sabato 13 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Istruzione "Dignitas personae. Su alcune questioni di bioetica" - A cura della Congregazione per la Dottrina della Fede
2) Per difendere la vita serve uno sforzo comune - di Rino Fisichella –L’Osservatore Romano, 13 Dicembre 2008
3) OLTRE LE MITOLOGIE E LE SUDDITANZE - QUEL CHE VA PRESERVATO A GARANZIA DI TUTTI - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 13 dicembre 2008
4) Se il primario cattolico promuove la fivet “buona” - All’ospedale di Cantù arriva la fecondazione in vitro in nome della legge 40…
5) Seconda predica d'Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la seconda predica d'Avvento pronunciata alla presenza di Benedetto XVI da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia. - Nel cuore dell'anno paolino, padre Cantalamessa ha proposto una riflessione sul posto che occupa Cristo nel pensiero e nella vita dell'Apostolo, in vista di un rinnovato sforzo per mettere la persona di Cristo al centro della teologia della Chiesa e della vita spirituale dei credenti.
6) San Tommaso d’Aquino visto (davvero) da vicino. Una recensione di Nel segno del sole di Tito Sante Centi O.P.
7) 13/12/2008 09:35 INDIA - Natale, momento di pace e di speranza per le giovani vedove dell’Orissa - di Nirmala Carvalho - Il marito di Asmitha Digal, 25 anni e madre di due figlie, è stato ucciso dai fondamentalisti indù durante i primi giorni del pogrom contro i cristiani. La donna testimonia le violenze subite ma dice di non cedere alla logica della violenza. Attivista cristiano denuncia un trattamento da “cittadini di serie B”.
8) 13/12/2008 09:46 – VIETNAM - Emergenza giovani. A Ho Chi Minh City la Chiesa riparte dalla famiglia - di JB. VU - La popolazione del Paese è ormai in maggioranza costituita da giovani. Il 26% dei vietnamiti ha meno di 15 anni. Alle migliaia di casi di abbandono, sfruttamento o solitudine la Chiesa risponde puntando sulla famiglia
9) 12/12/2008 - VATICANO-TAIWAN-CINA - Papa: non bisogna avere paura di essere cattolici e buoni cittadini - La frase pronunciata da Benedetto XVI parlando ai vescovi taiwanesi. La loro “unità spirituale” con i cattolici della terraferma, “che costantemente ricordo nella preghiera”. L’impengo per l’evangelizzazione, la cura delle famiglie e dei migranti.
10) La luce dell’Avvento - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 12 dicembre 2008
11) Pansa, Scalfari e non solo: affascinati da Gesù… 12.12.2008 Giampaolo Pansa non finisce mai di stupire. – Antonio Socci
12) CRISI/ Capitalismo antropologico vs Laissez-faire - Fabio Angelini - sabato 13 dicembre 2008 – Il Sussidiario.net
13) DIRITTI UMANI/ Dopo 60 anni si è davvero raggiunta la libertà degli individui? - Giampaolo Cottini - sabato 13 dicembre 2008 – Il Sussidiario.net
14) AFGHANO CADE DA SOTTO IL CAMION DOV’ERA AGGRAPPATO - Muore schiacciato come un topo Era un bambino, un uomo come noi - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 dicembre 2008
15) «Perdono dopo il tradimento, perché stupirsi?» - GENOVA. «Mi meraviglio della meraviglia per quanto ho scritto sul valore del perdono, anche quando c’è un tradimento d’amore. Indica che stiamo andando verso una società in cui vige l’occhio per occhio e il dente per dente, e non sarebbe tanto bello, oppure che non tutti hanno letto bene la mia lettera pastorale». Così l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ieri in visita all’ospedale Galliera, ha commentato le interpretazioni giornalistiche della sua lettera pastorale sul valore dell’amore coniugale. - Avvenire, 13 dicembre 2008


Istruzione "Dignitas personae. Su alcune questioni di bioetica" - A cura della Congregazione per la Dottrina della Fede
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'Istruzione “Dignitas personae. Su alcune questioni di bioetica”, a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede, presentata questo venerdì in Sala Stampa vaticana.
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INTRODUZIONE
1. Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona. Questo principio fondamentale, che esprime un grande "sì" alla vita umana, deve essere posto al centro della riflessione etica sulla ricerca biomedica, che riveste un'importanza sempre maggiore nel mondo di oggi. Il Magistero della Chiesa è già intervenuto più volte, al fine di chiarire e risolvere i relativi problemi morali. Di particolare rilevanza in questa materia è stata l'Istruzione Donum vitae. A vent'anni dalla sua pubblicazione è emersa nondimeno l'opportunità di apportare un aggiornamento a tale documento.
L'insegnamento di detta Istruzione conserva intatto il suo valore sia per i principi richiamati sia per le valutazioni morali espresse. Nuove tecnologie biomediche, tuttavia, introdotte in questo ambito delicato della vita dell'essere umano e della famiglia, provocano ulteriori interrogativi, in particolare nel settore della ricerca sugli embrioni umani e dell'uso delle cellule staminali a fini terapeutici nonché in altri ambiti della medicina sperimentale, così da sollevare nuove domande che richiedono altrettante risposte. La rapidità degli sviluppi in ambito scientifico e la loro amplificazione tramite i mezzi di comunicazione sociale provocano attese e perplessità in settori sempre più vasti dell'opinione pubblica. Al fine di regolamentare giuridicamente tali problemi, le Assemblee legislative sono spesso sollecitate a prendere decisioni, coinvolgendo talora anche la consultazione popolare. Queste ragioni hanno portato la Congregazione per la Dottrina della Fede a predisporre una nuova Istruzione di natura dottrinale, che affronta alcune problematiche recenti alla luce dei criteri enunciati nell'Istruzione Donum vitae e riprende in esame altri temi già trattati, ma ritenuti bisognosi di ulteriori chiarimenti.
2. Nel procedere a questo esame, si è inteso sempre tenere presenti gli aspetti scientifici, giovandosi dell'analisi della Pontificia Accademia per la Vita e di un gran numero di esperti, per confrontarli con i principi dell'antropologia cristiana. Le Encicliche Veritatis splendor ed Evangelium vitae di Giovanni Paolo II ed altri interventi del Magistero offrono chiare indicazioni di metodo e di contenuto per l'esame dei problemi considerati.Nel variegato panorama filosofico e scientifico attuale è possibile constatare di fatto una ampia e qualificata presenza di scienziati e di filosofi che, nello spirito del giuramento di Ippocrate, vedono nella scienza medica un servizio alla fragilità dell'uomo, per la cura delle malattie, l'alleviamento della sofferenza e l'estensione delle cure necessarie in misura equa a tutta l'umanità. Non mancano, però, rappresentanti della filosofia e della scienza che considerano il crescente sviluppo delle tecnologie biomediche in una prospettiva sostanzialmente eugenetica.
3. La Chiesa cattolica, nel proporre principi e valutazioni morali per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge alla luce sia della ragione sia della fede, contribuendo ad elaborare una visione integrale dell'uomo e della sua vocazione, capace di accogliere tutto ciò che di buono emerge dalle opere degli uomini e dalle varie tradizioni culturali e religiose, che non raramente mostrano una grande riverenza per la vita.Il Magistero intende portare una parola di incoraggiamento e di fiducia nei confronti di una prospettiva culturale che vede la scienza come prezioso servizio al bene integrale della vita e della dignità di ogni essere umano. La Chiesa pertanto guarda con speranza alla ricerca scientifica, augurando che siano molti i cristiani a dedicarsi al progresso della biomedicina e a testimoniare la propria fede in tale ambito. Auspica inoltre che i risultati di questa ricerca siano resi disponibili anche nelle aree povere e colpite dalle malattie, per affrontare le necessità più urgenti e drammatiche dal punto di vista umanitario. E infine intende essere presente accanto ad ogni persona che soffre nel corpo e nello spirito, per offrire non soltanto un conforto, ma la luce e la speranza. Queste danno senso anche ai momenti della malattia e all'esperienza della morte, che appartengono di fatto alla vita dell'uomo e ne segnano la storia, aprendola al mistero della Risurrezione. Lo sguardo della Chiesa infatti è pieno di fiducia perché «la vita vincerà: è questa per noi una sicura speranza. Sì, vincerà la vita, perché dalla parte della vita stanno la verità, il bene, la gioia, il vero progresso. Dalla parte della vita è Dio, che ama la vita e la dona con larghezza». La presente Istruzione si rivolge ai fedeli e a tutti coloro che cercano la verità. Essa comprende tre parti: la prima richiama alcuni aspetti antropologici, teologici ed etici di importanza fondamentale; la seconda affronta nuovi problemi riguardanti la procreazione; la terza prende in esame alcune nuove proposte terapeutiche che comportano la manipolazione dell'embrione o del patrimonio genetico umano.


PRIMA PARTE: ASPETTI ANTROPOLOGICI, TEOLOGICI ED ETICI DELLA VITA E DELLA PROCREAZIONE UMANA
4. Negli ultimi decenni le scienze mediche hanno sviluppato in modo considerevole le loro conoscenze sulla vita umana negli stadi iniziali della sua esistenza. Esse sono giunte a conoscere meglio le strutture biologiche dell'uomo e il processo della sua generazione. Questi sviluppi sono certamente positivi e meritano di essere sostenuti, quando servono a superare o a correggere patologie e concorrono a ristabilire il normale svolgimento dei processi generativi. Essi sono invece negativi, e pertanto non si possono condividere, quando implicano la soppressione di esseri umani o usano mezzi che ledono la dignità della persona oppure sono adottati per finalità contrarie al bene integrale dell'uomo. Il corpo di un essere umano, fin dai suoi primi stadi di esistenza, non è mai riducibile all'insieme delle sue cellule. Il corpo embrionale si sviluppa progressivamente secondo un "programma" ben definito e con un proprio fine che si manifesta con la nascita di ogni bambino.Giova qui richiamare il criterio etico fondamentale espresso nell'Istruzione Donum vitae per valutare tutte le questioni morali che si pongono in relazione agli interventi sull'embrione umano: «Il frutto della generazione umana dal primo momento della sua esistenza, e cioè a partire dal costituirsi dello zigote, esige il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità corporale e spirituale. L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita».
5. Quest'affermazione di carattere etico, riconoscibile come vera e conforme alla legge morale naturale dalla stessa ragione, dovrebbe essere alla base di ogni ordinamento giuridico. Essa suppone, infatti, una verità di carattere ontologico, in forza di quanto la suddetta Istruzione ha evidenziato, a partire da solide conoscenze scientifiche, circa la continuità dello sviluppo dell'essere umano.Se l'Istruzione Donum vitae non ha definito che l'embrione è persona, per non impegnarsi espressamente su un'affermazione d'indole filosofica, ha rilevato tuttavia che esiste un nesso intrinseco tra la dimensione ontologica e il valore specifico di ogni essere umano. Anche se la presenza di un'anima spirituale non può essere rilevata dall'osservazione di nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della scienza sull'embrione umano a fornire «un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana?». La realtà dell'essere umano, infatti, per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale, poiché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica. L'embrione umano, quindi, ha fin dall'inizio la dignità propria della persona.
6. Il rispetto di tale dignità compete a ogni essere umano, perché esso porta impressi in sé in maniera indelebile la propria dignità e il proprio valore. L'origine della vita umana, d'altra parte, ha il suo autentico contesto nel matrimonio e nella famiglia, in cui viene generata attraverso un atto che esprime l'amore reciproco tra l'uomo e la donna. Una procreazione veramente responsabile nei confronti del nascituro «deve essere il frutto del matrimonio». Il matrimonio, presente in tutti i tempi e in tutte le culture, «è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell'umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e all'educazione di nuove vite» . Nella fecondità dell'amore coniugale l'uomo e la donna «rendono evidente che all'origine della loro vita sponsale vi è un "sì" genuino che viene pronunciato e realmente vissuto nella reciprocità, rimanendo sempre aperto alla vita… La legge naturale, che è alla base del riconoscimento della vera uguaglianza tra le persone e i popoli, merita di essere riconosciuta come la fonte a cui ispirare anche il rapporto tra gli sposi nella loro responsabilità nel generare nuovi figli. La trasmissione della vita è iscritta nella natura e le sue leggi permangono come norma non scritta a cui tutti devono richiamarsi».
7. È convinzione della Chiesa che ciò che è umano non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato. Dio, dopo aver creato l'uomo a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1, 26), ha qualificato la sua creatura come «molto buona» (Gn 1, 31) per poi assumerla nel Figlio (cf. Gv 1, 14). Il Figlio di Dio nel mistero dell'Incarnazione ha confermato la dignità del corpo e dell'anima costitutivi dell'essere umano. Il Cristo non ha disdegnato la corporeità umana, ma ne ha svelato pienamente il significato e il valore: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo». Divenendo uno di noi, il Figlio fa sì che possiamo diventare «figli di Dio» (Gv 1,12), «partecipi della natura divina» (2 Pt 1, 4). Questa nuova dimensione non contrasta con la dignità della creatura riconoscibile con la ragione da parte di tutti gli uomini, ma la eleva ad un ulteriore orizzonte di vita, che è quella propria di Dio e consente di riflettere più adeguatamente sulla vita umana e sugli atti che la pongono in essere. Alla luce di questi dati di fede, risulta ancor più accentuato e rafforzato il rispetto nei riguardi dell'individuo umano che è richiesto dalla ragione: per questo non c'è contrapposizione tra l'affermazione della dignità e quella della sacralità della vita umana. «I diversi modi secondo cui nella storia Dio ha cura del mondo e dell'uomo, non solo non si escludono tra loro, ma al contrario si sostengono e si compenetrano a vicenda. Tutti scaturiscono e concludono all'eterno disegno sapiente e amoroso con il quale Dio predestina gli uomini "ad essere conformi all'immagine del Figlio suo" (Rm 8, 29)».
8. A partire dall'insieme di queste due dimensioni, l'umana e la divina, si comprende meglio il perché del valore inviolabile dell'uomo: egli possiede una vocazione eterna ed è chiamato a condividere l'amore trinitario del Dio vivente. Questo valore si applica a tutti indistintamente. Per il solo fatto d'esistere, ogni essere umano deve essere pienamente rispettato. Si deve escludere l'introduzione di criteri di discriminazione, quanto alla dignità, in base allo sviluppo biologico, psichico, culturale o allo stato di salute. Nell'uomo, creato ad immagine di Dio, si riflette, in ogni fase della sua esistenza, «il volto del suo Figlio Unigenito… Questo amore sconfinato e quasi incomprensibile di Dio per l'uomo rivela fino a che punto la persona umana sia degna di essere amata in se stessa, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione – intelligenza, bellezza, salute, giovinezza, integrità e così via. In definitiva, la vita umana è sempre un bene, poiché "essa è nel mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria" (Evangelium vitae, 34)».
9. Queste due dimensioni di vita, quella naturale e quella soprannaturale, permettono anche di comprendere meglio in quale senso gli atti che consentono all'essere umano di venire all'esistenza, nei quali l'uomo e la donna si donano mutuamente l'uno all'altra, sono un riflesso dell'amore trinitario. «Dio, che è amore e vita, ha inscritto nell'uomo e nella donna la vocazione a una partecipazione speciale al suo mistero di comunione personale e alla sua opera di Creatore e di Padre». Il matrimonio cristiano «affonda le sue radici nella naturale complementarietà che esiste tra l'uomo e la donna, e si alimenta mediante la volontà personale degli sposi di condividere l'intero progetto di vita, ciò che hanno e ciò che sono: perciò tale comunione è il frutto e il segno di una esigenza profondamente umana. Ma in Cristo Signore, Dio assume questa esigenza umana, la conferma, la purifica e la eleva, conducendola a perfezione col sacramento del matrimonio: lo Spirito Santo effuso nella celebrazione sacramentale offre agli sposi cristiani il dono di una comunione nuova d'amore che è immagine viva e reale di quella singolarissima unità, che fa della Chiesa l'indivisibile Corpo mistico del Signore Gesù».
10. La Chiesa, giudicando della valenza etica di taluni risultati delle recenti ricerche della medicina concernenti l'uomo e le sue origini, non interviene nell'ambito proprio della scienza medica come tale, ma richiama tutti gli interessati alla responsabilità etica e sociale del loro operato. Ricorda loro che il valore etico della scienza biomedica si misura con il riferimento sia al rispetto incondizionato dovuto ad ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, sia alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita. L'intervento del Magistero rientra nella sua missione di promuovere la formazione delle coscienze, insegnando autenticamente la verità che è Cristo, e nello stesso tempo dichiarando e confermando autoritativamente i principi dell'ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana.




SECONDA PARTE: NUOVI PROBLEMI RIGUARDANTI LA PROCREAZIONE
11. Alla luce dei principi sopra ricordati occorre ora prendere in esame alcuni problemi riguardanti la procreazione, emersi e meglio delineatisi negli anni successivi alla pubblicazione dell'Istruzione Donum vitae.


Le tecniche di aiuto alla fertilità
12. Per quanto riguarda la cura dell'infertilità, le nuove tecniche mediche devono rispettare tre beni fondamentali: a) il diritto alla vita e all'integrità fisica di ogni essere umano dal concepimento fino alla morte naturale; b) l'unità del matrimonio, che comporta il reciproco rispetto del diritto dei coniugi a diventare padre e madre soltanto l'uno attraverso l'altro; c) i valori specificamente umani della sessualità, che «esigono che la procreazione di una persona umana debba essere perseguita come il frutto dell'atto coniugale specifico dell'amore tra gli sposi». Le tecniche che si presentano come un aiuto alla procreazione «non sono da rifiutare in quanto artificiali. Come tali esse testimoniano le possibilità dell'arte medica, ma si devono valutare sotto il profilo morale in riferimento alla dignità della persona umana, chiamata a realizzare la vocazione divina al dono dell'amore e al dono della vita». Alla luce di tale criterio sono da escludere tutte le tecniche di fecondazione artificiale eterologa e le tecniche di fecondazione artificiale omologa che sono sostitutive dell'atto coniugale. Sono invece ammissibili le tecniche che si configurano come un aiuto all'atto coniugale e alla sua fecondità. L'Istruzione Donum vitae si esprime così: «Il medico è al servizio delle persone e della procreazione umana: non ha facoltà di disporre né di decidere di esse. L'intervento medico è in questo ambito rispettoso della dignità delle persone, quando mira ad aiutare l'atto coniugale sia per facilitarne il compimento sia per consentirgli di raggiungere il suo fine, una volta che sia stato normalmente compiuto». E, a proposito dell'inseminazione artificiale omologa, dice: «L'inseminazione artificiale omologa all'interno del matrimonio non può essere ammessa, salvo il caso in cui il mezzo tecnico risulti non sostitutivo dell'atto coniugale, ma si configuri come una facilitazione e un aiuto affinché esso raggiunga il suo scopo naturale».
13. Sono certamente leciti gli interventi che mirano a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla fertilità naturale, come ad esempio la cura ormonale dell'infertilità di origine gonadica, la cura chirurgica di una endometriosi, la disostruzione delle tube, oppure la restaurazione microchirurgica della pervietà tubarica. Tutte queste tecniche possono essere considerate come autentiche terapie, nella misura in cui, una volta risolto il problema che era all'origine dell'infertilità, la coppia possa porre atti coniugali con un esito procreativo, senza che il medico debba interferire direttamente nell'atto coniugale stesso. Nessuna di queste tecniche sostituisce l'atto coniugale, che unicamente è degno di una procreazione veramente responsabile.Per venire incontro al desiderio di non poche coppie sterili ad avere un figlio, sarebbe inoltre auspicabile incoraggiare, promuovere e facilitare, con opportune misure legislative, la procedura dell'adozione dei numerosi bambini orfani, che hanno bisogno, per il loro adeguato sviluppo umano, di un focolare domestico. C'è da osservare, infine, che meritano un incoraggiamento le ricerche e gli investimenti dedicati alla prevenzione della sterilità.

Fecondazione in vitro ed eliminazione volontaria di embrioni
14. Il fatto che la fecondazione in vitro comporti assai frequentemente l'eliminazione volontaria di embrioni è già stato rilevato dall'Istruzione Donum vitae. Alcuni pensavano che ciò fosse dovuto a una tecnica ancora parzialmente imperfetta. L'esperienza successiva ha dimostrato invece che tutte le tecniche di fecondazione in vitro si svolgono di fatto come se l'embrione umano fosse un semplice ammasso di cellule che vengono usate, selezionate e scartate.È vero che circa un terzo delle donne che ricorrono alla procreazione artificiale giunge ad avere un bambino. Occorre tuttavia rilevare che, considerando il rapporto tra il numero totale di embrioni prodotti e di quelli effettivamente nati, il numero di embrioni sacrificati è altissimo. Queste perdite sono accettate dagli specialisti delle tecniche di fecondazione in vitro come prezzo da pagare per ottenere risultati positivi. In realtà è assai preoccupante che la ricerca in questo campo miri principalmente a ottenere migliori risultati in termini di percentuale di bambini nati rispetto alle donne che iniziano il trattamento, ma non sembra avere un effettivo interesse per il diritto alla vita di ogni singolo embrione.
15. Spesso si obietta che tali perdite di embrioni sarebbero il più delle volte preterintenzionali, o avverrebbero addirittura contro la volontà dei genitori e dei medici. Si afferma che si tratterebbe di rischi non molto diversi da quelli connessi al processo naturale della generazione, e che voler comunicare la vita senza correre alcun rischio comporterebbe in pratica astenersi dal trasmetterla. È vero che non tutte le perdite di embrioni nell'ambito della procreazione in vitro hanno lo stesso rapporto con la volontà dei soggetti interessati. Ma è anche vero che in molti casi l'abbandono, la distruzione o le perdite di embrioni sono previsti e voluti. Gli embrioni prodotti in vitro che presentano difetti vengono direttamente scartati. Sono sempre più frequenti i casi in cui coppie non sterili ricorrono alle tecniche di procreazione artificiale con l'unico scopo di poter operare una selezione genetica dei loro figli. È prassi ormai comune in molti Paesi la stimolazione del ciclo femminile per ottenere un alto numero di ovociti, che vengono fecondati. Tra gli embrioni ottenuti un certo numero è trasferito nel grembo materno, e gli altri vengono congelati per eventuali futuri interventi riproduttivi. La finalità del trasferimento multiplo è di assicurare, per quanto possibile, l'impianto di almeno un embrione. Il mezzo impiegato per giungere a questo fine è l'utilizzo di un numero maggiore di embrioni rispetto al figlio desiderato, nella previsione che alcuni vengano perduti e, in ogni caso, si eviti la gravidanza multipla. In questo modo la tecnica del trasferimento multiplo comporta di fatto un trattamento puramente strumentale degli embrioni. Colpisce il fatto che né la comune deontologia professionale né le autorità sanitarie ammetterebbero in nessun altro ambito della medicina una tecnica con un tasso globale così alto di esiti negativi e fatali. Le tecniche di fecondazione in vitro in realtà vengono accettate, perché si presuppone che l'embrione non meriti un pieno rispetto, per il fatto che entra in concorrenza con un desiderio da soddisfare.Questa triste realtà, spesso taciuta, è del tutto deprecabile, in quanto «le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita».
16. La Chiesa, inoltre, ritiene eticamente inaccettabile la dissociazione della procreazione dal contesto integralmente personale dell'atto coniugale: la procreazione umana è un atto personale della coppia uomo-donna che non sopporta alcun tipo di delega sostitutiva. La pacifica accettazione dell'altissimo tasso di abortività delle tecniche di fecondazione in vitro dimostra eloquentemente che la sostituzione dell'atto coniugale con una procedura tecnica – oltre a non essere conforme al rispetto che si deve alla procreazione, non riducibile alla sola dimensione riproduttiva – contribuisce ad indebolire la consapevolezza del rispetto dovuto ad ogni essere umano. Il riconoscimento di tale rispetto viene invece favorito dall'intimità degli sposi animata dall'amore coniugale. La Chiesa riconosce la legittimità del desiderio di un figlio, e comprende le sofferenze dei coniugi afflitti da problemi di infertilità. Tale desiderio non può però venir anteposto alla dignità di ogni vita umana, fino al punto di assumerne il dominio. Il desiderio di un figlio non può giustificarne la "produzione", così come il desiderio di non avere un figlio già concepito non può giustificarne l'abbandono o la distruzione.In realtà si ha l'impressione che alcuni ricercatori, privi di ogni riferimento etico e consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere alla logica dei soli desideri soggettivi e alla pressione economica, tanto forte in questo campo. Di fronte alla strumentalizzazione dell'essere umano allo stadio embrionale, occorre ripetere che «l'amore di Dio non fa differenza fra il neoconcepito ancora nel grembo di sua madre, e il bambino, o il giovane, o l'uomo maturo o l'anziano. Non fa differenza perché in ognuno di essi vede l'impronta della propria immagine e somiglianza… Per questo il Magistero della Chiesa ha costantemente proclamato il carattere sacro e inviolabile di ogni vita umana, dal suo concepimento sino alla sua fine naturale».


L'Intra Cytoplasmic Sperm Injection (ICSI)
17. Tra le tecniche recenti di fecondazione artificiale ha progressivamente assunto un particolare rilievo l'Intra Cytoplasmic Sperm Injection. L'ICSI è diventata la tecnica di gran lunga più utilizzata nell'ottica della migliore efficacia, e può superare diverse forme di sterilità maschile.Come la fecondazione in vitro, della quale costituisce una variante, l'ICSI è una tecnica intrinsecamente illecita: essa opera una completa dissociazione tra la procreazione e l'atto coniugale. Infatti anche l'ICSI «è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell'intervento; essa affida la vita e l'identità dell'embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio è in sé contraria alla dignità e all'uguaglianza che dev'essere comune a genitori e figli. Il concepimento in vitro è il risultato dell'azione tecnica che presiede alla fecondazione; essa non è né di fatto ottenuta né positivamente voluta come l'espressione e il frutto di un atto specifico dell'unione coniugale».


Il congelamento di embrioni
18. Uno dei metodi adoperati per ottenere il miglioramento del tasso di riuscita delle tecniche di procreazione in vitro è la moltiplicazione del numero dei trattamenti successivi. Per non ripetere i prelievi di ovociti nella donna, si procede a un unico prelievo plurimo di ovociti, seguito dalla crioconservazione di una parte importante degli embrioni ottenuti in vitro, in previsione di un secondo ciclo di trattamento, nel caso di insuccesso del primo, ovvero nel caso in cui i genitori volessero un'altra gravidanza. Talvolta si procede al congelamento anche degli embrioni destinati al primo trasferimento, perché la stimolazione ormonale del ciclo femminile produce degli effetti che consigliano di attendere la normalizzazione delle condizioni fisiologiche prima di procedere al trasferimento degli embrioni nel grembo materno. La crioconservazione è incompatibile con il rispetto dovuto agli embrioni umani: presuppone la loro produzione in vitro; li espone a gravi rischi di morte o di danno per la loro integrità fisica, in quanto un'alta percentuale non sopravvive alla procedura di congelamento e di scongelamento; li priva almeno temporaneamente dell'accoglienza e della gestazione materna; li pone in una situazione suscettibile di ulteriori offese e manipolazioni. La maggior parte degli embrioni non utilizzati rimangono "orfani". I loro genitori non li richiedono, e talvolta se ne perdono le tracce. Ciò spiega l'esistenza di depositi di migliaia e migliaia di embrioni congelati in quasi tutti i Paesi dove si pratica la fecondazione in vitro.
19. Per quanto riguarda il gran numero di embrioni congelati già esistenti si pone la domanda: che fare di loro? Alcuni si pongono tale interrogativo senza coglierne la sostanza etica, motivati unicamente dalla necessità di osservare la legge che impone di svuotare dopo un certo tempo i depositi dei centri di crioconservazione, che poi saranno nuovamente riempiti. Altri sono coscienti, invece, che è stata commessa una grave ingiustizia e si interrogano su come ottemperare al dovere di ripararvi. Sono chiaramente inaccettabili le proposte di usare tali embrioni per la ricerca o di destinarli a usi terapeutici, perché trattano gli embrioni come semplice "materiale biologico" e comportano la loro distruzione. Neppure la proposta di scongelare questi embrioni e, senza riattivarli, usarli per la ricerca come se fossero dei normali cadaveri, è ammissibile. Anche la proposta di metterli a disposizione di coppie infertili, come "terapia dell'infertilità", non è eticamente accettabile a causa delle stesse ragioni che rendono illecita sia la procreazione artificiale eterologa sia ogni forma di maternità surrogata; questa pratica comporterebbe poi diversi altri problemi di tipo medico, psicologico e giuridico.È stata inoltre avanzata la proposta, solo al fine di dare un'opportunità di nascere ad esseri umani altrimenti condannati alla distruzione, di procedere ad una forma di "adozione prenatale". Tale proposta, lodevole nelle intenzioni di rispetto e di difesa della vita umana, presenta tuttavia vari problemi non dissimili da quelli sopra elencati. Occorre costatare, in definitiva, che le migliaia di embrioni in stato di abbandono determinano una situazione di ingiustizia di fatto irreparabile. Perciò Giovanni Paolo II lanciò un «appello alla coscienza dei responsabili del mondo scientifico ed in modo particolare ai medici perché venga fermata la produzione di embrioni umani, tenendo conto che non si intravede una via d'uscita moralmente lecita per il destino umano delle migliaia e migliaia di embrioni "congelati", i quali sono e restano pur sempre titolari dei diritti essenziali e quindi da tutelare giuridicamente come persone umane».


Il congelamento di ovociti
20. Per evitare i gravi problemi etici posti dalla crioconservazione di embrioni, è stata avanzata nell'ambito delle tecniche di fecondazione in vitro la proposta di congelare gli ovociti. Una volta che è stato prelevato un numero congruo di ovociti nella previsione di diversi cicli di procreazione artificiale, si prevede di fecondare soltanto gli ovociti che saranno trasferiti nella madre, e gli altri verrebbero congelati per essere eventualmente fecondati e trasferiti in caso di insuccesso del primo tentativo. Al riguardo occorre precisare che la crioconservazione di ovociti in ordine al processo di procreazione artificiale è da considerare moralmente inaccettabile.

La riduzione embrionale
21. Alcune tecniche usate nella procreazione artificiale, soprattutto il trasferimento di più embrioni al grembo materno, hanno dato luogo ad un aumento significativo della percentuale di gravidanze multiple. Perciò si è fatta strada l'idea di procedere alla cosiddetta riduzione embrionale. Essa consiste in un intervento per ridurre il numero di embrioni o feti presenti nel seno materno mediante la loro diretta soppressione. La decisione di sopprimere esseri umani, in precedenza fortemente desiderati, rappresenta un paradosso e comporta spesso sofferenza e sentimento di colpa, che possono durare anni. Dal punto di vista etico, la riduzione embrionale è un aborto intenzionale selettivo. Si tratta, infatti, di eliminazione deliberata e diretta di uno o più esseri umani innocenti nella fase iniziale della loro esistenza, e come tale costituisce sempre un disordine morale grave. Le argomentazioni proposte per giustificare eticamente la riduzione embrio-nale si fondano spesso su analogie con catastrofi naturali o situazioni di emergenza nelle quali, malgrado la buona volontà di ciascuno, non è possibile salvare tutte le persone coinvolte. Queste analogie non possono fondare in alcun modo un giudizio morale positivo su una pratica direttamente abortiva. Altre volte ci si richiama a principi morali, come quelli del male minore o del duplice effetto, che qui non sono applicabili. Non è mai lecito, infatti, realizzare un'azione che è intrinsecamente illecita, neppure in vista di un fine buono: il fine non giustifica i mezzi.
La diagnosi pre-impiantatoria
22. La diagnosi pre-impiantatoria è una forma di diagnosi prenatale, legata alle tecniche di fecondazione artificiale, che prevede la diagnosi genetica degli embrioni formati in vitro, prima del loro trasferimento nel grembo materno. Essa viene effettuata allo scopo di avere la sicurezza di trasferire nella madre solo embrioni privi di difetti o con un sesso determinato o con certe qualità particolari.Diversamente da altre forme di diagnosi prenatale, dove la fase diagnostica è ben separata dalla fase dell'eventuale eliminazione e nell'ambito della quale le coppie rimangono libere di accogliere il bambino malato, alla diagnosi pre-impian-tatoria segue ordinariamente l'eliminazione dell'embrione designato come "sospetto" di difetti genetici o cromosomici, o portatore di un sesso non voluto o di qualità non desiderate. La diagnosi pre-impiantatoria – sempre connessa con la fecondazione artificiale, già di per sé intrinsecamente illecita – è finalizzata di fatto ad una selezione qualitativa con la conseguente distruzione di embrioni, la quale si configura come una pratica abortiva precoce. La diagnosi pre-impiantatoria è quindi espressione di quella mentalità eugenetica, «che accetta l'aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è lesiva della dignità umana e quanto mai riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di normalità e di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e dell'eutanasia». Trattando l'embrione umano come semplice "materiale di laboratorio", si opera un'alterazione e una discriminazione anche per quanto riguarda il concetto stesso di dignità umana. La dignità appartiene ugualmente ad ogni singolo essere umano e non dipende dal progetto parentale, dalla condizione sociale, dalla formazione culturale, dallo stato di sviluppo fisico. Se in altri tempi, pur accettando in generale il concetto e le esigenze della dignità umana, veniva praticata la discriminazione per motivi di razza, religione o condizione sociale, oggi si assiste ad una non meno grave ed ingiusta discriminazione che porta a non riconoscere lo statuto etico e giuridico di esseri umani affetti da gravi patologie e disabilità: si viene così a dimenticare che le persone malate e disabili non sono una specie di categoria a parte perché la malattia e la disabilità appartengono alla condizione umana e riguardano tutti in prima persona, anche quando non se ne fa esperienza diretta. Tale discriminazione è immorale e perciò dovrebbe essere considerata giuridicamente inaccettabile, così come è doveroso eliminare le barriere culturali, economiche e sociali, che minano il pieno riconoscimento e la tutela delle persone disabili e malate.


Nuove forme di intercezione e contragestazione
23. Accanto ai mezzi contraccettivi propriamente detti, che impediscono il concepimento a seguito di un atto sessuale, esistono altri mezzi tecnici che agiscono dopo la fecondazione, quando l'embrione è già costituito, prima o dopo l'impianto in utero. Queste tecniche sono intercettive, se intercettano l'embrione prima del suo impianto nell'utero materno, e contragestative, se provocano l'eliminazione dell'embrione appena impiantato. Per favorire la diffusione dei mezzi intercettivi, si afferma talvolta che il loro meccanismo di azione non sarebbe sufficientemente conosciuto. È vero che non sempre si dispone di una conoscenza completa del meccanismo di azione dei diversi farmaci usati, ma gli studi sperimentali dimostrano che l'effetto di impedire l'impianto è certamente presente, anche se questo non significa che gli intercettivi provochino un aborto ogni volta che vengono assunti, anche perché non sempre dopo il rapporto sessuale avviene la fecondazione. Si deve notare, tuttavia, che in colui che vuol impedire l'impianto di un embrione eventualmente concepito, e pertanto chiede o prescrive tali farmaci, l'intenzionalità abortiva è generalmente presente.Quando si constata un ritardo mestruale, si ricorre talora alla contragestazione, che viene praticata abitualmente entro una o due settimane dopo la constatazione del ritardo. Lo scopo dichiarato è quello di far ricomparire la mestruazione, ma in realtà si tratta dell'aborto di un embrione appena annidato.Come si sa, l'aborto «è l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita». Pertanto l'uso dei mezzi di intercezione e di contragestazione rientra nel peccato di aborto ed è gravemente immorale. Inoltre, qualora si raggiunga la certezza di aver realizzato l'aborto, secondo il diritto canonico, vi sono delle gravi conseguenze penali.




TERZA PARTE: NUOVE PROPOSTE TERAPEUTICHE CHE COMPORTANO LA MANIPOLAZIONE DELL'EMBRIONE O DEL PATRIMONIO GENETICO UMANO
24. Le conoscenze acquisite negli ultimi anni hanno aperto nuove prospettive per la medicina rigenerativa e per la terapia delle malattie su base genetica. In particolare ha suscitato un grande interesse la ricerca sulle cellule staminali embrionali e sulle possibili applicazioni terapeutiche future, che tuttavia fino ad oggi non hanno trovato riscontro sul piano dei risultati effettivi, a differenza della ricerca sulle cellule staminali adulte. Dal momento che alcuni hanno ritenuto che i traguardi terapeutici eventualmente raggiungibili mediante le cellule staminali embrionali potevano giustificare diverse forme di manipolazione e di distruzione di embrioni umani, è emerso un insieme di questioni nell'ambito della terapia genica, della clonazione e dell'utilizzo di cellule staminali, sulle quali è necessario un attento discernimento morale.


La terapia genica
25. Con il termine terapia genica si intende comunemente l'applicazione all'uomo delle tecniche di ingegneria genetica con una finalità terapeutica, vale a dire, con lo scopo di curare malattie su base genetica, anche se recentemente si sta tentando di applicare la terapia genica al trattamento di malattie non ereditarie, ed in particolare al trattamento del cancro. In teoria, è possibile applicare la terapia genica a due livelli: nelle cellule somatiche e nelle cellule germinali. La terapia genica somatica si propone di eliminare o ridurre difetti genetici presenti a livello delle cellule somatiche, cioè delle cellule non riproduttive, che compongono i tessuti e gli organi del corpo. Si tratta, in questo caso, di interventi mirati a determinati distretti cellulari, con effetti confinati nel singolo individuo. La terapia genica germinale mira invece a correggere difetti genetici presenti in cellule della linea germinale, al fine di trasmettere gli effetti terapeutici ottenuti sul soggetto all'eventuale discendenza del medesimo. Tali interventi di terapia genica, sia somatica che germinale, possono essere effettuati sul feto prima della nascita – si parla allora di terapia genica in utero – o dopo la nascita, sul bambino o sull'adulto.
26. Per la valutazione morale occorre tener presenti queste distinzioni. Gli interventi sulle cellule somatiche con finalità strettamente terapeutica sono in linea di principio moralmente leciti. Tali interventi intendono ripristinare la normale configurazione genetica del soggetto oppure contrastare i danni derivanti da anomalie genetiche presenti o da altre patologie correlate. Dato che la terapia genica può comportare rischi significativi per il paziente, bisogna osservare il principio deontologico generale secondo cui, per attuare un intervento terapeutico, è necessario assicurare previamente che il soggetto trattato non sia esposto a rischi per la sua salute o per l'integrità fisica, che siano eccessivi o sproporzionati rispetto alla gravità della patologia che si vuole curare. È anche richiesto il consenso informato del paziente o di un suo legittimo rappresentante.Diversa è la valutazione morale della terapia genica germinale. Qualunque modifica genetica apportata alle cellule germinali di un soggetto sarebbe trasmessa alla sua eventuale discendenza. Poiché i rischi legati ad ogni manipolazione genetica sono significativi e ancora poco controllabili, allo stato attuale della ricerca non è moralmente ammissibile agire in modo che i potenziali danni derivanti si diffondano nella progenie. Nell'ipotesi dell'applicazione della terapia genica sull'embrione, poi, occorre aggiungere che essa necessita di essere attuata in un contesto tecnico di fecondazione in vitro, andando incontro quindi a tutte le obiezioni etiche relative a tali procedure. Per queste ragioni, quindi, si deve affermare che, allo stato attuale, la terapia genica germinale, in tutte le sue forme, è moralmente illecita.
27. Una considerazione specifica merita l'ipotesi di finalità applicative dell'ingegneria genetica diverse da quella terapeutica. Taluni hanno immaginato la possibilità di utilizzare le tecniche di ingegneria genetica per realizzare manipolazioni con presunti fini di miglioramento e potenziamento della dotazione genetica. In alcune di queste proposte si manifesta una sorta di insoddisfazione o persino di rifiuto del valore dell'essere umano come creatura e persona finita. A parte le difficoltà tecniche di realizzazione, con tutti i rischi reali e potenziali connessi, emerge soprattutto il fatto che tali manipolazioni favoriscono una mentalità eugenetica e introducono un indiretto stigma sociale nei confronti di coloro che non possiedono particolari doti e enfatizzano doti apprezzate da determinate culture e società, che non costituiscono di per sé lo specifico umano. Ciò contrasterebbe con la verità fondamentale dell'uguaglianza tra tutti gli esseri umani, che si traduce nel principio di giustizia, la cui violazione, alla lunga, finirebbe per attentare alla convivenza pacifica tra gli individui. Inoltre, ci si chiede chi potrebbe stabilire quali modifiche siano da ritenersi positive e quali no, o quali dovrebbero essere i limiti delle richieste individuali di presunto miglioramento, dal momento che non sarebbe materialmente possibile esaudire i desideri di ciascun singolo uomo. Ogni possibile risposta a questi interrogativi deriverebbe comunque da criteri arbitrari ed opinabili. Tutto ciò porta a concludere che una tale prospettiva d'intervento finirebbe, prima o poi, per nuocere al bene comune, favorendo il prevalere della volontà di alcuni sulla libertà degli altri. Si deve rilevare infine che nel tentativo di creare un nuovo tipo di uomo si ravvisa una dimensione ideologica, secondo cui l'uomo pretende di sostituirsi al Creatore.Nell'affermare la negatività etica di questo tipo di interventi, che implicano un ingiusto dominio dell'uomo sull'uomo, la Chiesa richiama anche la necessità di tornare ad una prospettiva di cura delle persone e di educazione all'accoglienza della vita umana nella sua concreta finitezza storica.


La clonazione umana
28. Per clonazione umana si intende la riproduzione asessuale e agamica dell'intero organismo umano, allo scopo di produrre una o più "copie" dal punto di vista genetico sostanzialmente identiche all'unico progenitore. La clonazione viene proposta con due scopi fondamentali: riproduttivo, cioè per ottenere la nascita di un bambino clonato, e terapeutico o di ricerca. La clonazione riproduttiva sarebbe in teoria capace di soddisfare alcune particolari esigenze, quali, ad esempio, il controllo dell'evoluzione umana; la selezione di esseri umani con qualità superiori; la preselezione del sesso del nascituro; la produzione di un figlio che sia la "copia" di un altro; la produzione di un figlio per una coppia affetta da forme di sterilità non altrimenti trattabili. La clonazione terapeutica, invece, è stata proposta come strumento di produzione di cellule staminali embrionali con patrimonio genetico pre-determinato, in modo da superare il problema del rigetto (immunoincompatibilità); essa è dunque collegata con la tematica dell'impiego delle cellule staminali.I tentativi di clonazione hanno suscitato viva preoccupazione nel mondo intero. Diversi organismi a livello nazionale e internazionale hanno espresso valutazioni negative sulla clonazione umana e nella stragrande maggioranza dei Paesi è stata vietata. La clonazione umana è intrinsecamente illecita, in quanto, portando all'estremo la negatività etica delle tecniche di fecondazione artificiale, intende dare origine ad un nuovo essere umano senza connessione con l'atto di reciproca donazione tra due coniugi e, più radicalmente, senza legame alcuno con la sessualità. Tale circostanza dà luogo ad abusi e a manipolazioni gravemente lesive della dignità umana.
29. Qualora la clonazione avesse uno scopo riproduttivo, si imporrebbe al soggetto clonato un patrimonio genetico preordinato, sottoponendolo di fatto – come è stato affermato – ad una forma di schiavitù biologica dalla quale difficilmente potrebbe affrancarsi. Il fatto che una persona si arroghi il diritto di determinare arbitrariamente le caratteristiche genetiche di un'altra persona, rappresenta una grave offesa alla dignità di quest'ultima e all'uguaglianza fondamentale tra gli uomini.Dalla particolare relazione esistente tra Dio e l'uomo fin dal primo momento della esistenza deriva l'originalità di ogni persona, che obbliga a rispettarne la singolarità e l'integrità, inclusa quella biologica e genetica. Ognuno di noi incontra nell'altro un essere umano che deve la propria esistenza e le proprie caratteristiche all'amore di Dio, del quale solo l'amore tra i coniugi costituisce una mediazione conforme al disegno del Creatore e Padre celeste.
30. Ancora più grave dal punto di vista etico è la clonazione cosiddetta terapeutica. Creare embrioni con il proposito di distruggerli, anche se con l'intenzione di aiutare i malati, è del tutto incompatibile con la dignità umana, perché fa dell'esistenza di un essere umano, pur allo stadio embrionale, niente di più che uno strumento da usare e distruggere. È gravemente immorale sacrificare una vita umana per una finalità terapeutica.Le obiezioni etiche, sollevate da più parti contro la clonazione terapeutica e contro l'uso di embrioni umani formati in vitro, hanno spinto alcuni scienziati a proporre nuove tecniche, che vengono presentate come capaci di produrre cellule staminali di tipo embrionale senza presupporre però la distruzione di veri embrioni umani. Queste proposte hanno suscitato non pochi interrogativi scientifici ed etici, riguardanti soprattutto lo statuto ontologico del "prodotto" così ottenuto. Finché non sono chiariti questi dubbi, occorre tenere conto di quanto affermato dall'Enciclica Evangelium vitae: «tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano».


L'uso terapeutico delle cellule staminali
31. Le cellule staminali sono cellule indifferenziate che possiedono due caratteristiche fondamentali: a) la capacità prolungata di moltiplicarsi senza differenziarsi; b) la capacità di dare origine a cellule progenitrici di transito, dalle quali discendono cellule altamente differenziate, per esempio, nervose, muscolari, ematiche. Da quando si è verificato sperimentalmente che le cellule staminali, se trapiantate in un tessuto danneggiato, tendono a favorire la ripopolazione di cellule e la rigenerazione di tale tessuto, si sono aperte nuove prospettive per la medicina rigenerativa, che hanno suscitato grande interesse tra i ricercatori di tutto il mondo.Nell'uomo, le fonti di cellule staminali finora individuate sono: l'embrione nei primi stadi del suo sviluppo, il feto, il sangue del cordone ombelicale, vari tessuti dell'adulto (midollo osseo, cordone ombelicale, cervello, mesenchima di vari organi, ecc.) e il liquido amniotico. Inizialmente, gli studi si sono concentrati sulle cellule staminali embrionali, poiché si riteneva che solo queste possedessero grandi potenzialità di moltiplicazione e di differenziazione. Numerosi studi, però, dimostrano che anche le cellule staminali adulte presentano una loro versatilità. Anche se tali cellule non sembrano avere la medesima capacità di rinnovamento e la stessa plasticità delle cellule staminali di origine embrionale, tuttavia studi e sperimentazioni di alto livello scientifico tendono ad accreditare a queste cellule dei risultati più positivi se confrontati con quelle embrionali. I protocolli terapeutici attualmente praticati prevedono l'uso di cellule staminali adulte e sono al riguardo state avviate molte linee di ricerca, che aprono nuovi e promettenti orizzonti.
32. Per la valutazione etica occorre considerare sia i metodi di prelievo delle cellule staminali sia i rischi del loro uso clinico o sperimentale. Per ciò che concerne i metodi impiegati per la raccolta delle cellule staminali, essi vanno considerati in rapporto alla loro origine. Sono da considerarsi lecite quelle metodiche che non procurano un grave danno al soggetto da cui si estraggono le cellule staminali. Tale condizione si verifica, generalmente, nel caso di prelievo: a) dai tessuti di un organismo adulto; b) dal sangue del cordone ombelicale, al momento del parto; c) dai tessuti di feti morti di morte naturale. Il prelievo di cellule staminali dall'embrione umano vivente, al contrario, causa inevitabilmente la sua distruzione, risultando di conseguenza gravemente illecito. In questo caso «la ricerca, a prescindere dai risultati di utilità terapeutica, non si pone veramente a servizio dell'umanità. Passa infatti attraverso la soppressione di vite umane che hanno uguale dignità rispetto agli altri individui umani e agli stessi ricercatori. La storia stessa ha condannato nel passato e condannerà in futuro una tale scienza, non solo perché priva della luce di Dio, ma anche perché priva di umanità». L'utilizzo di cellule staminali embrionali, o cellule differenziate da esse derivate, eventualmente fornite da altri ricercatori, sopprimendo embrioni, o reperibili in commercio, pone seri problemi dal punto di vista della cooperazione al male e dello scandalo. Per quanto riguarda l'uso clinico di cellule staminali ottenute mediante procedure lecite non ci sono obiezioni morali. Vanno tuttavia rispettati i comuni criteri di deontologia medica. Al riguardo occorre procedere con grande rigore e prudenza, riducendo al minimo gli eventuali rischi per i pazienti, facilitando il confronto degli scienziati tra di loro e offrendo un'informazione completa al grande pubblico. È da incoraggiare l'impulso e il sostegno alla ricerca riguardante l'impiego delle cellule staminali adulte, in quanto non comporta problemi etici.


Tentativi di ibridazione
33. Recentemente sono stati utilizzati ovociti animali per la riprogrammazione di nuclei di cellule somatiche umane – generalmente chiamata clonazione ibrida – , al fine di estrarre cellule staminali embrionali dai risultanti embrioni, senza dover ricorrere all'uso di ovociti umani. Dal punto di vista etico simili procedure rappresentano una offesa alla dignità dell'essere umano, a causa della mescolanza di elementi genetici umani ed animali capaci di turbare l'identità specifica dell'uomo. L'eventuale uso delle cellule staminali, estratte da tali embrioni, comporterebbe inoltre dei rischi sanitari aggiuntivi, ancora del tutto sconosciuti, per la presenza di materiale genetico animale nel loro citoplasma. Esporre consapevolmente un essere umano a questi rischi è moralmente e deontologicamente inaccettabile.


L'uso di "materiale biologico" umano di origine illecita
35. Una fattispecie diversa viene a configurarsi quando i ricercatori impiegano "materiale biologico" di origine illecita che è stato prodotto fuori dal loro centro di ricerca o che si trova in commercio. L'Istruzione Donum vitae ha formulato il principio generale che in questi casi deve essere osservato: «I cadaveri di embrioni o feti umani, volontariamente abortiti o non, devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani. In particolare non possono essere oggetto di mutilazioni o autopsie se la loro morte non è stata accertata e senza il consenso dei genitori o della madre. Inoltre va sempre fatta salva l'esigenza morale che non vi sia stata complicità alcuna con l'aborto volontario e che sia evitato il pericolo di scandalo». A tale proposito è insufficiente il criterio dell'indipendenza formulato da alcuni comitati etici, vale a dire, affermare che sarebbe eticamente lecito l'utilizzo di "materiale biologico" di illecita provenienza, sempre che esista una chiara separazione tra coloro che da una parte producono, congelano e fanno morire gli embrioni e dall'altra i ricercatori che sviluppano la sperimentazione scientifica. Il criterio di indipendenza non basta a evitare una contraddizione nell'atteggiamento di chi afferma di non approvare l'ingiustizia commessa da altri, ma nel contempo accetta per il proprio lavoro il "materiale biologico" che altri ottengono mediante tale ingiustizia. Quando l'illecito è avallato dalle leggi che regolano il sistema sanitario e scientifico, occorre prendere le distanze dagli aspetti iniqui di tale sistema, per non dare l'impressione di una certa tolleranza o accettazione tacita di azioni gravemente ingiuste. Ciò infatti contribuirebbe a aumentare l'indifferenza, se non il favore con cui queste azioni sono viste in alcuni ambienti medici e politici. Talvolta si obietta che le considerazioni precedenti sembrano presupporre che i ricercatori di buona coscienza avrebbero il dovere di opporsi attivamente a tutte le azioni illecite realizzate in ambito medico, allargando così la loro responsabilità etica in modo eccessivo. Il dovere di evitare la cooperazione al male e lo scandalo, in realtà, riguarda la loro attività professionale ordinaria, che devono impostare rettamente e mediante la quale devono testimoniare il valore della vita, opponendosi anche alle leggi gravemente ingiuste. Va pertanto precisato che il dovere di rifiutare quel "materiale biologico" – anche in assenza di una qualche connessione prossima dei ricercatori con le azioni dei tecnici della procreazione artificiale o con quella di quanti hanno procurato l'aborto, e in assenza di un previo accordo con i centri di procreazione artificiale – scaturisce dal dovere di separarsi, nell'esercizio della propria attività di ricerca, da un quadro legislativo gravemente ingiusto e di affermare con chiarezza il valore della vita umana. Perciò il sopra citato criterio di indipendenza è necessario, ma può essere eticamente insufficiente.Naturalmente all'interno di questo quadro generale esistono responsabilità differenziate, e ragioni gravi potrebbero essere moralmente proporzionate per giustificare l'utilizzo del suddetto "materiale biologico". Così, per esempio, il pericolo per la salute dei bambini può autorizzare i loro genitori a utilizzare un vaccino nella cui preparazione sono state utilizzate linee cellulari di origine illecita, fermo restando il dovere da parte di tutti di manifestare il proprio disaccordo al riguardo e di chiedere che i sistemi sanitari mettano a disposizione altri tipi di vaccini. D'altra parte, occorre tener presente che nelle imprese che utilizzano linee cellulari di origine illecita non è identica la responsabilità di coloro che decidono dell'orientamento della produzione rispetto a coloro che non hanno alcun potere di decisione. Nel contesto della urgente mobilitazione delle coscienze in favore della vita, occorre ricordare agli operatori sanitari che «la loro responsabilità è oggi enormemente accresciuta e trova la sua ispirazione più profonda e il suo sostegno più forte proprio nell'intrinseca e imprescindibile dimensione etica della professione sanitaria, come già riconosceva l'antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto di impegnarsi per il rispetto assoluto della vita umana e della sua sacralità».


CONCLUSIONE
36. L'insegnamento morale della Chiesa è stato talvolta accusato di contenere troppi divieti. In realtà esso è fondato sul riconoscimento e sulla promozione di tutti i doni che il Creatore ha concesso all'uomo, come la vita, la conoscenza, la libertà e l'amore. Un particolare apprezzamento meritano perciò non soltanto le attività conoscitive dell'uomo, ma anche quelle pratiche, come il lavoro e l'attività tecnologica. Con queste ultime, infatti, l'uomo, partecipe del potere creatore di Dio, è chiamato a trasformare il creato, ordinandone le molteplici risorse in favore della dignità e del benessere di tutti gli uomini e di tutto l'uomo, e ad esserne anche il custode del valore e dell'intrinseca bellezza.Ma la storia dell'umanità è testimone di come l'uomo abbia abusato, e abusi ancora, del potere e delle capacità che gli sono state affidate da Dio, dando luogo a diverse forme di ingiusta discriminazione e di oppressione nei confronti dei più deboli e dei più indifesi. I quotidiani attentati contro la vita umana; l'esistenza di grandi aree di povertà nelle quali gli uomini muoiono di fame e di malattia, esclusi dalle risorse conoscitive e pratiche di cui invece dispongono in sovrabbondanza molti Paesi; uno sviluppo tecnologico ed industriale che sta creando il concreto rischio di un crollo dell'ecosistema; l'uso delle ricerche scientifiche nell'ambito della fisica, della chimica e della biologia per scopi bellici; le numerose guerre che ancor oggi dividono popoli e culture, sono, purtroppo, soltanto alcuni segni eloquenti di come l'uomo possa fare un cattivo uso delle sue capacità e diventare il peggior nemico di se stesso, perdendo la consapevolezza della sua alta e specifica vocazione di essere collaboratore dell'opera creatrice di Dio. Parallelamente la storia dell'umanità manifesta un reale progresso nella comprensione e nel riconoscimento del valore e della dignità di ogni persona, fondamento dei diritti e degli imperativi etici con cui si è cercato e si cerca di costruire la società umana. Proprio in nome della promozione della dignità umana si è, perciò, vietato ogni comportamento ed ogni stile di vita che risultava lesivo di tale dignità. Così, per esempio, i divieti, giuridico-politici e non solo etici, nei confronti delle varie forme di razzismo e di schiavitù, delle ingiuste discriminazioni ed emarginazioni delle donne, dei bambini, delle persone malate o con gravi disabilità, sono testimonianza evidente del riconoscimento del valore inalienabile e dell'intrinseca dignità di ogni essere umano e segno di un progresso autentico che percorre la storia dell'umanità. In altri termini, la legittimità di ogni divieto si fonda sulla necessità di tutelare un autentico bene morale.
37. Se il progresso umano e sociale si è inizialmente caratterizzato soprattutto attraverso lo sviluppo dell'industria e della produzione dei beni di consumo, oggi si qualifica per lo sviluppo dell'informatica, delle ricerche nel campo della genetica, della medicina e delle biotecnologie applicate anche all'uomo, settori di grande importanza per il futuro dell'umanità nei quali, però, si verificano anche evidenti e inaccettabili abusi. «Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora, quando un'altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi nei loro diritti umani». In virtù della missione dottrinale e pastorale della Chiesa, la Congregazione per la Dottrina della Fede si è sentita in dovere di riaffermare la dignità e i diritti fondamentali e inalienabili di ogni singolo essere umano, anche negli stadi iniziali della sua esistenza, e di esplicitare le esigenze di tutela e di rispetto che il riconoscimento di tale dignità a tutti richiede.L'adempimento di questo dovere implica il coraggio di opporsi a tutte quelle pratiche che determinano una grave e ingiusta discriminazione nei confronti degli esseri umani non ancora nati, che hanno la dignità di persona, creati anch'essi ad immagine di Dio. Dietro ogni "no" rifulge, nella fatica del discernimento tra il bene e il male, un grande "sì" al riconoscimento della dignità e del valore inalienabili di ogni singolo ed irripetibile essere umano chiamato all'esistenza. I fedeli si impegneranno con forza a promuovere una nuova cultura della vita, accogliendo i contenuti di questa Istruzione con l'assenso religioso del loro spirito, sapendo che Dio offre sempre la grazia necessaria per osservare i suoi comandamenti e che in ogni essere umano, soprattutto nei più piccoli, si incontra Cristo stesso (cf. Mt 25, 40). Anche tutti gli uomini di buona volontà, in particolare i medici e i ricercatori aperti al confronto e desiderosi di raggiungere la verità, sapranno comprendere e condividere questi principi e valutazioni, volti alla tutela della fragile condizione dell'essere umano nei suoi stadi iniziali di vita e alla promozione di una civiltà più umana.


Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell'Udienza concessa il 20 giugno 2008 al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Istruzione, decisa nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, l'8 settembre 2008, Festa della Natività della Beata Vergine Maria.
WILLIAM Card. LEVADA
Prefetto
+LUIS F. LADARIA, S.I.
Arcivescovo tit. di Thibica
Segretario
Congregazione per la Dottrina della fede
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Per difendere la vita serve uno sforzo comune - di Rino Fisichella –L’Osservatore Romano, 13 Dicembre 2008
Nella costituzione pastorale Gaudium et spes, i padri conciliari scrivevano: "Dio, padrone della vita, ha affidato agli uomini l'altissima missione di proteggere la vita: missione che deve essere adempiuta in modo degno dell'uomo. Perciò la vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura" (51). L'istruzione Dignitas personae si pone su questa lunghezza d'onda. I suoi contenuti non sono altro che promozione e difesa della vita umana. Per questo è necessario che si crei una cultura favorevole alla sua accoglienza. Ed è indispensabile anche l'apporto condiviso di quanti, credenti o non credenti, ritengono che questo sia il momento per uno sforzo comune. Se diventa urgente una difesa della vita umana, per paradossale che possa sembrare, significa che questa è in serio pericolo. Non è la visione catastrofica quella che caratterizza l'insegnamento della Chiesa; ciò che preme, piuttosto, è una lettura realistica del tempo in cui viviamo.
Non deve meravigliare l'impegno del Magistero in questo particolare settore. La Chiesa è stata impegnata in prima linea nel corso dei secoli in difesa di alcuni principi fondamentali che oggi sono diventati patrimonio dell'umanità. All'epoca fu contestata da frange di benpensanti che proprio in nome del progresso e delle leggi dell'economia preferivano calpestare i diritti fondamentali delle persone. Basti pensare all'impegno dei missionari contro la schiavitù nelle colonie oppure alla difesa dei lavoratori nell'Ottocento. La posta in gioco che segnerà la vita della società nei prossimi decenni è ora la difesa della dignità della persona dal suo concepimento fino alla sua morte naturale. L'Istruzione, per questo motivo, arriva in un momento del tutto peculiare. I suoi contenuti, particolarmente in riferimento alle varie tecniche di sperimentazione sull'embrione, susciteranno reazioni diverse. Alcuni preferiranno ignorarli con supponenza, altri rincorreranno la via più facile della derisione e altri ancora etichetteranno quelle pagine come foriere di buio oscurantismo che impedisce il progresso e la libera ricerca. Molti altri, infine, condivideranno certamente la nostra preoccupazione e la nostra analisi. Per verificare l'ambito all'interno del quale l'Istruzione intende procedere è utile riportare un suo passaggio: "La Chiesa giudicando della valenza etica di alcuni risultati delle recenti ricerche della medicina concernenti l'uomo e le sue origini, non interviene nell'ambito proprio della scienza medica come tale, ma richiama tutti gli interessati alla responsabilità etica e sociale del loro operato. Ricorda loro che il valore etico della scienza biomedica si misura con il riferimento sia al rispetto incondizionato dovuto ad ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, sia alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita" (10).
Non c'è dunque nessuna invasione di campo da parte del magistero della Chiesa quando questo entra in un ambito specifico come quello della sperimentazione sull'embrione, che è oggetto di più scienze fra le quali nessuna può arrogarsi il diritto dell'ultima parola. Ciò che questa Istruzione intende fare è esprimere il proprio contributo autorevole nella formazione della coscienza non solo dei credenti, ma di quanti intendono porre ascolto alle argomentazioni che vengono portate, con la volontà di confrontarsi. Un intervento, pertanto, che rientra pienamente nella sua missione e che dovrebbe essere accolto non solo come legittimo, ma anche come dovuto in una società pluralistica, laica e democratica.
Risulterebbe veramente difficile, anche per un pensiero estraneo alla fede, non ritrovarsi in questa affermazione della Dignitas personae: "Per il solo fatto d'esistere, ogni essere umano deve essere rispettato. Si deve escludere l'introduzione di criteri di discriminazione, quanto alla dignità, in base allo sviluppo biologico, psichico, culturale o allo stato di salute" (8). Ciò che viene affermato, come si nota, è l'uguale dignità di ogni essere umano per il fatto stesso di essere venuto alla vita.
Non si dovrebbe dimenticare, dunque, il principio che viene più volte riaffermato nel corso dell'Istruzione: l'uguaglianza fondamentale tra gli uomini. Proprio questo principio cozza contro ogni pretesa di clonazione umana o manipolazione genetica diversa da quella terapeutica. Dignitas personae compie un passo in avanti nei confronti dell'istruzione Donum vitae del 1988, quando si richiama alla difesa della dignità dell'embrione. Nella precedente Istruzione, infatti, per non entrare direttamente nel dibattito filosofico non si arrivò alla definizione dell'embrione come "persona". Nella Dignitas personae si esplicita che l'embrione umano "ha fin dall'inizio la dignità propria della persona" (5). Bisogna, infine, sottolineare il coraggio con cui Dignitas personae affronta il tema della manipolazione genetica che in molti casi ormai ha tutte le caratteristiche per essere definita eugenetica e, pertanto, intrinsecamente immorale. Questo giudizio si fonda sul presupposto che tale sperimentazione teorizza di fatto l'inuguaglianza tra le persone, enfatizzando oltre misura doti e caratteristiche che non costituiscono l'essenza e la peculiarità della persona stessa. È dunque un insegnamento lungimirante, che invita a riflettere sul rischio di non cadere in nuove forme di schiavitù già all'orizzonte. Si è dinanzi, infatti, a una "schiavitù biologica": una persona si arroga il diritto arbitrario di determinare le caratteristiche genetiche di un altro essere umano. È la hybris che accompagna l'esercizio del puro potere del più forte sugli altri. Una simile sperimentazione va chiamata con il suo giusto nome e la Chiesa non avrà paura di denunciarne i pericoli; la grandezza della persona consiste nell'avere coscienza del proprio limite e in forza di questo, saper guardare oltre, verso una trascendenza infinita che ha voluto imprimere dignità alla vita umana assumendola su di sé.
(©L'Osservatore Romano - 13 dicembre 2008)


OLTRE LE MITOLOGIE E LE SUDDITANZE - QUEL CHE VA PRESERVATO A GARANZIA DI TUTTI - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 13 dicembre 2008
È facile immaginare le polemiche che in alcu­ni ambiti probabilmente susciterà la nuova I­struzione della Congregazione per la Dottrina del­la Fede – Dignitas Personae – dedicata «ad alcune questioni di bioetica», che viene ad integrare, do­po più di vent’anni, la precedente Istruzione Do­num Vitae, i cui principi fondamentali vengono tutti riaffermati e riconfermati. Ancora una volta, diranno i suoi critici, la Chiesa prende posizione in campo bioetico intimando divieti, troppi di­vieti! Gli stessi redattori ne sono perfettamente consapevoli e proprio per questo, nelle conclu­sioni dell’Istruzione, insistono nel rilevare come ciascun divieto, ciascun 'no' che emerge da que­sto testo, abbia come suo presupposto logico e ontologico un grande 'sì', il sì a tutti i doni che Dio ha concesso all’uomo, dalla vita, alla conoscenza, dalla libertà e all’amore.
Il testo dell’Istruzione, pur redatto in uno stile ac­cessibile a tutti, possiede inevitabilmente una sua complessità, che richiede necessariamente al lettore competenza e attenzione. Vengono presi in consi­derazione tutti i principali e spinosi problemi che il progredire delle tecniche della procreazione assi­stita ha fatto emergere negli ultimi vent’anni: dalla vistosa perdita di embrioni che si produce nelle pra­tiche di fecondazione in vitro al loro congelamen­to, dal congelamento degli ovociti alla riduzione embrionale, dalle diagnosi pre-impiantatorie alle nuove forme di intercezione (che impediscono al­l’embrione umano di raggiungere l’utero materno) e contragestazione (che provocano la morte del­l’embrione appena impiantato in utero). Particola­re attenzione è dedicata alla manipolazione degli embrioni e del patrimonio genetico umano: alla netta condanna della clonazione, anche nella sua variante 'terapeutica', si uniscono profonde e lu­cide indicazioni sui limiti della terapia genica, del­l’uso terapeutico delle cellule staminali e del mate­riale biologico di origine illecita. Né manca la con­danna a carico dei tentativi di ibridazione uomo-a­nimale, che probabilmente andranno moltiplican­dosi in un futuro molto ravvicinato.
Chi segue da vicino le vicende della bioetica è per­fettamente consapevole di come si stia lentamen­te ma anche irresistibilmente diffondendo tra me­dici e scienziati un atteggiamento di arrendevole cedevolezza nei confronti delle pratiche e delle spe­rimentazioni più estreme. Le norme delle prime le­gislazioni in materia, relativamente restrittive e in gran parte recepite anche da trattati internaziona­li, come la Convenzione di Oviedo, stanno pro­gressivamente cedendo. Vien voglia di dar ragione a coloro che da tempo hanno individuato nella bioe­tica non una serena e onesta riflessione sulla dife­sa della vita nei confronti del dilagare di tecnologie di ogni tipo, ma qualcosa di simile a un grande e­sercizio di retorica, per assuefare ai vorticosi pro­gressi della tecnica un’opinione pubblica intimidi­ta dai progressi della biomedicina, per farglieli ac­cettare come non problematici, né da un punto di vista scientifico né da un punto di vista etico. Di qui l’uso di slogan al posto di calibrate riflessioni e la co­struzione di veri e propri 'miti' privi di ogni fon­damento di verità, ma straordinariamente efficaci a livello comunicativo (come quello del carattere terapeutico delle cellule staminali embrionali, per non parlare della creazione di embrioni clonati).
A fronte di questa potente macchina ideologica, la Dignitas Personae, in quanto esplicitamente ri­volta «ai fedeli e a tutti coloro che cercano la ve­rità », fa la nitida scelta di un’argomentazione ra­zionale che, punto per punto, questione per que­stione, riflette sui problemi della vita e ne valuta la portata etica e antropologica.
La fede rappresenta la cornice nella quale si col­loca, ma che non condiziona l’uso della comune ragione umana, dato che i problemi della bioeti­ca non sono confessionali, ma coinvolgono tutti gli uomini, credenti e non credenti, tutti parimenti orientati al bene, a quel bene che costituisce la so­stanza normativa della legge naturale (cui l’Istru­zione fa un preciso, ma non pressante riferimen­to, per non aprire dibattiti tecnico-filosofici che in questo testo sarebbero stati fuori luogo).
Nella sostanza, questa Istruzione contiene una sfi­da dai toni garbati, ma fermissima nella sostanza, un invito a riflettere con onestà intellettuale sulla bioetica e sulle sue questioni più laceranti, con at­tenzione anche ai più sottili risvolti delle singole questioni e soprattutto senza lasciarsi abbacina­re dai miti di un progresso scientifico, che può es­sere allo stesso tempo benefico e malefico, uma­nizzante e disumanizzante. Lasciamoci alle spal­le l’esperienza del passato, che dovrebbe indurci al pessimismo, ed auguriamoci che questo testo venga accolto con attenzione e con spirito aper­to. Chiunque lo legga non potrà dubitare che es­so merita questa accoglienza.



Se il primario cattolico promuove la fivet “buona” - All’ospedale di Cantù arriva la fecondazione in vitro in nome della legge 40…
La stampa locale ha salutato la notizia con squilli di tromba e toni celebrativi: finalmente a Cantù (Como) la prima gravidanza ottenuta con la fecondazione artificiale. La gravidanza – dicono le cronache – è ancora in corso, ma già si respira aria di successo perché – finalmente – le tecniche in provetta sono approdate nel nosocomio in provincia di Como. Già da due anni a Cantù si operavano inseminazioni intrauterine che, com’è noto, non prevedono la produzione di embrioni fuori dal corpo della madre. Ma secondo qualcuno occorreva fare “un salto di qualità”, e ottenere dalla Regione Lombardia l’accreditamento come struttura di “secondo livello”; cioè, iniziare a fare fecondazione artificiale extracorporea.
Ovviamente, come precisa la stampa locale, “nel rispetto della vigente legge 40: al massimo tre embrioni impiantati”.
Le cronache non raccontano, però, alcuni piccoli dettagli; come il fatto che la fecondazione è operata da un tecnico e non dall’abbraccio dei genitori; che queste tecniche implicano la morte di decine e decine di embrioni che non nasceranno mai; che l’essere umano è trattato come un oggetto del desiderio; che le percentuali di successo sono modeste; che l’iperstimolazione ovarica cui si deve sottoporre la donna ha serie controindicazioni per la sua salute. Eccetera eccetera. E che la Chiesa dice ai cattolici di girare alla larga da queste porcherie. Insomma: quisquilie.
Verità scomode, ignote alla gran parte dell’opinione pubblica, ma che non sfuggono certo alle competenze dei medici. Verità che non possono essere ignote a quel medico, primario dell’unità di ostetricia e ginecologia di Cantù - che è un professionista serio e stimato, cattolico, molto vicino a Comunione e Liberazione, formatosi al San Raffaele di Milano; questo stesso medico che in questi anni ha partecipato a più di un’iniziativa pubblica organizzata da Scienza e Vita e da un’associazione seria come Medicina e Persona.
Questo primario – come scrive il sito “Cercounbimbo”, favorevole alla fivet – si è dato un gran daffare per ottenere che si facessero figli in provetta a Cantù. Tanto ha fatto, che c’è riuscito. In fondo, che male faceva: doveva applicare la legge 40, quella della “fivet buona”. Quella che – anche in casa cattolica – non si può criticare, sennò guai, la peggiorano. Quella che prevede l’obiezione di coscienza per i medici che non vogliono fare la fivet (in primis dovrebbero farla tutti i medici cattolici), ma di questa obiezione nessuno parla, nessuno l’ha chiesta, anche da scranni autorevoli.
Il caso-Cantù è una vicenda esemplare dei frutti della legge 40 del 2004: doveva funzionare come argine alla provetta selvaggia; si è trasformata in legittimazione della fecondazione artificiale omologa, che medici cattolici sentono il dovere di promuovere nei reparti di propria competenza.
Come certe vignette, una storia senza parole. Che si commenta benissimo da sé.
Qualcuno parla per denunciare il fattaccio? La Chiesa locale dice qualche cosa? I movimenti ecclesiali scrivono un volantino per censurare? Macchè. Peccato che ci sia Verità e Vita a denunciare la cosa. Peccato davvero: altrimenti, tutti avrebbero potuto continuare a dormire sonni tranquilli. Evviva la legge 40. Evviva il male minore. Massì: continuiamo a farci del male.
Comitato Verità e Vita - Comunicato Stampa N. 60 10 Dicembre 2008


Seconda predica d'Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la seconda predica d'Avvento pronunciata alla presenza di Benedetto XVI da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia. - Nel cuore dell'anno paolino, padre Cantalamessa ha proposto una riflessione sul posto che occupa Cristo nel pensiero e nella vita dell'Apostolo, in vista di un rinnovato sforzo per mettere la persona di Cristo al centro della teologia della Chiesa e della vita spirituale dei credenti.
ZENIT ha pubblicato il testo della prima predica di padre Cantalamessa il 5 dicembre
* * *
http://www.zenit.org/article-16401?l=italian
"Chiamati da Dio
alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo"
Per rimanere fedeli al metodo della lectio divina, tanto raccomandata dal recente sinodo dei vescovi, ascoltiamo anzitutto le parole di san Paolo sulle quali vogliamo riflettere in questa meditazione:
"Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo" (Fil 3, 7-12).
1. "Perché io possa conoscere Lui..."
La volta scorsa abbiamo meditato sulla conversione di Paolo come una metanoia, un cambiamento di mente, nel modo di concepire la salvezza. Paolo però non si è convertito a una dottrina, fosse pure la dottrina della giustificazione mediante la fede; si è convertito a una persona! Prima che un cambiamento di pensiero, il suo è stato un cambiamento di cuore, l'incontro con una persona viva. Si usa spesso l'espressione "colpo di fulmine" per indicare un amore a prima vista che travolge ogni ostacolo; in nessun caso questa metafora è più appropriata che per san Paolo.
Vediamo come questo cambiamento di cuore traspare dal testo appena ascoltato. Egli parla del "bene supremo" (hyperechon) di conoscere Cristo e si sa che in questo caso, come in tutta la Bibbia, conoscere non indica una scoperta solo intellettuale, un farsi un'idea di qualcosa, ma un legame vitale intimo, un entrare in rapporto con l'oggetto conosciuto. Lo stesso vale per l'espressione "...perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze". "Conoscere la partecipazione alle sofferenze" non significa, evidentemente, averne un'idea, ma sperimentarle.
Mi è capitato di leggere questo brano in un momento particolare della mia vita in cui mi trovavo anch'io davanti a una scelta. Mi ero occupato di cristologia, avevo scritto e letto tanto su questo argomento, ma quando lessi "perché io possa conoscere Lui", capii di colpo che quel semplice pronome personale "lui" (autòn) conteneva più verità su Gesù Cristo che tutti i libri scritti o letti su di lui. Capii che per l'Apostolo Cristo non era un insieme di dottrine, di eresie, di dogmi; era una persona viva, presente e realissima che si poteva designare con un semplice pronome, come si fa, quando si parla di qualcuno che è presente, indicandolo con il dito.
L'effetto dell'innamoramento è duplice. Da una parte opera una drastica riduzione ad uno, una concentrazione sulla persona amata che fa passare in secondo piano tutto il resto del mondo; dall'altra rende capaci di soffrire qualsiasi cosa per la persona amata, di accettare la perdita di tutto. Vediamo entrambi questi effetti realizzati alla perfezione nel momento in cui l'Apostolo scopre Cristo: "per lui, dice, ho accettato la perdita di tutte queste cose e le considero come spazzatura".
Ha accettato la perdita dei suoi privilegi di "ebreo da ebrei", la stima e l'amicizia dei suoi maestri e connazionali, l'odio e la commiserazione di quanti non comprendevano come un uomo come lui avesse potuto farsi sedurre da una setta di fanatici senza arte né parte. Nella seconda Lettera ai Corinzi c'è l'elenco impressionante di tutte le cose sofferte per Cristo (cf. 2 Cor 11, 24-28).
L'Apostolo ha trovato lui stesso la parola che da sola racchiude tutto: "conquistato da Cristo". Si potrebbe tradurre anche afferrato, affascinato, o con una espressione di Geremia, "sedotto" da Cristo. Gli innamorati non si trattengono; lo hanno fatto tanti mistici al colmo del loro ardore. Io non ho difficoltà, perciò, a immaginare un Paolo che in un impeto di gioia, dopo la sua conversione, grida da solo agli alberi o in riva al mare quello che più tardi scriverà ai Filippesi: "Sono stato conquistato da Cristo! Sono stato conquistato da Cristo!"
Conosciamo bene le frasi lapidarie e pregnanti dell'Apostolo che ognuno di noi amerebbe poter ripetere nella propria vita: "Per me vivere è Cristo" (Fil 1,21), e "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20).
2. "In Cristo"
Ora, tenendo fede a quanto annunciato nel programma di queste prediche, vorrei mettere in luce quello che, su questo punto, il pensiero di Paolo può significare, prima per la teologia di oggi e poi per la vita spirituale dei credenti.
L'esperienza personale ha condotto Paolo a una visione globale della vita cristiana che egli indica con l'espressione "in Cristo" (en Christō). La formula ricorre 83 volte nel corpus paolino, senza contare l'espressione affine "con Cristo" (syn Christō) e le espressioni pronominali equivalenti "in lui" o "in colui che".
È quasi impossibile tradurre con parole il contenuto pregnante di queste frasi. La preposizione "in" ha un significato ora locale, ora temporale (al momento in cui Cristo muore e risorge), ora strumentale (per mezzo di Cristo). Delinea l'atmosfera spirituale in cui il cristiano vive e agisce. Paolo applica a Cristo quello che nel discorso all'Areopago di Atene dice di Dio, citando un autore pagano: "In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (Atti 17, 28). Più tardi l'evangelista Giovanni esprimerà la stessa visione con l'immagine del "rimanere in Cristo" (Gv 15, 4-7).
Su queste espressioni fanno leva quelli che parlano di mistica paolina. Frasi come "Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo" (2 Cor 5,19) sono totalizzanti, non lasciano fuori di Cristo nulla e nessuno. Dire che i credenti sono "chiamati a essere santi" (Rom 1,7) equivale per l'Apostolo a dire che sono "chiamati da Dio alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo" (1 Cor 1,9).
Giustamente, anche in seno al mondo protestante, oggi si comincia a considerare la visione sintetizzata nell'espressione "in Cristo" o "nello Spirito" come più centrale e rappresentativa del pensiero di Paolo che la stessa dottrina della giustificazione mediante la fede.
L'anno paolino potrebbe rivelarsi l'occasione provvidenziale per chiudere tutto un periodo di discussioni e contrasti legati più al passato che al presente e aprire un nuovo capitolo nell'utilizzo del pensiero dell'Apostolo. Tornare a utilizzare le sue lettere, e in primo luogo la Lettera ai Romani, per lo scopo per cui furono scritte che non era, certo, quello di fornire alle generazioni future una palestra in cui esercitare il loro acume teologico, ma quello di edificare la fede della comunità, formata per lo più da gente semplice e illetterata. "Ho un vivo desiderio, scrive ai Romani, di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io" (Rom 1, 11-12).
3. Oltre la Riforma e la Controriforma
È tempo, credo, di andare oltre la Riforma e oltre la Controriforma. La posta in gioco all'inizio del terzo millennio, non è più la stessa dell'inizio del secondo millennio, quando si produsse la separazione tra oriente e occidente, e neppure è quella a metà del millennio, quando si produsse, in seno alla cristianità occidentale, la separazione tra cattolici e protestanti.
Per fare un solo esempio, il problema non è più quello di Lutero di come liberare l'uomo dal senso di colpa che l'opprime, ma come ridare all'uomo il vero senso del peccato che ha smarrito del tutto. Che senso ha continuare a discutere su "come avviene la giustificazione dell'empio", quando l'uomo è convinto di non aver bisogno di alcuna giustificazione e dichiara con orgoglio: "Io stesso oggi mi accuso e solo io posso assolvermi, io l'uomo"? (1)
Io credo che tutte le secolari discussioni tra cattolici e protestanti intorno alla fede e alle opere hanno finito per farci perdere di vista il punto principale del messaggio paolino, spostando spesso l'attenzione da Cristo alle dottrine su Cristo, in pratica, da Cristo agli uomini. Quello che all'Apostolo preme anzitutto affermare in Romani 3 non è che siamo giustificati per la fede, ma che siamo giustificati per la fede in Cristo; non è tanto che siamo giustificati per la grazia, quanto che siamo giustificati per la grazia di Cristo. L'accento è su Cristo, più ancora che sulla fede e sulla grazia.
Dopo avere nei due precedenti capitoli della Lettera presentato l'umanità nel suo universale stato di peccato e di perdizione, l'Apostolo ha l'incredibile coraggio di proclamare che questa situazione è ora radicalmente cambiata "in virtù della redenzione realizzata da Cristo", "per l'obbedienza di un solo uomo" (Rom 3, 24; 5, 19). L'affermazione che questa salvezza si riceve per fede, e non per le opere, è importantissima, ma essa viene in secondo luogo, non in primo. Si è commesso l'errore di ridurre a un problema di scuole, interno al cristianesimo, quella che era per l'Apostolo una affermazione di portata più vasta, cosmica e universale.
Questo messaggio dell'Apostolo sulla centralità di Cristo è di grande attualità. Molti fattori portano infatti a mettere tra parentesi oggi la sua persona. Cristo non entra in questione in nessuno dei tre dialoghi più vivaci in atto oggi tra la chiesa e il mondo. Non nel dialogo tra fede e filosofia, perché la filosofia si occupa di concetti metafisici, non di realtà storiche come è la persona di Gesù di Nazareth; non nel dialogo con la scienza, con la quale si può unicamente discutere dell'esistenza o meno di un Dio creatore, di un progetto al di sotto dell'evoluzione; non, infine, nel dialogo interreligioso, dove ci si occupa di quello che le religioni possono fare insieme, nel nome di Dio, per il bene dell'umanità.
Pochi anche tra i credenti, interrogati in che cosa credono, risponderebbero: credo che Cristo è morto per i miei peccati ed è risorto per la mia giustificazione. I più risponderebbero: credo nell'esistenza di Dio, in una vita dopo la morte. Eppure per Paolo, come per tutto il NT, la fede che salva è solo quella nella morte e risurrezione di Cristo: "Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rom 10,9).
Nel mese scorso, si è tenuto qui in Vaticano, nella Casina Pio IV, un simposio promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze, dal titolo "Vedute scientifiche intorno all'evoluzione dell'universo e della vita", cui hanno partecipato i massimi scienziati di tutto il mondo. Ho voluto intervistare, per il programma che conduco ogni sabato sera in TV sul vangelo, uno dei partecipanti, il Prof. Francis Collins, direttore del gruppo di ricerca che portò nel 2000 alla completa decifrazione del genoma umano. Sapendolo un credente, gli ho posto, tra le altre, la domanda: "Lei ha creduto prima in Dio o in Gesù Cristo?" Ha risposto:
"Sino all'età di circa 25 anni ero ateo, non avevo una preparazione religiosa, ero uno scienziato che riduceva quasi tutto ad equazioni e leggi di fisica. Ma come medico ho cominciato a vedere la gente che doveva affrontare il problema della vita e della morte, e questo mi ha fatto pensare che il mio ateismo non era un'idea radicata. Ho cominciato a leggere testi sulle argomentazioni razionali della fede che io non conoscevo. Per prima cosa sono arrivato alla convinzione che l'ateismo era l'alternativa meno accettabile. A poco a poco sono giunto alla conclusione che deve esistere un Dio che ha creato tutto questo, ma non sapevo com'era questo Dio".
È istruttivo leggere, nel suo libro "Il linguaggio di Dio", come superò questa impasse:
"Trovavo difficile gettare un ponte verso questo Dio. Più imparavo a conoscerlo, più la sua purezza e santità mi apparivano inavvicinabili. In questa amara consapevolezza arrivò la persona di Gesù Cristo. Era passato più di un anno da quando avevo deciso di credere in qualche specie di Dio, ed ora ero arrivato alla resa dei conti. In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta passeggiando sulle montagne mi spingevo all'ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull'erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo" (2).
Viene da pensare alla parola di Cristo: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". È solo in lui che Dio diventa accessibile e credibile. Grazie a questa fede ritrovata, il momento della scoperta del genoma umano fu, nello stesso tempo, dice lui, un'esperienza di esaltazione scientifica e di adorazione religiosa.
La conversione di questo scienziato dimostra che l'evento di Damasco si rinnova nella storia; Cristo è lo stesso, oggi come allora. Non è facile per uno scienziato, specie per un biologo, dichiarasi oggi pubblicamente credente, come non lo fu per Saulo: si rischia di essere immediatamente "cacciati dalla sinagoga". E di fatti è quello che è successo al Prof. Collins che per la sua professione di fede ha dovuto subire gli strali di molti laicisti.
4. Dalla presenza di Dio alla presenza di Cristo
Mi resta da dire qualcosa sull'altro punto: cosa l'esempio di Paolo ha da dire per la vita spirituale dei credenti. Uno dei temi più trattati nella spiritualità cattolica è quello del pensiero della presenza di Dio (3). Non si contano i trattati su questo argomento dal secolo XVI ad oggi. In uno di essi si legge:
"Il buon cristiano deve abituarsi a questo santo esercizio in ogni tempo e in ogni luogo. Al risveglio rivolga subito lo sguardo dell'anima su Dio, parli e conversi con lui come il suo padre amato. Quando cammina per le strade tenga gli occhi del corpo bassi e modesti elevando quelli dell'anima a Dio" 4).
Si distingue il "pensiero della presenza di Dio" dal "sentimento della sua presenza": il primo dipende da noi, il secondo è invece dono di grazia che non dipende da noi. (Si sa che per san Gregorio Nisseno "il sentimento della presenza" di Dio, la aisthesis parousia, è quasi un sinonimo di esperienza mistica).
Si tratta di una visione rigidamente teocentrica che in alcuni autori si spinge fino al consiglio di "lasciare da parte la santa umanità di Cristo". Santa Teresa d'Avila reagirà energicamente contro questa idea che riappare periodicamente da Origene in poi in seno al cristianesimo sia orientale che occidentale. Ma la spiritualità della presenza di Dio, anche dopo di lei, continuerà a essere rigidamente teocentrica, con tutti i problemi e le aporie che ne derivano, messe in luce dagli stessi autori che ne trattano (5).
Su questo punto il pensiero di san Paolo ci può aiutare a superare la difficoltà che ha portato al declino della spiritualità del presenza di Dio. Egli parla sempre di una presenza di Dio "in Cristo". Una presenza irreversibile e insuperabile. Non c'è uno stadio della vita spirituale in cui si possa fare a meno di Cristo, o andare "oltre Cristo". La vita cristiana è una "vita nascosta con Cristo in Dio" (Col 3,3). Questo cristocentrismo paolino non attenua l'orizzonte trinitario della fede ma lo esalta, perché per Paolo tutto il movimento parte dal Padre e ritorna al Padre, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. L'espressione "in Cristo" è intercambiabile, nei suoi scritti, con l'espressione "nello Spirito".
Il bisogno di superare l'umanità di Cristo, per accedere direttamente al Logos eterno e alla divinità, nasceva da una scarsa considerazione della risurrezione di Cristo. Questa veniva vista nel suo significato apologetico, come prova della divinità di Gesù, e non abbastanza nel suo significato misterico, come inaugurazione della sua vita "secondo lo Spirito", grazie alla quale l'umanità di Cristo appare ormai nella sua condizione spirituale e dunque onnipresente e attuale.
Cosa ne deriva sul piano pratico? Che noi possiamo fare ogni cosa "in Cristo" e "con Cristo", sia che mangiamo, sia che dormiamo, sia che facciamo qualsiasi altra cosa, dice l'Apostolo (1 Cor 10,31). Il Risorto non è presente solo perché lo pensiamo, ma è realmente accanto a noi; non siamo noi che dobbiamo, con il pensiero e la fantasia, riportarci alla sua vita terrena e rappresentarci gli episodi della sua vita (come ci si sforzava di fare nella meditazione dei "misteri della vita di Cristo"); è lui, il risorto, che viene verso di noi. Non siamo noi che, con l'immaginazione, dobbiamo diventare contemporanei di Cristo; è Cristo che si fa realmente nostro contemporaneo. "Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo". (A proposito, perché non fare subito un atto di fede? Egli è qui, in questa cappella, più presente di quanto lo sia ciascuno di noi; cerca lo sguardo del nostro cuore e gioisce quando lo trova).
Una testo che riflette meravigliosamente questa visione della vita cristiana è la preghiera attribuita a san Patrizio: "Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Cristo in me! Cristo sotto di me, Cristo sopra di me, Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra!" (6)
Quale nuovo e più alto significato acquistano le parole di san Luigi Grignon de Montfort, se applichiamo allo "Spirito di Cristo" ciò che egli dice dello "spirito di Maria":
"Dobbiamo abbandonarci allo Spirito di Cristo per essere mossi e guidati secondo il suo volere. Dobbiamo metterci e restare fra le sue mani come uno strumento tra le mani di un operaio, come un liuto tra le mani di un abile suonatore. Dobbiamo perderci e abbandonarci in lui come pietra che si getta in mare. È possibile fare tutto ciò semplicemente e in un istante, con una sola occhiata interiore o un lieve movimento della volontà, o anche con qualche breve parola" (7).
5. Dimentico del passato
Concludiamo tornando al testo di Filippesi 3. San Paolo termina le sue "confessioni" con una dichiarazione:
"Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù" (Fil 3, 13-14).
"Dimentico del passato". Quale passato? Quello di fariseo, di cui ha parlato prima? No, il passato di apostolo, nella Chiesa! Ora il guadagno da considerare perdita è un altro: è proprio l'aver già una volta considerato tutto una perdita per Cristo. Era naturale pensare: "Che coraggio, quel Paolo: abbandonare una carriera di rabbino così ben avviata per una oscura setta di galilei! E che lettere ha scritto! Quanti viaggi ha intrapreso, quante chiese fondato!"
L'Apostolo ha avvertito confusamente il pericolo mortale di rimettere tra sé e il Cristo una "propria giustizia" derivante dalle opere - questa volta le opere compiute per Cristo -, e ha reagito energicamente. "Io non ritengo -dice- di essere arrivato alla perfezione". San Francesco d'Assisi, verso la fine della vita, tagliava corto a ogni tentazione di autocompiacenza, dicendo: "Cominciamo, fratelli, a servire il Signore, perché finora abbiamo fatto poco o niente" (8).
Questa è la conversione più necessaria a coloro che hanno già seguito Cristo e sono vissuti al suo servizio nella Chiesa. Una conversione tutta speciale, che non consiste nell'abbandonare il male, ma, in certo senso, nell'abbandonare il bene! Cioè nel distaccarsi da tutto ciò che si è fatto, ripetendo a se stessi, secondo il suggerimento di Cristo: "Siamo servi inutili; abbiamo fatto quanto dovevamo fare" (Lc 17,10).
Questo svuotarci le mani e le tasche di ogni pretesa, in spirito di povertà e umiltà, è il modo migliore per prepararci al Natale. Ce lo ricorda una simpatica leggenda natalizia che mi piace citare di nuovo. Narra che tra i pastori che accorsero la notte di Natale ad adorare il Bambino ce n'era uno tanto poverello che non aveva proprio nulla da offrire e si vergognava molto. Giunti alla grotta, tutti facevano a gara a offrire i loro doni. Maria non sapeva come fare per riceverli tutti, dovendo tenere in braccio il Bambino. Allora, vedendo il pastorello con le mani libere, prende e affida a lui Gesù. Avere le mani vuote fu la sua fortuna e, su un altro piano, sarà anche la nostra.
(1) J.-P. Sartre, Il diavolo e il buon dio, X,4 (Parigi, Gallimard 1951, p. 267.).
(2) F. Collins, The Language of God. A Scientist Presents Evidence for Belief, pp. 219-255.
(3) Cf. M. Dupuis, Présence de Dieu, in D Spir. 12, coll. 2107-2136.
(4) F. Arias (+1605), cit. da Dupuis, col. 2111.
(5) Dupuis, cit., col 2121: "Se l'onnipresenza di Dio non si distingue dalla sua essenza, l'esercizio della presenza di Dio non aggiunge al tradizionale tema del ricordo di Dio, se non un sforzo immaginativo".
(6) "Christ with me, Christ before me, Christ behind me, Christ below me, Christ above me, Christ at my right, Christ at my left".
(7) Cf. S. L. Grignon de Montfort, Trattato della vera devozione a Maria, nr. 257.259 (in Oeuvres complètes, Parigi 1966, pp. 660.661).
(8) Celano, Vita prima, 103 (Fonti Francescane, n. 500).


San Tommaso d’Aquino visto (davvero) da vicino. Una recensione di Nel segno del sole di Tito Sante Centi O.P.
Per scrivere la biografia di qualcuno, nulla di meglio di un amico. Padre Tito Sante Centi O.P., che ha appena compiuto novantatré anni, può essere definito il migliore amico di san Tommaso d’Aquino (1227?-1274) nell’Italia del XX secolo. Padre Centi, infatti, è il traduttore italiano della Somma Teologica e della Somma contro i Gentili, e ha passato tutta la sua vita di studioso in simbiosi con quello che definisce il più grande filosofo di tutti i tempi e il più grande teologo nella storia della Chiesa. Nel segno del sole. San Tommaso d’Aquino (Ares, Milano 2008) non è però una sintesi della filosofia e della teologia dell’Aquinate. L’autore la definisce modestamente una «biografia aneddotica», adatta anche ai giovani. Ma è molto di più. In cento pagine, lo studioso domenicano riesce a riassumere non solo gli episodi salienti della vita di san Tommaso ma anche il loro significato nella storia della Chiesa e dell’Europa. Non basta: il santo è presentato appunto come un santo, non solo come un grande uomo di cultura. La sua vita spirituale e mistica è posta nel giusto rilievo, ma nello stesso tempo san Tommaso emerge dalle pagine come un personaggio vivo, affabile e simpatico. Si ha quasi l’impressione che l’autore lo conosca personalmente: e da un certo punto di vista è proprio così.
di Massimo Introvigne


Il primo episodio che padre Centi mette in luce a proposito di san Tommaso è la sua lotta per entrare, a meno di vent’anni, fra i domenicani, contro il volere della nobile famiglia, che sarebbe disposta a vederlo religioso purché si tratti dei potenti benedettini e non di un ordine mendicante. L’episodio ricorda le «deprogrammazioni» in voga negli anni 1970 e 1980, quando adepti di nuovi movimenti religiosi erano fatti rapire dai loro genitori, rinchiusi in casa o in qualche motel e sottoposti a pressioni di ogni genere finché non accettassero di lasciare il movimento accusato di averli «plagiati». E di «plagio», secondo padre Centi, i fratelli di san Tommaso accusano i domenicani: rapiscono il santo, lo rinchiudono nei loro castelli di Roccasecca e Monte San Giovanni, lo fanno supplicare dalle amate sorelle, e gli mandano perfino una ragazza di facili costumi come cameriera sperando che lo distolga dalla vocazione. Proprio quest’ultimo episodio, e la sdegnata reazione del giovane Tommaso, portano le sorelle (una delle quali diventerà poi suora) a passare dalla sua parte, e a facilitarne la fuga. Ma prima di scappare calandosi da una finestra Tommaso è rimasto prigioniero per quasi due anni. Ne ha approfittato per imparare a memoria la Bibbia e il Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo (ca. 1065-1160), il più famoso manuale di teologia del Medioevo. Della sua tentata «deprogrammazione» san Tommaso si ricorderà quando scriverà a Parigi l’opuscolo Contro la dottrina pestilenziale di coloro che distolgono gli uomini dall’abbracciare la vita religiosa, le cui idee centrali derivano – riferisce padre Centi – da un’improvvisa illuminazione che ha mentre pranza alla tavola del re di Francia Luigi IX (1214-1270), che sarà anch’egli canonizzato come santo .
Divenuto domenicano, prosegue la formazione a Parigi e a Colonia, sotto la guida di sant’Alberto Magno O.P. (1206-1280). Il suo carattere riflessivo e taciturno – è soprannominato «il bue muto» - rischia d’indurre in errore sulle sue capacità. Ma non s’ingannano né sant’Alberto né i superiori, che favoriscono la sua rapidissima carriera accademica. Appena completati gli studi, comincia subito a insegnare a Parigi, da dove si trasferirà nel 1259 in Italia come professore allo Studium Curiae, primo abbozzo di un’università pontificia. Gli anni 1259-1268 sono quelli in cui più fiorisce la sua opera: completa la Somma contro i Gentili e buona parte della Somma Teologica, che alla sua morte peraltro resta ancora incompiuta. Nell’inverno 1268-1269 torna a Parigi, per difendere gli ordini mendicanti dai loro avversari e la sua teologia dalle opposte critiche di un razionalismo ispirato ad Averroé (1126-1198) e del fideismo di quello che padre Centi chiama «un malinteso agostinianismo tradizionalista». Contro questi due errori contrapposti, il pensiero di san Tommaso emerge definitivamente come il punto più alto di quell’equilibrio fra fede e ragione che dà all’Europa cristiana la sua identità. Nel 1272 torna in Italia per insegnare all’Università di Napoli.
Una carriera accademica, dunque, tanto rapida quanto sbalorditiva per la capacità di produrre così tante opere fondamentali in pochi anni. Ma l’autore insiste sempre sul fatto che si tratta non solo di un filosofo ma di un santo e di un mistico. Esperienze sovrannaturali e prodigi ne accompagnano tutta la vita. E Tommaso non è solo l’autore della Somma teologica ma anche di opere poetiche, tra cui i cantici – Lauda Sion, Pange Lingua, Adoro te devote – commissionati al santo da Papa Urbano IV (1195 ca. -1264) con la Messa e l’Ufficio del Corpus Domini, festa che il pontefice aveva istituito nel 1264 sulla scorta delle visioni della Beata Giuliana di Liegi (1192-1258). Per la verità, l’attribuzione a san Tommaso di questi cantici carissimi al popolo cattolico è stata revocata in dubbio. Padre Centi riprende dallo storico belga Pierre Mandonnet O.P. (1858-1936) una serie di argomenti secondo cui l’Ufficio, con i cantici, è proprio di san Tommaso, e aggiunge un ulteriore elemento, di carattere numerologico, che non mancherà d’interessare i lettori contemporanei abituati a opere che cercano «codici» più o meno dappertutto. San Tommaso ama i numeri, specie quando si tratta dell’Eucarestia. Così le strofe della sequenza del Corpus Domini sono esattamente ventiquattro, «ossia il raddoppio del dodici, il quale è notoriamente [per i medievali] il simbolo della Chiesa di Cristo» (p. 43): dodici strofe per la Chiesa militante, dodici per la Chiesa trionfante, ventiquattro in totale. «Le strofe degli inni del vespro e delle lodi sono precisamente sei, come sono sei gli articoli che formano le questioni 73, 78, 83 della Terza Parte [della Somma Teologica], dedicate rispettivamente al Sacramento [dell’Eucarestia] in sé stesso, alla sua forma e al suo rito. Che poi san Tommaso, d’accordo con i contemporanei, attribuisse al numero sei un simbolismo particolare quale primo dei numeri perfetti, non è possibile dubitarne. In una sua questione quodlibetale viene discusso addirittura il problema seguente: “Se il numero sei, in forza del quale tutte le cose create si dicono perfette, sia creatore o creatura” (Quodlib. 8, q. I, a. 1). Dopo di che sembra legittimo concludere che non è casuale neppure il numero delle strofe in cui si articolano l’inno del mattutino e l’Adoro te devote: le sette strofe evocano le sette divisioni principali del trattato e più a monte la preminenza del mistero eucaristico fra tutti i [sette] sacramenti» (pp. 43-44).
Chiamato da Papa Gregorio X (1210-1276) a Lione per il Concilio ecumenico, vede la sua salute – già da tempo malferma – aggravarsi per le asprezze del viaggio. Muore il 7 marzo 1274 nell’abbazia cistercense di Fossanova (Latina) senza avere potuto raggiungere Lione. Padre Centi dedica ampio spazio alle vicende quasi romanzesche delle sue reliquie, oggetto di un’aspra contesa fra i cistercensi di Fossanova e i domenicani. Divise in varie parti per accontentare tutti coloro che desiderano conservarle, attraverso complesse vicende in cui interviene anche una suora chiamata Caterina – che l’autore, contro altre ipotesi, identifica in santa Caterina da Siena (1347-1380) – sono infine depositate (almeno per quanto riguarda la loro porzione essenziale, così che né a Fossanova né altrove si può parlare a rigore di «tombe» di san Tommaso) a Tolosa, presso la chiesa conventuale dei Giacobini, considerata allora la più bella chiesa domenicana d’Europa. Nel 1791 la chiesa è profanata e trasformata in caserma dalla Rivoluzione Francese, ma le reliquie sono salvate e trasportate nella chiesa di Saint-Sernin. Di lì, dopo una ricognizione affidata a una commissione di storici che ne certifica l’autenticità, ritornano alla chiesa dei Giacobini finalmente restaurata e riconsacrata nel 1974. Ma pochi, nota l’autore, lo sanno: «Quasi nessun cattolico, all’infuori della diocesi di Tolosa e dell’Ordine domenicano, immagina che le reliquie di san Tommaso siano a Tolosa» (p. 83).
Testimonianza, questa, del fatto che si pensa di conoscere e si tende a dare per scontato san Tommaso, mentre su di lui ci sono tante cose che non sappiamo. Padre Centi ci offre anche, in appendice, un saggio del metodo del santo, pubblicando – preceduta da una sua Introduzione (pp. 91-105) – una traduzione dell’opuscolo De aeternitate mundi contra murmurantes («L’eternità del mondo», pp. 107-117). In questo testo difficile san Tommaso sostiene che noi sappiamo per fede che il mondo non è stato creato da Dio dall’eternità, ma ha avuto un inizio nel tempo: ma non potremmo arrivare con certezza a questa conclusione sulla base della sola ragione. Pertanto l’ipotesi di una creazione ab aeterno – che il cristiano è obbligato a escludere per fede – da un punto di vista puramente razionale non è assurda, mentre sarebbe assurdo negare che il mondo sia stato creato da Dio o anche negare la differenza sostanziale fra Creatore e creature. Padre Centi fa notare che alcune argomentazioni di san Tommaso sono qui legate a una fisica aristotelica che noi oggi non condividiamo più. Ma quello che sta a cuore al santo filosofo – la difesa dell’autonomia della ragione contro il fideismo, e il fatto che la nozione di un Dio creatore distinto dal creato s’imponga sulla base della stessa ragione, a prescindere dalla fede, anche ai non credenti – ha grande rilievo ancora oggi, in dibattiti che riguardano la scienza, l’evoluzionismo e anche l’islam e la sua nozione di Dio.
San Tommaso, dunque, parla ancora oggi. Riscoprire le radici cristiane dell’Europa significa riscoprire san Tommaso come parte integrante di queste radici. Radici di vita, e non solo di dottrina. È la lezione di san Tommaso d’Aquino: ma anche della lunga e operosa vita religiosa e accademica di padre Tito Sante Centi.
Centi Tito S. - Nel segno del sole. Vita di san Tommaso d'Aquino. Edizioni Ares 2008


13/12/2008 09:35 INDIA - Natale, momento di pace e di speranza per le giovani vedove dell’Orissa - di Nirmala Carvalho - Il marito di Asmitha Digal, 25 anni e madre di due figlie, è stato ucciso dai fondamentalisti indù durante i primi giorni del pogrom contro i cristiani. La donna testimonia le violenze subite ma dice di non cedere alla logica della violenza. Attivista cristiano denuncia un trattamento da “cittadini di serie B”.
Bangalore (AsiaNews) – Lasciarsi alle spalle i traumi, i dolori e le violenze subite; testimoniare il martirio subito dai propri cari senza cedere alla logica dell’odio e lanciare un messaggio di pace e di speranza alla vigilia del Natale. Con questo spirito 24 giovani vedove del distretto di Kandhamal, in Orissa, hanno raccontato il pogrom anticristiano scatenato dai fondamentalisti indù.
Le donne hanno lasciato i campi profughi in Orissa e sono giunte a Bangalore. Il viaggio è stato organizzato dagli attivisti del Global Council of Indian Christians (Gcic) per poter permettere alle donne di celebrare le festività natalizie. In Orissa resta alta la tensione e sulla comunità cristiana pende la minaccia di nuove violenze in caso di celebrazioni legate al Natale.
Tra le tante storie di donne segnate dal dolore e dalla sofferenza AsiaNews ha raccolto quella di Asmitha Digal, originaria del villaggio di Bataguda, 25 anni e due figli piccoli, il cui marito è stato ucciso in modo barbaro dai fondamentalisti: “Il 26 agosto [uno dei primi giorni delle violenze anti-cristiane in Orissa, ndr] mio marito Rajesh stava rientrando a casa in treno. È sceso alla stazione di Muniguda e, a piedi perché non c’erano mezzi disponibili e le strade erano bloccate, si è diretto verso Kandhamal. Era in compagnia di un giovane indù di nome Tunguru Mallick”.
“Verso le 9 del mattino – continua Asmitha – raggiunto il villaggio di Paburia sono stati fermati da una folla di circa 60 estremisti indù delle Rss [il Rashtriya Swayamsevak Sangh, formazione paramilitare di fondamentalisti nazionalisti, ndr] armati di mazze di legno e bastoni. Hanno afferrato lo zaino di mio marito, che conteneva una copia della Bibbia e passi del Vangelo. Mallick è scappato; Rajesh è stato trascinato come un sacco della spazzatura mentre i fondamentalisti gli intimavano di convertirsi all’induismo”. La donna racconta che al rifiuto opposto dal marito gli estremisti “hanno scatenato la loro rabbia gettandolo in una buca e coprendolo di fango fino al collo”. All’ennesimo rifiuto di abbandonare il cristianesimo, la folla “ha iniziato a colpirlo con le pietre fino ad ammazzarlo”.
Asmitha dice di aver provato a denunciare il caso, ma non ha ottenuto risposte né risarcimenti. Il viaggio a Bangalore rappresenta per lei una occasione per “rilanciare un messaggio di speranza. “Devo continuare a vivere – conclude la donna – per i miei figli e per mio marito che ora è con Gesù. Natale è un momento di rinascita verso una nuova vita. Gesù viene nelle vesti di un bambino, è presente e vivo in mezzo a noi. Questo è ciò che più spaventa gli estremisti indù: la preghiera e la fede in un Dio vivente”.
Sajan George, presidente del Gcic, parlando a una folla di oltre 2500 riunite a Bangalore per ascoltare la testimonianza delle donne sottolinea: “Ai cristiani vengono negati persino i diritti di base sanciti dalla Costituzione. Essi vengono trattati come cittadini di serie B”. L’attivista lancia un appello alla società civile perché “questi atti disumani non vengano dimenticati. I cristiani di Kandhamal non hanno più nemmeno una identità, perché i fondamentalisti indù hanno bruciato i loro documenti. Non lasciamo che il sangue di questi martiri scorra invano”.


13/12/2008 09:46 – VIETNAM - Emergenza giovani. A Ho Chi Minh City la Chiesa riparte dalla famiglia - di JB. VU - La popolazione del Paese è ormai in maggioranza costituita da giovani. Il 26% dei vietnamiti ha meno di 15 anni. Alle migliaia di casi di abbandono, sfruttamento o solitudine la Chiesa risponde puntando sulla famiglia
Ho Chi Minh Ciity (AsiaNews) - Rappresentano il 54% della popolazione del Viet Nam, nella sola Ho Chi Minh City sono 8 milioni: giovani al di sotto dei trent’anni che ormai costituiscono la maggioranza degli abitanti del Paese. Il 26% degli 87milioni di vitanemiti ha meno di 15 anni. Oltre 22milioni di bambini che rappresentano una risorsa per il futuro, ma anche un problema per il presente del Paese. Per la Chiesa rappresentano una priorità.
Le statistiche delle organizzazioni impegnate in attività sociali rivelano che nella capitale vivono7mila bambini di strada e 22mila giovani soffrono di dipendenza dalla droga. Le ragazze vittime del mercato del sesso sono 10mila. Vengono fatte emigrare in Cambogia, Giappone, Corea, Hong Kong, Taiwan e Cina come cameriere di coffé shop, impiegate e massaggiatrici. Le famiglie vendono i loro bambini ricevendo tra i 600 e i 2mila dollari, ma spesso non sanno a cosa sono davvero destinati.
Non sono però solo i numerosi casi estremi a preoccupare. C’è un altro dato statistico che rileva come anche molti dei bambini che vivono in famiglia soffrano condizioni difficili. Le cause sono legate all’alto numero di divorzi e separazioni, ma anche all’abbandono in cui sono lasciati a causa delle ristrettezze economiche che spingono i genitori a dedicarsi esclusivamente al lavoro trascurando i figli.
Le organizzazioni sociali e gli organismi caritativi della Chiesa cattolica lavorano con la popolazione, con i giovani ed con i bambini nelle aree povere delle città e nelle zone rurali della provincia per educare al valore della vita e far riscoprire alle giovani generazioni i valori su cui si fonda la tradizione culturale vietnamita.
La famiglia è il punto nevralgico cui la Chiesa cattolica guarda per affrontare i tanti casi di sofferenza che toccano giovani e bambini, siano essi abbandonati dai genitori, ridotti a oggetti, sfruttati o trascurati dalle famiglie.
Mons. Nguyen Van Nhon, presidente del Consiglio dei vescovi vietnamiti, ha inviato una lettera pastorale a tutti i cattolici del Paese in cui si legge: “La società vietnamita sta vivendo una cambiamento generale vigoroso che porta risultati positivi ma nel contempo anche problemi negativi, con grave smarrimento, tra cui il più importante riguarda i valori di base implicati nella stabilità del matrimonio, della famiglia ed il rispetto vicendevole tra i membri delle stessa”.
“Vietnamiti - prosegue la lettera del vescovo -, siamo orgogliosi delle buone tradizioni della famiglia come il vivere in pace nel nucleo familiare e nella società. Questo è un fattore essenziale per aiutarci a sacrificare la nostra vita per una buona causa. Ma le buone tradizioni stanno corrodendosi e perdendosi nell’oblio”.


12/12/2008 - VATICANO-TAIWAN-CINA - Papa: non bisogna avere paura di essere cattolici e buoni cittadini - La frase pronunciata da Benedetto XVI parlando ai vescovi taiwanesi. La loro “unità spirituale” con i cattolici della terraferma, “che costantemente ricordo nella preghiera”. L’impengo per l’evangelizzazione, la cura delle famiglie e dei migranti.
Città del Vaticano (AsiaNews) - I cattolici possono essere buoni cittadini: è il messaggio che Benedetto XVI ha indirettamente rivolto al governo cinese oggi, ricevendo i vescovi di Taiwan per la loro quinquennale visita “ad limina”. I vescovi ed i cattolici di Taiwan, ha detto, sono “una vivente testimonianza che, in una società ordinata secondo giustizia, non bisogna avere paura di essere fedeli cattolici e buoni cittadini”.
Il Papa ha parlato della Cina continentale con i presuli taiwanesi, collocandola all’interno della “responsabilità pastorale” che tutti i vescovi hanno, insieme con il Papa, per la Chiesa universale. “Nel vostro caso – ha proseguito – ciò significa una affettuosa preoccupazione per i cattolici della terraferma, che costantemente ricordo nella preghiera”. “Prego – ha aggiunto poi - che, come parte della grande famiglia cinese, possiate continuare ad essere spiritualmente uniti ai vostri fratelli del continente”. Altra frase che dovrebbe suonare bene alle orecchie di Pechino.
Nel ricordo dei 150 anni della evangelizzazione cattolica dell’Isola, Benedetto XVI ha poi lodato la volontà dei vescovi di promuovere “unità dei cuori e delle menti per portare il Vangelo tra i non credenti” e per formare coloro che hanno già ricevuto il battesimo e la cresima. Di formazione il Papa ha parlato anche a proposito dei sacerdoti, definita “cruciale” per “mettere continuamente al centro dell’attenzione la comprensione della loro missione e abbracciarla con fedeltà e generosità”.
Una particolare sottolineatura, infine, Benedetto XVI ha dedicato alla cura dovuta alla famiglia ed ai migranti. “La vostra profonda preoccupazione per il bene delle famiglie e della società nel suo insieme – ha detto ai vescovi - vi spinge ad aiutare le coppie a conservare l’indissolubilità delle loro promesse matrimoniali. Non stancatevi nel promuovere una giusta legislazione civile e politiche di protezione della sacralità del matrimonio. Difendete questo sacramento – ha concluso – da tutto quello che può arrecargli danno, specialmente la deliberata presa della vita nei suoi stadi più vulnerabili”.
Quanto ai migranti, il Papa ha espresso compiacimento per l’impegno di accoglienza preso dai cattolici e per l’azione della Chiesa “per promuovere leggi e politiche che proteggano i diritti umani dei migranti”.


La luce dell’Avvento - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 12 dicembre 2008
Alcuni ritengono che viviamo in un’epoca di neopaganesimo. Difficile dar loro torto se si considera la condizione esistenziale, soprattutto dei giovani, descritta da confusione, incertezza e vaga ricerca di un senso, quasi a contrasto con il nichilismo diffuso. Un’ignoranza pressoché totale del cristianesimo serpeggia ormai tra le diverse fasce d’età. Pagani perché non impegnati in una seria ricerca che risponda all’insopprimibile anelito religioso, pronti ad accontentarsi o inclini a rimandare il momento in cui prendere sul serio gli interrogativi che sorgono da un’esistenza, personale e collettiva, sempre più drammatica. Così si crede un po’ a tutto e a niente. Nelle nostre strade si sono accese anche quest’anno le luminarie. Fino a qualche anno fa si poteva dire che il loro apparire segnasse un tempo diverso, quello dell’Avvento, di gioia e di trepidazione, che oggi non si considera più. Il capitalismo sfrenato ha divorato il simbolo che queste luci indicavano ed esse restano nostalgicamente appese, rimando a se stesse. Soffocata la dimensione spirituale, indebolita l’attività interiore dell’anima, come può fare l’uomo a mettersi in rapporto con Dio? Come vivere oggi questo tempo dell’Avvento? Ancora una volta ci viene in soccorso la bontà di Dio attraverso la maternità della Chiesa. In uno scritto degli anni ’70 il cardinale Ratzinger spiegava che avvento è la traduzione della parola greca parusia, che significa presenza già iniziata. Dio è già presente nel mondo, ma la sua presenza non è ancora completa, è un qui e non ancora che ci protende al futuro. Così non si tratta di un nostro sforzo, ma di un dono. Quello che non siamo neppure più in grado di attendere, sfiniti dalla nostra debolezza mortale, è qui presente e si lascia vedere attraverso coloro che riconoscono la Sua Presenza già iniziata e la proseguono nella storia con le buone opere, con la fede vissuta. È soprattutto in Maria Immacolata, come ha detto il Papa all’ Angelus, che noi contempliamo il riflesso della bellezza che salva il mondo, la bellezza di Dio che risplende nel volto di Cristo. Cosa spetta, allora, a noi poveri uomini, arruffati tra mille difficoltà? La sincerità della domanda, che è la più alta espressione della coscienza di chi riconosce di non farsi da sé ma di dipendere, misteriosamente. E la bella notizia è che l’Essere da cui dipendiamo, il Dio svelatosi in Gesù Cristo, non ci lascia soli, è con noi. Questo è il dramma della libertà: accettare la compagnia di Dio perché la vita fiorisca, ci trovi capaci di accoglienza e di rispetto, solidali con chi soffre, con si trova nel bisogno, cooperatori del bene. La coscienza che ciascuno di noi è amato, voluto, ci permette di scoprire la dignità del nostro io e di accettare la dignità dell’altro, in qualsiasi condizione si trovi. Pensiamo ai malati, ai piccoli e, perché no, ad Eluana. Se amati possiamo amare. Il tempo di Avvento renda familiare il nostro cuore all’amore di Gesù per poterlo riconoscere nel Natale Bambino tra noi.


Pansa, Scalfari e non solo: affascinati da Gesù… 12.12.2008 Giampaolo Pansa non finisce mai di stupire. – Antonio Socci - E’ appena uscito “Tracce” (il mensile di Comunione e liberazione) dove si trova una sua commovente confessione personale sul Natale. Prende spunto da due citazioni di Benedetto XVI e di don Luigi Giussani, la cui frase, scrive Pansa, “va dritta al cuore, non solo all’intelligenza. Mi ci ritrovo tantissimo, come mio modo di essere”. Prima Pansa ha rievocato la sua infanzia, quando faceva il chierichetto. Poi è venuto al suo presente di grande giornalista laico. Confida: “Oggi, la sera, quando vado a dormire, con mia moglie preghiamo i nostri genitori”. Diverse volte, negli anni scorsi, Giampaolo mi ha raccontato questo suo gesto di religiosità laica, compiuto da non credente. Da sempre i popoli hanno sentito i propri avi come intermediari col Mistero. Stavolta però, su “Tracce”, Pansa ha aggiunto qualcosa di più e di stupefacente. Dice che con sua moglie parla di Dio, “ma non di un Dio anziano, col barbone. No, di un Dio bambino, buono, tenero. Penso a Dio con quelle fattezze, perché mi sembra più disposto a perdonare le mie sciocchezze, i miei peccati”.

Già qui Pansa coglie, istintivamente, il cuore del cristianesimo. E aggiunge: “Ho sempre pensato che ci fosse il nulla dopo la morte. Ora ne sono sempre meno convinto. Preferirei che ci fosse il famoso giudizio”. E ancora: “Natale è Dio che viene sulla terra, ma che resta perennemente bambino, che è buono”. Ricordando quando faceva il presepio da piccolo, con la sorella, rammenta la tenerezza per quel fanciullo che nasceva da profugo, a quel freddo. Poi spiega: “Ecco, io sono rimasto a quel bambino lì, in quella capanna. Il Papa parla di ragione e ragionevolezza. Beh, io forse non sono un ‘uomo ragionevole’. Lavoro molto con il cuore, con il mio bisogno. Non so se questa parabola mi porterà ad essere credente. Ma se dovessi riscoprire Dio credo che sarei guidato da quel bambino, dal Dio di Natale, dal Dio della nascita. E sarei spinto dal bisogno che ho di Lui. Lo avverto in un modo prepotente, soprattutto la sera, dopo aver lavorato tutta la giornata. Ho bisogno di Lui. Anche soltanto dieci anni fa non ci pensavo”.

Confesso di essere ammutolito a queste parole. Pansa ci ha abituato al suo anticonformismo, alla sua totale libertà intellettuale: sia quella che traspare dai suoi articoli (dove dice sempre verità scomode), sia quella drammatica dei suoi libri storici con i quali ha demolito una retorica cinquantennale che esigeva omertà sul mare di sangue del nostro passato. Ma oggi la sua libertà morale supera l’ultimo tabù, quello che, nella società dei salotti senza tabù, nessuno mai osa violare: mettere il proprio cuore a nudo, confessare francamente l’immensa domanda di cui siamo fatti, lo struggente bisogno di perdono e di amore che “siamo”. E il “bisogno di Lui” che abbiamo, come dice Pansa.

E’ rarissimo, soprattutto fra gli intellettuali, trovare un coraggio così. Nella mia generazione ricordo soltanto Giovanni Testori (e prima, in parte, Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini). Per capire il coraggio di Pansa nel demolire l’ultimo tabù del nostro tempo, si può leggere sulle stesse pagine di Tracce la risposta sul cristianesimo di Ezio Mauro, direttore della “Repubblica”. Si vede che Mauro ha studiato, con una certa pignoleria, l’argomento. Ha una sua cultura teologica. Giustamente sottolinea “il fatto storico di Gesù Cristo”. Aggiunge pure che “questa presenza e queste parole hanno segnato la civiltà occidentale. E hanno segnato il modo in cui siamo cresciuti ed educati ed è una presenza importante dentro la nostra società”. Ma tutto questo è una constatazione – per così dire – politica o culturale. Di fronte alla quale, per Mauro, non ci sono gli incasinatissimi esseri umani che siamo noi, ma ci sono due categorie astratte di persone – credenti e “non credenti” – che sono costituite a priori. Sembra che si sia nati già credenti o già non credenti. Sembra che non esistano ragioni né per gli uni né per gli altri. Sembra che non vi siano domande, né cambiamenti possibili. Quello di Mauro è il mondo di oggi: il mondo del partito preso. Conclude dicendo che lui non crede. Ma non ci dice perché. Non ci dice niente delle sue domande, del suo cammino o – per dirla con Pansa - di cosa pensa la sera, dopo una giornata di lavoro. E’ l’Italia dei giornali. Dove esistono destra e sinistra, juventini e interisti, romanisti e laziali, etero e omo (che han preso il posto di uomini e donne), laici e credenti: tutte marionette di un teatrino di ombre, tutti Gabibbi dei salotti televisivi. Ma dove è difficilissimo vedere o ascoltare uomini, cioè creature di carne, che non sanno chi sono, che cercano veramente, che fanno domande o che cambiano (idee e vita) e fanno un cammino e scoprono e si sorprendono e si commuovono.

Viviamo un mondo virtuale, ma non virtuoso: irreale. L’irrompere del “fatto” di Gesù è lo choc più forte che riporti alla realtà. Che è palpitante, viva, contraddittoria, dolente. Fra coloro che rispondono a “Tracce” colpisce il filosofo Pietro Barcellona, il quale prima fa una constatazione analoga a quella di Mauro, una constatazione culturale (“La nascita di Gesù per me, che non sono credente, è il più grande evento della storia dell’uomo. Questa nascita è di una portata immensa”), ma poi si mette in gioco, esce dalla contrapposizione ideologica “credenti/non credenti” e fa parlare la sua umanità: “La frase del Papa (‘occorre l’umiltà dell’uomo che risponde al’umiltà di Dio’) è di una portata immensa perché è un punto di partenza. Comunque, questa nascita per me rimane un problema aperto, anzi un problema di carne che brucia”.

Oggi sembra venuto il tempo in cui l’urto del “fatto” di Gesù si fa più facilmente largo nei cuori. Cosicché capita di leggere sulla Repubblica di una conferenza tenuta alla Luiss da Eugenio Scalfari durante la quale, ad un certo punto, il fondatore del quotidiano “confessa di essere da sempre ‘profondamente colpito e innamorato della figura di Gesù e delle sue predicazioni evangeliche, pur non credendo nell’Assoluto’ ”. E poi aggiunge che questo fascino per la figura di Gesù è un “terreno comune” su cui credenti e non credenti , laici e cattolici, “possono incontrarsi, dialogare”, persino “collaborare”.

Sarebbe interessante saperne di più, capire meglio. Si ha la sensazione che vi sia spesso, in molti, un’attrazione trattenuta, imbrigliata. Come di uno che sbarcasse su un bellissimo continente sconosciuto e, pur essendone incantato, affascinato, avesse paura di inoltrarvisi (paura di esserne travolto? Di dover ribaltare le proprie idee, la propria immagine di sé?). Così si fa un po’ di violenza a se stessi e si rimane sulla soglia, ci si nasconde in un’etichetta.

Spesso questo fascino di Gesù Gesù ci raggiunge attraverso lo stupore per l’umanità eccezionale dei suoi amici. Uomini del nostro tempo che hanno nel volto la sua stessa Bellezza. Pippo Corigliano ha raccontato di aver ricevuto, quando è morto Karol Wojtyla, la telefonata di Antonio Ramenghi, vicedirettore dell’ Espresso: “mi disse che la direttrice del settimanale, Donatella Hamaui e gli altri membri della direzione, desideravano vegliare brevemente la salma del Santo Padre ma per motivi di lavoro non potevano attendere in fila per una giornata intera… Come sono imprevedibili i sentieri della Provvidenza! Chi l’avrebbe detto, vent’anni prima, che mi sarei trovato con l’intera direzione dell’Espresso a pregare nella Basilica di San Pietro!”.

Quel papa polacco aveva stupito i cuori di tutti. Anche all’Espresso. E, come dicevano i filosofi greci, “la meraviglia è l’origine del conoscere”. Ma poi la conoscenza piena è un’avventura da sperimentare, un cammino che ha bisogno di andare avanti nella scoperta. Con il Natale entra nel mondo la Realtà. Solo facendosi violenza si riesce a chiudere gli occhi o a reprimere il suo fascino a un’emozione episodica.
Antonio Socci


CRISI/ Capitalismo antropologico vs Laissez-faire - Fabio Angelini - sabato 13 dicembre 2008 – Il Sussidiario.net
È indubbio che l’attuale crisi finanziaria mondiale, di cui non conosciamo ancora l’effettiva portata, sarà lunga e dolorosa. Al contrario, molti più interrogativi suscita il futuro del capitalismo e il modello di sviluppo che si affermerà nei prossimi anni come risposta alla degenerazione dell’attuale sistema economico globale ispirato laissez-faire. Non si tratta certo di una questione di poco conto considerato che dalle risposte che intellettuali e politici di tutto il mondo saranno in grado di dare dipenderà la prosperità ed il benessere delle future generazioni.
Come più volte detto, al di là delle colpe e degli egoismi dei singoli, la crisi è il frutto dello squilibrio tra ricchezza materiale e ricchezza spirituale generato dalle caratteristiche insite nel modello di sviluppo adottato dall’occidente negli ultimi anni. Un modello socio-economico che, venute meno le ideologie del secolo passato, si basava sul mito dell’economia quale dominatrice assoluta della nostra esistenza, sull’esaltazione del mercato e del consumo (anche del superfluo) e su una visione dell’uomo e della società in cui la morale è ridotta a mera scelta soggettiva dei singoli individui.
Si tratta di un modello di sviluppo che ha posto l’economia quale valore supremo, ha disconosciuto il ruolo pubblico della fede e si è illuso che solo il singolo fosse in grado di discernere il bene e il male, generando una preoccupante confusione tra i fini e i mezzi. C’è da augurarsi che la crisi finanziaria che stiamo vivendo rappresenti il definitivo tramonto di questo modello di sviluppo che, tuttavia, non è il capitalismo di matrice liberale. Il liberalismo, diceva Einaudi, “è quella politica che concepisce l’uomo come fine” e, pertanto, richiede una forte coesione tra economia, diritto e morale.
Il liberalismo, infatti, per essere fedele a se stesso, deve poggiarsi su una dottrina del bene e del male universale, capace di dare indirizzi di carattere morale e comportamentale in grado di riequilibrare il rapporto tra ricchezza materiale e ricchezza spirituale di un popolo. Per questo motivo, il futuro del capitalismo è, secondo alcuni, me compreso, in quella dottrina chiamata economia sociale di mercato che, contrariamente al laissez-faire, si basa su un forte ordine di tipo giuridico, etico e religioso. Una dottrina che, esaltando il ruolo delle regole per il corretto funzionamento del mercato, conduce alla riunificazione di ciò che il capitalismo selvaggio aveva separato e, cioè, economia, diritto e morale. Non si tratta dunque della fine del capitalismo. Piuttosto, la crisi globale ci invita a tornare alle origini del liberalismo, a quel liberalismo che è figlio legittimo del cristianesimo e del suo magistero sociale, come diceva Wilhelm Röpke.
In questo senso, la dottrina sociale della Chiesa, nella sua valenza culturale e con la sua pretesa di offrire una visione complessiva, coerente e cogente dell’uomo e della società può rappresentare l’architrave del nuovo ordine capitalistico. Non è affatto un caso che Flavio Felice, che è uno dei maggiori studiosi italiani dell’economia sociale di mercato, abbia recentemente pubblicato un libro (F. Felice – P. Asolan, Appunti di Dottrina Sociale della Chiesa, Rubbettino) che, oltre ad offrire un’approfondita e dotta analisi dei principi e degli insegnamenti espressi dalla dottrina sociale della Chiesa, ne propone l’elevazione a disciplina scientifica. Essa, secondo gli autori, si relaziona alle scienze sociali e mira a raccordarle attorno ad una comune visione antropologica fornendo in tal modo una chiave di lettura complessiva della società e un criterio di valutazione universale. Nell’analizzare i quattro principi cardine del magistero sociale della Chiesa (il concetto di persona, la persona che vive in famiglia, la società o nazione, la sussidiarietà), il libro offre un’interpretazione del mondo globale e alcuni preziosi suggerimenti su come viverlo.
Sembra scritto per rispondere ad una serie di domande quali: cos’è l’uomo? cosa è più utile per lui? perché deve lavorare? quali responsabilità ha? Quelle stesse domande alle quali il modello di sviluppo dell’occidente, che oggi vediamo implodere a causa delle sue miserie spirituali, non è riuscito a trovare risposte adeguate. La via d’uscita dalla crisi può essere trovata solo attraverso un ritorno alla morale cattolica che è, da sempre, la vera promotrice del progresso materiale e spirituale dell’uomo. Se secondo alcuni la risposta alla crisi sarebbe tornare a Keynes, gli autori di questo libro preferiscono riflettere sulla possibilità di un nuovo rapporto tra etica ed economia e di dar vita ad un modello di sviluppo integrale, secondo l’insegnamento di Giovanni Paolo II.
Un modello di sviluppo che non è affatto contro il capitalismo ma, semplicemente, per l’uomo.


DIRITTI UMANI/ Dopo 60 anni si è davvero raggiunta la libertà degli individui? - Giampaolo Cottini - sabato 13 dicembre 2008 – Il Sussidiario.net
Celebrare l’anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, promulgata il 10 dicembre 1948, non può essere un atto solo formale ma chiede una rivisitazione dei suoi contenuti e soprattutto una ripresa delle sue ragioni. Il mondo è molto cambiato negli ultimi sessant’anni, e mentre si deve constatare che il ruolo delle Nazioni Unite si è molto ridimensionato, occorre oggi dare nuovo spessore ed autorevolezza soprattutto alla difesa internazionale dei Diritti umani che oggi sono sempre più minacciati e violati. Pensiamo all’elementare diritto alla vita, non solo negato ai milioni di persone che soffrono la fame e ne muoiono nell’indifferenza dei Paesi sviluppati, ma anche alla pratica dell’aborto e dell’eutanasia che vengono invocati come espressione di un diritto all’autodeterminazione, che permetterebbe (in nome della libertà del singolo) di decidere sulla vita nascente o terminale.
Ma altri diritti sono violati, come quello alla libertà religiosa, conculcato di recente soprattutto dalle persecuzioni contro i cristiani, proprio mentre l’Occidente cerca di attrezzarsi a dialogare con mondi diversi come quello dell’Islam: invece di riconoscere che il senso religioso deve potersi esprimere secondo le diverse modulazioni delle religioni rivelate, si lascia da una parte prevalere un laicismo indifferente o ateo, mentre dall’altra non si interviene con atti di ingerenza umanitaria laddove siano annientate espressioni pacifiche di un specifica appartenenza religiosa.
Ma sono solo esempi per dire che la Dichiarazione, in sé ricca di valori, è oggi ridotta ad un monumento del passato inincidente sull’oggi. Ma c’è anche da notare l’equivocità di concetti fondamentali come quello di eguaglianza, oggi utilizzato per fomentare atteggiamenti di omofobia, cioè di paura che l’affermazione della differenza si trasformi in odio o addirittura in razzismo. Notare le differenze, cioè l’obiettiva alterità iscritta nella natura, diventa così colpa di lesa maestà contro l’uguaglianza, come (ma è solo un esempio) quando si parla dei diritti degli omosessuali: negare l’eguaglianza dei sessi (non evidentemente negare la pari dignità delle persone diversamente sessuate) sembra essere un atto di intolleranza, mentre è evidente che la differenza sessuale appartiene alla natura e che l’unione eterosessuale configura un modello di famiglia non paragonabile all’amicizia omosessuale. E qui emerge la tendenza a moltiplicare l’elenco dei diritti all’infinito per cui se la famiglia ha diritto alla tutela come società naturale si vuole estendere tale diritto a qualunque altra forma di convivenza. La debolezza di affermazioni di tal genere rivela evidentemente la mancanza di chiarezza su cosa siano i “diritti naturali”, causata dalla perdita di quella radice che li fonda nell’uomo stesso prima che nelle legislazioni dei singoli stati. L’idea che esista una natura umana non è un’invenzione del giusnaturalismo moderno, ma rimanda alla stessa verità sull’uomo che da sempre la filosofia cerca. Ed oggi il dibattito sui Diritti umani non può prescindere dalla ricerca di una loro fondazione metaempirica (cioè che vada al di là della pura descrizione o elencazione): non si tratta, infatti, di aggiornare un elenco ma di cogliere le ragioni per cui un diritto è tale. E ciò implica la ripresa di una ragione “aperta” alla ricerca dell’essenza stessa dell’uomo, osando sfidare le riduzioni della filosofia a puro sapere descrittivo.


AFGHANO CADE DA SOTTO IL CAMION DOV’ERA AGGRAPPATO - Muore schiacciato come un topo Era un bambino, un uomo come noi - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 dicembre 2008
A veva tredici anni il ragazzino asiatico trovato morto l’altra notte alla periferia di Mestre, su una strada battuta dai Tir che sbarcano in porto. La polizia municipale ritiene che sia caduto da sotto il rimorchio in cui si era nascosto per sfuggire ai controlli di frontiera. Aveva in tasca un documento afghano, e nelle stesse ore altri cinque afghani erano stati trovati nascosti su una nave greca appena attraccata. Stremato dall’immenso viaggio da Kabul e poi chiuso in una stiva, forse un colpo di sonno è bastato per cadere sull’asfalto, mentre le ruote del Tir schiacciavano il corpo magro senza che il conducente avvertisse nemmeno un sobbalzo. Non è la prima volta. A luglio un altro 'irregolare' è morto nello stesso modo; a giugno nel vano di un camion due iracheni erano stati trovati morti per disidratazione. Il porto di Venezia sta diventando una frontiera di disperati.
Nascosti nelle stive arrivano in un anno in centinaia. Gli operatori umanitari del porto lamentano la difficoltà di entrare in contatto con questa gente, che spesso viene respinta direttamente dalla polizia di frontiera. Ma molti vengono da Paesi in guerra, molti avrebbero diritto all’asilo. E molti hanno quattordici, quindici anni. Il ragazzo sull’asfalto era probabilmente uno dei tanti che, piuttosto di farsi rispedire indietro, ha tentato disperatamente di sfuggire ai controlli. In tasca gli hanno trovato una banconota del suo Paese, e un foglio fitto di appunti.
La banconota, nuova di zecca, il modesto tesoro che un padre miserabile consegna a un figlio che parte per sempre. Il foglio, uguale a quei pezzi di carta che profughi e fuggitivi si tengono stretti, come il solo bene: con sopra il numero di telefono di parenti che già siano riusciti a stabilirsi in Occidente, poveri 'zii d’America' alla cui porta bussare. Anche i clandestini di Lampedusa hanno addosso questi foglietti, fradici dopo giorni e notti in mare. Li abbiamo visti coi nostri occhi mentre, non appena si profila la costa italiana, li estraggono come reliquie, li svolgono, a ripassare un rosario di lungamente cullate speranze. Forse anche quel ragazzo aveva tirato fuori di tasca il suo promemoria, non appena, attraccata la nave, i motori si erano spenti. In Italia, si era detto emozionato, sono arrivato. Ma: nasconditi, non devono vederti, lo avevano esortato i compagni. Lui, il cuore in gola, aveva ubbidito. Il grosso mezzo che sbuffa, frena, riparte, le scarpe dei poliziotti oltre le ruote, il fiato sospeso. Poi quando il Tir parte il giovanissimo pensa di avercela fatta. E poi? Lo sfinimento che sopravviene dopo una grande paura gli ha fatto chiudere gli occhi? O il freddo, e le mani intirizzite hanno ceduto? Un minorenne non accompagnato per la legge italiana non può essere respinto.
Lui non lo sapeva, e nessuno ha potuto dirglielo. Lo hanno trovato inerte sulla strada, come un sacco caduto. Aveva l’età in cui noi mandiamo i nostri figli lontano, solo in vacanze studio ipergarantite e protette. Credeva, gli avevano detto, che l’Occidente fosse un mondo più fortunato del suo Afghanistan – in cui dalla nascita non aveva visto un solo giorno di pace. Sbagliato tutto, bambino, e adesso è tardi. Vorremmo almeno che gli altri come te, col cuore in gola nascosti nelle stive delle navi in partenza da Grecia e Medio Oriente, fossero interrogati, all’arrivo in Italia, prima che inappellabilmente respinti. Di modo che non siano costretti a nascondersi, a soffocarsi nei Tir, ad aggrapparsi come topi sotto le lamiere. Una morte così a Venezia, è un’onta addosso; e l’indifferenza può solo voler dire che poi, al di là delle parole, noi del Primo mondo siamo uomini, e gli altri no, e a tredici anni nemmeno.


«Perdono dopo il tradimento, perché stupirsi?» - GENOVA. «Mi meraviglio della meraviglia per quanto ho scritto sul valore del perdono, anche quando c’è un tradimento d’amore. Indica che stiamo andando verso una società in cui vige l’occhio per occhio e il dente per dente, e non sarebbe tanto bello, oppure che non tutti hanno letto bene la mia lettera pastorale». Così l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ieri in visita all’ospedale Galliera, ha commentato le interpretazioni giornalistiche della sua lettera pastorale sul valore dell’amore coniugale. - Avvenire, 13 dicembre 2008
«Il perdono è un ingrediente come tanti altri dell’amore - ha detto il cardinale - Com’è possibile interpretare la mia affermazione su questo sentimento come superficialità dell’amore? Bisogna proprio volerlo pensare. Di fronte a una ferita di qualsiasi natura, se tutti pensassero 'te la faccio pagare', anche nell’amicizia, andremmo verso la barbarie».
«Perdonare fa parte della dottrina della Chiesa – ha continuato – L’amore se non è fatto anche di perdono che amore è? In una coppia se c’è il riconoscimento di un errore come il tradimento, e quindi la conversione, è possibile continuare la vita insieme. Se si esclude a priori il perdono allora non è amore. Ovvio che nel caso il tradimento prosegua se ne deve solo prendere atto».
«Insieme a tutte le cose che ho messo nella lettera pastorale, non letta da tutti, ho inserito il perdono. - ha aggiunto il presidente della Cei - Ma anche l’amore come dono, uscire da sé per andare incontro agli altri, è sacrificio, gioia, ma anche impegno e fedeltà nelle piccole cose quotidiane».
La fedeltà amorosa viene distrutta da ogni tradimento? Ha chiesto un cronista. «L’amore a volte viene scosso e messo alla prova - ha risposto il cardinale Bagnasco ­Provi un pò ad esempio a dimenticarsi del compleanno della moglie? Insomma, non è piacevole, ma può esserci perdono, comprensione e accoglienza, l’amore è sempre stato questo.
Dalle prove più facili a quelle più difficili ogni coppia se vuole e si impegna, con la grazia di Dio, insieme ne può uscire rinnovata, ancora più forte».
Bagnasco: mi meraviglio della meraviglia di certi media per quanto ho scritto nella mia lettera. Forse non l’hanno letta.