giovedì 11 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: la Chiesa è un corpo, non un'organizzazione - Spiega la teologia dei sacramenti secondo San Paolo
2) E la notte fu. La vera storia del peccato originale - È uno dei dogmi più trascurati e negati. Ma per Benedetto XVI è "di un'evidenza schiacciante". Ne ha parlato tre volte in otto giorni. Senza di esso, ha detto, la redenzione cristiana "perderebbe il suo fondamento" di Sandro Magister
3) Crisi economica: Stati Uniti e Cina, tempesta valutaria all’orizzonte - L’abissale livello del debito estero degli Usa e la svalutazione eccessiva e ingiustificata dello yuan cinese sono due elementi di forte rischio per l’economia e la stabilità mondiali. Le soluzioni trovate finora vanno bene agli organismi finanziari, ma non alle popolazioni. La nascita di una oligarchia “trasversale”, che unisce banche centrali, Partito comunista cinese, oligarchie russe, sceicchi del petrolio. - di Maurizio d'Orlando
4) 10/12/2008 19:48 - VATICANO-ONU Papa: promuovere ovunque i diritti dell’uomo, fondati, alla fine, in Dio creatore - Nel corso della commemorazione del 60mo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Benedetto XVI rileva che “centinaia di milioni di nostri fratelli e sorelle vedono tuttora minacciati i loro diritti alla vita, alla libertà, alla sicurezza”. Il card. Bertone parla della libertà religiosa come di uno spazio inviolabile ove il singolo credente e la comunità sono liberi di agire, senza pressioni esterne di singoli, di gruppi sociali o di qualsivoglia autorità.
5) Gli scontri a Hebron - La seconda - intifada ebraica - di Luca M. Possati – L’Osservatore Romano, 11 dicembre 2008
6) La presentazione ad Aosta delle celebrazioni per il IX centenario della morte di sant'Anselmo - Tutto ciò che toccò ebbe poi un aspetto diverso - Mercoledì 10 dicembre, nel Salone del Palazzo Vescovile di Aosta, viene illustrato il calendario delle celebrazioni per il IX centenario della morte di sant'Anselmo. Nell'ambito delle iniziative verrà presentato il volume Anselmo d'Aosta. Nel ricordo dei discepoli. Parabole, detti, miracoli, una raccolta di testi curata da Inos Bifi, Aldo Granata, Costante Marabelli e Davide Riserbato. di Stefano Maria Malaspina
7) 10/12/2008 20.18.11 – Radio Vaticana - "Diritti fragili se non fondati su Dio". Così il Papa nel 60° della Dichiarazione dei diritti dell'uomo
8) GIUSTIZIA/ Un paese vittima della confusione tra etica e diritto - Paolo Tosoni - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
9) Dal progetto al soggetto - Roberto Fontolan - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
10) SCUOLA/ Ripristinati i fondi alle paritarie? Sembra proprio di no - Vincenzo Silvano - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
11) RUSSIA / La storia della rivoluzione “dimenticata” del 1905 - INT. Ettore Cinnella - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
12) NEL GIORNO DEI DIRITTI - CONTRO L’ARBITRIO CON RITROVATO SENSO DEL DOVERE - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 11 dicembre 2008
13) IMPENNATA DELLE PROFANAZIONI IN FRANCIA: SEGNO DI UNA RICERCA DISTORTA? - Se la società censura la morte vera i cimiteri diventano luoghi di vandali - MARINA CORRADI – Avvenire, 11 dicembre 2008
14) L’AUTODETERMINAZIONE ERETTA A SISTEMA NELLA VICENDA ENGLARO - Quando l’illuminista dimentica che la vita è relazione - DOMENICO DELLE FOGLIE – Avvenire, 11 dicembre 2008


Benedetto XVI: la Chiesa è un corpo, non un'organizzazione - Spiega la teologia dei sacramenti secondo San Paolo
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 10 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha spiegato questo mercoledì che la Chiesa non è un'organizzazione o una corporazione, ma un corpo, il corpo di Cristo, presente nell'Eucaristia.

E' questa la conclusione alla quale è giunto nell'udienza generale, in occasione della quale circa cinquemila pellegrini si sono riuniti nell'Aula Paolo VI del Vaticano.
Continuando la serie di catechesi su San Paolo, nel bimillenario della sua nascita, il Papa ha parlato della sua predicazione sui sacramenti.
In questa occasione ha lasciato da parte i fogli, come quando era professore universitario, per offrire una spiegazione personale. Per questo motivo, la Santa Sede non ha ancora potuto fornire il testo del suo intervento.
Cosa del tutto straordinaria, “L'Osservatore Romano”, il quotidiano ufficioso della Santa Sede, ha potuto offrire solamente un'ampia cronaca del discorso.
Il Vescovo di Roma ha approfondito in modo particolare il sacramento dell'Eucaristia, soprattutto il suo “carattere personale e quello sociale”.
“Cristo si unisce personalmente con ognuno di noi ma lo stesso Cristo si unisce anche con l'uomo e con la donna accanto a me”, ha osservato il Pontefice secondo quanto riporta il quotidiano vaticano.
“E il pane è per me e per l'altro. Così ci unisce tutti a sé e tutti noi uno con l'altro. Riceviamo nella comunione Cristo. Ma Cristo si unisce ugualmente con il mio prossimo”, ha spiegato.
“Cristo e il prossimo sono inseparabili nell'Eucaristia. Un pane, un corpo siamo noi tutti. Eucaristia senza solidarietà con gli altri è Eucaristia abusata”.
“E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al centro della dottrina sulla Chiesa come corpo di Cristo, del Cristo risorto”.
“Vediamo anche tutto il realismo di questa dottrina. Cristo ci dà nell'Eucaristia il suo corpo, dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo risorto. Se l'uomo mangia pane normale, questo pane diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana”.
Nella Comunione, avverte Benedetto XVI, “si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci assimila a sé, ci introduce nel suo corpo glorioso e così noi tutti insieme diventiamo corpo suo”.
“Nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un organismo nel quale ognuno ha la sua funzione: la molteplicità e diversità delle funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto”.
Nelle lettere di San Paolo, tuttavia, “vediamo che il realismo della Chiesa è tutt'altro, molto più profondo e vero di quello di uno Stato-organismo”.
“Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo. Diventiamo realmente uniti col corpo risuscitato di Cristo, e così uniti l'uno con l'altro. La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è una organizzazione ma è un organismo”, ha concluso.


E la notte fu. La vera storia del peccato originale - È uno dei dogmi più trascurati e negati. Ma per Benedetto XVI è "di un'evidenza schiacciante". Ne ha parlato tre volte in otto giorni. Senza di esso, ha detto, la redenzione cristiana "perderebbe il suo fondamento" di Sandro Magister
ROMA, 11 dicembre 2008 – Per tre volte in otto giorni Benedetto XVI ha insistito su un dogma che è quasi scomparso dalla comune predicazione ed è negato dai teologi neomodernisti: il dogma del peccato originale.

L'ha fatto lunedì 8 dicembre all'Angelus della festa dell'Immacolata; il precedente mercoledì 3 all'udienza settimanale con migliaia di fedeli e pellegrini; e poi ancora all'udienza generale di mercoledì 10.

All'Angelus dell'Immacolata papa Joseph Ratzinger si è così espresso:

"Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.

"L’esistenza di quello che la Chiesa chiama peccato originale è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi. L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Genesi 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione (cfr. Sapienza 1, 13-14; 2, 23-24). È il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Genesi 3, 15).

"Fin dal principio, dunque, 'l’eterno consiglio' – come direbbe Dante (Paradiso, XXXIII, 3) – ha un 'termine fisso': la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità. Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: 'piena di grazia' (Luca 1, 28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth. È la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti. Così scriveva sant’Andrea di Creta: 'La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori' (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A). E la liturgia odierna afferma che Dio ha 'preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato' (Orazione Colletta).

"Carissimi, in Maria Immacolata noi contempliamo il riflesso della bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo".

* * *

Ma il papa si è spinto ancora più a fondo, sul peccato originale, nell'udienza generale di mercoledì 3 dicembre.

Ogni mercoledì, da quando è iniziato l'Anno Paolino, Benedetto XVI dedica le sue catechesi settimanali a illustrare la vita, gli scritti, la dottrina dell'apostolo Paolo. Questa era la quindicesima catechesi della serie. Nelle due precedenti il papa aveva spiegato la dottrina della giustificazione e il nesso tra la fede e le opere. Questa volta, invece, il tema di partenza era l'analogia tra Adamo e Cristo, sviluppata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi e più ancora nella lettera ai Romani. Ricorrendo a questa analogia, Paolo evoca il peccato di Adamo per dare il massimo risalto alla grazia salvatrice donata da Cristo.

Come generalmente avviene nelle catechesi del mercoledì, Benedetto XVI si è avvalso di un testo scritto da esperti collaboratori. Ma come già in altre occasioni, se ne è distaccato. Questa volta più ampiamente del solito. Dal terzo capoverso in avanti si è rivolto direttamente ai presenti, improvvisando.

La stessa cosa ha fatto nell'udienza del mercoledì successivo, 10 dicembre. Aveva in mano un testo scritto, ma ha parlato quasi interamente a braccio. E nella parte iniziale è tornato così sul tema del peccato originale:

"Cari fratelli e sorelle, seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall'abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l'uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull'amore e sulla verità.

"Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all'unico corpo dell'umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l'inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo.".

* * *

Queste improvvisazioni sono un indizio importante per capire il pensiero di Benedetto XVI. Esse contrassegnano le cose che più gli stanno a cuore, quelle che vuole imprimere di più nella mente degli ascoltatori.

Il peccato originale, questo dogma oggi così trascurato, è una di queste verità che papa Ratzinger sente il bisogno di rinverdire.

E il motivo l'ha spiegato ai fedeli così, nella catechesi del 3 dicembre, quella più diffusamente dedicata al tema, riprodotta integralmente qui di seguito:


Adamo e Cristo: dal peccato originale alla libertà - di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della lettera ai Romani (5, 12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Corinzi 15, 22-45). Con Romani 5, 12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Romani 5, 20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.

D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Romani 5, 12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale, è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.

Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento.

Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: "C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.

Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una "seconda natura" che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa seconda natura fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: "questo è umano£ ha un duplice significato. "Questo è umano" può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma "questo è umano" può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.

Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire.

Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se in tale concezione la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male, e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.

E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.

Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 nella Vulgata). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.

Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell'Avvento con l'antico popolo di Dio: "Rorate caeli desuper", stillate cieli dall'alto. E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!


Crisi ecoomica: Stati Uniti e Cina, tempesta valutaria all’orizzonte - L’abissale livello del debito estero degli Usa e la svalutazione eccessiva e ingiustificata dello yuan cinese sono due elementi di forte rischio per l’economia e la stabilità mondiali. Le soluzioni trovate finora vanno bene agli organismi finanziari, ma non alle popolazioni. La nascita di una oligarchia “trasversale”, che unisce banche centrali, Partito comunista cinese, oligarchie russe, sceicchi del petrolio. - di Maurizio d'Orlando
Milano (AsiaNews) - Dopo la crisi dei “sub-prime”, delle banche, delle borse, è in arrivo una nuova ondata dello stesso maremoto: forse prenderà le forme di una tempesta valutaria che toccherà non solo il dollaro e l’euro, ma anche la Cina e l’Asia, l’Est Europa ed i Paesi emergenti.
Questa ipotesi contrasta con l’accordo raggiunto al G-20 di Washington tra i capi di Stato e di governo dei Paesi che rappresentano quasi il 90 % del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale[1]. Tali Paesi si sono impegnati a non erigere nuove barriere tariffarie: la globalizzazione – essi dicono - non deve arrestarsi, non si deve ricadere nel protezionismo, commettendo lo stesso errore in cui si è caduti dopo la crisi del ’29. Questo consenso unanime sembra però solo un accordo di facciata. In realtà la globalizzazione si è sviluppata su un modello economico squilibrato. Finora essa ha potuto reggersi proprio sul controllo dell’emissione monetaria e su un protezionismo fatto di barriere doganali non tariffarie. La tempesta valutaria che è in arrivo non è che un violento e pericoloso riequilibrio del sistema degli scambi internazionali.
Per affrontare la crisi, molti Paesi – e soprattutto gli Usa – hanno invaso il mercato con nuove immissioni di moneta. Alla radice degli attuali sconvolgimenti economici non c’è però una crisi di liquidità, ma di solvibilità. Inondare il sistema di liquidità a debito non risolve il problema, ma lo aggrava. Per salvare il sistema bancario e finanziario la Fed ed il Ministero del Tesoro americano in poco tempo e per considerevoli importi – secondo Bloomberg, per 7'740 miliardi di dollari, circa 11 volte il valore originale del piano Paulson; il 56,19% del Pil Usa del 2007[2] – stanno indebitando il contribuente americano. Non sappiamo se questo è legale, ma ci chiediamo se sia legittimo non solo verso i cittadini americani, ma anche nei confronti del resto del mondo ed in particolare dei paesi asiatici, che sono tra i maggiori detentori di ricchezza monetaria denominata in dollari.
Un modello economico squilibrato
La globalizzazione si regge su di un modello economico squilibrato. Finora la locomotiva della domanda mondiale è stata fornita dai consumi privati e pubblici degli Stati Uniti. I consumi americani, cioè, hanno permesso la crescita economica di altri paesi, trainata dalle esportazioni. In questo schema, l’assurdo è che chi produce è sottopagato e deve risparmiare per fare credito a chi non produce e difficilmente potrà pagare. Il lavoratore in Cina, Brasile, India viene remunerato con uno stipendio da fame, per produrre beni calibrati su gusto ed esigenze del mercato statunitense (ed occidentale)[3]. Per pagarli, il consumatore americano non è in grado di produrre risorse e valore corrispondenti. Di fatti, l’andamento del Pil Usa è negativo dal terzo trimestre del 2000, se calcolato sulla base dei criteri di valutazione dell’inflazione precedenti all’epoca Clinton[4]. Nonostante ciò, il consumatore americano è stato spinto, lusingato, finanziato oltre i propri limiti, quasi costretto a comperare ogni genere di prodotto. Da qui la crisi di solvibilità.
I fattori che concorrono a questo assurdo sono due: la liquidità finanziaria emessa e l’accumulo di riserve valutarie. Da un lato le autorità monetarie statunitensi hanno consentito l’abnorme emissione di moneta finanziaria, la cosiddetta M3. L’emissione eccessiva di una moneta, anche sotto forma di titoli finanziari a medio lungo termine, ne diluisce il valore reale. Questo avrebbe dovuto produrre una svalutazione del dollaro. E invece, la massa monetaria in dollari ha mantenuto un’accettazione inalterata come strumento di pagamento soprattutto in Asia e nei Paesi emergenti. Questo è stato possibile sia per il ruolo del dollaro – consolidato dal crollo dell’Urss – quale valuta di riserva mondiale, sia per una deliberata politica della Fed e del Tesoro americano. Grazie ad una serie di strumenti di ingegneria finanziaria, resi possibili dall’abolizione della legge Glass-Steagall decisa nel 1999 – ABS, CDS, contratti a termine sui tassi d’interesse ecc. – i titoli finanziari emessi in dollari sono stati dichiarati “sicuri”. Le agenzie di valutazione del credito classificavano questi valori mobiliari come privi di rischio, la famosa “tripla A” o a basso rischio (le obbligazioni Lehman, ad esempio). In tal modo il debito di istituzioni private diventava quasi moneta a pieno valore faciale e come tale veniva iscritta all’attivo di bilancio senza accantonamento di riserve per il rischio.
Dall’altro lato, si deve registrare la fortissima sottostima, in termini di parità di potere d’acquisto, del tasso di cambio della valuta di alcuni paesi emergenti, in particolare della Cina. Essa è di fatto un sussidio molto potente alle esportazioni da tali paesi, che in effetti sono decollate oltre ogni misura e considerazione – qualità, tempi di consegna, assistenza, rete di vendita ecc. Si genera perciò un rapido incremento di riserve monetarie in Cina, Brasile, India e Russia, oltre che nei paesi esportatori di petrolio, e questo va a beneficio di ristrette oligarchie locali. Proprio in questo snodo, dall’assurdo scaturisce il tragico: l’incremento dell’instabilità politica internazionale. Infatti, la gran parte della popolazione dei Paesi emergenti viene pagata in moneta locale e non ha di fatto accesso ai benefici dell’incremento di riserve valutarie. Solo in Cina questo è il caso di circa 900 milioni di persone. Le oligarchie locali hanno priorità di consumo molto diverse dal resto della popolazione: espansione dell’area d’influenza ideologica o religiosa; armamenti convenzionali e nucleari; prestigio nazionale (v. le imprese spaziali); articoli di gran lusso, e così via. Viceversa, le popolazioni dei Paesi emergenti avrebbero una maggiore propensione al consumo di prodotti alimentari che potrebbero essere forniti dalle eccedenze strutturali di produzione delle derrate di paesi irrigui e con grandi estensioni adatte a coltivazioni agricole, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e la stessa Unione Europea. Un incremento dei consumi alimentari dei paesi emergenti potrebbe perciò riequilibrare i flussi valutari. Invece, proprio il mantenimento di tassi di cambio sottovalutati produce nei paesi emergenti ed in particolare in Cina, una forte inflazione dei beni di consumo alimentare[5]. Il malessere interno produce tensioni che le oligarchie cercano ovviamente d’incanalare all’esterno.
In alcuni Paesi ed in alcune circostanze storiche l’espansione trainata dalle esportazioni può, a certe condizioni, convivere con un equilibrio di sistema se la circolazione monetaria non viene distorta, ma soprattutto se non è pregiudicata la solvibilità del sistema stesso[6]. Nelle circostanze attuali quest’ultimo rischio non è affatto basso perché sono state sfondate alcune soglie di guardia.
Il debito americano
Un primo parametro di instabilità è dato dal debito esterno lordo americano: è passato da 6.946 miliardi di dollari – al 31/12/2003 – a 13.427 miliardi di dollari – al 31/12/2007[7]. È il circolante monetario internazionale ed alla fine dello scorso anno era pari a circa il 100 % [8]del PIL Usa. Nonostante il raddoppio in pochi anni, l’economia Usa non ha dimensioni sufficienti per continuare a fornire debito sovrano – che valga come moneta di riserva valutaria – in misura adeguata per la crescita dell’economia mondiale.
Un secondo parametro è il dato sulla velocità di crescita del totale del debito pubblico americano ed anche questo è impressionante. Fino al 31/12/2007 il debito pubblico americano era di 10.600 miliardi di dollari ed il rapporto tra debito pubblico e Pil era del 76,75%. Con il piano Paulson e dopo il salvataggio di Fannie Mae e di Freddie Mac (ma senza AIG) è del 118,02%[9]. Se sono reali i dati Bloomberg di cui sopra – 7.740 miliardi di dollari di salvataggi – arriviamo ad un totale di circa 23.300 miliardi di dollari di debito pubblico e ad un rapporto pari al 169 % circa del Pil. In poco tempo il debito pubblico Usa è quasi raddoppiato o quasi triplicato. In ogni caso è diventato eccessivo.
Seppure importanti, i parametri di cui sopra non sono decisivi. Uno studio del Fondo monetario internazionale (Imf)[10] ha identificato una soglia di altissimo rischio di crisi valutaria quando il livello di debito pubblico esterno detenuto da stranieri tocca il 60% del Pil.
Ben inteso, anche altre condizioni concorrono a tale rischio – e si verificano anch’esse nel caso attuale degli Stati Uniti: un forte deficit corrente del bilancio statale[11] e della bilancia commerciale.
Il punto cruciale è però proprio un’elevata percentuale di debito pubblico detenuta da investitori esteri. Per molti anni, infatti, a partire dalla 2a Guerra mondiale e fino circa al 1987 gli Stati Uniti sono stati creditori netti verso il resto del mondo. Non sappiamo ancora quale sia la percentuale del debito pubblico Usa detenuta da stranieri non residenti dopo i salvataggi di questo autunno. A fine 2007, gli ultimi dati ufficiali disponibili, il rapporto tra debito esterno lordo ed attività estere nette (Net Claims of Foreigners on U.S., tabella 13-5 del preventivo contabile 2009, “2009 Fiscal Year Budget”, governo degli Stati Uniti) era del 61,82 %[12], in crescita rispetto all’anno precedente – il 54,42 %. È probabile che nel 2008 sia ulteriormente aumentata, ma supponiamo che la percentuale sia rimasta simile a quella del 2007. Anche solo sulla base del primo dato (118,02% di debito pubblico rispetto al Pil) la soglia indicata nello studio dell’Imf sopra citato è stata superata (il rapporto è il 73 % circa del Pil Usa).
Occorre però una precisazione. Lo studio del Fmi fa riferimento, come è ovvio, a paesi emergenti, la cui moneta non è, cioè, come il dollaro, valuta di riserva[13]. Non è perciò possibile stabilire con certezza quale sia il livello nel caso attuale degli Stati Uniti. Possiamo però supporre con ragionevole approssimazione che ci stiamo avvicinando in fretta ad un punto di rottura, anche perché sommando il debito pubblico americano agli impegni di spesa per sanità (Medicaid e Medicare) e pensioni (Social Security) si arriva ad un totale pari al 429,37 % del Pil[14].
Da ultimo ricordiamo che nel 2007 gli investitori esteri in attività finanziarie Usa erano soprattutto asiatici, Giappone e Cina in testa.
La Cina e la svalutazione dello yuan
L’altra soglia di guardia è data da quanto da anni ad AsiaNews andiamo sostenendo: la smisurata, arbitraria sottovalutazione del tasso di cambio di molti Paesi emergenti. Nel caso della Cina essa è del 55,54%. In pratica Pechino ha mantenuto costante la svalutazione stabilita dalle autorità monetarie cinesi il 1° gennaio 1994 (1dollaro Usa = 8,62 Yuan Renminbi, Rmb) con l’unificazione dei due diversi tassi di cambio allora esistenti. Mediante tale svalutazione la Cina mirava ad assicurarsi condizioni favorevoli prima di dover abbattere i propri dazi doganali per entrare nel Wto (l’Organizzazione per il Commercio Internazionale). Attualmente, grazie al cambio tuttora controllato dalla Banca centrale cinese, 1 dollaro Usa equivale a circa 6,8798 Rmb. Un semplice calcolo, sulla base dei dati 2007 della Banca Mondiale (Bm), ci può chiarire la sottovalutazione del cambio. Il Pil cinese a tassi di cambio correnti è di 3.280 miliardi di dollari. Quello espresso in termini di Parità di Potere d’Acquisto (PPP, secondo l’acronimo inglese) è di 7.055 miliardi di dollari. Ne deduciamo perciò che il tasso di cambio reale dovrebbe essere ben diverso per esprimere il medesimo potere d’acquisto Se, infatti, applichiamo lo stesso rapporto tra Pil cinese in dollari correnti (il 6,04 % del Pil mondiale) e Pil cinese a PPP (il 10,78 % del Pil a PPP mondiale) dovremmo avere un rapporto di 1 dollaro Usa per 3,821 Rmb (la sottovalutazione di cui sopra – 55,54% – è calcolata su tale rapporto). A tale livello di cambio, però, non solo le esportazioni cinesi crollerebbero, ma la gran parte delle industrie cinesi dovrebbero chiudere e licenziare con pericoli per la classe dirigente e grossi sconvolgimenti sociali. La Cina – la fabbrica del mondo, finora considerata un modello di grande successo – ha, infatti, un sistema produttivo molto inefficiente se si compara risorse umane, capitali e materie prime impiegate con l’incremento unitario del Pil. La svalutazione cinese del 1994 fu considerata una delle cause della crisi asiatica del 1998. Di essa si disse anche che fu il prezzo pagato per l’equivalente asiatico del “crollo del muro di Berlino del 1989”, cioè della transizione dal comunismo all’economia di mercato. A distanza di dieci anni la storia economica sembra ripetersi, amplificata.
Oligarchie trasversali
Per la transizione dal comunismo la Cina ha adottato l’aggressivo modello di sviluppo trainato dalle esportazioni. Come è già stato osservato anche in altre epoche della storia economica, anche ora constatiamo che tale modello è privo di equilibrio intrinseco: ai nostri giorni esso produce una delocalizzazione industriale scriteriata ed è concausa di una crisi finanziaria mondiale. Ulteriormente protratto, oltre una certa soglia, rischia di causare una crisi valutaria senza precedenti come raggiustamento brutale del sistema. Finora il modello ha retto perché conveniente per chi detiene il potere: sulla moneta (la Fed ed in misura minore la BCE); sulla manodopera (il Partito Comunista Cinese ad esempio); sulle materie prime (gli sceicchi del Golfo, il complesso oligarchico russo ecc).
Anche le conclusioni del G-20 di Washington - porre le fondamenta di un sistema monetario mondiale pur di salvare la globalizzazione - possono essere utili ad un’oligarchia trasversale a tutti i Paesi. Il controllo degli strumenti di pagamento è la base del potere.
Oggi si vuole di fatto creare, dalle ceneri del dollaro, una nuova banca centrale mondiale – e, forse una nuova moneta euro-americana, o magari solo nordamericana, l’amero, non sappiamo. Questo è forse un bene per Bm, Wto, Fmi, Fsf (Financial Stability Forum), per le varie agenzie Onu, per chi controlla la Fed, la BCE, la Banca centrale cinese e le altre banche centrali. Non è detto che ciò sia un bene anche per il resto del mondo.
NOTE
[1]Bloomberg, News, November 16, 2008 –G-20 Calls for Action on Growth, Overhaul of Financial Rules – By Michael McKee and Simon Kennedy Bloomberg.com: Worldwide
[2]Nostra elaborazione, su dati della Banca Mondiale (Bm) per il Prodotto interno lordo (Pil) e per il debito – 8'500 miliardi di dollari secondo altre fonti – su dati riportati in Bloomberg, News, November 24, 2008; U.S. Pledges Top $7.7 Trillion to Ease Frozen Credit – By Mark Pittman and Bob Ivry, Bloomberg.com: News.
[3]Oltre tutto il lavoratore cinese deve mantenere un elevato livello di risparmio privato data l’assenza, in pratica, di un’adeguata struttura di previdenza sociale (sistema pensionistico, indennità di disoccupazione, cassa mutua sanitaria ecc.). In un contesto in cui i bilanci delle imprese, diciamo così, non sono sempre molto veritieri il piccolo risparmiatore cinese, che ha provato la strada dell’investimento azionario, ha visto i suoi risparmi falcidiati. Prima c’è stata un’ascesa che ha beneficiato solo i “bene informati” e poi il crollo dei listini di borsa, maggiore di quello di altre piazze finanziarie (AsiaNews, 22/05/2007 , CINA La Borsa cinese e il rischio della crisi economica - Asia News). Perciò il risparmio forzoso, che per altro deprime i consumi interni cinesi, non ha trovato e non trova altro reale sbocco se non il deposito in banche statali in perenne semi bancarotta. Da queste viene o canalizzato alle imprese seguendo criteri politici o trasferito alla Banca Centrale ed investito in buoni del Tesoro ed altre attività finanziarie in dollari.
[4]Vedi Shadow Government Statistics, Inflation, Money Supply, GDP, Unemployment and the Dollar - Alternate Data Series
[5]Vedi AsiaNews, 09/08/2007 CINA Ha raggiunto livelli allarmanti l’inflazione dei prodotti alimentari - Asia News
[6]Il precedente della Germania guglielmina non depone però a favore perché proprio il fabbisogno di materie prime conseguente al dilagare del “Made in Germany” fu una delle cause nel 1914 del conflitto mondiale.
[7]Dati del tesoro americano – al 31/12/2005 l’importo era di 9'476 miliardi di dollari.
Vedi http://www.treasury.gov/tic/debtad03.html http://www.treasury.gov/tic/deb2ad07.html; http://www.treasury.gov/tic/deb2ad05.html
[8]Nostra elaborazione, su dati della Banca Mondiale (Bm) e dati del tesoro americano
[9]Si tratta di una stima, vediAsiaNews.it, 30/09/2008, Quanto è profondo l’abisso del caos economico, sociale e politico .
[10]Vedi IMF, World Economic Outlook, Public Debt in Emerging Markets, September 2003
IMF World Economic Outlook (WEO)-- September 2003
[11]Si verifica sia nel caso di insufficiente raccolta fiscale (Argentina, India, ecc.) che di livelli eccessivi di spesa pubblica rispetto al Pil. Quest’ultimo è il caso degli Stati Uniti dopo i salvataggi finanziari.
[12]8.300 miliardi di dollari rispetto al debito esterno lordo di cui sopra, 13.427 miliardi di dollari. Vedi http://www.whitehouse.gov/omb/budget/fy2009/pdf/spec.pdf
[13]A tutt’oggi non esiste un comparabile precedente di insolvenza o moratoria sul debito pubblico, esclusi i periodi bellici, di un Paese la cui moneta sia valuta di riserva.
[14]Vedi la precedente nota 9.
AsiaNews 09/12/2008 12:28


10/12/2008 19:48 - VATICANO-ONU Papa: promuovere ovunque i diritti dell’uomo, fondati, alla fine, in Dio creatore - Nel corso della commemorazione del 60mo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Benedetto XVI rileva che “centinaia di milioni di nostri fratelli e sorelle vedono tuttora minacciati i loro diritti alla vita, alla libertà, alla sicurezza”. Il card. Bertone parla della libertà religiosa come di uno spazio inviolabile ove il singolo credente e la comunità sono liberi di agire, senza pressioni esterne di singoli, di gruppi sociali o di qualsivoglia autorità.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Un lungo cammino resta ancora da fare perché nel mondo siano rispettati i diritti dell’uomo, “ultimamente fondati in Dio creatore”: “se si prescinde da questa solida base etica, i diritti umani rimangono fragili perché privi di solido fondamento”. Queste parole di Benedetto XVI hanno concluso, questa sera, la commemorazione fatta in Vaticano, nell’aula Paolo VI, dell’anniversario della Dichiarazione. Su iniziativa del Pontificio consiglio della giustizia e della pace essa si è articolata in un Atto commemorativo di riflessione e di studio, con discorsi tra gli altri del segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, e del direttore generale dell’Organizzazione mondiale del lavoro, Juan Somavia, alla presenza, tra gli altri, del presidente italiano Giorgio Napolitano. A conclusione, un concerto eseguito dalla Brandenburghisches Staatsorchester di Francoforte, diretta dal maestro Inma Shara, spagnola, prima donna a dirigere un complesso sinfonico in Vaticano.
“Sessant’anni or sono – ha detto tra l’altro il Papa - il 10 dicembre, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi, adottò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che costituisce ancora oggi un altissimo punto di riferimento del dialogo interculturale sulla libertà e sui diritti dell’uomo. La dignità di ogni uomo è garantita veramente soltanto quando tutti i suoi diritti fondamentali vengono riconosciuti, tutelati e promossi. Da sempre la Chiesa ribadisce che i diritti fondamentali, al di là della differente formulazione e del diverso peso che possono rivestire nell’ambito delle varie culture, sono un dato universale, perchè insito nella stessa natura dell’uomo. La legge naturale, scritta da Dio nella coscienza umana, - ha proseguito - è un denominatore comune a tutti gli uomini e a tutti i popoli; è una guida universale che tutti possono conoscere e sulla base della quale tutti possono intendersi. I diritti dell’uomo sono, pertanto, ultimamente fondati in Dio creatore, il quale ha dato ad ognuno l’intelligenza e la libertà. Se si prescinde da questa solida base etica, i diritti umani rimangono fragili perché privi di solido fondamento”.
“La celebrazione del 60.mo anniversario della Dichiarazione – ha detto ancora - costituisce pertanto un’occasione per verificare in quale misura gli ideali, accettati dalla maggior parte della comunità delle Nazioni nel 1948, siano oggi rispettati nelle diverse legislazioni nazionali e, più ancora, nella coscienza degli individui e delle collettività. Indubbiamente un lungo cammino è stato già percorso, ma ne resta ancora un lungo tratto da completare: centinaia di milioni di nostri fratelli e sorelle vedono tuttora minacciati i loro diritti alla vita, alla libertà, alla sicurezza; non sempre è rispettata l’uguaglianza tra tutti né la dignità di ciascuno, mentre nuove barriere sono innalzate per motivi legati alla razza, alla religione, alle opinioni politiche o ad altre convinzioni. Non cessi, pertanto, il comune impegno a promuovere e meglio definire i diritti dell’uomo, e si intensifichi lo sforzo per garantirne il rispetto”.
Nel corso dell’Atto commemorativo, il cardinale Bertone, parlando dei diritti umani, ha posto l’accento sul valore della libertà religiosa, “quale diritto fondamentale”. “Oggetto di quel diritto non è il contenuto intrinseco di una determinata fede religiosa, ma l’immunità da ogni coercizione, quasi una zona di sicurezza in grado di garantire l’inviolabilità di uno spazio umano in cui il singolo credente e la comunità in cui egli esprime la propria fede sono liberi di agire, senza pressioni esterne di singoli, di gruppi sociali o di qualsivoglia autorità. È un dato di tutta evidenza che il fatto religioso abbia un’influenza diretta nello svolgersi della vita interna degli Stati e di quella della Comunità internazionale. Questo nonostante si percepiscano sempre di più indicazioni e tendenze che sembrano voler escludere la religione e i diritti ad essa connessi dalla possibilità di concorrere alla costruzione dell’ordine sociale, pur nel pieno rispetto del pluralismo che contraddistingue le società contemporanee”.
La libertà religiosa, ha proseguito il cardinale, “rischia di essere confusa con la sola libertà di culto o comunque interpretata come elemento appartenente alla sfera privata e sempre più sostituita da un imprecisato ‘diritto alla tolleranza’. E questo ignorando che la libertà religiosa quale diritto fondamentale segna il superamento della tolleranza religiosa, che era saldamente ancorata ad una visione relativa della verità e ad un individualismo senza limiti. Analogamente, proprio la prospettiva internazionale lascia emergere la tendenza a relegare il fatto religioso alla dimensione della cultura o ad accomunarla alle pratiche ed ai saperi tradizionali ai quali non è estranea una visione sincretista, dimenticando che la religione, e le libertà e i diritti ad essa collegati, sono un’esperienza di vita, un indicatore delle aspirazioni più profonde che la persona attraverso il suo agire vuole raggiungere”.


Gli scontri a Hebron - La seconda - intifada ebraica - di Luca M. Possati – L’Osservatore Romano, 11 dicembre 2008
Tensione e cieca violenza. Scontri senza tregua, che non risparmiano nessuno, in una città divisa da muri di incomprensione. In questi giorni Hebron è tornata a essere l'epicentro del conflitto israelo-palestinese. In una fase politica estremamente delicata da entrambe le parti: mentre Israele si prepara ad andare alle urne il prossimo 10 febbraio per ridare slancio a una leadership in crisi di identità, il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen, il cui mandato scade a gennaio, cerca di far ripartire il dialogo con Hamas in nome di un'unità popolare divenuta sempre più difficile da difendere.
Ma Hebron è anzitutto il simbolo delle contraddizioni interne all'attuale società israeliana. Il clima di tensione e le nuove violenze sono il prezzo della decisione del ritiro unilaterale da Gaza nel 2005 - voluto dall'allora primo ministro Ariel Sharon - quando ottomila coloni furono fatti sgomberare con la forza. L'incapacità di guadagnare posizioni da parte dei propri leader provocò all'interno del movimento dei coloni non poche tensioni, con il sorgere di frange estremiste votate alla semi-anarchia influenzate da rabbini considerati "eversivi". Anche per questo, i fatti di Hebron potrebbero avere un peso decisivo nelle politiche di febbraio, determinando la sconfitta del Kadima - il partito fondato da Sharon dopo l'uscita dal Likud - e una vittoria dei "falchi" della destra. Non a caso Ehud Olmert - premier ormai dimissionario, tra i principali sostenitori del ritiro da Gaza - si è affrettato a condannare le violenze definendole un "pogrom dei coloni contro i palestinesi" e ha lanciato dure critiche al Likud che, se andrà al potere "rischia di portare Israele in un angolo di isolamento".
Negli ultimi giorni a Hebron sembra essere tornata la calma. L'Autorità palestinese ha chiesto l'intervento di una forza internazionale dell'Onu in Cisgiordania. L'edificio oggetto della contesa tra gli abitanti palestinesi e i coloni è stato fatto sgomberare da Tsahal - come deciso dalla Corte suprema israeliana che ha riconosciuto la proprietà palestinese - e dichiarato zona militare chiusa.
"Da sempre Hebron è il termometro delle tensioni in Cisgiordania - spiega una volontaria dell'Organizzazione internazionale "Operazione Colomba" - quando i rapporti tra palestinesi e israeliani entrano in una nuova fase di conflitto è qui che si cominciano a vedere i problemi in arrivo". Ma ormai la situazione è diventata intollerabile: "L'aggressività crescente dei coloni israeliani - dice la volontaria - sta diventando un problema che anche gli israeliani cominciano a temere e spesso capita che, oltre ai palestinesi, vengano feriti nelle aggressioni e nelle sassaiole anche soldati ai quali i coloni non riconoscono alcuna autorità".
In virtù di un accordo del 1997 Hebron - Al Khalil, "amico" in arabo - è divisa in due: la zona Hebron-1, dove vivono circa 130.000 palestinesi, e la zona Hebron-2, dove si trova la Tomba dei Patriarchi, luogo sacro a ebrei e musulmani, e risiedono 34.000 palestinesi, circa 600 coloni ebrei e 1.500 militari israeliani. "L'esercito proibisce di fatto alle associazioni internazionali di entrare nella città - racconta ancora la volontaria - e le misure restrittive imposte anche alla popolazione palestinese stanno strangolando l'economia dell'intera zona". Se per i civili israeliani è legale accedere alla zona palestinese della città, i cittadini palestinesi sono invece sottoposti - come in gran parte dei Territori occupati - a un soffocante sistema di controlli e posti di blocco per entrare nell'area sotto il controllo israeliano. Si tratta - come più volte denunciato dalla comunità internazionale - di una grave violazione della libertà di movimento.
Come racconta Hafez Huraini, palestinese del villaggio Tuwani e membro dell'organizzazione South Hebron Hills Committee, "a Hebron e nel resto dei Territori siamo costantemente assediati, vessati: le nostre case vengono distrutte in base alla motivazione che non abbiamo licenza di costruire, ma nessuno, nonostante lo abbia richiesto, ha mai ottenuto un permesso". L'unica strada che gli abitanti di queste terre possono seguire - testimonia Huraini - è quella della non violenza, secondo due modalità: rivolgendosi alle autorità giudiziarie israeliane e moltiplicando gli sforzi per attirare l'attenzione degli organi di informazione internazionali. "In questo modo - aggiunge Huraini - siamo riusciti a impedire che demolissero la scuola del nostro villaggio, l'unica nell'area; nel 1998 abbiamo ottenuto da un tribunale una sospensione di dieci anni dell'ordine di demolizione che scade proprio adesso, ma che speriamo venga annullato; abbiamo anche costretto il Governo di Israele a intervenire per evitare che i nostri bambini venissero ogni volta minacciati lungo il percorso che porta alla scuola".
(©L'Osservatore Romano - 11 dicembre 2008)

La presentazione ad Aosta delle celebrazioni per il IX centenario della morte di sant'Anselmo - Tutto ciò che toccò ebbe poi un aspetto diverso - Mercoledì 10 dicembre, nel Salone del Palazzo Vescovile di Aosta, viene illustrato il calendario delle celebrazioni per il IX centenario della morte di sant'Anselmo. Nell'ambito delle iniziative verrà presentato il volume Anselmo d'Aosta. Nel ricordo dei discepoli. Parabole, detti, miracoli, una raccolta di testi curata da Inos Bifi, Aldo Granata, Costante Marabelli e Davide Riserbato. di Stefano Maria Malaspina
Una presentazione in breve di Anselmo d'Aosta, del quale nel 2009 ricorre il IX centenario della morte - avvenuta il 21 aprile del 1109 -, appare impresa ardua. Ebbe, è vero, la fortuna di un "biografo intelligente accanto a sé" (Vanni Rovighi); ma rimane una personalità poliedrica e complessa.
È infatti il giovane che non senza esitazioni sceglie la vita monastica, e che affinerà a Le Bec, in Normandia, sotto la sapiente guida di Lanfranco, una vocazione inizialmente dettata anche da una certa ricerca di successo e applauso.

È il priore di questa giovane abbazia, dove si occupa della formazione dei novizi, mostrandosi fine e attento pedagogo e abile lettore dell'intimo: "Guidato dalla sua capacità di discernimento, riusciva a cogliere le caratteristiche di ogni età" (Vita Anselmi).
È il pensatore geniale e sottile, in ricerca delle "ragioni necessarie" della fede, capace di elaborare una prova "sintetica" dell'esistenza di Dio ottenendo "vertici di divina speculazione così elevati che l'aiuto dell'illuminazione di Dio riuscì a comprendere questioni particolarmente oscure riguardanti la natura di Dio e la nostra fede" (ibidem).
È l'arcivescovo di Canterbury, che vive il duro contrasto con i regnanti (Guglielmo il rosso ed Enrico ii) e l'amara prova dell'esilio, vissuta per difendere la libertà della Chiesa (libertas Ecclesiae), riuscendo però a concludere la propria vita in pace, con il conforto dei suoi monaci, in quei luoghi che saranno testimoni del martirio di un altro illustre arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket.
Concorrono a delineare il profilo del santo le molteplici iniziative previste per il 2009 e presentate ad Aosta, dove Anselmo nacque nel 1033. Il presidente della Valle d'Aosta Augusto Rollandin, nel presentare le iniziative di una ricorrenza che sta suscitando un rinnovato fervore di studi sulla vita e sulla ricchezza dell'insegnamento di sant'Anselmo, ne ricorderà lo scopo: mettere in evidenza "il figlio più illustre di Aosta, e il rappresentante insigne di quella cultura transalpina ed europea che nella Valle ha trovato le sue più felici vie di comunicazione e transizione". Ripercorrerà inoltre alcune delle più recenti iniziative attuate per rievocarne lo spessore europeo (il congresso Anselmo d'Aosta. Figura europea del 1988) e delinearne l'immagine di educatore (nel convegno svoltosi nel 2002), dei quali la Jaca Book ha pubblicato gli atti. Attività tutte che tendono a riaccendere il ricordo del "dottore magnifico" per "riapprenderne e approfondirne la dottrina, quasi con la missione di trasmetterla alle nuove generazioni".
Si inserisce perfettamente in tale contesto la pubblicazione dei Memorials, o Anselmo d'Aosta. Nel ricordo dei discepoli (a cura di Inos Biffi, Aldo Granata, Costante Marabelli e Davide Riserbato, Milano, Jaca Book, 2008, pagine 764, euro 90). Si tratta di parabole, detti, miracoli di un maestro che parla per immagini e similitudini, di un priore che attrae e affascina, di un monaco che lascia, dietro di sé, l'incancellabile ricordo di una vita interamente dedita a Dio. La prima edizione italiana esce con il testo latino a fronte.
Si tratta di testi che, pur risalendo ad Anselmo "nel contenuto, sono il frutto della memoria e della stesura dei discepoli, particolarmente di Eadmero e di Alessandro di Canterbury, i "raccoglitori delle parole di Anselmo" e dei suoi miracoli" (Biffi). Qui incontriamo l'Anselmo "còlto nei suoi momenti più felici; quello dei suoi affascinanti colloqui e delle sue penetranti e persuasive omelie".
Prosegue così l'edizione dell'Opera omnia anselmiana, già avviata con i tre volumi delle Lettere (la cui integrale edizione in italiano, con il testo dell'originale a fronte, è stata la prima in una lingua moderna) e con le Orationes et meditationes (anch'esse accompagnate dal testo latino e da ampie introduzioni, commenti, annotazioni).
Seguiranno nel corso di questo IX centenario una nuova edizione italiana, basata sul testo critico del Southern, della Vita di Anselmo scritta dal discepolo Eadmero e della Vita redatta dal raffinato Giovanni di Salisbury. Infine, per la prima versione in lingua italiana, la Historia Novorum, sempre di Eadmero.
Quelle di quest'ultimo sono fonti e testimonianze dirette di chi è vissuto per anni con Anselmo e ne ha condiviso l'esilio, potendo raccogliere, dalla sua propria voce, una messe di particolari anche relativi ai tempi della giovinezza di colui che sarebbe in seguito diventato arcivescovo di Canterbury.
Il Congresso internazionale, che si svolgerà dall'1 al 3 ottobre 2009 nel capoluogo valdostano, sarà l'occasione per rileggere ancora le vicissitudini storiche - talora drammatiche, dal riflesso ancora attuale - del santo e per ripercorrerne la vastità di pensiero, che si estende dal campo della filosofia e della teologia, a quello dell'esperienza monastica e della cura pastorale.
Fra i relatori è prevista la presenza di Paul Gilbert, della Pontificia Università Gregoriana, di David Luscombe (University of Sheffield), di Helmut Kohlenberger (Freilassing Universität) e di Jean François Cottier (Université de Montréal).
Presentando i Memorials, l'assessore Laurent Viérin ne ha ulteriormente precisato il valore del contributo alla conoscenza del suggestivo e attraente ritratto anselmiano a partire dalla pubblicazione dei ricordi: "Siamo riportati a quanto di lui si è venuto imprimendo nella memoria": i suoi detti, penetranti e arguti; le sue candide similitudini e parabole, attinte dalla vita monastica o da quella consueta della gente comune; le sue vivide e colorite immagini; le trame o gli abbozzi delle sue riflessioni; in sintesi, il brillante conversatore che sa farsi ascoltare, l'educatore che sa persuadere, il monaco che amando Dio spinge a fare altrettanto. Tanto che molti monaci, direttamente o indirettamente, fecero il loro ingresso nel monastero di Le Bec proprio a motivo di Anselmo.
Un aspetto, quello della popolarità di Anselmo, che ne completa il tratto: accanto all'uomo dotto e dalla mente speculativa, all'autore fra le altre opere del Monologion, del Proslogion e del Cur Deus homo, ecco infatti l'abate che sa comunicare e trasmettere il gusto anche a quanti non sono chiamati per professione ai ragionamenti sottili e alle filosofiche distinzioni.
Tutto questo concorre alla conoscenza della ricca e multiforme personalità di Anselmo, che non si lascia ridurre e semplificare, uomo, qual è, di pensiero e di orazione, di razionalità e di fede, di accogliente e indulgente mansuetudine e di tenace fermezza, di lucidi principi e di rara finezza psicologica. D'altronde lo stesso Richard William Southern, nel presentare il suo Anselmo d'Aosta. Ritratto su sfondo - il più completo studio sulla persona di una delle menti più ricche e affascinanti dell'intera storia cristiana - aveva a sottolineare: "Non è un argomento a cui si possa pensare una volta e poi riprenderlo solo per qualche correzione e per l'aggiunta di pochi dettagli. (...) Toccò il pensiero, la pietà e la politica del tempo in ogni loro aspetto rilevante; e tutto ciò che egli toccò ebbe dopo un aspetto diverso". Senza dubbio questa commemorazione di Aosta non ha la pretesa di essere esauriente: essa tuttavia, ripercorrendo la drammaticità della vita, le biografie coeve, il panorama storico, una personalità incapace di compromessi, gli scontri con il potere politico, è accompagnata dal rigoroso studio delle fonti e dalla loro pubblicazione, che a sua volta diviene strumento per ulteriori nuovi approfondimenti e ricerche. Sarà a disposizione, arricchita e più completa, una più ampia parte della vasta eredità anselmiana.
(©L'Osservatore Romano - 11 dicembre 2008)


10/12/2008 20.18.11 – Radio Vaticana - "Diritti fragili se non fondati su Dio". Così il Papa nel 60° della Dichiarazione dei diritti dell'uomo
“Un altissimo punto di riferimento del dialogo interculturale sulla libertà e sui diritti dell’uomo” così il Papa ha definito la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo a conclusione di un concerto in Aula Paolo VI nell’ambito di un pomeriggio commemorativo dei 60 anni della Carta, organizzato in Vaticano. “Quando viene meno il riconoscimento del diritto alla vita e alla libertà religiosa, anche il rispetto per gli altri diritti vacilla” ha detto intervenendo il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. Il servizio è di Paolo Ondarza. http://62.77.60.84/audio/ra/00141723.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00141723.RM
Giovanni Paolo II ha definito la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo “una vera pietra miliare sulla via del progresso morale dell’umanità”. Per Benedetto XVI è stata “un passo decisivo nel difficile e impegnativo cammino verso la pace e la concordia”. La Chiesa ha sempre ritenuto i diritti umani come l’espressione della trascendente dignità della persona, amata da Dio per se stessa, fine e mai mezzo. Tali diritti - ha affermato Benedetto XVI - sono fondati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e non sono affidati a semplici accordi o a mutevoli opinioni: diventerebbero diritti deboli o diritti selettivi, sottoposti all’arbitrio dei più forti. Devono invece valere per tutti e sempre. Ma per un bilancio dei 60 anni della Dichiarazione ascoltiamo il commento del giurista Giuseppe Dalla Torre: http://62.77.60.84/audio/ra/00141623.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00141623.RM

R. - Il bilancio è fatto di luci e, ahimè, anche di ombre. Di luci, innanzitutto, perché certamente questi 60 anni hanno significato la crescita a livello planetario nella coscienza di tutti della esistenza dei diritti inviolabili, dei quali ogni uomo è portatore in ragione della sua dignità fondamentale, e della necessità che questi diritti siano tutelati, siano garantiti e non siano lesi. Secondo aspetto di un bilancio positivo è quello che nasce dal fatto che, certamente, la pratica dei diritti umani si è allargata a livello mondiale. Ma come dicevo, vi sono anche delle ombre, perché in 60 anni non dappertutto si è riusciti a far affermare in concreto, e non solo in teoria, il rispetto di questi diritti umani.

D. - Oggi si assiste ad una evoluzione del concetto di diritti umani, una sorta di nuova ideologia dei diritti che vorrebbe reinterpretarli sulla base di scelte soggettive o interessi utilitaristici…

R. - Questo è un altro pericolo che avanza all’orizzonte e che è soprattutto un pericolo che viene dalla cultura occidentale, una cultura individualistica estrema e relativistica: l’assurgere di ogni diritto al rango di diritti fondamentali o, addirittura, di ogni interesse, o addirittura ancora, di ogni desiderio. Ogni desiderio diventa un diritto fondamentale. Questo è un modo di svuotare la categoria dei diritti fondamentali, di indebolirli, perché evidentemente non tutte le posizioni giuridicamente rilevanti hanno però la stessa forza ed esigono lo stesso livello di tutela. E non tutti i desideri sono, per così dire, giuridicamente da tutelare, da riconoscere.

D. - Per la Chiesa, il primo dei diritti umani è il diritto alla vita, dal concepimento. Ma chi non ha voce sembra non poterlo reclamare, tanto che oggi c’è chi vuol fare dell’aborto un diritto…

R. - Questo è davvero un aspetto singolare della nostra cultura che manifesta delle schizofrenie. Da un lato, ci preoccupiamo, e giustamente, dei diritti degli animali, dall’altro lato ci preoccupiamo, e giustamente, dei diritti delle generazioni a venire. E tuttavia non ci preoccupiamo dei diritti di chi è già stato concepito, non è ancora nato, ma è già in vita, è già un individuo, ha già una sua identità: ha necessità, proprio perché più debole fra tutti, di essere più difeso rispetto a tutti quanti gli altri.

D. - La violazione del diritto alla libertà religiosa è in crescita oggi...

R. - La libertà religiosa è un terreno estremamente delicato, perché la libertà religiosa è storicamente, ma direi anche logicamente, la madre di tutte le libertà, e quindi di tutti i diritti fondamentali di libertà.

D. - La Chiesa, anche grazie ad una certa disinformazione, è stata accusata recentemente riguardo il no alla proposta francese sulla depenalizzazione dell’omosessualità: eppure, in pochissimi hanno saputo riferire che la Chiesa sostiene la depenalizzazione dell’omosessualità, ma è contraria solo a quegli articoli che aprono alle unioni gay e alle adozioni da parte di coppie omosessuali. Un suo commento…

R. - In questo caso, davvero, bisogna distinguere reato e peccato, profilo etico e profilo giuridico. E’ evidente, d’altra parte, la preoccupazione della Santa Sede che ci si possa servire del grimaldello dei diritti umani per una degenerazione ideologica degli ordinamenti giuridici degli Stati e della stessa democrazia.


GIUSTIZIA/ Un paese vittima della confusione tra etica e diritto - Paolo Tosoni - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
I cittadini, già provati da una crisi economica che li destabilizza e li preoccupa per il futuro, avrebbero bisogno di certezze e di sicurezza: immaginiamoci, viceversa, lo sconforto e il disorientamento che provano di fronte a questa situazione deprimente in cui alcuni magistrati, rappresentanti dello Stato e della funzione giudiziaria, hanno utilizzato strumentalmente i loro poteri e le loro funzioni per farsi una guerra che nulla a che vedere con il servizio alla giustizia.
Stupisce che in questo clima la senatrice Finocchiaro martedì sera a Ballarò abbia dichiarato che la svolta nel Pd passerebbe attraverso l’incompatibilità per i suoi aderenti alla candidatura e allo svolgimento di incarichi politici per il solo fatto di essere sottoposti ad indagini: in questo sostenuta da Di Pietro, anch’egli presente alla medesima trasmissione.
Riemerge evidentemente la già denunciata (in un articolo precedente del 31 luglio 2008) ingannevole confusione tra legalità e moralità, di cui si è fatto interprete, dopo la stagione di Mani pulite, il leader dell’Idv e che ha avuto il suo culmine nell’intolleranza espressa in piazza Navona; ma, soprattutto, non si comprende come si possa anche solo proporre che la delicata funzione politica di un rappresentante dei cittadini possa dipendere dall’iscrizione dello stesso nel registro degli indagati da parte della magistratura inquirente che, più che mai in questo momento, almeno per una parte di essa, dimostra di essere “fuori controllo” e priva di responsabilità.
Si dovrebbe, viceversa, di fronte all’ulteriore, ormai patologico intreccio tra azione giudiziaria e politica affrontare coraggiosamente il problema di un filtro istituzionale tra i due poteri che permetta la reciproca autonomia e impedisca il ricatto dell’uno sull’altro (proposta più volte avanzata nei precedenti articoli sul tema).
I gravi fatti di questi giorni dimostrano, inoltre, in modo drammatico, come il sistema giudiziario sia al collasso sotto tutti i profili, non ultimo quello dell’organizzazione e del controllo dei suoi principali interpreti, i magistrati.
Non è pensabile, pertanto, rimandare ulteriormente una riforma complessiva della giustizia. Chi non intende collaborare in tal senso, sia parte politica o magistratura o associazionismo forense vario, arroccato sulle proprie parziali visioni, normalmente rivolte a tutelare il proprio interesse, si assume una grave responsabilità nei confronti dei cittadini e del bene comune.
Nel nostro paese, le riforme più pasticciate sono state quelle improvvisate sull’onda dell’emozione e dell’emergenza di fatti analoghi a quelli di cui si discute. Al governo e alla maggioranza, pertanto, chiediamo di affrontare il tema delle riforme perseguendo veramente come metodo quello del dialogo e dell’approfondimento, anche a costo di sacrificare in parte la celerità che l’emergenza parrebbe imporre; la materia in oggetto e le sue ricadute sull’assetto democratico e sui diritti fondamentali dei cittadini necessitano di un alto senso condiviso della giustizia e delle sue istituzioni. Per questo non è convincente, anche come metodo, che il Ministro Alfano annunci di presentare la riforma del processo penale prima di Natale: legittimo il dubbio che si tratti di una proposta già confezionata – quando e da chi? – da “prendere o lasciare”.
All’opposizione si chiede, innanzitutto, di smarcarsi definitivamente e in modo netto dal giustizialismo di Di Pietro e dell’Idv, con il quale è impensabile un leale confronto su questi temi, essendo la difesa ideologica dell’azione giudiziaria della magistratura, così come attuata fino ad oggi, l’unica ragione dell’esistenza di questo partito e il dichiarato antiberlusconismo il motivo del consenso di cui danno atto i sondaggi (è di martedì sera l’ultima minaccia di Di Pietro, per cui se si faranno riforme nel senso indicato genericamente dal ministro della Giustizia ci saranno “dieci, cento, mille piazze Navona”).
Alla magistratura si chiede di prendere atto che è necessaria una svolta, che al concetto sacrosanto di indipendenza e autonomia, bisogna affiancare e in parte sostituire quello di responsabilità e che ripensare una nuova forma di organizzazione della magistratura inquirente e di quella giudicante, piuttosto che riformare il Csm, non è necessariamente un fatto negativo (colpisce positivamente in tal senso la dichiarazione provocatoria del presidente della Corte d’Appello di Milano, dott. Grechi, che ha proposto una magistratura elettiva: esprime la coscienza che è indifferibile, per lo stato in cui siamo, una svolta radicale).
Nei momenti di maggiore difficoltà e smarrimento gli uomini di buona volontà, in genere, trovano le risorse e la compattezza per reagire e ripartire costruendo le cose migliori. Questo è quello che ci attendiamo e pretendiamo dalla politica e dai protagonisti del mondo giudiziario; che si affrontino i problemi senza l’ansia di risolverli nel breve periodo, ma ponendo le basi per una riforma complessiva che renda serio ed efficiente il sistema giustizia, tenendo conto delle diverse culture e sensibilità che si esprimono nel Paese e, al tempo stesso, accettando le decisioni che la maggioranza, abilitata dalla preferenza della popolazione, sarà chiamata a prendere.
Nel frattempo noi continuiamo ad auspicare un sereno confronto sui principali temi della riforma della giustizia, così come in modo esemplare si sta facendo su queste pagine.


Dal progetto al soggetto - Roberto Fontolan - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Mentre milioni di italiani sono subissati di natalizi appelli a solidarietà e aiuti di qualunque genere e destinazione, escono nuovi desolanti dati. Nel 2008 altri quaranta milioni di umani si sono aggiunti alla fila di coloro che soffrono la fame, che ora sono 963 milioni. Un subsahariano su tre è cronicamente affamato; nella Repubblica democratica Congo, della quale solo la Chiesa Cattolica ormai ricorda l’esistenza, il 76% della popolazione è sottonutrita.
La Fao dice che servirebbero trenta miliardi di dollari all’anno per arginare l’emergenza e cominciare a risalire l’impervia montagna della miseria più spaventosa che affligge quasi un miliardo di persone. Certo, il pulpito da cui vengono declamate queste parole non è dei più titolati, dal momento che da anni si aspetta la “riforma” che dovrebbe trasformare uno dei più inefficienti carrozzoni mondiali in una struttura seria e efficace. Ma non ha torto l’agenzia quando fa notare che 30 miliardi di dollari sono l’8% di quanto i paesi sviluppati hanno speso nel 2007 per sussidiare le proprie agricolture.
E se facciamo il paragone con quanto stanno costando i salvataggi delle banche c’è da pensare se non fosse il caso di limare appena un pochino le somme destinate a tenerle in piedi per salvare davvero alcuni milioni di bambini africani (sono sicuro che in Italia disoccupati e cassaintegrati, clienti e dipendenti di quelle stesse banche che intanto - incredibilmente! - hanno ottenuto la deroga all’assunzione dei disabili in quanto “aziende in crisi”, sarebbero molto più contenti).
Ma qui c’è un problema. È stato calcolato che di 100 dollari donati dall’Europa all’Africa bisognosa solo 20 arrivano all’africano bisognoso; 80 dollari, e cioè l’80% della somma donata, non riescono a superare gli sbarramenti innalzati dalla corruzione, dal ricatto, dal governo e anche dal mantenimento delle strutture deputate. E così, se davvero servissero 30 miliardi di dollari “netti”, i Paesi sviluppati dovrebbero in realtà impiegarne 150 “lordi”: la diseconomia è eccessiva (anche se noi conosciamo bene il fenomeno per il quale una azienda ha un “c.az”, costo azienda, di 2100 euro mensili per una “ral”, retribuzione al dipendente, di 1000 netti).
Dunque con i soli soldi non si risolve un bel nulla. E per di più nel mercato della solidarietà mondiale i soldi sono una merce sempre più rara. Non passa giorno senza che qualcuno faccia riferimento ai celeberrimi “obbiettivi del millennio”, definiti dall’Onu nel fatidico passaggio dell’anno 2000 (che rispetto a oggi è una specie di jurassico, tanto ci pareva foriero di bene e traguardi).
Ebbene da quegli otto obbiettivi, distribuiti tra lotta alla fame, educazione, salute e ambiente, restiamo lontanissimi: nessuno verrà raggiunto entro il 2015, anno di scadenza di un impegno che sarà da rottamare insieme alle auto e ai televisori delle nostre case occidentali (se non consumiamo, ci viene detto, non usciamo dalla crisi). Il dato più clamoroso (del quale tutti si vergognano): i Paesi ricchi avevano giurato di arrivare a spendere lo 0,7% del Pil per i Paesi poveri, ma oggi si spende molto meno persino di quando la promessa era stata fatta. È la dura e spigolosa realtà.
A quale santo rivolgersi per aiutare l’Africa? Come spesso accade (eppure pochi lo capiscono), i momenti di crisi hanno una loro profonda utilità: fanno emergere l’essenziale, quel che davvero conta. I soldi sono indispensabili, naturalmente, ma oggi è chiaro che sono una parte del problema e non la maggior parte del problema.
Ora, se non fosse una espressione maledetta dovremmo parlare di una “rivoluzione culturale” da lanciare con questo slogan: dal progetto al soggetto. Il sottosviluppo è questione di uomini, l’uomo è questione di educazione. Un processo lungo, a volte lunghissimo, e non misurabile. Ha che fare con categorie che non entrano negli standard delle agenzie internazionali: incontro, condivisione, gratuità, passione, coinvolgimento. E il bello è che dove questa rivoluzione viene applicata funziona (e senza mandare nessuno in prigione, anzi).
Prima di scucire quel poco denaro che resta in cassa a scopo umanitario, i governi dovrebbero informarsi bene su qual è l’unico modo per farlo fruttare davvero. E così anche noi, quando ci chiedono soldi per “un gesto di solidarietà a chi è più sfortunato”.


SCUOLA/ Ripristinati i fondi alle paritarie? Sembra proprio di no - Vincenzo Silvano - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Venerdì 5 dicembre, accompagnata da altisonanti “rulli di tamburi”, è circolata la notizia del ripristino dei fondi tagliati alle scuole paritarie sulla finanziaria 2009, a seguito della decisa presa di posizione della CEI nei confronti dell’attuale governo.
Il sottosegretario all’Economia, Vegas, ha addirittura consigliato agli alti prelati e a tutti gli inquieti rappresentanti del mondo della scuola non statale un tranquillo riposo su “quattro cuscini”, visto che ormai non ci sarebbe più nulla da temere.
Ma è davvero così? Si direbbe di no, visto che si è trattato di una manovra ambigua e farraginosa; i due emendamenti presentati dal relatore al Senato nella seduta antimeridiana del giorno 5 dicembre, infatti, parlano di tutto fuorché di scuola non statale o paritaria, destinando invece genericamente il finanziamento alla scuola nel suo insieme.
Vediamo la cosa nel dettaglio. La Proposta di modifica n. 2.Tab.2.200-5 al DDL n. 1209 chiede di apportare «allo stato di previsione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (tab. 7 ) missione 1 – Istruzione scolastica, programma 1.14: Interventi in materia di istruzione» una variazione in positivo pari a 120.000.000 di euro per competenza e per cassa, andandoli a togliere dallo stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, fondi di riserva e speciali, al capitolo u.p.b. 25.2.3 – (Oneri comuni di parte corrente).
E, come se non bastasse, i fondi stanziati dovranno essere ripartiti tenendo conto del parere del ministero dell’Economia, dell’Istruzione e degli Affari Regionali:
«43-bis. Fermo il rispetto delle prerogative regionali in materia di istruzione scolastica, con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro degli affari regionali e il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-Regioni, sono stabiliti, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i criteri per la distribuzione alle regioni delle risorse finanziarie occorrenti alla realizzazione delle misure relative al programma di interventi in materia di istruzione.»
E’ tutto da verificare, quindi, quale sarà la rotta che prenderanno quei 120 milioni di euro che, essendo destinati all’istruzione tout court, potrebbero riguardare la scuola paritaria solo in minima percentuale.
Avrà il Ministro Gelmini, di concerto con gli altri ministri interessati, il coraggio – o la volontà- di destinare interamente la somma al ripristino (parziale) del fondo spettante alla scuola paritaria per il 2009? Avranno l’ardore di sfidare nuovamente la piazza, dopo le roboanti e strumentali proteste che nelle scorse settimane hanno scosso il mondo della scuola, condite da abbondante disinformazione che ha fatto passare il messaggio che si tagliavano i fondi alla scuola “pubblica” per darli alle “private”?
Quello che poteva e doveva essere un percorso semplice e inequivocabile -dal capitolo dell’istruzione non statale per il 2009 erano stati tagliati 134 milioni di euro, con un emendamento dovevano essere reintegrati nel medesimo capitolo- si è trasformato in un contorto e incomprensibile pasticcio, che rischia di portare nelle casse delle scuole paritarie solo le briciole dell’importo originario.
Se la somma di 120 milioni di euro –tra l’altro inferiore di 14 milioni di euro a quanto originariamente tagliato- è davvero destinata alla scuola paritaria, perché non inserirla direttamente al programma 1.9: Istituzioni scolastiche non statali?
Nonostante le dichiarazioni rassicuranti del sottosegretario Vegas, non ci sentiamo tranquilli. Anzi, le modalità con cui si è proceduto accrescono le perplessità e i timori, perché alimentano la sensazione che nel governo ci siano forze che non comprendono l’importanza della libertà di educazione e che conseguentemente l’avversano. Probabilmente la deviazione dei fondi su un capitolo di spesa generico dell’istruzione è frutto di uno scontro all’interno del governo stesso, nel quale si confrontano due anime, una liberista e favorevole ad una reale autonomia scolastica, ed una ancora statalista e accentratrice, in barba a qualsiasi promessa elettorale....Questo genera confusione.
Le scuole paritarie invece chiedono chiarezza: il ripristino totale dei fondi tagliati, un impegno preciso sul capitolo di spesa relativo all’istruzione non statale per l’intero triennio di competenza, atti inequivocabili a favore della libertà di scelta educativa sancita dalla nostra Costituzione.


RUSSIA / La storia della rivoluzione “dimenticata” del 1905 - INT. Ettore Cinnella - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Nei manuali di storia si parla frequentemente della rivoluzione del 1917, ma assai poco di quella del 1905. Come mai?
Checché se ne dica, la storia è stata solitamente scritta per i potenti e per i vincitori di turno (come intuì e mostrò mirabilmente Manzoni nei Promessi sposi, che sono anche una profonda e umanissima riflessione sulla storia e sul mestiere di storico). Sui bolscevichi, trionfatori finali del lungo processo rivoluzionario, si è sempre affissato lo sguardo degli apologeti come degli avversari del comunismo, i quali hanno trascurato o ignorati sia gli altri protagonisti sia le vicende a loro avviso lontane dai fatti dell’ottobre 1917. Tuttavia, nell’Unione Sovietica il 1905 fu sempre al centro dell’attenzione, perché interpretata e narrata come preludio («prova generale») del 1917; ma, per corroborare tale visione, i pubblicisti e gli storici sovietici dovettero mettere in scena quasi esclusivamente Lenin e i bolscevichi quali soli o principali protagonisti dell’intera epopea rivoluzionaria.
Nel suo recente volume - 1905 La vera rivoluzione russa (Della Porta 2008) - lei chiama quella del 1917 «rivoluzione bolscevica» e quella del 1905 «rivoluzione russa»; può spiegare la differenza?
Per «rivoluzione bolscevica» in senso stretto bisognerebbe intendere l’azione condotta dal partito di Lenin nel 1917 fino alla conquista e al consolidamento del potere. Ma ciò fu soltanto un episodio della rivoluzione russa del 1917 (fatta da molti altri protagonisti e ricca di tanti altri eventi) e, a maggior ragione, della rivoluzione del 1905, nella quale i bolscevichi non svolsero affatto un ruolo egemonico. Nella rivoluzione del 1905, insieme sociale e politica, ebbero una parte rilevante anche le vivaci e pugnaci forze liberali (alle quali, ancor oggi, molti studi assegnano il posto di Cenerentola della rivoluzione). Nei miei lavori ho cercato di spiegare perché mai furono i bolscevichi a vincere nell’autunno 1917 e perché vennero sconfitti i socialisti rivoluzionari, che pure esprimevano i bisogni e le aspirazioni dell’immensa popolazione rurale. In senso lato, poi, la «rivoluzione bolscevica» fu la lunga e terribile azione svolta dal partito comunista nell’URSS per costruire un nuovo Stato e un nuovo sistema economico-sociale.
Nella introduzione lei dice che Lenin «agì da becchino della rivoluzione»; cosa intende esattamente?
Dei partiti rivoluzionari russi quelli marxisti, e tra essi i bolscevichi, erano i più distanti dalla mentalità e dalle esigenze dei contadini, cioè della stragrande maggioranza della popolazione lavoratrice. Con geniale intuito, nell’autunno 1917 Lenin copiò il programma agrario dei rivali socialrivoluzionari e sancì l’occupazione delle terre. Ma, assieme alla duttilità tattica e all’abilità politica, i bolscevichi avevano una visione settaria e una ferocissima determinazione nell’attuare il loro programma, per molti versi dottrinario ed estraneo alle reali aspirazioni del mondo popolare russo. Fino all’autunno 1917 essi riuscirono a cavalcare con successo la spontanea e crescente protesta plebea. Quando poi, nella primavera 1918, il nuovo regime venne a trovarsi in un vicolo cieco (anche a causa della forsennata politica da esso seguita), Lenin usò il pugno di ferro perseguitando gli altri partiti socialisti (i liberali erano stati messi fuori legge da tempo), opponendosi al «controllo operaio», sottraendo ai contadini i prodotti agricoli. Da allora la guerra tra Stato bolscevico e masse popolari conoscerà alti e bassi, furiosissimi scontri (culminati nelle insurrezioni del 1920-1921) alternantisi a periodi di tregua (gli anni della NEP), fino a concludersi con la crudelissima collettivizzazione e la dura militarizzazione del lavoro all’inizio degli anni ’30.
Dopo la rivoluzione del 1905 un gruppo di intellettuali un tempo marxisti, poi diventati liberali ed infine giunti alla fede ortodossa, scrissero un pamphlet - intitolato Vechi - molto critico su quella rivoluzione ed in particolare sull’intelligencija russa, accusata di nichilismo. Cosa pensa di questa posizione?
Io non penso che la silloge Vechi aiuti a capire davvero i drammatici problemi della storia russa e della rivoluzione russa. È vero che Berdjaev, uno dei principali autori, scrisse acutamente che «l’intelligencija russa fu tale quale la creò la storia russa; nella sua psiche si rispecchiano i peccati della nostra dolorosa storia, del nostro regime e della nostra eterna reazione» e che «il dispotismo insenilito deformò l’anima dell’intelligencija». Ma, definendo «colpevole» l’intellighenzia, egli faceva d’ogni erba un fascio e non rendeva giustizia alle lotte eroiche che molti intellettuali democratici avevano condotto, in condizioni difficilissime, contro l’assolutismo zarista e per l’affrancamento delle masse popolari. Anche Richard Pipes, com’è noto, ritiene l’intellighenzia la principale responsabile degli orrori della rivoluzione. Non bisogna certo sottacere o minimizzare i tratti mostruosi e patologici (in primo luogo, la ferocia terroristica) di alcune formazioni rivoluzionarie (già colti lucidamente da Dostoevskij nel romanzo I demoni). Ma non dobbiamo dimenticare l’umile e tenace opera filantropica, oltre che d’illuminazione politica e civile delle campagne, svolta dal «terzo elemento», cioè dagl’impiegati delle amministrazioni locali: maestri elementari, medici condotti, statistici, agronomi. Furono essi a gettare, per la prima volta, un ponte tra le due Russie (quella colta e occidentalizzata, e quella arcaica e plebea), paurosamente distanti tra loro sin dai tempi delle riforme - esteriori e imposte dall’alto - di Pietro il Grande.


NEL GIORNO DEI DIRITTI - CONTRO L’ARBITRIO CON RITROVATO SENSO DEL DOVERE - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 11 dicembre 2008
La Dichiarazione universale dei di­ritti dell’uomo, di cui ricorre il 60° anniversario, pur essendo perfettibi­le, è veramente un traguardo impor­tante, almeno a livello teorico. Però, a livello pratico, come ha detto ieri il Papa, « centinaia di milioni di nostri fratelli e sorelle vedono tuttora mi­nacciati i loro diritti alla vita, alla li­bertà, alla sicurezza; non sempre è rispettata l’uguaglianza tra tutti né la dignità di ciascuno » .
Inoltre, nel 1948 l’uomo era più fidu­cioso circa la possibilità di conosce­re la verità sulla realtà, certo non to­talmente, ma comunque in parte. In effetti, se la verità sulla realtà è ( in parte) conoscibile, almeno in certi casi non è la realtà a doversi adegua­re all’uomo, bensì è l’uomo che deve adeguarsi ad essa ( ad esempio alla realtà del matrimonio).
Viceversa, in una cultura relativista, presto o tardi, avviene un rovescia­mento. Se per relativismo si intende ( per chi lo definisce diversamente il discorso cambia) la negazione della possibilità di conoscere la verità, al­lora tutto è soggettivo, i nostri atti non possono essere giudicati ogget­tivamente ed ogni singolo uomo è l’unità di misura di tutte le cose. Co­sì, è la realtà che deve adeguarsi al­l’uomo, alle sue pretese ed ai suoi de­sideri, ed anche le leggi debbono as­secondare ogni suo desiderio e con­cedergli ogni diritto ( pacs – caso em­blematico di diritti senza quasi nes­suno dei doveri dei coniugi –, ' ma­trimonio omosessuale', fecondazio­ne artificiale, aborto, ecc.). Come ha detto ieri il cardinal Bertone, tante nostre società mettono « in discus­sione l’etica della vita e della pro­creazione, del matrimonio e della vi­ta familiare (...) introducendo unica­mente una visione individualistica su cui arbitrariamente costruire nuo­vi diritti » . Insomma, il discorso sui diritti è di per sé molto prezioso ma, in sinergia col relativismo, ha trasformato i de­sideri in diritti e ha fatto quasi scom­parire, nella percezione del sogget­to, i suoi doveri verso gli altri ( e, in generale, verso la realtà). Si enfatiz­zano, invece, i doveri che hanno gli altri e, in particolare lo Stato, nei suoi riguardi: anzi, si afferma il dovere del­lo Stato di praticargli l’eutanasia a ri­chiesta, di finanziargli la feconda­zione artificiale e l’aborto... Fino al punto di voler negare l’obiezione di coscienza, imponendo al medico il dovere di prescrivere la pillola del giorno dopo, di praticare l’eutanasia, di praticare l’aborto...
Ancora, pensiamo alle conseguenze della logica relativista spinta all’e­stremo: se non esiste una realtà co­noscibile da rispettare e se la legge mi deve concedere qualsiasi diritto, allora la libertà di ciascuno è assolu­ta, dunque esiste anche il diritto di negare i diritti altrui; se la libertà è assoluta, ognuno ha la libertà di ne­gare quella altrui. E se pure dei doveri vengono enun­ciati, se essi sono stabiliti solo in ba­se a una convergenza di interessi, per un’utile convenzione, quando poi il loro rispetto non corrisponde più ai miei interessi, nessuno mi può bia­simare se li trasgredisco.
Il discorso cambia quando i doveri e­sprimono il rispetto che è dovuto al­la realtà ( conoscibile) delle cose e dell’uomo. Allora, riprendendo in u­na certa misura Simone Weil, si può dire addirittura che, se esistesse un solo uomo, costui non avrebbe in­terlocutori a cui reclamare i propri diritti, mentre continuerebbe ad a­vere dei doveri, almeno quelli verso se stesso. Aveva ragione Giovanni Paolo II quando, laicamente, diceva che « è il dovere che stabilisce l’am­bito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nel­l’esercizio dell’arbitrio » .


IMPENNATA DELLE PROFANAZIONI IN FRANCIA: SEGNO DI UNA RICERCA DISTORTA? - Se la società censura la morte vera i cimiteri diventano luoghi di vandali - MARINA CORRADI – Avvenire, 11 dicembre 2008
L ’immagine del cimitero militare di Notre Dame de Lorette, nel Nord della Francia, con cinquecento lapidi di caduti di guerra musulmani coperte di insulti, ha fatto il giro del mondo. Sdegno e vergogna per quelle tombe sfregiate hanno percorso la Francia, così come quando vandalizzati erano stati i cimiteri ebraici. Ma un’indagine del Parlamento francese rivela una prospettiva diversa, anche se non meno grave, sul fenomeno. Gli episodi di profanazione crescono, in Francia, del 20 per cento l’anno; nel 2007 sono stati 144, e se il trend prosegue saranno, nel 2008, quasi 170. Ma il dato inaspettato è che dei 144 episodi dell’anno scorso, solo nove riguardavano tombe musulmane e cinque ebraiche; per il resto, a essere presi di mira sono stati i cimiteri cristiani, i cimiteri di paese con i loro sconosciuti defunti francesi. Solo una piccola parte delle profanazioni sono state trovate tracce sataniste.
E dunque l’accanimento, secondo l’indagine parlamentare, è semplicemente vandalico.
Quasi una notte ogni due un piccolo cimitero di provincia viene violato. Da chi? Tra i colpevoli individuati, otto su dieci erano minorenni, e spesso giovanissimi. Nessuna motivazione ideologica: lo avevano fatto, semplicemente, per gioco. Quando in un Paese di antica civiltà gli adolescenti trovano 'normale' andare a profanare, nelle sere di noia, i cimiteri, viene da chiedersi se qualcosa non si è interrotto nella trasmissione generazionale delle coordinate del vivere. Qualcosa non è passato dai padri ai figli.
Che idea avranno della morte i ragazzi che vanno a bere birra fra le tombe, che vandalizzano le lapidi di morti sconosciuti?
Forse non hanno mai visto davvero, da vicino, con i loro occhi, la morte di una persona cara – in un mondo che nasconde come un tabù quegli ultimi giorni, che allontana da casa i vecchi moribondi. E invece, hanno visto migliaia di morti virtuali su uno schermo; così che credono di sapere cos’è la morte, e niente invece sanno di quella vera – del terreo pallore su una faccia amata, che toglie ogni parola. La morte virtuale, la morte dei videogiochi, è così finta e astratta che non meraviglia che ci si possa scherzare, a sedici anni, se si è cresciuti nel vuoto. E in fondo anche l’indifferenza che permette di dare un calcio a una foto su una lapide è figlia di quella mancanza di immaginazione che affligge molti, nella generazione svezzata a tv e Internet: hanno davanti, su quelle tombe, un volto che rimanda a un uomo, alla sua storia, e non vedono, non sanno pensare che è stato un figlio, un ragazzo, uno come loro. Davanti a un sepolcro, non riconoscono l’uomo. E tuttavia questo triste gioco rivela anche, in fondo, una domanda censurata. Benché profanatori, i ragazzi dei cimiteri rivelano, nel loro scavalcare quei cancelli, come una stordita, confusa curiosità. La morte vera non l’hanno vista, né gliene hanno mai parlato apertamente. La morte è l’ultimo tabù, ciò di cui non si deve parlare, e se accade come si è lesti, anche tra amici, a cambiare argomento. Ma a sedici anni le domande galleggiano nel cuore, magari non coscientemente espresse. Com’è, cos’è la morte?
E se la si andasse a spiare da vicino? Forse è questo ciò che spinge bande di ragazzini a violare serrati cancelli. Ma oltre quei muri trovano solo pietre e silenzio. L’apparenza esteriore della morte, se non ti è stata annunciata un’altra vita, né alcun senso, può atterrire. Le tombe mute, ai figli lasciati soli dai padri, sembrano la promessa del nulla. Uno sfregio, una cornice infranta tra i cocci di bottiglia sono le tracce, all’alba, delle incursioni di profanatori adolescenti. Giovani barbari ignari, cui nessuno ha annunciato una credibile speranza.


L’AUTODETERMINAZIONE ERETTA A SISTEMA NELLA VICENDA ENGLARO - Quando l’illuminista dimentica che la vita è relazione - DOMENICO DELLE FOGLIE – Avvenire, 11 dicembre 2008
D i analogie forzose e forzate ce n’è una gran quantità, ma questa davvero supera ogni possibile immaginazione. Sostiene Maurizio Mori, bioeticista di impronta marcatamente laicista, nell’introduzione al suo libro Il caso Eluana Englaro,
che «come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita». Porta Pia come il paradigma di «un’aurorale democrazia in Italia», il 'caso Englaro' come il viatico per «un aurorale controllo della propria vita da parte delle persone». C’è quanto basta per confermare quello che tanti di noi sanno o intuiscono, ma che raramente traspare con altrettanta nettezza alla coscienza anche dei più sofisticati e più sottili opinionisti e commentatori. Laici compresi, che in queste circostanze spesso assumono le sembianze delle anime belle, così ingenue da sembrare finte. E cioè che dietro il cosiddetto 'caso Englaro' (orribile definizione che oscura una persona in carne e ossa la quale non è un pre-morto come troppo spesso si vuol far intendere) si celano ben altre mire, culturali e politiche.
Intendendo per politiche quelle proprie alla dimensione dell’agire collettivo che è il frutto di mille estenuanti mediazioni, sino al punto di rendere plausibile l’inaccettabile, com’è la sorte decisa dai giudici per Eluana. Ovvero, di morire per fame e per sete, avendo stabilito con una sentenza che vengano interrotte l’idratazione e l’alimentazione. Ma quello di Mori è un pensiero forte che va adeguatamente contrastato, a partire dalla principale applicazione della sua analogia.
Come la breccia di Porta Pia, prendendo in prestito le parole pronunciate dall’allora cardinale Giovanni Battista Montini sarà rivalutata dalla storia perché «la Provvidenza aveva diversamente disposto», così la 'breccia di Eluana' porterà ad una nuova 'conciliazione'. Ci sembra davvero irrituale proporre un nesso fra un pezzo di storia del nostro Risorgimento, e più in generale il cosiddetto potere temporale della Chiesa, e la dimensione antropologica evocata dalla vicenda dolorosissima di Eluana Englaro. Se nel primo caso possiamo a giusta ragione evocare la lezione della storia, con vicende anche dolorose, ma pur sempre legate allo scorrere del tempo e all’azione diretta degli uomini, per Eluana occorre smuovere i valori più intimi dell’umanità. E tutta quella dimensione personalissima dei diritti che affonda le radici nell’umanesimo. E che non ha come esito inevitabile, come vuol far credere Mori, l’autodeterminazione assoluta. Bensì trova un concreto limite, questo sì umano, nella relazione come stigma della vita come noi la conosciamo. E soprattutto per come si è dispiegata nei secoli che hanno rafforzato la dimensione dei diritti, ma senza l’illusione di costruire il mondo perfetto sognato e prefigurato da tante ideologie di segno opposto.
Altrimenti non saremmo qui a invocare, ad esempio, la cancellazione totale della pena di morte. Ma quando si assolutizza un principio – è il caso di Mori con l’autodeterminazione – non si colgono le complessità e si glissa soprattutto sulla natura dell’uomo e sulla relazionalità che ne è un cardine imprescindibile, oggettivo.
Profondamente connaturato al suo essere.
Tanto che, se pure le tecnologie dovessero ampliare all’infinito le nostre capacità di pensare a noi stessi fuori da un contesto di comunità, è davvero impensabile un uomo privo di relazione. Relazione fra persona e persona, fra persona e comunità, fra persona e famiglia, fra la persona paziente e la persona medico. E così andare, in uno scambio che è sempre reciproco. In Mori c’è tutta la foga illuministica di chi vuole ridisegnare la vita umana secondo un metro unico, l’autodeterminazione sulla propria vita. È appena il caso di obiettare che ci sono legioni di uomini, donne e bambini che non sanno e non sapranno, nei secoli a venire, concepire se stessi fuori dalla vita di relazione. Che è vita vera. Per questa gente cosa prevede, nella sua esaltazione, l’illuminista di turno?
Temiamo il peggio.