ma seppero trasformarla in una secessione volontaria, in un polo di libertà»