Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: l’Epifania è “un mistero multiforme” - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 6 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo martedì da Benedetto XVI nel celebrare nella Basilica di San Pietro la Messa per la Solennità dell’Epifania del Signore.
2) Benedetto XVI: in Gesù si riflette il dramma dell’amore fedele di Dio - Discorso all’Angelus nella Solennità dell’Epifania del Signore
3) Benedetto XVI: in Gesù si rivela il mistero di un Dio vicino - Discorso introduttivo alla preghiera dell’Angelus
4) Benedetto XVI: “Cristo non ha organizzato campagne contro la povertà” - Ad introduzione dell'Angelus per la Solennità di Maria Santissima Madre di Dio
5) Omelia del Papa per il Te Deum di ringraziamento per il 2008
6) Benedetto XVI: la famiglia, specchio dell'amore gratuito di Dio - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
7) Messaggio di Benedetto XVI per il Natale 2008
8) Omelia di Benedetto XVI per la Messa di mezzanotte di Natale
9) GAZA/ Perché il sì a Israele non è un sì alla guerra - Mario Mauro - martedì 6 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) A tu per tu con la tenerezza di Dio 31.12.2008 – Antonio Socci
Benedetto XVI: l’Epifania è “un mistero multiforme” - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 6 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo martedì da Benedetto XVI nel celebrare nella Basilica di San Pietro la Messa per la Solennità dell’Epifania del Signore.
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Cari fratelli e sorelle!
L’Epifania, la "manifestazione" del nostro Signore Gesù Cristo, è un mistero multiforme. La tradizione latina lo identifica con la visita dei Magi al Bambino Gesù a Betlemme, e dunque lo interpreta soprattutto come rivelazione del Messia d’Israele ai popoli pagani. La tradizione orientale, invece, privilegia il momento del battesimo di Gesù nel fiume Giordano, quando egli si manifestò quale Figlio Unigenito del Padre celeste, consacrato dallo Spirito Santo. Ma il Vangelo di Giovanni invita a considerare "epifania" anche le nozze di Cana, dove Gesù, mutando l’acqua in vino, "manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui" (Gv 2,11). E che dovremmo dire noi, cari fratelli, specialmente noi sacerdoti della nuova Alleanza, che ogni giorno siamo testimoni e ministri dell’"epifania" di Gesù Cristo nella santa Eucaristia? Tutti i misteri del Signore la Chiesa li celebra in questo santissimo e umilissimo Sacramento, nel quale egli al tempo stesso rivela e nasconde la sua gloria. "Adoro te devote, latens Deitas" – adorando, preghiamo così con san Tommaso d’Aquino.
In questo anno 2009, che, nel 4° centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio, è stato dedicato in modo speciale all’astronomia, non possiamo non prestare particolare attenzione al simbolo della stella, tanto importante nel racconto evangelico dei Magi (cfr Mt 2,1-12). Essi erano con tutta probabilità degli astronomi. Dal loro punto di osservazione, posto ad oriente rispetto alla Palestina, forse in Mesopotamia, avevano notato l’apparire di un nuovo astro, ed avevano interpretato questo fenomeno celeste come annuncio della nascita di un re, precisamente, secondo le Sacre Scritture, del re dei Giudei (cfr Nm 24,17). I Padri della Chiesa hanno visto in questo singolare episodio narrato da san Matteo anche una sorta di "rivoluzione" cosmologica, causata dall’ingresso nel mondo del Figlio di Dio. Ad esempio, san Giovanni Crisostomo scrive: "Quando la stella giunse sopra il bambino, si fermò, e ciò poteva farlo soltanto una potenza che gli astri non hanno: prima, cioè, nascondersi, poi apparire di nuovo, e infine arrestarsi" (Omelie sul Vangelo di Matteo, 7, 3). San Gregorio di Nazianzo afferma che la nascita di Cristo impresse nuove orbite agli astri (cfr Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429). Il che è chiaramente da intendersi in senso simbolico e teologico. In effetti, mentre la teologia pagana divinizzava gli elementi e le forze del cosmo, la fede cristiana, portando a compimento la rivelazione biblica, contempla un unico Dio, Creatore e Signore dell’intero universo.
E’ l’amore divino, incarnato in Cristo, la legge fondamentale e universale del creato. Ciò va inteso invece in senso non poetico, ma reale. Così lo intendeva del resto lo stesso Dante, quando, nel verso sublime che conclude il Paradiso e l’intera Divina Commedia, definisce Dio "l’amor che move il sole e l’altre stelle" (Paradiso, XXXIII, 145). Questo significa che le stelle, i pianeti, l’universo intero non sono governati da una forza cieca, non obbediscono alle dinamiche della sola materia. Non sono, dunque, gli elementi cosmici che vanno divinizzati, bensì, al contrario, in tutto e al di sopra di tutto vi è una volontà personale, lo Spirito di Dio, che in Cristo si è rivelato come Amore (cfr Enc. Spe salvi, 5). Se è così, allora gli uomini – come scrive san Paolo ai Colossesi – non sono schiavi degli "elementi del cosmo" (cfr Col 2,8), ma sono liberi, capaci cioè di relazionarsi alla libertà creatrice di Dio. Egli è all’origine di tutto e tutto governa non alla maniera di un freddo ed anonimo motore, ma quale Padre, Sposo, Amico, Fratello, quale Logos, "Parola-Ragione" che si è unita alla nostra carne mortale una volta per sempre ed ha condiviso pienamente la nostra condizione, manifestando la sovrabbondante potenza della sua grazia. C’è dunque nel cristianesimo una peculiare concezione cosmologica, che ha trovato nella filosofia e nella teologia medievali delle altissime espressioni. Essa, anche nella nostra epoca, dà segni interessanti di una nuova fioritura, grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali – sulle orme di Galileo – non rinunciano né alla ragione né alla fede, anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità.
Il pensiero cristiano paragona il cosmo ad un "libro" – così diceva anche lo stesso Galileo –, considerandolo come l’opera di un Autore che si esprime mediante la "sinfonia" del creato. All’interno di questa sinfonia si trova, a un certo punto, quello che si direbbe in linguaggio musicale un "assolo", un tema affidato ad un singolo strumento o ad una voce; ed è così importante che da esso dipende il significato dell’intera opera. Questo "assolo" è Gesù, a cui corrisponde, appunto, un segno regale: l’apparire di una nuova stella nel firmamento. Gesù è paragonato dagli antichi scrittori cristiani ad un nuovo sole. Secondo le attuali conoscenze astrofisiche, noi lo dovremmo paragonare ad una stella ancora più centrale, non solo per il sistema solare, ma per l’intero universo conosciuto. In questo misterioso disegno, al tempo stesso fisico e metafisico, che ha portato alla comparsa dell’essere umano quale coronamento degli elementi del creato, è venuto al mondo Gesù: "nato da donna" (Gal 4,4), come scrive san Paolo. Il Figlio dell’uomo riassume in sé la terra e il cielo, il creato e il Creatore, la carne e lo Spirito. E’ il centro del cosmo e della storia, perché in Lui si uniscono senza confondersi l’Autore e la sua opera.
Nel Gesù terreno si trova il culmine della creazione e della storia, ma nel Cristo risorto si va oltre: il passaggio, attraverso la morte, alla vita eterna anticipa il punto della "ricapitolazione" di tutto in Cristo (cfr Ef 1,10). Tutte le cose, infatti – scrive l’Apostolo –, "sono state create per mezzo di lui e in vista di lui" (Col 1,16). E proprio con la risurrezione dai morti Egli ha ottenuto "il primato su tutte le cose" (Col 1,18). Lo afferma Gesù stesso apparendo ai discepoli dopo la risurrezione: "A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra" (Mt 28,18). Questa consapevolezza sostiene il cammino della Chiesa, Corpo di Cristo, lungo i sentieri della storia. Non c’è ombra, per quanto tenebrosa, che possa oscurare la luce di Cristo. Per questo nei credenti in Cristo non viene mai meno la speranza, anche oggi, dinanzi alla grande crisi sociale ed economica che travaglia l’umanità, davanti all’odio e alla violenza distruttrice che non cessano di insanguinare molte regioni della terra, dinanzi all’egoismo e alla pretesa dell’uomo di ergersi come dio di se stesso, che conduce talora a pericolosi stravolgimenti del disegno divino circa la vita e la dignità dell’essere umano, circa la famiglia e l’armonia del creato. Il nostro sforzo di liberare la vita umana e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro, conserva il suo valore e il suo senso – ho annotato nella già citata Enciclica Spe salvi – anche se apparentemente non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili, perchè "è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire" (n. 35).
La signoria universale di Cristo si esercita in modo speciale sulla Chiesa. "Tutto infatti – si legge nella Lettera agli Efesini – [Dio] ha messo sotto i suoi piedi / e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, / la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose" (Ef 1,22-23). L’Epifania è la manifestazione del Signore, e di riflesso è la manifestazione della Chiesa, perché il Corpo non è separabile dal Capo. La prima lettura odierna, tratta dal cosiddetto Terzo Isaia, ci offre la prospettiva precisa per comprendere la realtà della Chiesa, quale mistero di luce riflessa: "Alzati, rivestiti di luce – dice il profeta rivolgendosi a Gerusalemme – perché viene la tua luce, / la gloria del Signore brilla sopra di te" (Is 60,1). La Chiesa è umanità illuminata, "battezzata" nella gloria di Dio, cioè nel suo amore, nella sua bellezza, nella sua signoria. La Chiesa sa che la propria umanità, con i suoi limiti e le sue miserie, pone in maggiore risalto l’opera dello Spirito Santo. Essa non può vantarsi di nulla se non nel suo Signore: non da lei proviene la luce, non è sua la gloria. Ma proprio questa è la sua gioia, che nessuno potrà toglierle: essere "segno e strumento" di Colui che è "lumen gentium", luce dei popoli (cfr Conc. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 1).
Cari amici, in questo anno paolino, la festa dell’Epifania invita la Chiesa e, in essa, ogni comunità ed ogni singolo fedele, ad imitare, come fece l’Apostolo delle genti, il servizio che la stella rese ai Magi d’Oriente guidandoli fino a Gesù (cfr san Leone Magno, Disc. 3 per l’Epifania, 5: PL 54, 244). Che cos’è stata la vita di Paolo, dopo la sua conversione, se non una "corsa" per portare ai popoli la luce di Cristo e, viceversa, condurre i popoli a Cristo? La grazia di Dio ha fatto di Paolo una "stella" per le genti. Il suo ministero è esempio e stimolo per la Chiesa a riscoprirsi essenzialmente missionaria e a rinnovare l’impegno per l’annuncio del Vangelo, specialmente a quanti ancora non lo conoscono. Ma, guardando a san Paolo, non possiamo dimenticare che la sua predicazione era tutta nutrita delle Sacre Scritture. Perciò, nella prospettiva della recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi, va riaffermato con forza che la Chiesa e i singoli cristiani possono essere luce, che guida a Cristo, solo se si nutrono assiduamente e intimamente della Parola di Dio. E’ la Parola che illumina, purifica, converte, non siamo certo noi. Della Parola di vita noi non siamo che servitori. Così Paolo concepiva se stesso e il suo ministero: un servizio al Vangelo. "Tutto io faccio per il Vangelo" – egli scrive (1 Cor 8,23). Così dovrebbe poter dire anche la Chiesa, ogni comunità ecclesiale, ogni Vescovo ed ogni presbitero: tutto io faccio per il Vangelo. Cari fratelli e sorelle, pregate per noi, Pastori della Chiesa, affinché, assimilando quotidianamente la Parola di Dio, possiamo trasmetterla fedelmente ai fratelli. Ma anche noi preghiamo per voi, fedeli tutti, perché ogni cristiano è chiamato per il Battesimo e la Confermazione ad annunciare Cristo luce del mondo, con la parola e la testimonianza della vita. Ci aiuti la Vergine Maria, Stella dell’evangelizzazione, a portare a compimento insieme questa missione, e interceda per noi dal cielo san Paolo, Apostolo delle genti. Amen.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Benedetto XVI: in Gesù si riflette il dramma dell’amore fedele di Dio - Discorso all’Angelus nella Solennità dell’Epifania del Signore
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 6 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questo martedì da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro, per la Solennità dell’Epifania del Signore.
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Cari fratelli e sorelle!
Celebriamo oggi la solennità dell’Epifania, la "Manifestazione" del Signore. Il Vangelo racconta come Gesù venne al mondo in grande umiltà e nascondimento. San Matteo, tuttavia, riferisce l’episodio dei Magi, che giunsero dall’oriente, guidati da una stella, per rendere omaggio al neonato re dei Giudei. Ogni volta che ascoltiamo questo racconto, siamo colpiti dal netto contrasto tra l’atteggiamento dei Magi, da una parte, e quello di Erode e dei Giudei, dall’altra. Dice infatti il Vangelo che, all’udire le parole dei Magi, "il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme" (Mt 2,3). Una reazione che può avere differenti comprensioni: Erode è allarmato, perché vede in colui che i Magi ricercano un concorrente per sé stesso e per i suoi figli. I capi e gli abitanti di Gerusalemme, invece, sembrano più che altro stupefatti, come risvegliati da un certo torpore, e bisognosi di riflettere. Isaia, in realtà, aveva preannunciato: "Un bambino è nato per noi, / ci è stato dato un figlio. / Sulle sue spalle è il potere / e il suo nome sarà: / Consigliere mirabile, / Dio potente, / Padre per sempre, / Principe della pace" (Is 9,5).
Perché dunque Gerusalemme rimane turbata? Pare che l’Evangelista voglia quasi anticipare quella che sarà poi la posizione dei sommi sacerdoti e del sinedrio, ma anche di parte del popolo, nei confronti di Gesù durante la sua vita pubblica. Di certo, risalta il fatto che la conoscenza delle Scritture e delle profezie messianiche non porta tutti ad aprirsi a Lui e alla sua parola. Viene alla mente che, nell’imminenza della passione, Gesù pianse su Gerusalemme, perché non aveva riconosciuto il tempo in cui era stata visitata (cfr Lc 19,44). Tocchiamo qui uno dei punti cruciali della teologia della storia: il dramma dell’amore fedele di Dio nella persona di Gesù, che "venne fra i suoi, / e i suoi non lo hanno accolto" (Gv 1,11). Alla luce di tutta la Bibbia, questo atteggiamento di ostilità, o ambiguità, o superficialità sta a rappresentare quello di ogni uomo e del "mondo" – in senso spirituale –, quando si chiude al mistero del vero Dio, il quale ci viene incontro nella disarmante mitezza dell’amore. Gesù, il "re dei Giudei" (cfr Gv 18,37), è il Dio della misericordia e della fedeltà; Egli vuole regnare nell’amore e nella verità e ci chiede di convertirci, di abbandonare le opere malvagie e di percorrere decisamente la via del bene.
"Gerusalemme", dunque, in questo senso siamo tutti noi! Ci aiuti la Vergine Maria, che ha accolto con fede Gesù, a non chiudere il nostro cuore al suo Vangelo di salvezza. Lasciamoci piuttosto conquistare e trasformare da Lui, l’"Emmanuele", Dio venuto tra noi per farci dono della sua pace e del suo amore.
Benedetto XVI: in Gesù si rivela il mistero di un Dio vicino - Discorso introduttivo alla preghiera dell’Angelus
BETLEMME, martedì, 6 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato domenica 4 gennaio da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle,
la liturgia ripropone oggi alla nostra meditazione lo stesso Vangelo proclamato nel giorno di Natale, cioè il Prologo di San Giovanni. Dopo il frastuono dei giorni scorsi con la corsa all’acquisto dei regali, la Chiesa ci invita nuovamente a contemplare il mistero del Natale di Cristo, per coglierne ancor più il significato profondo e l’importanza per la nostra vita. Si tratta di un testo mirabile, che offre una sintesi vertiginosa di tutta la fede cristiana. Parte dall’alto: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio" (Gv 1,1); ed ecco la novità inaudita e umanamente inconcepibile: "Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14a). Non è una figura retorica, ma un’esperienza vissuta! A riferirla è Giovanni, testimone oculare: "Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità" (Gv 1,14b). Non è la parola dotta di un rabbino o di un dottore della legge, ma la testimonianza appassionata di un umile pescatore che, attratto giovane da Gesù di Nazareth, nei tre anni di vita comune con Lui e con gli altri apostoli ne sperimentò l’amore – tanto da autodefinirsi "il discepolo che Gesù amava" –, lo vide morire in croce e apparire risorto, e ricevette poi con gli altri il suo Spirito. Da tutta questa esperienza, meditata nel suo cuore, Giovanni trasse un’intima certezza: Gesù è la Sapienza di Dio incarnata, è la sua Parola eterna fattasi uomo mortale.
Per un vero Israelita, che conosce le sacre Scritture, questo non è un controsenso, anzi, è il compimento di tutta l’antica Alleanza: in Gesù Cristo giunge a pienezza il mistero di un Dio che parla agli uomini come ad amici, che si rivela a Mosè nella Legge, ai sapienti e ai profeti. Conoscendo Gesù, stando con Lui, ascoltando la sua predicazione e vedendo i segni che Egli compiva, i discepoli hanno riconosciuto che in Lui si realizzavano tutte le Scritture. Come affermerà poi un autore cristiano: "Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento" (Ugo di San Vittore, De arca Noe, 2, 8). Ogni uomo e ogni donna ha bisogno di trovare un senso profondo per la propria esistenza. E per questo non bastano i libri, nemmeno le sacre Scritture. Il Bambino di Betlemme ci rivelar e ci comunica il vero "volto" di Dio buono e fedele, che ci ama e non ci abbandona nemmeno nella morte. "Dio, nessuno lo ha mai visto – conclude il Prologo di Giovanni –: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato" (Gv 1,18).
La prima ad aprire il cuore e a contemplare "il Verbo che si fece carne" è stata Maria, la Madre di Gesù. Un’umile ragazza di Galilea è diventata così la "sede della Sapienza"! Come l’apostolo Giovanni, ognuno di noi è invitato ad "accoglierla con sé" (Gv 19,27), per conoscere profondamente Gesù e sperimentarne l’amore fedele e inesauribile. E’ questo il mio augurio per ognuno di voi, cari fratelli e sorelle, all’inizio di questo nuovo anno.
Benedetto XVI: “Cristo non ha organizzato campagne contro la povertà” - Ad introduzione dell'Angelus per la Solennità di Maria Santissima Madre di Dio
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata questo giovedì da Benedetto XVI al termine della Santa Messa nella Solennità di Maria Santissima Madre di Dio e nella ricorrenza della 42a Giornata Mondiale della Pace.
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Cari fratelli e sorelle!
In questo primo giorno dell’anno, sono lieto di rivolgere a tutti voi, presenti in Piazza San Pietro, e a quanti sono con noi collegati mediante la radio e la televisione i più fervidi auguri di pace e di ogni bene. Sono auguri che la fede cristiana rende, per così dire, "affidabili", ancorandoli all’avvenimento che in questi giorni stiamo celebrando: l’Incarnazione del Verbo di Dio, nato dalla Vergine Maria. In effetti, con la grazia del Signore – e solo con essa – possiamo sempre nuovamente sperare che il futuro sia migliore del passato. Non si tratta, infatti, di confidare in una sorte più favorevole, o nei moderni intrecci del mercato e della finanza, ma di sforzarsi di essere noi stessi un poco più buoni e responsabili, per poter contare sulla benevolenza del Signore. E questo è sempre possibile, perché "Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio" (Eb 1,2) e continuamente ci parla, mediante la predicazione del Vangelo e mediante la voce della nostra coscienza. In Gesù Cristo è stata mostrata a tutti gli uomini la via della salvezza, che è prima di tutto una redenzione spirituale, ma che coinvolge interamente l’umano, comprendendo anche la dimensione sociale e storica.
Perciò, mentre celebra la divina Maternità di Maria Santissima, la Chiesa in questa che, da oltre 40 anni, è la Giornata Mondiale della Pace, indica a tutti Gesù Cristo quale Principe della pace. Secondo la tradizione iniziata dal servo di Dio Papa Paolo VI, ho scritto per tale circostanza uno speciale Messaggio, scegliendo come tema: "Combattere la povertà, costruire la pace". In questo modo desidero ancora una volta mettermi in dialogo con i responsabili delle Nazioni e degli Organismi internazionali, offrendo il contributo della Chiesa cattolica per la promozione di un ordine mondiale degno dell’uomo. All’inizio di un nuovo anno, il mio primo obiettivo è proprio quello di invitare tutti, governanti e semplici cittadini, a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà e ai fallimenti, ma di rinnovare il loro impegno. La seconda parte del 2008 ha fatto emergere una crisi economica di vaste proporzioni. Tale crisi va letta in profondità, come un sintomo grave che richiede di intervenire sulle cause. Non basta – come direbbe Gesù – porre rattoppi nuovi su un vestito vecchio (cfr Mc 2,21). Mettere i poveri al primo posto significa passare decisamente a quella solidarietà globale che già Giovanni Paolo II aveva indicato come necessaria, concertando le potenzialità del mercato con quelle della società civile (cfr Messaggio, 12), nel costante rispetto della legalità e tendendo sempre al bene comune.
Gesù Cristo non ha organizzato campagne contro la povertà, ma ha annunciato ai poveri il Vangelo, per un riscatto integrale dalla miseria morale e materiale. Lo stesso fa la Chiesa, con la sua opera incessante di evangelizzazione e promozione umana. Invochiamo la Vergine Maria, Madre di Dio, perché aiuti tutti gli uomini a camminare insieme sulla Via della pace.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno fatto pervenire espressioni augurali per il nuovo anno. In particolare, esprimo la mia riconoscenza al Signor Presidente della Repubblica Italiana e con viva cordialità rinnovo a lui ed all’intera Nazione italiana i migliori voti di pace e di prosperità.
Saluto con gioia i partecipanti alla marcia intitolata "Pacem in terris", promossa dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma e in settanta Paesi del mondo. Esprimo il mio apprezzamento per le innumerevoli iniziative di preghiera e riflessione sul tema della pace, tra le quali ricordo quella della Conferenza Episcopale Italiana, svoltasi ieri sera a Palermo. L’anno nuovo inizia con il passo dei cercatori di pace. Grazie di questi gesti! Il Signore ci aiuti e ci dia la pace!
Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare le famiglie del Movimento dell’Amore Familiare, che questa notte hanno vegliato in Piazza San Pietro pregando per la pace nei cuori, nelle famiglie e tra i popoli. Saluto i Giovani dell’Opera Don Orione partecipanti al "Capodanno Alternativo", gli studenti e gli insegnanti di Comunione e Liberazione di Genova e gli Sbandieratori di Capalbio. A tutti auguro una buona festa e un anno ricco di ogni bene.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Omelia del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2009
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo giovedì mattina, nella Basilica Vaticana, la celebrazione della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio nell’ottava di Natale e in occasione della 42a Giornata Mondiale della Pace sul tema: "Combattere la povertà, costruire la pace".
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Venerati Fratelli,
Signori Ambasciatori,
cari fratelli e sorelle!
Nel primo giorno dell’anno, la divina Provvidenza ci raduna per una celebrazione che ogni volta ci commuove per la ricchezza e la bellezza delle sue corrispondenze: il Capodanno civile s’incontra con il culmine dell’ottava di Natale, in cui si celebra la Divina Maternità di Maria, e questo incontro trova una sintesi felice nella Giornata Mondiale della Pace. Nella luce del Natale di Cristo, mi è gradito rivolgere a ciascuno i migliori auguri per l’anno appena iniziato. Li porgo, in particolare, al Cardinale Renato Raffaele Martino ed ai suoi collaboratori del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, con speciale riconoscenza per il loro prezioso servizio. Li porgo, al tempo stesso, al Segretario di Stato, Cardinale Tarcisio Bertone, e all’intera Segreteria di Stato; come pure, con viva cordialità, ai Signori Ambasciatori presenti oggi in gran numero. I miei voti fanno eco all’augurio che il Signore stesso ci ha appena indirizzato, nella liturgia della Parola. Una Parola che, a partire dall’avvenimento di Betlemme, rievocato nella sua concretezza storica dal Vangelo di Luca (2,16-21), e riletto in tutta la sua portata salvifica dall’apostolo Paolo (Gal 4,4-7), diventa benedizione per il popolo di Dio e per l’intera umanità.
Viene così portata a compimento l’antica tradizione ebraica della benedizione (Nm 6,22-27): i sacerdoti d’Israele benedicevano il popolo "ponendo su di esso il nome" del Signore. Con una formula ternaria – presente nella prima lettura – il sacro Nome veniva invocato per tre volte sui fedeli, quale auspicio di grazia e di pace. Questa remota usanza ci riporta ad una realtà essenziale: per poter camminare sulla via della pace, gli uomini e i popoli hanno bisogno di essere illuminati dal "volto" di Dio ed essere benedetti dal suo "nome". Proprio questo si è avverato in modo definitivo con l’Incarnazione: la venuta del Figlio di Dio nella nostra carne e nella storia ha portato una irrevocabile benedizione, una luce che più non si spegne e che offre ai credenti e agli uomini di buona volontà la possibilità di costruire la civiltà dell’amore e della pace.
Il Concilio Vaticano II ha detto, a questo riguardo, che "con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo" (Gaudium et spes, 22). Questa unione è venuta a confermare l’originario disegno di un’umanità creata ad "immagine e somiglianza" di Dio. In realtà, il Verbo incarnato è l’unica immagine perfetta e consustanziale del Dio invisibile. Gesù Cristo è l’uomo perfetto. "In Lui - osserva ancora il Concilio - la natura umana è stata assunta…, perciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime" (ibid.). Per questo la storia terrena di Gesù, culminata nel mistero pasquale, è l’inizio di un mondo nuovo, perché ha realmente inaugurato una nuova umanità, capace, sempre e solo con la grazia di Cristo, di operare una "rivoluzione" pacifica. Una rivoluzione non ideologica ma spirituale, non utopistica ma reale, e per questo bisognosa di infinita pazienza, di tempi talora lunghissimi, evitando qualunque scorciatoia e percorrendo la via più difficile: la via della maturazione della responsabilità nelle coscienze.
Cari amici, questa è la via evangelica alla pace, la via che anche il Vescovo di Roma è chiamato a riproporre con costanza ogni volta che mette mano all’annuale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace. Percorrendo questa strada occorre talvolta ritornare su aspetti e problematiche già affrontati, ma così importanti da richiedere sempre nuova attenzione. E’ il caso del tema che ho scelto per il Messaggio di quest’anno: "Combattere la povertà, costruire la pace". Un tema che si presta a un duplice ordine di considerazioni, che ora posso solo brevemente accennare. Da una parte la povertà scelta e proposta da Gesù, dall’altra la povertà da combattere per rendere il mondo più giusto e solidale.
Il primo aspetto trova il suo contesto ideale in questi giorni, nel tempo di Natale. La nascita di Gesù a Betlemme ci rivela che Dio ha scelto la povertà per se stesso nella sua venuta in mezzo a noi. La scena che i pastori videro per primi, e che confermò l’annuncio fatto loro dall’angelo, è quella di una stalla dove Maria e Giuseppe avevano cercato rifugio, e di una mangiatoia in cui la Vergine aveva deposto il Neonato avvolto in fasce (cfr Lc 2,7.12.16). Questa povertà Dio l’ha scelta. Ha voluto nascere così – ma potremmo subito aggiungere: ha voluto vivere, e anche morire così. Perché? Lo spiega in termini popolari sant’Alfonso Maria de’ Liguori, in un cantico natalizio, che tutti in Italia conoscono: "A Te, che sei del mondo il Creatore, mancano panni e fuoco, o mio Signore. Caro eletto pargoletto, quanto questa povertà più m’innamora, giacché ti fece amor povero ancora". Ecco la risposta: l’amore per noi ha spinto Gesù non soltanto a farsi uomo, ma a farsi povero. In questa stessa linea possiamo citare l’espressione di san Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: "Conoscete infatti – egli scrive – la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà" (8,9). Testimone esemplare di questa povertà scelta per amore è san Francesco d’Assisi. Il francescanesimo, nella storia della Chiesa e della civiltà cristiana, costituisce una diffusa corrente di povertà evangelica, che tanto bene ha fatto e continua a fare alla Chiesa e alla famiglia umana. Ritornando alla stupenda sintesi di san Paolo su Gesù, è significativo – anche per la nostra riflessione odierna – che sia stata ispirata all’Apostolo proprio mentre stava esortando i cristiani di Corinto ad essere generosi nella colletta in favore dei poveri. Egli spiega: "Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza" (8,13).
E’ questo un punto decisivo, che ci fa passare al secondo aspetto: c’è una povertà, un’indigenza, che Dio non vuole e che va "combattuta" – come dice il tema dell’odierna Giornata Mondiale della Pace; una povertà che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, minaccia la convivenza pacifica. In questa accezione negativa rientrano anche le forme di povertà non materiale che si riscontrano pure nelle società ricche e progredite: emarginazione, miseria relazionale, morale e spirituale (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 2). Nel mio Messaggio ho voluto ancora una volta, sulla scia dei miei Predecessori, considerare attentamente il complesso fenomeno della globalizzazione, per valutarne i rapporti con la povertà su larga scala. Di fronte a piaghe diffuse quali le malattie pandemiche (ivi, 4), la povertà dei bambini (ivi, 5) e la crisi alimentare (ivi, 7), ho dovuto purtroppo tornare a denunciare l’inaccettabile corsa ad accrescere gli armamenti. Da una parte si celebra la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e dall’altra si aumentano le spese militari, violando la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna a ridurle al minimo (cfr art. 26). Inoltre, la globalizzazione elimina certe barriere, ma può costruirne di nuove (Messaggio cit., 8), perciò bisogna che la comunità internazionale e i singoli Stati siano sempre vigilanti; bisogna che non abbassino mai la guardia rispetto ai pericoli di conflitto, anzi, si impegnino a mantenere alto il livello della solidarietà. L’attuale crisi economica globale va vista in tal senso anche come un banco di prova: siamo pronti a leggerla, nella sua complessità, quale sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo.
Occorre allora cercare di stabilire un "circolo virtuoso" tra la povertà "da scegliere" e la povertà "da combattere". Si apre qui una via feconda di frutti per il presente e per il futuro dell’umanità, che si potrebbe riassumere così: per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace di tutti, occorre riscoprire la sobrietà e la solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso universali. Più in concreto, non si può combattere efficacemente la miseria, se non si fa quello che scrive san Paolo ai Corinzi, cioè se non si cerca di "fare uguaglianza", riducendo il dislivello tra chi spreca il superfluo e chi manca persino del necessario. Ciò comporta scelte di giustizia e di sobrietà, scelte peraltro obbligate dall’esigenza di amministrare saggiamente le limitate risorse della terra. Quando afferma che Gesù Cristo ci ha arricchiti "con la sua povertà", san Paolo offre un’indicazione importante non solo sotto il profilo teologico, ma anche sul piano sociologico. Non nel senso che la povertà sia un valore in sé, ma perché essa è condizione per realizzare la solidarietà. Quando Francesco d’Assisi si spoglia dei suoi beni, fa una scelta di testimonianza ispiratagli direttamente da Dio, ma nello stesso tempo mostra a tutti la via della fiducia nella Provvidenza. Così, nella Chiesa, il voto di povertà è l’impegno di alcuni, ma ricorda a tutti l’esigenza del distacco dai beni materiali e il primato delle ricchezze dello spirito. Ecco dunque il messaggio da raccogliere oggi: la povertà della nascita di Cristo a Betlemme, oltre che oggetto di adorazione per i cristiani, è anche scuola di vita per ogni uomo. Essa ci insegna che per combattere la miseria, tanto materiale quanto spirituale, la via da percorrere è quella della solidarietà, che ha spinto Gesù a condividere la nostra condizione umana.
Cari fratelli e sorelle, penso che la Vergine Maria si sia posta più di una volta questa domanda: perché Gesù ha voluto nascere da una ragazza semplice e umile come me? E poi, perché ha voluto venire al mondo in una stalla ed avere come prima visita quella dei pastori di Betlemme? La risposta Maria l’ebbe pienamente alla fine, dopo aver deposto nel sepolcro il corpo di Gesù, morto e avvolto in fasce (cfr Lc 23,53). Allora comprese appieno il mistero della povertà di Dio. Comprese che Dio si era fatto povero per noi, per arricchirci della sua povertà piena d’amore, per esortarci a frenare l’ingordigia insaziabile che suscita lotte e divisioni, per invitarci a moderare la smania di possedere e ad essere così disponibili alla condivisione e all’accoglienza reciproca. A Maria, Madre del Figlio di Dio fattosi nostro fratello, rivolgiamo fiduciosi la nostra preghiera, perché ci aiuti a seguirne le orme, a combattere e vincere la povertà, a costruire la vera pace, che è opus iustitiae. A Lei affidiamo il profondo desiderio di vivere in pace che sale dal cuore della grande maggioranza delle popolazioni israeliana e palestinese, ancora una volta messe a repentaglio dalla massiccia violenza scoppiata nella striscia di Gaza in risposta ad altra violenza. Anche la violenza, anche l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – "da combattere". Che esse non prendano il sopravvento! In tal senso i Pastori di quelle Chiese, in questi tristi giorni, hanno fatto udire la loro voce. Insieme ad essi e ai loro carissimi fedeli, soprattutto quelli della piccola ma fervente parrocchia di Gaza, deponiamo ai piedi di Maria le nostre preoccupazioni per il presente e i timori per il futuro, ma altresì la fondata speranza che, con il saggio e lungimirante contributo di tutti, non sarà impossibile ascoltarsi, venirsi incontro e dare risposte concrete all’aspirazione diffusa a vivere in pace, in sicurezza, in dignità. Diciamo a Maria: accompagnaci, celeste Madre del Redentore, lungo tutto l’anno che oggi inizia, e ottieni da Dio il dono della pace per la Terrasanta e per l’intera umanità. Santa Madre di Dio, prega per noi. Amen.
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Omelia del Papa per il Te Deum di ringraziamento per il 2008
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’omelia pronunciata dal Papa la sera del 31 dicembre nel presiedere nella Basilica vaticana i primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, a cui ha fatto seguito il canto del tradizionale inno Te Deum di ringraziamento a conclusione del 2008.
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Cari fratelli e sorelle!
L’anno che si chiude e quello che si annuncia all’orizzonte sono posti entrambi sotto lo sguardo benedicente della Santissima Madre di Dio. Ci richiama la sua materna presenza anche l’artistica scultura lignea policroma posta qui, accanto all’altare, che la raffigura in trono con il Bambino benedicente. Celebriamo i Primi Vespri di questa solennità mariana, e numerosi sono in essi i riferimenti liturgici al mistero della divina maternità della Vergine.
"O admirabile commercium! Meraviglioso scambio!". Così inizia l’antifona del primo salmo, per poi proseguire: "Il Creatore ha preso un’anima e un corpo, è nato da una vergine". "Quando in modo unico sei nato dalla Vergine hai compiuto le Scritture", proclama l’antifona del secondo salmo, a cui fanno eco le parole della terza antifona che ci ha introdotti al cantico tratto dalla Lettera di Paolo agli Efesini: "Integra è la tua verginità, Madre di Dio: noi ti lodiamo, tu prega per noi". La divina maternità di Maria viene sottolineata anche nella Lettura breve poc’anzi proclamata, che ripropone i ben noti versetti della Lettera ai Galati: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna…perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). Ed ancora, nel tradizionale Te Deum, che eleveremo al termine della nostra celebrazione dinanzi al Santissimo Sacramento solennemente esposto alla nostra adorazione, canteremo: "Tu, ad liberandum suscepturus hominem, non horruisti Virginis uterum", in italiano: "Tu, o Cristo, nascesti dalla Vergine Madre per la salvezza dell’uomo".
Tutto dunque, questa sera, ci invita a volgere lo sguardo verso Colei che "accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò al mondo la vita" e proprio per questo – ricorda il Concilio Vaticano II - "viene riconosciuta e onorata come vera Madre di Dio" (Cost. Lumen gentium, 53). Il Natale di Cristo, che in questi giorni commemoriamo, è interamente soffuso della luce di Maria e, mentre nel presepe ci soffermiamo a contemplare il Bambino, lo sguardo non può non volgersi riconoscente anche verso la Madre, che con il suo "sì" ha reso possibile il dono della Redenzione. Ecco perché il tempo natalizio porta con sé una profonda connotazione mariana; la nascita di Gesù, uomo-Dio e la maternità divina di Maria sono realtà tra loro inscindibili; il mistero di Maria ed il mistero dell’unigenito Figlio di Dio che si fa uomo, formano un unico mistero, dove l’uno aiuta a meglio comprendere l’altro.
Maria Madre di Dio – Theotokos, Dei Genetrix. Fin dall’antichità, la Madonna venne onorata con questo titolo. In occidente, tuttavia, non si trova per tanti secoli una specifica festa dedicata alla maternità divina di Maria. La introdusse nella Chiesa latina il Papa Pio XI nel 1931, in occasione del 15° centenario del Concilio di Efeso, e la collocò all’11 ottobre. In tale data iniziò, nel 1962, il Concilio Ecumenico Vaticano II. Fu poi il servo di Dio Paolo VI, nel 1969, riprendendo un’antica tradizione, a fissare questa solennità al primo gennaio. E nell’Esortazione apostolica Marialis cultus del 2 febbraio 1974 spiegò il perché di questa scelta e la sua connessione con la Giornata Mondiale della Pace. "Nel ricomposto ordinamento del periodo natalizio – scrisse Paolo VI – ci sembra che la comune attenzione debba essere rivolta alla ripristinata solennità di Maria Ss Madre di Dio: essa… è destinata a celebrare la parte avuta da Maria in questo mistero di salvezza e ad esaltare la singolare dignità che ne deriva per la Madre santa…; ed è, altresì, un’occasione propizia per innovare l’adorazione al neonato Principe della Pace, per riascoltare il lieto annuncio angelico (cfr Lc 2,14), per implorare da Dio, mediante la Regina della Pace, il dono supremo della pace" (n. 5 in: Insegnamenti di Paolo VI, XII 1974, pp. 105–106).
Questa sera vogliamo porre nelle mani della celeste Madre di Dio il nostro corale inno di ringraziamento al Signore per i benefici che lungo i passati dodici mesi ci ha ampiamente concessi. Il primo sentimento, che nasce spontaneo nel cuore questa sera, è proprio di lode e di azione di grazie a Colui che ci fa dono del tempo, preziosa opportunità per compiere il bene; uniamo la richiesta di perdono per non averlo forse sempre utilmente impiegato. Sono contento di condividere questo ringraziamento con voi , cari fratelli e sorelle, che rappresentate l’intera nostra Comunità diocesana, alla quale rivolgo il mio cordiale saluto, estendendolo a tutti gli abitanti di Roma. Un particolare saluto indirizzo al Cardinale Vicario e al Sindaco, i quali entrambi hanno iniziato quest’anno le loro diverse missioni – l’una spirituale e religiosa, l’altra civile ed amministrativa – al servizio di questa nostra città. Il mio saluto si estende ai Vescovi Ausiliari, ai sacerdoti, alle persone consacrate ed ai tanti fedeli laici qui convenuti, come pure alle Autorità presenti. Venendo nel mondo, il Verbo eterno del Padre ci ha rivelato la vicinanza di Dio e la verità ultima sull’uomo e sul suo destino eterno; è venuto a restare con noi per essere il nostro insostituibile sostegno, specialmente nelle inevitabili difficoltà di ogni giorno. E questa sera la Vergine stessa ci ricorda quale grande dono Gesù ci ha fatto con la sua nascita, quale prezioso "tesoro" costituisce per noi la sua Incarnazione. Nel suo Natale Gesù viene ad offrire la sua Parola come lampada che guida i nostri passi; viene ad offrire se stesso e di Lui, nostra certa speranza, dobbiamo saper rendere ragione nella nostra esistenza quotidiana, consapevoli che "solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo" (Gaudium et spes, 22).
La presenza di Cristo è un dono che dobbiamo saper condividere con tutti. A questo mira lo sforzo che la Comunità diocesana sta conducendo per la formazione degli operatori pastorali, affinché siano in grado di rispondere alle sfide che la cultura moderna pone alla fede cristiana. La presenza di numerose e qualificate istituzioni accademiche a Roma e le tante iniziative promosse dalle parrocchie ci fanno guardare con fiducia al futuro del cristianesimo in questa città. L’incontro con Cristo, voi lo sapete bene, rinnova l’esistenza personale e ci aiuta a contribuire alla costruzione di una società giusta e fraterna. Ecco allora che, come credenti, si può dare un grande contributo anche per superare l’attuale emergenza educativa. Quanto mai utile è allora che cresca la sinergia fra le famiglie, la scuola e le parrocchie per una evangelizzazione profonda e per una coraggiosa promozione umana, capaci di comunicare a quanti più è possibile la ricchezza che scaturisce dall’incontro con Cristo. Incoraggio per questo ogni componente della nostra Diocesi a proseguire il cammino intrapreso, attuando insieme il programma dell’anno pastorale in corso, che mira appunto ad "educare alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza".
In questi nostri tempi, segnati da incertezza e preoccupazione per l’avvenire, è necessario sperimentare la viva presenza di Cristo. E’ Maria, Stella della speranza, che a Lui ci conduce. E’ Lei, con il suo materno amore, che può guidare a Gesù specialmente i giovani, i quali portano insopprimibile nel loro cuore la domanda sul senso dell’umana esistenza. So che diversi gruppi di genitori, incontrandosi per approfondire la loro vocazione, cercano nuove vie per aiutare i propri figli a rispondere ai grandi interrogativi esistenziali. Li esorto cordialmente, insieme con tutta la comunità cristiana, a testimoniare alle nuove generazioni la gioia che scaturisce dall’incontro con Gesù, il quale nascendo a Betlemme è venuto non a toglierci qualcosa, ma a donarci tutto.
Nella Notte di Natale ho avuto un ricordo speciale per i bambini, questa sera invece è soprattutto ai giovani che vorrei rivolgere la mia attenzione. Cari giovani, responsabili del futuro di questa nostra città, non abbiate paura del compito apostolico che il Signore vi affida, non esitate a scegliere uno stile di vita che non segua la mentalità edonistica corrente. Lo Spirito Santo vi assicura la forza necessaria per testimoniare la gioia della fede e la bellezza di essere cristiani. Le crescenti necessità dell’evangelizzazione richiedono numerosi operai nella vigna del Signore: non esitate a rispondergli prontamente se Egli vi chiama. La società ha bisogno di cittadini che non si preoccupino solo dei propri interessi perché, come ho ricordato il giorno di Natale, "il mondo va in rovina se ciascuno pensa solo a sé".
Cari fratelli e sorelle, quest’anno si chiude con la consapevolezza di una crescente crisi sociale ed economica, che ormai interessa il mondo intero; una crisi che chiede a tutti più sobrietà e solidarietà per venire in aiuto specialmente delle persone e delle famiglie in più serie difficoltà. La comunità cristiana si sta già impegnando e so che la Caritas diocesana e le altre organizzazioni benefiche fanno il possibile, ma è necessaria la collaborazione di tutti, perché nessuno può pensare di costruire da solo la propria felicità. Anche se all’orizzonte vanno disegnandosi non poche ombre sul nostro futuro, non dobbiamo avere paura. La nostra grande speranza di credenti è la vita eterna nella comunione di Cristo e di tutta la famiglia di Dio. Questa grande speranza ci dà la forza di affrontare e di superare le difficoltà della vita in questo mondo. La materna presenza di Maria ci assicura questa sera che Dio non ci abbandona mai, se noi ci affidiamo a Lui e seguiamo i suoi insegnamenti. A Maria, dunque, con filiale affetto e fiducia, presentiamo le attese e le speranze, come pure i timori e le difficoltà che ci abitano nel cuore, mentre ci congediamo dal 2008 e ci apprestiamo ad accogliere il 2009. Lei, la Vergine Madre, ci offre il Bambino che giace nella mangiatoia come nostra sicura speranza. Pieni di fiducia, potremo allora cantare a conclusione del Te Deum: "In te, Domine,speravi: non confundar in aeternum – Tu, Signore, sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno!". Sì, Signore, in Te speriamo, oggi e sempre; Tu sei la nostra speranza. Amen!
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Benedetto XVI: la famiglia, specchio dell'amore gratuito di Dio - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate il 28 dicembre scorso da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle!
In questa domenica, che segue il Natale del Signore, celebriamo con gioia la Santa Famiglia di Nazaret. Il contesto è il più adatto, perché il Natale è per eccellenza la festa della famiglia. Lo dimostrano tante tradizioni e consuetudini sociali, specialmente l’usanza di riunirsi insieme, in famiglia appunto, per i pasti festivi e per gli auguri e lo scambio dei doni; e, come non rilevare che in queste circostanze, il disagio e il dolore causati da certe ferite familiari vengono amplificati? Gesù ha voluto nascere e crescere in una famiglia umana; ha avuto la Vergine Maria come mamma e Giuseppe che gli ha fatto da padre; essi l’hanno allevato ed educato con immenso amore. La famiglia di Gesù merita davvero il titolo di "santa", perché è tutta presa dal desiderio di adempiere la volontà di Dio, incarnata nell’adorabile presenza di Gesù. Da una parte, è una famiglia come tutte e, in quanto tale, è modello di amore coniugale, di collaborazione, di sacrificio, di affidamento alla divina Provvidenza, di laboriosità e di solidarietà, insomma, di tutti quei valori che la famiglia custodisce e promuove, contribuendo in modo primario a formare il tessuto di ogni società. Al tempo stesso, però, la Famiglia di Nazaret è unica, diversa da tutte, per la sua singolare vocazione legata alla missione del Figlio di Dio. Proprio con questa sua unicità essa addita ad ogni famiglia, e in primo luogo alle famiglie cristiane, l’orizzonte di Dio, il primato dolce ed esigente della sua volontà, la prospettiva del Cielo al quale siamo destinati. Per tutto questo oggi rendiamo grazie a Dio, ma anche alla Vergine Maria e a San Giuseppe, che con tanta fede e disponibilità hanno cooperato al disegno di salvezza del Signore.
Per esprimere la bellezza e il valore della famiglia, oggi si sono date appuntamento a Madrid migliaia di persone. Ad esse voglio ora rivolgermi in lingua spagnola.
[Rivolgo ora un cordiale saluto ai partecipanti che si trovano riuniti a Madrid in questa commovente festa per pregare per la famiglia e impegnarsi a lavorare in favore di essa con forza e speranza. La famiglia è certamente una grazia di Dio, che lascia trasparire ciò che Egli stesso è: Amore. Un amore pienamente gratuito, che sostiene la fedeltà senza limiti, persino nei momenti di difficoltà o di abbattimento. Queste qualità si riscontrano in modo eminente nella Santa Famiglia, nella quale Gesù è venuto al mondo ed è cresciuto ricolmo di sapienza, con le cure premurose di Maria e la custodia fedele di san Giuseppe. Care famiglie, non lasciate che l’amore, l’apertura alla vita e i vincoli incomparabili che uniscono il vostro focolare si indeboliscano. Domandatelo costantemente al Signore, pregate uniti, affinché i vostri propositi siano illuminati dalla fede e corroborati dalla grazia divina sulla via verso la santità. In tal modo, con la gioia del vostro condividere tutto nell’amore, darete al mondo una bella testimonianza di quanto sia importante la famiglia per la persona umana e per la società. Il Papa sta al vostro fianco, pregando specialmente il Signore per quanti in ogni famiglia hanno maggiori necessità di salute, lavoro, conforto e compagnia. In questa preghiera dell’Angelus, vi affido tutti alla nostra Madre del cielo, la Santissima Vergine Maria]
Cari fratelli e sorelle, parlando della famiglia, non posso poi non ricordare che, dal 14 al 18 gennaio 2009, avrà luogo a Città del Messico il VI Incontro Mondiale delle Famiglie. Preghiamo sin d’ora per questo importante evento ecclesiale, e affidiamo al Signore ogni famiglia, specialmente quelle più provate dalle difficoltà della vita e dalle piaghe dell’incomprensione e della divisione. Il Redentore, nato a Betlemme, doni a tutte la serenità e la forza di camminare unite nella via del bene.
Messaggio di Benedetto XVI per il Natale 2008
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 25 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio di Benedetto XVI per il Natale 2008, rivolto dal Papa a mezzogiorno di questo giovedì, Solennità del Natale del Signore, ai fedeli presenti in Piazza San Pietro e a quanti lo ascoltavano attraverso la radio e la televisione.
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"Apparuit gratia Dei Salvatoris nostri omnibus hominibus" (Tit 2,11).
Cari fratelli e sorelle, con le parole dell'apostolo Paolo rinnovo il gioioso annuncio del Natale di Cristo: sì, oggi, "è apparsa a tutti gli uomini la grazia di Dio nostro Salvatore"!
E' apparsa! Questo è ciò che la Chiesa oggi celebra. La grazia di Dio, ricca di bontà e di tenerezza, non è più nascosta, ma "è apparsa", si è manifestata nella carne, ha mostrato il suo volto. Dove? A Betlemme. Quando? Sotto Cesare Augusto, durante il primo censimento, al quale fa cenno anche l'evangelista Luca. E chi è il rivelatore? Un neonato, il Figlio della Vergine Maria. In Lui è apparsa la grazia di Dio Salvatore nostro. Per questo quel Bambino si chiama Jehoshua, Gesù, che significa "Dio salva".
La grazia di Dio è apparsa: ecco perché il Natale è festa di luce. Non una luce totale, come quella che avvolge ogni cosa in pieno giorno, ma un chiarore che si accende nella notte e si diffonde a partire da un punto preciso dell'universo: dalla grotta di Betlemme, dove il divino Bambino è "venuto alla luce". In realtà, è Lui la luce stessa che si propaga, come ben raffigurano tanti dipinti della Natività. Lui è la luce, che apparendo rompe la caligine, dissipa le tenebre e ci permette di capire il senso ed il valore della nostra esistenza e della storia. Ogni presepe è un invito semplice ed eloquente ad aprire il cuore e la mente al mistero della vita. E' un incontro con la Vita immortale, che si è fatta mortale nella mistica scena del Natale; una scena che possiamo ammirare anche qui, in questa Piazza, come in innumerevoli chiese e cappelle del mondo intero, e in ogni casa dove è adorato il nome di Gesù.
La grazia di Dio è apparsa a tutti gli uomini. Sì, Gesù, il volto del Dio-che-salva, non si è manifestato solo per pochi, per alcuni, ma per tutti. E' vero, nella umile disadorna dimora di Betlemme lo hanno incontrato poche persone, ma Lui è venuto per tutti: giudei e pagani, ricchi e poveri, vicini e lontani, credenti e non credenti... tutti. La grazia soprannaturale, per volere di Dio, è destinata ad ogni creatura. Occorre però che l'essere umano l'accolga, pronunci il suo "sì", come Maria, affinché il cuore sia rischiarato da un raggio di quella luce divina. Ad accogliere il Verbo incarnato, in quella notte, furono Maria e Giuseppe che lo attendevano con amore ed i pastori, che vegliavano accanto alle greggi (cfr Lc 2,1-20). Una piccola comunità, dunque, che accorse ad adorare Gesù Bambino; una piccola comunità che rappresenta la Chiesa e tutti gli uomini di buona volontà. Anche oggi coloro che nella vita Lo attendono e Lo cercano incontrano il Dio che per amore si è fatto nostro fratello; quanti hanno il cuore proteso verso di Lui desiderano conoscere il suo volto e contribuire all'avvento del suo Regno. Gesù stesso lo dirà, nella sua predicazione: sono i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia (cfr Mt 5,3-10). Questi riconoscono in Gesù il volto di Dio e ripartono, come i pastori di Betlemme, rinnovati nel cuore dalla gioia del suo amore.
Fratelli e sorelle che mi ascoltate, a tutti gli uomini è destinato l'annuncio di speranza che costituisce il cuore del messaggio di Natale. Per tutti è nato Gesù e, come a Betlemme Maria lo offrì ai pastori, in questo giorno la Chiesa lo presenta all'intera umanità, perché ogni persona e ogni umana situazione possa sperimentare la potenza della grazia salvatrice di Dio, che sola può trasformare il male in bene, che sola può cambiare il cuore dell'uomo e renderlo un'"oasi" di pace.
Possano sperimentare la potenza della grazia salvatrice di Dio le numerose popolazioni che ancora vivono nelle tenebre e nell'ombra di morte (cfr Lc 1,79). La Luce divina di Betlemme si diffonda in Terrasanta, dove l'orizzonte sembra tornare a farsi cupo per gli israeliani e i palestinesi; si diffonda in Libano, in Iraq e ovunque nel Medio Oriente. Fecondi gli sforzi di quanti non si rassegnano alla logica perversa dello scontro e della violenza e privilegiano invece la via del dialogo e del negoziato, per comporre le tensioni interne ai singoli Paesi e trovare soluzioni giuste e durature ai conflitti che travagliano la regione. A questa Luce che trasforma e rinnova anelano gli abitanti dello Zimbabwe, in Africa, stretti da troppo tempo nella morsa di una crisi politica e sociale che, purtroppo, continua ad aggravarsi, come pure gli uomini e le donne della Repubblica Democratica del Congo, specialmente nella martoriata regione del Kivu, del Darfur, in Sudan, e della Somalia, le cui interminabili sofferenze sono tragica conseguenza dell'assenza di stabilità e di pace. Questa Luce attendono soprattutto i bambini di quei Paesi e di tutti i Paesi in difficoltà, affinché sia restituita speranza al loro avvenire.
Dove la dignità e i diritti della persona umana sono conculcati; dove gli egoismi personali o di gruppo prevalgono sul bene comune; dove si rischia di assuefarsi all'odio fratricida e allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo; dove lotte intestine dividono gruppi ed etnie e lacerano la convivenza; dove il terrorismo continua a colpire; dove manca il necessario per sopravvivere; dove si guarda con apprensione ad un futuro che sta diventando sempre più incerto, anche nelle Nazioni del benessere: là risplenda la Luce del Natale ed incoraggi tutti a fare la propria parte, in spirito di autentica solidarietà. Se ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina.
Cari fratelli e sorelle, oggi "è apparsa la grazia di Dio Salvatore" (cfr Tt 2,11), in questo nostro mondo, con le sue potenzialità e le sue debolezze, i suoi progressi e le sue crisi, con le sue speranze e le sue angosce. Oggi, rifulge la luce di Gesù Cristo, Figlio dell'Altissimo e figlio della Vergine Maria: "Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo". Lo adoriamo quest'oggi, in ogni angolo della terra, avvolto in fasce e deposto in una povera mangiatoia. Lo adoriamo in silenzio mentre Lui, ancora infante, sembra dirci a nostra consolazione: Non abbiate paura, "Io sono Dio, non ce n'è altri" (Is 45,22). Venite a me, uomini e donne, popoli e nazioni, venite a me, non temete: sono venuto a portarvi l'amore del Padre, a mostrarvi la via della pace.
Andiamo, dunque, fratelli! Affrettiamoci, come i pastori nella notte di Betlemme. Dio ci è venuto incontro e ci ha mostrato il suo volto, ricco di grazia e di misericordia! Non sia vana per noi la sua venuta! Cerchiamo Gesù, lasciamoci attirare dalla sua luce, che dissipa dal cuore dell'uomo la tristezza e la paura; avviciniamoci con fiducia; con umiltà prostriamoci per adorarlo. Buon Natale a tutti!
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Omelia di Benedetto XVI per la Messa di mezzanotte di Natale
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 25 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere, nella Basilica Vaticana, la Messa di mezzanotte per la Solennità del Natale del Signore.
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Cari fratelli e sorelle!
"Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell'alto e si china a guardare nei cieli e sulla terra?" Così canta Israele in uno dei suoi Salmi (113 [112], 5s), in cui esalta insieme la grandezza di Dio e la sua benevola vicinanza agli uomini. Dio dimora nell’alto, ma si china verso il basso… Dio è immensamente grande e di gran lunga al di sopra di noi. È questa la prima esperienza dell’uomo. La distanza sembra infinita. Il Creatore dell’universo, Colui che guida il tutto, è molto lontano da noi: così sembra inizialmente. Ma poi viene l’esperienza sorprendente: Colui al quale nessuno è pari, che "siede nell’alto", Questi guarda verso il basso. Si china in giù. Egli vede noi e vede me. Questo guardare in giù di Dio è più di uno sguardo dall’alto. Il guardare di Dio è un agire. Il fatto che Egli mi vede, mi guarda, trasforma me e il mondo intorno a me. Così il Salmo continua immediatamente: "Solleva l’indigente dalla polvere…" Con il suo guardare in giù Egli mi solleva, benevolmente mi prende per mano e mi aiuta a salire, proprio io, dal basso verso l’alto. "Dio si china". Questa parola è una parola profetica. Nella notte di Betlemme, essa ha acquistato un significato completamente nuovo. Il chinarsi di Dio ha assunto un realismo inaudito e prima inimmaginabile. Egli si china – viene, proprio Lui, come bimbo giù fin nella miseria della stalla, simbolo di ogni necessità e stato di abbandono degli uomini. Dio scende realmente. Diventa un bambino e si mette nella condizione di dipendenza totale che è propria di un essere umano appena nato. Il Creatore che tutto tiene nelle sue mani, dal quale noi tutti dipendiamo, si fa piccolo e bisognoso dell’amore umano. Dio è nella stalla. Nell’Antico Testamento il tempio era considerato quasi come lo sgabello dei piedi di Dio; l’arca sacra come il luogo in cui Egli, in modo misterioso, era presente in mezzo agli uomini. Così si sapeva che sopra il tempio, nascostamente, stava la nube della gloria di Dio. Ora essa sta sopra la stalla. Dio è nella nube della miseria di un bimbo senza albergo: che nube impenetrabile e tuttavia – nube della gloria! In che modo, infatti, la sua predilezione per l’uomo, la sua preoccupazione per lui potrebbe apparire più grande e più pura? La nube del nascondimento, della povertà del bambino totalmente bisognoso dell’amore, è allo stesso tempo la nube della gloria. Perché niente può essere più sublime, più grande dell’amore che in questa maniera si china, discende, si rende dipendente. La gloria del vero Dio diventa visibile quando ci si aprono gli occhi del cuore davanti alla stalla di Betlemme.
Il racconto del Natale secondo san Luca, che abbiamo appena ascoltato nel brano evangelico, ci narra che Dio ha un po’ sollevato il velo del suo nascondimento dapprima davanti a persone di condizione molto bassa, davanti a persone che nella grande società erano piuttosto disprezzate: davanti ai pastori che nei campi intorno a Betlemme facevano la guardia agli animali. Luca ci dice che queste persone "vegliavano". Possiamo così sentirci richiamati a un motivo centrale del messaggio di Gesù, in cui ripetutamente e con crescente urgenza fino all’Orto degli ulivi torna l’invito alla vigilanza – a restare svegli per accorgersi della venuta del Signore ed esservi preparati. Pertanto anche qui la parola significa forse più del semplice essere esternamente svegli durante l’ora notturna. Erano persone veramente vigilanti, nelle quali il senso di Dio e della sua vicinanza era vivo. Persone che erano in attesa di Dio e non si rassegnavano all’apparente lontananza di Lui nella vita di ogni giorno. Ad un cuore vigilante può essere rivolto il messaggio della grande gioia: in questa notte è nato per voi il Salvatore. Solo il cuore vigilante è capace di credere al messaggio. Solo il cuore vigilante può infondere il coraggio di incamminarsi per trovare Dio nelle condizioni di un bambino nella stalla. Preghiamo il Signore affinché aiuti anche noi a diventare persone vigilanti.
San Luca ci racconta inoltre che i pastori stessi erano "avvolti" dalla gloria di Dio, dalla nube di luce, si trovavano nell’intimo splendore di questa gloria. Avvolti dalla nube santa ascoltano il canto di lode degli angeli: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini della sua benevolenza". E chi sono questi uomini della sua benevolenza se non i piccoli, i vigilanti, quelli che sono in attesa, sperano nella bontà di Dio e lo cercano guardando verso di Lui da lontano?
Nei Padri della Chiesa si può trovare un commento sorprendente circa il canto con cui gli angeli salutano il Redentore. Fino a quel momento – dicono i Padri – gli angeli avevano conosciuto Dio nella grandezza dell’universo, nella logica e nella bellezza del cosmo che provengono da Lui e Lo rispecchiano. Avevano accolto, per così dire, il muto canto di lode della creazione e l’avevano trasformato in musica del cielo. Ma ora era accaduta una cosa nuova, addirittura sconvolgente per loro. Colui di cui parla l’universo, il Dio che sostiene il tutto e lo porta in mano – Egli stesso era entrato nella storia degli uomini, era diventato uno che agisce e soffre nella storia. Dal gioioso turbamento suscitato da questo evento inconcepibile, da questa seconda e nuova maniera in cui Dio si era manifestato – dicono i Padri – era nato un canto nuovo, una strofa del quale il Vangelo di Natale ha conservato per noi: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini". Possiamo forse dire che, secondo la struttura della poesia ebraica, questo doppio versetto nei suoi due brani dice in fondo la stessa cosa, ma da un punto di vista diverso. La gloria di Dio è nell’alto dei cieli, ma questa altezza di Dio si trova ora nella stalla, ciò che era basso è diventato sublime. La sua gloria è sulla terra, è la gloria dell’umiltà e dell’amore. E ancora: la gloria di Dio è la pace. Dove c’è Lui, là c’è pace. Egli è là dove gli uomini non vogliono fare in modo autonomo della terra il paradiso, servendosi a tal fine della violenza. Egli è con le persone dal cuore vigilante; con gli umili e con coloro che corrispondono alla sua elevatezza, all’elevatezza dell’umiltà e dell’amore. A questi dona la sua pace, perché per loro mezzo la pace entri in questo mondo.
Il teologo medioevale Guglielmo di S. Thierry ha detto una volta: Dio – a partire da Adamo – ha visto che la sua grandezza provocava nell’uomo resistenza; che l’uomo si sente limitato nel suo essere se stesso e minacciato nella sua libertà. Pertanto Dio ha scelto una via nuova. È diventato un Bambino. Si è reso dipendente e debole, bisognoso del nostro amore. Ora – ci dice quel Dio che si è fatto Bambino – non potete più aver paura di me, ormai potete soltanto amarmi.
Con tali pensieri ci avviciniamo in questa notte al Bambino di Betlemme – a quel Dio che per noi ha voluto farsi bambino. Su ogni bambino c’è il riverbero del bambino di Betlemme. Ogni bambino chiede il nostro amore. Pensiamo pertanto in questa notte in modo particolare anche a quei bambini ai quali è rifiutato l’amore dei genitori. Ai bambini di strada che non hanno il dono di un focolare domestico. Ai bambini che vengono brutalmente usati come soldati e resi strumenti della violenza, invece di poter essere portatori della riconciliazione e della pace. Ai bambini che mediante l’industria della pornografia e di tutte le altre forme abominevoli di abuso vengono feriti fin nel profondo della loro anima. Il Bambino di Betlemme è un nuovo appello rivolto a noi, di fare tutto il possibile affinché finisca la tribolazione di questi bambini; di fare tutto il possibile affinché la luce di Betlemme tocchi i cuori degli uomini. Soltanto attraverso la conversione dei cuori, soltanto attraverso un cambiamento nell’intimo dell’uomo può essere superata la causa di tutto questo male, può essere vinto il potere del maligno. Solo se cambiano gli uomini, cambia il mondo e, per cambiare, gli uomini hanno bisogno della luce proveniente da Dio, di quella luce che in modo così inaspettato è entrata nella nostra notte.
E parlando del Bambino di Betlemme pensiamo anche alla località che risponde al nome di Betlemme; pensiamo a quel Paese in cui Gesù ha vissuto e che Egli ha amato profondamente. E preghiamo affinché lì si crei la pace. Che cessino l’odio e la violenza. Che si desti la comprensione reciproca, si realizzi un’apertura dei cuori che apra le frontiere. Che scenda la pace di cui hanno cantato gli angeli in quella notte.
Nel Salmo 96 [95] Israele, e con esso la Chiesa, lodano la grandezza di Dio che si manifesta nella creazione. Tutte le creature vengono chiamate ad aderire a questo canto di lode, e allora lì si trova anche l’invito: "Si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene" (12s). La Chiesa legge anche questo Salmo come una profezia e, insieme, come un compito. La venuta di Dio a Betlemme fu silenziosa. Soltanto i pastori che vegliavano furono per un momento avvolti nello splendore luminoso del suo arrivo e poterono ascoltare una parte di quel canto nuovo che era nato dalla meraviglia e dalla gioia degli angeli per la venuta di Dio. Questo venire silenzioso della gloria di Dio continua attraverso i secoli. Là dove c’è la fede, dove la sua parola viene annunciata ed ascoltata, Dio raduna gli uomini e si dona loro nel suo Corpo, li trasforma nel suo Corpo. Egli "viene". E così si desta il cuore degli uomini. Il canto nuovo degli angeli diventa canto degli uomini che, attraverso tutti i secoli in modo sempre nuovo, cantano la venuta di Dio come bambino e, a partire dal loro intimo, diventano lieti. E gli alberi della foresta si recano da Lui ed esultano. L’albero in Piazza san Pietro parla di Lui, vuole trasmettere il suo splendore e dire: Sì, Egli è venuto e gli alberi della foresta lo acclamano. Gli alberi nelle città e nelle case dovrebbero essere più di un’usanza festosa: essi indicano Colui che è la ragione della nostra gioia – il Dio che per noi si è fatto bambino. Il canto di lode, nel più profondo, parla infine di Colui che è lo stesso albero della vita ritrovato. Nella fede in Lui riceviamo la vita. Nel Sacramento dell’Eucaristia Egli si dona a noi – dona una vita che giunge fin nell’eternità. In quest’ora noi aderiamo al canto di lode della creazione e la nostra lode è allo stesso tempo una preghiera: Sì, Signore, facci vedere qualcosa dello splendore della tua gloria. E dona la pace sulla terra. Rendici uomini e donne della tua pace. Amen.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
GAZA/ Perché il sì a Israele non è un sì alla guerra - Mario Mauro - martedì 6 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Dopo due giorni dall'inizio dell'offensiva di terra a Gaza da parte dell'esercito israeliano con l'adeguamento del numero dei morti a oltre 500 rimane viva e anzi si rafforza la convinzione che Israele debba fermarsi. In un vortice di giudizi spesso affrettati da parte di autorevoli commentatori, ma anche di esponenti politici e Governi che si lasciano trasportare con troppa facilità dalla tentazione di schierarsi per forza totalmente e senza eccezioni in favore di una delle due parti in conflitto la posizione del Ministro Frattini e quindi del Governo italiano appare molto responsabile ed equilibrata: «Noi siamo fortemente preoccupati e ovviamente molto addolorati per le vite innocenti che i civili palestinesi pagano purtroppo questa situazione orrenda causata purtroppo da Hamas che ha violato la tregua, ma ovviamente facciamo un appello fortissimo e accorato a Israele perché eviti in assoluto azioni che possano compromettere la vita e l'incolumità fisica di tanti civili innocenti». La nota della Farnesina permette di spiegare meglio perché deve essere Israele ad avere un "sussulto di saggezza" e fare il primo passo verso il dialogo con la controparte palestinese. La prima motivazione risiede nel fatto che chiedere uno sforzo di responsabilità e di dialogo ad Hamas è completamente inutile: come tutti sappiamo si tratta di un movimento integralista che fonda la propria esistenza sulla volontà di distruggere lo Stato d'Israele. Lo Statuto di Hamas infatti richiede la distruzione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con un Stato islamico palestinese nella zona che ora è Israele, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. La stessa carta dichiara che "Non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihad". Usare la carta della diplomazia è ancora più difficile dopo che Hamas ha rotto la tregua, ma proprio perché siamo amici di Israele dobbiamo ribadire che l'azione di guerra non porterà alla soluzione dei problemi, ma rischia soltanto di aggravarli. Rischia innanzitutto una vera e propria catastrofe in termini di vittime civili, anche israeliane.
Rischia inoltre di provocare la folle reazione di tutte quelle forze terroristiche che attendono nuovi pretesti per sfogare il loro odio contro Israele e contro l'Occidente. Come ha dichiarato al Corriere della sera l'ex capo del comando centrale statunitense del Medio Oriente Anthony Zinni, che non può certo essere considerato filo Hamas, l'invasione di Israele nel territorio di Gaza "avrà successo a breve termine, ma a lungo termine alimenterà la spirale della violenza. Le file dei terroristi a Gaza si infoltiranno, i paesi arabi moderati si troveranno in difficoltà e in Medio Oriente crescerà l'antisemitismo. La questione palestinese non può essere risolta militarmente".
L'unica strada al momento percorribile è quella auspicata nell'ultimo comunicato della presidenza francese del Consiglio dell'Unione europea: iniziare il processo di pace come richiesto dalla Risoluzione Onu numero 1850, basare una soluzione sul processo iniziato ad Annan sulla costruzione di uno Stato palestinese in accordo con Israele, lavorare costantemente per una soluzione pacifica con Egitto e Lega araba che hanno dimostrato grandi sforzi di mediazione.
Dire Sì a Israele non significa dire Sì alla guerra. Allo stesso modo un cessate il fuoco non sarebbe affatto un accordo con i terroristi. Non sarebbe affatto l'inizio del dialogo con chi non vorrà mai dialogare.
Israele ha il sacrosanto diritto di difendersi dopo gli attacchi missilistici di Hamas, ma deve davvero comprendere che questa legittima difesa non deve passare attraverso la perdita di civili, perché tralasciare questo dettaglio vuol dire abbandonare del tutto la speranza nella pace, vuol dire togliere consistenza al pensiero stesso che si possa arrivare alla pace. In questo giudizio dobbiamo essere sempre coscienti del fatto che il male, terribilmente presente anche in ciascuno di noi e non solo in un nemico esterno (che cambia a seconda della parte con la quale ci si schiera), non deve vincere sul bene. Così che ogni giudizio e azione siano fattori di pace, di giustizia e di civiltà.
Durante l'ultimo Angelus Benedetto XVi ha affermato che “le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra. La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente”. Il riferimento alla “storia più recente” è una chiara citazione del mancato ascolto di Giovanni Paolo II quando invano implorò l’Iraq e la coalizione guidata dagli Stati Uniti di rinunciare alla guerra.
Per questo insieme a Roberto Formigoni e a diversi parlamentari italiani abbiamo promosso un appello che vuole fare eco alle parole del Papa evidenziando come la luce di verità che viene dalle parole della Chiesa costituisca un'opportunità anche per la buona politica.
A tu per tu con la tenerezza di Dio 31.12.2008 – Antonio Socci
Sant’Agostino, Bakhita, i santi del passato. Ma anche Andrea, Cilla, le testimonianze dell’ultimo Meeting. In modo inaspettato, nelle situazioni più drammatiche, è solo Cristo che può rispondere al cuore dell’uomo. E se diciamo di sì...
di Antonio Socci La padrona quel giorno si annoiava, così decise di far seviziare le tre ragazzine nere che aveva comprato come schiave: avevano circa 10 o 11 anni. Bakhita fu bloccata a terra e con un rasoio le fecero 114 tagli nella carne. Poi riempirono di sale le ferite. Così, per divertimento. Perché era considerata una cosa dai padroni musulmani. All’età di sette anni, nel 1876, era stata rapita nel suo villaggio sudanese e venduta come schiava quattro volte. Aveva conosciuto solo la ferocia.
Così è la storia umana senza Gesù. Joseph Ratzinger, nel suo Gesù di Nazaret, spiega che prima della venuta del Salvatore il mondo era infestato dai demoni. Dovunque hanno dominato la ferocia e la disumanità. Poi, un giorno, sono risuonate queste parole: «Ho visto la miseria del mio popolo… ho sentito il suo grido e sono sceso per liberarlo» (Es. 3,7). «Egli si è mostrato. Egli personalmente», duemila anni fa. E da allora ogni giorno, «in un fenomeno di umanità diversa», ci dice don Giussani. Pure quella disgraziata ragazza, Bakhita «vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita… non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile».
Bakhita neanche riusciva a sognarlo. Per circostanze casuali, a 16 anni fu portata dai padroni in Italia, a Venezia, e conobbe le suore canossiane. Fu colpita dalla loro umanità e dalla bontà di un vero cristiano, «uomo dal cuore d’oro» che era parente di colui che sarebbe diventato papa san Pio X e che le regalò un crocifisso: «Nel darmelo», ricorda la ragazza, «lo baciò con devozione, poi mi spiegò che Gesù Cristo, Figlio di Dio, era morto per noi». Bakhita restò abbagliata. Era morto per lei? Possibile che qualcuno l’amasse? Sì. Lo vedeva dai volti di «quelle sante madri che mi fecero conoscere Dio», specialmente la suora che la istruì: «Non posso ricordare senza piangere la cura che ebbe di me». Essendo tornati i padroni a riprenderla, per la prima volta, Bakhita, che non voleva più perdere Dio, si rifiutò di seguirli. Il 29 novembre 1889 il Patriarca di Venezia fece intervenire il procuratore del re, che dichiarò Bakhita libera dalla schiavitù. Lei restò in Italia, si fece battezzare, chiese di diventare suora e visse 78 anni «durante i quali sempre più ho conosciuto la bontà di Dio verso di me». Morta nel 1947, è stata proclamata santa nel 2000.
Non c’è situazione tanto estrema e drammatica che non possa essere raggiunta e liberata da Dio fatto uomo. Anche oggi, tempo di diverse schiavitù. E i lettori di Tracce lo sanno bene. Indimenticabile è la testimonianza di quel giovane, ammalato di Aids, Andrea, che due giorni prima di morire scrisse a don Giussani (la lettera è riportata ne Il tempo e il tempio). Ne ricordo dei brani: «Le scrivo solamente per dirle grazie; grazie di avere dato un senso a questa mia arida vita». Andrea spiegava così la sua gratitudine: «Sono un compagno delle superiori di Ziba… Quando Ziba recitava l’Angelus davanti a me che gli bestemmiavo in faccia, lo odiavo e gli dicevo che era un codardo perché l’unica cosa che sapeva fare era dire quelle stupide preghiere davanti a me. Ora, quando balbettando tento di dirlo con lui, capisco che il codardo ero io, perché non vedevo neppure ad un palmo dal naso la verità che mi stava di fronte. Grazie don Giussani, è l’unica cosa che un uomo come me può dirle. Grazie perché nelle lacrime posso dire che morire così ora ha un senso, non perché sia più bello - ho una gran paura di morire - ma perché ora so che c’è qualcuno che mi vuole bene e anch’io forse mi posso salvare e posso anch’io pregare affinché i compagni di letto incontrino e vedano come io ho visto e incontrato. Così mi sento utile… con l’unica cosa che ancora riesco ad usare bene (la voce) io posso essere utile; io che ho buttato via la vita posso fare del bene solamente dicendo l’Angelus. Penso che la mia più grande soddisfazione sia quella di averla conosciuta scrivendole questa lettera, ma la più grande ancora è che nella misericordia di Dio, se Lui vorrà, la conoscerò là dove tutto sarà nuovo, buono e vero. Nuovo, buono e vero come l’amicizia che lei ha portato nella vita di molte persone e della quale posso dire “anch’io c’ero”, anch’io in questa zozza vita ho visto e partecipato di questo avvenimento nuovo, buono e vero».
Una storia di oggi, insomma. Proprio come quelle, straordinarie, del Meeting 2008, appena raccolte da Paola Brizzi e Alberto Savorana nel volume Un’avventura per sé (vedi pagina 106; ndr), e così simili alle storie di duemila anni fa. Accadeva così anche nel IV secolo a quell’Agostino che era l’intellettuale più raffinato di Roma e poi di Milano dove era andato a insegnare nel 384 d.C.. Non gli mancava niente, né il successo accademico, né i beni, né l’amore femminile, né la soddisfazione della paternità, né gli svaghi, né l’amicizia con i potenti politici della città.
Eppure un inspiegabile male di vivere lo avvolgeva: «Ero infelice». Parla di «profondissimo tedio», di «paura della morte». Sarà l’incontro con Ambrogio - vescovo della città, che ha solo qualche anno più di lui - a colpirlo: «La dolcezza del suo dire mi dava piacere». Fa breccia in lui, lo affascina, ridimensiona anche l’orgoglio dell’intellettuale. «Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio».
La sua vita cambia. Ormai la «cupidigia di onori e guadagni… non avevano più forza, in confronto alla Tua dolcezza e allo splendore della Tua casa che amavo. Ma», confessa, «ero ancora attanagliato dalla donna», «le mie amanti di un tempo mi trattenevano». E ancora una volta sono degli incontri imprevisti a prevalere con l’attrattiva di una felicità più grande. Accade quando Ponticiano gli racconta che, a Treviri, due suoi amici hanno lasciato le fidanzate entrando in una comunità di vergini (le prime esperienze monastiche) e che lo stesso hanno fatto le due ragazze. Una nuova forma di vita che contagiava tanti giovani cristiani anche a Milano (dove erano seguiti da Ambrogio in persona). Agostino li incontra, ne è affascinato e coinvolto. Più avanti confesserà: «Tardi ti ho amato, o Bellezza, sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo ed io nella mia deformità mi gettavo sulle cose ben fatte che tu avevi creato. Tu eri con me ed io non ero con te. Quelle bellezze esteriori mi tenevano lontano da te e tuttavia se esse non fossero state in te non sarebbero affatto esistite. Tu mi hai chiamato e hai squarciato la mia sordità; tu hai brillato su di me e hai dissipato la mia cecità; ho gustato e ora ho fame e sete; tu mi hai toccato e io bramo la tua pace».
A distanza di molti secoli la stessa sete di felicità e lo stesso stupore commosso si trova nella vita di un’adolescente piemontese, altra presenza familiare ai lettori di questo giornale. Dal libro che don Primo Soldi ha dedicato a Cilla colgo due flash. Prima dell’«incontro», questa ragazza, quindicenne, ma così profonda e intelligente, in calce al suo diario, nelle “comunicazioni alla famiglia”, scrive di sé: «Signore, le comunico che sua figlia è sola. Signore le comunico che sua figlia non è felice. Signore le comunico che sua figlia vuole amare e non ci riesce».
E un giorno accade qualcosa. La semplicità di un invito delle amiche, che stanno iniziando il cammino di Cl, alla preghiera delle Lodi. Un lampo di meraviglia. Cilla annota: «È la prima volta che prego così… Credo di aver perso una delle cose più importanti della mia vita». Nel giro di poche settimane, con la scoperta di una vita nuova e di un’amicizia vera, la fioritura imprevista. Nel suo Diario si legge: «Prima non esistevo. Sono nata nel momento in cui ho capito cos’è la comunità: il mezzo che mi ha portato a Cristo».
In ogni epoca Gesù si è fatto incontrare in «un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita». Dice Agostino: «Dio si è fatto uomo. Saresti morto per sempre se Lui non fosse nato nel tempo. Mai saresti stato libero dalla carne del peccato, se Lui non avesse assunto una carne simile a quella del peccato. Ti saresti trovato sempre in uno stato di miseria, se Lui non ti avesse usato misericordia. Non saresti ritornato a vivere, se Lui non avesse condiviso la tua morte. Saresti venuto meno, se Lui non fosse venuto in tuo aiuto. Ti saresti perduto, se Lui non fosse arrivato».
Da “Tracce”, dicembre 2008
1) Benedetto XVI: l’Epifania è “un mistero multiforme” - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 6 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo martedì da Benedetto XVI nel celebrare nella Basilica di San Pietro la Messa per la Solennità dell’Epifania del Signore.
2) Benedetto XVI: in Gesù si riflette il dramma dell’amore fedele di Dio - Discorso all’Angelus nella Solennità dell’Epifania del Signore
3) Benedetto XVI: in Gesù si rivela il mistero di un Dio vicino - Discorso introduttivo alla preghiera dell’Angelus
4) Benedetto XVI: “Cristo non ha organizzato campagne contro la povertà” - Ad introduzione dell'Angelus per la Solennità di Maria Santissima Madre di Dio
5) Omelia del Papa per il Te Deum di ringraziamento per il 2008
6) Benedetto XVI: la famiglia, specchio dell'amore gratuito di Dio - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
7) Messaggio di Benedetto XVI per il Natale 2008
8) Omelia di Benedetto XVI per la Messa di mezzanotte di Natale
9) GAZA/ Perché il sì a Israele non è un sì alla guerra - Mario Mauro - martedì 6 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) A tu per tu con la tenerezza di Dio 31.12.2008 – Antonio Socci
Benedetto XVI: l’Epifania è “un mistero multiforme” - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 6 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo martedì da Benedetto XVI nel celebrare nella Basilica di San Pietro la Messa per la Solennità dell’Epifania del Signore.
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Cari fratelli e sorelle!
L’Epifania, la "manifestazione" del nostro Signore Gesù Cristo, è un mistero multiforme. La tradizione latina lo identifica con la visita dei Magi al Bambino Gesù a Betlemme, e dunque lo interpreta soprattutto come rivelazione del Messia d’Israele ai popoli pagani. La tradizione orientale, invece, privilegia il momento del battesimo di Gesù nel fiume Giordano, quando egli si manifestò quale Figlio Unigenito del Padre celeste, consacrato dallo Spirito Santo. Ma il Vangelo di Giovanni invita a considerare "epifania" anche le nozze di Cana, dove Gesù, mutando l’acqua in vino, "manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui" (Gv 2,11). E che dovremmo dire noi, cari fratelli, specialmente noi sacerdoti della nuova Alleanza, che ogni giorno siamo testimoni e ministri dell’"epifania" di Gesù Cristo nella santa Eucaristia? Tutti i misteri del Signore la Chiesa li celebra in questo santissimo e umilissimo Sacramento, nel quale egli al tempo stesso rivela e nasconde la sua gloria. "Adoro te devote, latens Deitas" – adorando, preghiamo così con san Tommaso d’Aquino.
In questo anno 2009, che, nel 4° centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio, è stato dedicato in modo speciale all’astronomia, non possiamo non prestare particolare attenzione al simbolo della stella, tanto importante nel racconto evangelico dei Magi (cfr Mt 2,1-12). Essi erano con tutta probabilità degli astronomi. Dal loro punto di osservazione, posto ad oriente rispetto alla Palestina, forse in Mesopotamia, avevano notato l’apparire di un nuovo astro, ed avevano interpretato questo fenomeno celeste come annuncio della nascita di un re, precisamente, secondo le Sacre Scritture, del re dei Giudei (cfr Nm 24,17). I Padri della Chiesa hanno visto in questo singolare episodio narrato da san Matteo anche una sorta di "rivoluzione" cosmologica, causata dall’ingresso nel mondo del Figlio di Dio. Ad esempio, san Giovanni Crisostomo scrive: "Quando la stella giunse sopra il bambino, si fermò, e ciò poteva farlo soltanto una potenza che gli astri non hanno: prima, cioè, nascondersi, poi apparire di nuovo, e infine arrestarsi" (Omelie sul Vangelo di Matteo, 7, 3). San Gregorio di Nazianzo afferma che la nascita di Cristo impresse nuove orbite agli astri (cfr Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429). Il che è chiaramente da intendersi in senso simbolico e teologico. In effetti, mentre la teologia pagana divinizzava gli elementi e le forze del cosmo, la fede cristiana, portando a compimento la rivelazione biblica, contempla un unico Dio, Creatore e Signore dell’intero universo.
E’ l’amore divino, incarnato in Cristo, la legge fondamentale e universale del creato. Ciò va inteso invece in senso non poetico, ma reale. Così lo intendeva del resto lo stesso Dante, quando, nel verso sublime che conclude il Paradiso e l’intera Divina Commedia, definisce Dio "l’amor che move il sole e l’altre stelle" (Paradiso, XXXIII, 145). Questo significa che le stelle, i pianeti, l’universo intero non sono governati da una forza cieca, non obbediscono alle dinamiche della sola materia. Non sono, dunque, gli elementi cosmici che vanno divinizzati, bensì, al contrario, in tutto e al di sopra di tutto vi è una volontà personale, lo Spirito di Dio, che in Cristo si è rivelato come Amore (cfr Enc. Spe salvi, 5). Se è così, allora gli uomini – come scrive san Paolo ai Colossesi – non sono schiavi degli "elementi del cosmo" (cfr Col 2,8), ma sono liberi, capaci cioè di relazionarsi alla libertà creatrice di Dio. Egli è all’origine di tutto e tutto governa non alla maniera di un freddo ed anonimo motore, ma quale Padre, Sposo, Amico, Fratello, quale Logos, "Parola-Ragione" che si è unita alla nostra carne mortale una volta per sempre ed ha condiviso pienamente la nostra condizione, manifestando la sovrabbondante potenza della sua grazia. C’è dunque nel cristianesimo una peculiare concezione cosmologica, che ha trovato nella filosofia e nella teologia medievali delle altissime espressioni. Essa, anche nella nostra epoca, dà segni interessanti di una nuova fioritura, grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali – sulle orme di Galileo – non rinunciano né alla ragione né alla fede, anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità.
Il pensiero cristiano paragona il cosmo ad un "libro" – così diceva anche lo stesso Galileo –, considerandolo come l’opera di un Autore che si esprime mediante la "sinfonia" del creato. All’interno di questa sinfonia si trova, a un certo punto, quello che si direbbe in linguaggio musicale un "assolo", un tema affidato ad un singolo strumento o ad una voce; ed è così importante che da esso dipende il significato dell’intera opera. Questo "assolo" è Gesù, a cui corrisponde, appunto, un segno regale: l’apparire di una nuova stella nel firmamento. Gesù è paragonato dagli antichi scrittori cristiani ad un nuovo sole. Secondo le attuali conoscenze astrofisiche, noi lo dovremmo paragonare ad una stella ancora più centrale, non solo per il sistema solare, ma per l’intero universo conosciuto. In questo misterioso disegno, al tempo stesso fisico e metafisico, che ha portato alla comparsa dell’essere umano quale coronamento degli elementi del creato, è venuto al mondo Gesù: "nato da donna" (Gal 4,4), come scrive san Paolo. Il Figlio dell’uomo riassume in sé la terra e il cielo, il creato e il Creatore, la carne e lo Spirito. E’ il centro del cosmo e della storia, perché in Lui si uniscono senza confondersi l’Autore e la sua opera.
Nel Gesù terreno si trova il culmine della creazione e della storia, ma nel Cristo risorto si va oltre: il passaggio, attraverso la morte, alla vita eterna anticipa il punto della "ricapitolazione" di tutto in Cristo (cfr Ef 1,10). Tutte le cose, infatti – scrive l’Apostolo –, "sono state create per mezzo di lui e in vista di lui" (Col 1,16). E proprio con la risurrezione dai morti Egli ha ottenuto "il primato su tutte le cose" (Col 1,18). Lo afferma Gesù stesso apparendo ai discepoli dopo la risurrezione: "A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra" (Mt 28,18). Questa consapevolezza sostiene il cammino della Chiesa, Corpo di Cristo, lungo i sentieri della storia. Non c’è ombra, per quanto tenebrosa, che possa oscurare la luce di Cristo. Per questo nei credenti in Cristo non viene mai meno la speranza, anche oggi, dinanzi alla grande crisi sociale ed economica che travaglia l’umanità, davanti all’odio e alla violenza distruttrice che non cessano di insanguinare molte regioni della terra, dinanzi all’egoismo e alla pretesa dell’uomo di ergersi come dio di se stesso, che conduce talora a pericolosi stravolgimenti del disegno divino circa la vita e la dignità dell’essere umano, circa la famiglia e l’armonia del creato. Il nostro sforzo di liberare la vita umana e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro, conserva il suo valore e il suo senso – ho annotato nella già citata Enciclica Spe salvi – anche se apparentemente non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili, perchè "è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire" (n. 35).
La signoria universale di Cristo si esercita in modo speciale sulla Chiesa. "Tutto infatti – si legge nella Lettera agli Efesini – [Dio] ha messo sotto i suoi piedi / e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, / la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose" (Ef 1,22-23). L’Epifania è la manifestazione del Signore, e di riflesso è la manifestazione della Chiesa, perché il Corpo non è separabile dal Capo. La prima lettura odierna, tratta dal cosiddetto Terzo Isaia, ci offre la prospettiva precisa per comprendere la realtà della Chiesa, quale mistero di luce riflessa: "Alzati, rivestiti di luce – dice il profeta rivolgendosi a Gerusalemme – perché viene la tua luce, / la gloria del Signore brilla sopra di te" (Is 60,1). La Chiesa è umanità illuminata, "battezzata" nella gloria di Dio, cioè nel suo amore, nella sua bellezza, nella sua signoria. La Chiesa sa che la propria umanità, con i suoi limiti e le sue miserie, pone in maggiore risalto l’opera dello Spirito Santo. Essa non può vantarsi di nulla se non nel suo Signore: non da lei proviene la luce, non è sua la gloria. Ma proprio questa è la sua gioia, che nessuno potrà toglierle: essere "segno e strumento" di Colui che è "lumen gentium", luce dei popoli (cfr Conc. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 1).
Cari amici, in questo anno paolino, la festa dell’Epifania invita la Chiesa e, in essa, ogni comunità ed ogni singolo fedele, ad imitare, come fece l’Apostolo delle genti, il servizio che la stella rese ai Magi d’Oriente guidandoli fino a Gesù (cfr san Leone Magno, Disc. 3 per l’Epifania, 5: PL 54, 244). Che cos’è stata la vita di Paolo, dopo la sua conversione, se non una "corsa" per portare ai popoli la luce di Cristo e, viceversa, condurre i popoli a Cristo? La grazia di Dio ha fatto di Paolo una "stella" per le genti. Il suo ministero è esempio e stimolo per la Chiesa a riscoprirsi essenzialmente missionaria e a rinnovare l’impegno per l’annuncio del Vangelo, specialmente a quanti ancora non lo conoscono. Ma, guardando a san Paolo, non possiamo dimenticare che la sua predicazione era tutta nutrita delle Sacre Scritture. Perciò, nella prospettiva della recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi, va riaffermato con forza che la Chiesa e i singoli cristiani possono essere luce, che guida a Cristo, solo se si nutrono assiduamente e intimamente della Parola di Dio. E’ la Parola che illumina, purifica, converte, non siamo certo noi. Della Parola di vita noi non siamo che servitori. Così Paolo concepiva se stesso e il suo ministero: un servizio al Vangelo. "Tutto io faccio per il Vangelo" – egli scrive (1 Cor 8,23). Così dovrebbe poter dire anche la Chiesa, ogni comunità ecclesiale, ogni Vescovo ed ogni presbitero: tutto io faccio per il Vangelo. Cari fratelli e sorelle, pregate per noi, Pastori della Chiesa, affinché, assimilando quotidianamente la Parola di Dio, possiamo trasmetterla fedelmente ai fratelli. Ma anche noi preghiamo per voi, fedeli tutti, perché ogni cristiano è chiamato per il Battesimo e la Confermazione ad annunciare Cristo luce del mondo, con la parola e la testimonianza della vita. Ci aiuti la Vergine Maria, Stella dell’evangelizzazione, a portare a compimento insieme questa missione, e interceda per noi dal cielo san Paolo, Apostolo delle genti. Amen.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Benedetto XVI: in Gesù si riflette il dramma dell’amore fedele di Dio - Discorso all’Angelus nella Solennità dell’Epifania del Signore
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 6 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questo martedì da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro, per la Solennità dell’Epifania del Signore.
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Cari fratelli e sorelle!
Celebriamo oggi la solennità dell’Epifania, la "Manifestazione" del Signore. Il Vangelo racconta come Gesù venne al mondo in grande umiltà e nascondimento. San Matteo, tuttavia, riferisce l’episodio dei Magi, che giunsero dall’oriente, guidati da una stella, per rendere omaggio al neonato re dei Giudei. Ogni volta che ascoltiamo questo racconto, siamo colpiti dal netto contrasto tra l’atteggiamento dei Magi, da una parte, e quello di Erode e dei Giudei, dall’altra. Dice infatti il Vangelo che, all’udire le parole dei Magi, "il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme" (Mt 2,3). Una reazione che può avere differenti comprensioni: Erode è allarmato, perché vede in colui che i Magi ricercano un concorrente per sé stesso e per i suoi figli. I capi e gli abitanti di Gerusalemme, invece, sembrano più che altro stupefatti, come risvegliati da un certo torpore, e bisognosi di riflettere. Isaia, in realtà, aveva preannunciato: "Un bambino è nato per noi, / ci è stato dato un figlio. / Sulle sue spalle è il potere / e il suo nome sarà: / Consigliere mirabile, / Dio potente, / Padre per sempre, / Principe della pace" (Is 9,5).
Perché dunque Gerusalemme rimane turbata? Pare che l’Evangelista voglia quasi anticipare quella che sarà poi la posizione dei sommi sacerdoti e del sinedrio, ma anche di parte del popolo, nei confronti di Gesù durante la sua vita pubblica. Di certo, risalta il fatto che la conoscenza delle Scritture e delle profezie messianiche non porta tutti ad aprirsi a Lui e alla sua parola. Viene alla mente che, nell’imminenza della passione, Gesù pianse su Gerusalemme, perché non aveva riconosciuto il tempo in cui era stata visitata (cfr Lc 19,44). Tocchiamo qui uno dei punti cruciali della teologia della storia: il dramma dell’amore fedele di Dio nella persona di Gesù, che "venne fra i suoi, / e i suoi non lo hanno accolto" (Gv 1,11). Alla luce di tutta la Bibbia, questo atteggiamento di ostilità, o ambiguità, o superficialità sta a rappresentare quello di ogni uomo e del "mondo" – in senso spirituale –, quando si chiude al mistero del vero Dio, il quale ci viene incontro nella disarmante mitezza dell’amore. Gesù, il "re dei Giudei" (cfr Gv 18,37), è il Dio della misericordia e della fedeltà; Egli vuole regnare nell’amore e nella verità e ci chiede di convertirci, di abbandonare le opere malvagie e di percorrere decisamente la via del bene.
"Gerusalemme", dunque, in questo senso siamo tutti noi! Ci aiuti la Vergine Maria, che ha accolto con fede Gesù, a non chiudere il nostro cuore al suo Vangelo di salvezza. Lasciamoci piuttosto conquistare e trasformare da Lui, l’"Emmanuele", Dio venuto tra noi per farci dono della sua pace e del suo amore.
Benedetto XVI: in Gesù si rivela il mistero di un Dio vicino - Discorso introduttivo alla preghiera dell’Angelus
BETLEMME, martedì, 6 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato domenica 4 gennaio da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle,
la liturgia ripropone oggi alla nostra meditazione lo stesso Vangelo proclamato nel giorno di Natale, cioè il Prologo di San Giovanni. Dopo il frastuono dei giorni scorsi con la corsa all’acquisto dei regali, la Chiesa ci invita nuovamente a contemplare il mistero del Natale di Cristo, per coglierne ancor più il significato profondo e l’importanza per la nostra vita. Si tratta di un testo mirabile, che offre una sintesi vertiginosa di tutta la fede cristiana. Parte dall’alto: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio" (Gv 1,1); ed ecco la novità inaudita e umanamente inconcepibile: "Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14a). Non è una figura retorica, ma un’esperienza vissuta! A riferirla è Giovanni, testimone oculare: "Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità" (Gv 1,14b). Non è la parola dotta di un rabbino o di un dottore della legge, ma la testimonianza appassionata di un umile pescatore che, attratto giovane da Gesù di Nazareth, nei tre anni di vita comune con Lui e con gli altri apostoli ne sperimentò l’amore – tanto da autodefinirsi "il discepolo che Gesù amava" –, lo vide morire in croce e apparire risorto, e ricevette poi con gli altri il suo Spirito. Da tutta questa esperienza, meditata nel suo cuore, Giovanni trasse un’intima certezza: Gesù è la Sapienza di Dio incarnata, è la sua Parola eterna fattasi uomo mortale.
Per un vero Israelita, che conosce le sacre Scritture, questo non è un controsenso, anzi, è il compimento di tutta l’antica Alleanza: in Gesù Cristo giunge a pienezza il mistero di un Dio che parla agli uomini come ad amici, che si rivela a Mosè nella Legge, ai sapienti e ai profeti. Conoscendo Gesù, stando con Lui, ascoltando la sua predicazione e vedendo i segni che Egli compiva, i discepoli hanno riconosciuto che in Lui si realizzavano tutte le Scritture. Come affermerà poi un autore cristiano: "Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento" (Ugo di San Vittore, De arca Noe, 2, 8). Ogni uomo e ogni donna ha bisogno di trovare un senso profondo per la propria esistenza. E per questo non bastano i libri, nemmeno le sacre Scritture. Il Bambino di Betlemme ci rivelar e ci comunica il vero "volto" di Dio buono e fedele, che ci ama e non ci abbandona nemmeno nella morte. "Dio, nessuno lo ha mai visto – conclude il Prologo di Giovanni –: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato" (Gv 1,18).
La prima ad aprire il cuore e a contemplare "il Verbo che si fece carne" è stata Maria, la Madre di Gesù. Un’umile ragazza di Galilea è diventata così la "sede della Sapienza"! Come l’apostolo Giovanni, ognuno di noi è invitato ad "accoglierla con sé" (Gv 19,27), per conoscere profondamente Gesù e sperimentarne l’amore fedele e inesauribile. E’ questo il mio augurio per ognuno di voi, cari fratelli e sorelle, all’inizio di questo nuovo anno.
Benedetto XVI: “Cristo non ha organizzato campagne contro la povertà” - Ad introduzione dell'Angelus per la Solennità di Maria Santissima Madre di Dio
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata questo giovedì da Benedetto XVI al termine della Santa Messa nella Solennità di Maria Santissima Madre di Dio e nella ricorrenza della 42a Giornata Mondiale della Pace.
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Cari fratelli e sorelle!
In questo primo giorno dell’anno, sono lieto di rivolgere a tutti voi, presenti in Piazza San Pietro, e a quanti sono con noi collegati mediante la radio e la televisione i più fervidi auguri di pace e di ogni bene. Sono auguri che la fede cristiana rende, per così dire, "affidabili", ancorandoli all’avvenimento che in questi giorni stiamo celebrando: l’Incarnazione del Verbo di Dio, nato dalla Vergine Maria. In effetti, con la grazia del Signore – e solo con essa – possiamo sempre nuovamente sperare che il futuro sia migliore del passato. Non si tratta, infatti, di confidare in una sorte più favorevole, o nei moderni intrecci del mercato e della finanza, ma di sforzarsi di essere noi stessi un poco più buoni e responsabili, per poter contare sulla benevolenza del Signore. E questo è sempre possibile, perché "Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio" (Eb 1,2) e continuamente ci parla, mediante la predicazione del Vangelo e mediante la voce della nostra coscienza. In Gesù Cristo è stata mostrata a tutti gli uomini la via della salvezza, che è prima di tutto una redenzione spirituale, ma che coinvolge interamente l’umano, comprendendo anche la dimensione sociale e storica.
Perciò, mentre celebra la divina Maternità di Maria Santissima, la Chiesa in questa che, da oltre 40 anni, è la Giornata Mondiale della Pace, indica a tutti Gesù Cristo quale Principe della pace. Secondo la tradizione iniziata dal servo di Dio Papa Paolo VI, ho scritto per tale circostanza uno speciale Messaggio, scegliendo come tema: "Combattere la povertà, costruire la pace". In questo modo desidero ancora una volta mettermi in dialogo con i responsabili delle Nazioni e degli Organismi internazionali, offrendo il contributo della Chiesa cattolica per la promozione di un ordine mondiale degno dell’uomo. All’inizio di un nuovo anno, il mio primo obiettivo è proprio quello di invitare tutti, governanti e semplici cittadini, a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà e ai fallimenti, ma di rinnovare il loro impegno. La seconda parte del 2008 ha fatto emergere una crisi economica di vaste proporzioni. Tale crisi va letta in profondità, come un sintomo grave che richiede di intervenire sulle cause. Non basta – come direbbe Gesù – porre rattoppi nuovi su un vestito vecchio (cfr Mc 2,21). Mettere i poveri al primo posto significa passare decisamente a quella solidarietà globale che già Giovanni Paolo II aveva indicato come necessaria, concertando le potenzialità del mercato con quelle della società civile (cfr Messaggio, 12), nel costante rispetto della legalità e tendendo sempre al bene comune.
Gesù Cristo non ha organizzato campagne contro la povertà, ma ha annunciato ai poveri il Vangelo, per un riscatto integrale dalla miseria morale e materiale. Lo stesso fa la Chiesa, con la sua opera incessante di evangelizzazione e promozione umana. Invochiamo la Vergine Maria, Madre di Dio, perché aiuti tutti gli uomini a camminare insieme sulla Via della pace.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno fatto pervenire espressioni augurali per il nuovo anno. In particolare, esprimo la mia riconoscenza al Signor Presidente della Repubblica Italiana e con viva cordialità rinnovo a lui ed all’intera Nazione italiana i migliori voti di pace e di prosperità.
Saluto con gioia i partecipanti alla marcia intitolata "Pacem in terris", promossa dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma e in settanta Paesi del mondo. Esprimo il mio apprezzamento per le innumerevoli iniziative di preghiera e riflessione sul tema della pace, tra le quali ricordo quella della Conferenza Episcopale Italiana, svoltasi ieri sera a Palermo. L’anno nuovo inizia con il passo dei cercatori di pace. Grazie di questi gesti! Il Signore ci aiuti e ci dia la pace!
Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare le famiglie del Movimento dell’Amore Familiare, che questa notte hanno vegliato in Piazza San Pietro pregando per la pace nei cuori, nelle famiglie e tra i popoli. Saluto i Giovani dell’Opera Don Orione partecipanti al "Capodanno Alternativo", gli studenti e gli insegnanti di Comunione e Liberazione di Genova e gli Sbandieratori di Capalbio. A tutti auguro una buona festa e un anno ricco di ogni bene.
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Omelia del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2009
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo giovedì mattina, nella Basilica Vaticana, la celebrazione della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio nell’ottava di Natale e in occasione della 42a Giornata Mondiale della Pace sul tema: "Combattere la povertà, costruire la pace".
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Venerati Fratelli,
Signori Ambasciatori,
cari fratelli e sorelle!
Nel primo giorno dell’anno, la divina Provvidenza ci raduna per una celebrazione che ogni volta ci commuove per la ricchezza e la bellezza delle sue corrispondenze: il Capodanno civile s’incontra con il culmine dell’ottava di Natale, in cui si celebra la Divina Maternità di Maria, e questo incontro trova una sintesi felice nella Giornata Mondiale della Pace. Nella luce del Natale di Cristo, mi è gradito rivolgere a ciascuno i migliori auguri per l’anno appena iniziato. Li porgo, in particolare, al Cardinale Renato Raffaele Martino ed ai suoi collaboratori del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, con speciale riconoscenza per il loro prezioso servizio. Li porgo, al tempo stesso, al Segretario di Stato, Cardinale Tarcisio Bertone, e all’intera Segreteria di Stato; come pure, con viva cordialità, ai Signori Ambasciatori presenti oggi in gran numero. I miei voti fanno eco all’augurio che il Signore stesso ci ha appena indirizzato, nella liturgia della Parola. Una Parola che, a partire dall’avvenimento di Betlemme, rievocato nella sua concretezza storica dal Vangelo di Luca (2,16-21), e riletto in tutta la sua portata salvifica dall’apostolo Paolo (Gal 4,4-7), diventa benedizione per il popolo di Dio e per l’intera umanità.
Viene così portata a compimento l’antica tradizione ebraica della benedizione (Nm 6,22-27): i sacerdoti d’Israele benedicevano il popolo "ponendo su di esso il nome" del Signore. Con una formula ternaria – presente nella prima lettura – il sacro Nome veniva invocato per tre volte sui fedeli, quale auspicio di grazia e di pace. Questa remota usanza ci riporta ad una realtà essenziale: per poter camminare sulla via della pace, gli uomini e i popoli hanno bisogno di essere illuminati dal "volto" di Dio ed essere benedetti dal suo "nome". Proprio questo si è avverato in modo definitivo con l’Incarnazione: la venuta del Figlio di Dio nella nostra carne e nella storia ha portato una irrevocabile benedizione, una luce che più non si spegne e che offre ai credenti e agli uomini di buona volontà la possibilità di costruire la civiltà dell’amore e della pace.
Il Concilio Vaticano II ha detto, a questo riguardo, che "con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo" (Gaudium et spes, 22). Questa unione è venuta a confermare l’originario disegno di un’umanità creata ad "immagine e somiglianza" di Dio. In realtà, il Verbo incarnato è l’unica immagine perfetta e consustanziale del Dio invisibile. Gesù Cristo è l’uomo perfetto. "In Lui - osserva ancora il Concilio - la natura umana è stata assunta…, perciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime" (ibid.). Per questo la storia terrena di Gesù, culminata nel mistero pasquale, è l’inizio di un mondo nuovo, perché ha realmente inaugurato una nuova umanità, capace, sempre e solo con la grazia di Cristo, di operare una "rivoluzione" pacifica. Una rivoluzione non ideologica ma spirituale, non utopistica ma reale, e per questo bisognosa di infinita pazienza, di tempi talora lunghissimi, evitando qualunque scorciatoia e percorrendo la via più difficile: la via della maturazione della responsabilità nelle coscienze.
Cari amici, questa è la via evangelica alla pace, la via che anche il Vescovo di Roma è chiamato a riproporre con costanza ogni volta che mette mano all’annuale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace. Percorrendo questa strada occorre talvolta ritornare su aspetti e problematiche già affrontati, ma così importanti da richiedere sempre nuova attenzione. E’ il caso del tema che ho scelto per il Messaggio di quest’anno: "Combattere la povertà, costruire la pace". Un tema che si presta a un duplice ordine di considerazioni, che ora posso solo brevemente accennare. Da una parte la povertà scelta e proposta da Gesù, dall’altra la povertà da combattere per rendere il mondo più giusto e solidale.
Il primo aspetto trova il suo contesto ideale in questi giorni, nel tempo di Natale. La nascita di Gesù a Betlemme ci rivela che Dio ha scelto la povertà per se stesso nella sua venuta in mezzo a noi. La scena che i pastori videro per primi, e che confermò l’annuncio fatto loro dall’angelo, è quella di una stalla dove Maria e Giuseppe avevano cercato rifugio, e di una mangiatoia in cui la Vergine aveva deposto il Neonato avvolto in fasce (cfr Lc 2,7.12.16). Questa povertà Dio l’ha scelta. Ha voluto nascere così – ma potremmo subito aggiungere: ha voluto vivere, e anche morire così. Perché? Lo spiega in termini popolari sant’Alfonso Maria de’ Liguori, in un cantico natalizio, che tutti in Italia conoscono: "A Te, che sei del mondo il Creatore, mancano panni e fuoco, o mio Signore. Caro eletto pargoletto, quanto questa povertà più m’innamora, giacché ti fece amor povero ancora". Ecco la risposta: l’amore per noi ha spinto Gesù non soltanto a farsi uomo, ma a farsi povero. In questa stessa linea possiamo citare l’espressione di san Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: "Conoscete infatti – egli scrive – la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà" (8,9). Testimone esemplare di questa povertà scelta per amore è san Francesco d’Assisi. Il francescanesimo, nella storia della Chiesa e della civiltà cristiana, costituisce una diffusa corrente di povertà evangelica, che tanto bene ha fatto e continua a fare alla Chiesa e alla famiglia umana. Ritornando alla stupenda sintesi di san Paolo su Gesù, è significativo – anche per la nostra riflessione odierna – che sia stata ispirata all’Apostolo proprio mentre stava esortando i cristiani di Corinto ad essere generosi nella colletta in favore dei poveri. Egli spiega: "Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza" (8,13).
E’ questo un punto decisivo, che ci fa passare al secondo aspetto: c’è una povertà, un’indigenza, che Dio non vuole e che va "combattuta" – come dice il tema dell’odierna Giornata Mondiale della Pace; una povertà che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, minaccia la convivenza pacifica. In questa accezione negativa rientrano anche le forme di povertà non materiale che si riscontrano pure nelle società ricche e progredite: emarginazione, miseria relazionale, morale e spirituale (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 2). Nel mio Messaggio ho voluto ancora una volta, sulla scia dei miei Predecessori, considerare attentamente il complesso fenomeno della globalizzazione, per valutarne i rapporti con la povertà su larga scala. Di fronte a piaghe diffuse quali le malattie pandemiche (ivi, 4), la povertà dei bambini (ivi, 5) e la crisi alimentare (ivi, 7), ho dovuto purtroppo tornare a denunciare l’inaccettabile corsa ad accrescere gli armamenti. Da una parte si celebra la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e dall’altra si aumentano le spese militari, violando la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna a ridurle al minimo (cfr art. 26). Inoltre, la globalizzazione elimina certe barriere, ma può costruirne di nuove (Messaggio cit., 8), perciò bisogna che la comunità internazionale e i singoli Stati siano sempre vigilanti; bisogna che non abbassino mai la guardia rispetto ai pericoli di conflitto, anzi, si impegnino a mantenere alto il livello della solidarietà. L’attuale crisi economica globale va vista in tal senso anche come un banco di prova: siamo pronti a leggerla, nella sua complessità, quale sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo.
Occorre allora cercare di stabilire un "circolo virtuoso" tra la povertà "da scegliere" e la povertà "da combattere". Si apre qui una via feconda di frutti per il presente e per il futuro dell’umanità, che si potrebbe riassumere così: per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace di tutti, occorre riscoprire la sobrietà e la solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso universali. Più in concreto, non si può combattere efficacemente la miseria, se non si fa quello che scrive san Paolo ai Corinzi, cioè se non si cerca di "fare uguaglianza", riducendo il dislivello tra chi spreca il superfluo e chi manca persino del necessario. Ciò comporta scelte di giustizia e di sobrietà, scelte peraltro obbligate dall’esigenza di amministrare saggiamente le limitate risorse della terra. Quando afferma che Gesù Cristo ci ha arricchiti "con la sua povertà", san Paolo offre un’indicazione importante non solo sotto il profilo teologico, ma anche sul piano sociologico. Non nel senso che la povertà sia un valore in sé, ma perché essa è condizione per realizzare la solidarietà. Quando Francesco d’Assisi si spoglia dei suoi beni, fa una scelta di testimonianza ispiratagli direttamente da Dio, ma nello stesso tempo mostra a tutti la via della fiducia nella Provvidenza. Così, nella Chiesa, il voto di povertà è l’impegno di alcuni, ma ricorda a tutti l’esigenza del distacco dai beni materiali e il primato delle ricchezze dello spirito. Ecco dunque il messaggio da raccogliere oggi: la povertà della nascita di Cristo a Betlemme, oltre che oggetto di adorazione per i cristiani, è anche scuola di vita per ogni uomo. Essa ci insegna che per combattere la miseria, tanto materiale quanto spirituale, la via da percorrere è quella della solidarietà, che ha spinto Gesù a condividere la nostra condizione umana.
Cari fratelli e sorelle, penso che la Vergine Maria si sia posta più di una volta questa domanda: perché Gesù ha voluto nascere da una ragazza semplice e umile come me? E poi, perché ha voluto venire al mondo in una stalla ed avere come prima visita quella dei pastori di Betlemme? La risposta Maria l’ebbe pienamente alla fine, dopo aver deposto nel sepolcro il corpo di Gesù, morto e avvolto in fasce (cfr Lc 23,53). Allora comprese appieno il mistero della povertà di Dio. Comprese che Dio si era fatto povero per noi, per arricchirci della sua povertà piena d’amore, per esortarci a frenare l’ingordigia insaziabile che suscita lotte e divisioni, per invitarci a moderare la smania di possedere e ad essere così disponibili alla condivisione e all’accoglienza reciproca. A Maria, Madre del Figlio di Dio fattosi nostro fratello, rivolgiamo fiduciosi la nostra preghiera, perché ci aiuti a seguirne le orme, a combattere e vincere la povertà, a costruire la vera pace, che è opus iustitiae. A Lei affidiamo il profondo desiderio di vivere in pace che sale dal cuore della grande maggioranza delle popolazioni israeliana e palestinese, ancora una volta messe a repentaglio dalla massiccia violenza scoppiata nella striscia di Gaza in risposta ad altra violenza. Anche la violenza, anche l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – "da combattere". Che esse non prendano il sopravvento! In tal senso i Pastori di quelle Chiese, in questi tristi giorni, hanno fatto udire la loro voce. Insieme ad essi e ai loro carissimi fedeli, soprattutto quelli della piccola ma fervente parrocchia di Gaza, deponiamo ai piedi di Maria le nostre preoccupazioni per il presente e i timori per il futuro, ma altresì la fondata speranza che, con il saggio e lungimirante contributo di tutti, non sarà impossibile ascoltarsi, venirsi incontro e dare risposte concrete all’aspirazione diffusa a vivere in pace, in sicurezza, in dignità. Diciamo a Maria: accompagnaci, celeste Madre del Redentore, lungo tutto l’anno che oggi inizia, e ottieni da Dio il dono della pace per la Terrasanta e per l’intera umanità. Santa Madre di Dio, prega per noi. Amen.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Omelia del Papa per il Te Deum di ringraziamento per il 2008
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’omelia pronunciata dal Papa la sera del 31 dicembre nel presiedere nella Basilica vaticana i primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, a cui ha fatto seguito il canto del tradizionale inno Te Deum di ringraziamento a conclusione del 2008.
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Cari fratelli e sorelle!
L’anno che si chiude e quello che si annuncia all’orizzonte sono posti entrambi sotto lo sguardo benedicente della Santissima Madre di Dio. Ci richiama la sua materna presenza anche l’artistica scultura lignea policroma posta qui, accanto all’altare, che la raffigura in trono con il Bambino benedicente. Celebriamo i Primi Vespri di questa solennità mariana, e numerosi sono in essi i riferimenti liturgici al mistero della divina maternità della Vergine.
"O admirabile commercium! Meraviglioso scambio!". Così inizia l’antifona del primo salmo, per poi proseguire: "Il Creatore ha preso un’anima e un corpo, è nato da una vergine". "Quando in modo unico sei nato dalla Vergine hai compiuto le Scritture", proclama l’antifona del secondo salmo, a cui fanno eco le parole della terza antifona che ci ha introdotti al cantico tratto dalla Lettera di Paolo agli Efesini: "Integra è la tua verginità, Madre di Dio: noi ti lodiamo, tu prega per noi". La divina maternità di Maria viene sottolineata anche nella Lettura breve poc’anzi proclamata, che ripropone i ben noti versetti della Lettera ai Galati: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna…perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). Ed ancora, nel tradizionale Te Deum, che eleveremo al termine della nostra celebrazione dinanzi al Santissimo Sacramento solennemente esposto alla nostra adorazione, canteremo: "Tu, ad liberandum suscepturus hominem, non horruisti Virginis uterum", in italiano: "Tu, o Cristo, nascesti dalla Vergine Madre per la salvezza dell’uomo".
Tutto dunque, questa sera, ci invita a volgere lo sguardo verso Colei che "accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò al mondo la vita" e proprio per questo – ricorda il Concilio Vaticano II - "viene riconosciuta e onorata come vera Madre di Dio" (Cost. Lumen gentium, 53). Il Natale di Cristo, che in questi giorni commemoriamo, è interamente soffuso della luce di Maria e, mentre nel presepe ci soffermiamo a contemplare il Bambino, lo sguardo non può non volgersi riconoscente anche verso la Madre, che con il suo "sì" ha reso possibile il dono della Redenzione. Ecco perché il tempo natalizio porta con sé una profonda connotazione mariana; la nascita di Gesù, uomo-Dio e la maternità divina di Maria sono realtà tra loro inscindibili; il mistero di Maria ed il mistero dell’unigenito Figlio di Dio che si fa uomo, formano un unico mistero, dove l’uno aiuta a meglio comprendere l’altro.
Maria Madre di Dio – Theotokos, Dei Genetrix. Fin dall’antichità, la Madonna venne onorata con questo titolo. In occidente, tuttavia, non si trova per tanti secoli una specifica festa dedicata alla maternità divina di Maria. La introdusse nella Chiesa latina il Papa Pio XI nel 1931, in occasione del 15° centenario del Concilio di Efeso, e la collocò all’11 ottobre. In tale data iniziò, nel 1962, il Concilio Ecumenico Vaticano II. Fu poi il servo di Dio Paolo VI, nel 1969, riprendendo un’antica tradizione, a fissare questa solennità al primo gennaio. E nell’Esortazione apostolica Marialis cultus del 2 febbraio 1974 spiegò il perché di questa scelta e la sua connessione con la Giornata Mondiale della Pace. "Nel ricomposto ordinamento del periodo natalizio – scrisse Paolo VI – ci sembra che la comune attenzione debba essere rivolta alla ripristinata solennità di Maria Ss Madre di Dio: essa… è destinata a celebrare la parte avuta da Maria in questo mistero di salvezza e ad esaltare la singolare dignità che ne deriva per la Madre santa…; ed è, altresì, un’occasione propizia per innovare l’adorazione al neonato Principe della Pace, per riascoltare il lieto annuncio angelico (cfr Lc 2,14), per implorare da Dio, mediante la Regina della Pace, il dono supremo della pace" (n. 5 in: Insegnamenti di Paolo VI, XII 1974, pp. 105–106).
Questa sera vogliamo porre nelle mani della celeste Madre di Dio il nostro corale inno di ringraziamento al Signore per i benefici che lungo i passati dodici mesi ci ha ampiamente concessi. Il primo sentimento, che nasce spontaneo nel cuore questa sera, è proprio di lode e di azione di grazie a Colui che ci fa dono del tempo, preziosa opportunità per compiere il bene; uniamo la richiesta di perdono per non averlo forse sempre utilmente impiegato. Sono contento di condividere questo ringraziamento con voi , cari fratelli e sorelle, che rappresentate l’intera nostra Comunità diocesana, alla quale rivolgo il mio cordiale saluto, estendendolo a tutti gli abitanti di Roma. Un particolare saluto indirizzo al Cardinale Vicario e al Sindaco, i quali entrambi hanno iniziato quest’anno le loro diverse missioni – l’una spirituale e religiosa, l’altra civile ed amministrativa – al servizio di questa nostra città. Il mio saluto si estende ai Vescovi Ausiliari, ai sacerdoti, alle persone consacrate ed ai tanti fedeli laici qui convenuti, come pure alle Autorità presenti. Venendo nel mondo, il Verbo eterno del Padre ci ha rivelato la vicinanza di Dio e la verità ultima sull’uomo e sul suo destino eterno; è venuto a restare con noi per essere il nostro insostituibile sostegno, specialmente nelle inevitabili difficoltà di ogni giorno. E questa sera la Vergine stessa ci ricorda quale grande dono Gesù ci ha fatto con la sua nascita, quale prezioso "tesoro" costituisce per noi la sua Incarnazione. Nel suo Natale Gesù viene ad offrire la sua Parola come lampada che guida i nostri passi; viene ad offrire se stesso e di Lui, nostra certa speranza, dobbiamo saper rendere ragione nella nostra esistenza quotidiana, consapevoli che "solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo" (Gaudium et spes, 22).
La presenza di Cristo è un dono che dobbiamo saper condividere con tutti. A questo mira lo sforzo che la Comunità diocesana sta conducendo per la formazione degli operatori pastorali, affinché siano in grado di rispondere alle sfide che la cultura moderna pone alla fede cristiana. La presenza di numerose e qualificate istituzioni accademiche a Roma e le tante iniziative promosse dalle parrocchie ci fanno guardare con fiducia al futuro del cristianesimo in questa città. L’incontro con Cristo, voi lo sapete bene, rinnova l’esistenza personale e ci aiuta a contribuire alla costruzione di una società giusta e fraterna. Ecco allora che, come credenti, si può dare un grande contributo anche per superare l’attuale emergenza educativa. Quanto mai utile è allora che cresca la sinergia fra le famiglie, la scuola e le parrocchie per una evangelizzazione profonda e per una coraggiosa promozione umana, capaci di comunicare a quanti più è possibile la ricchezza che scaturisce dall’incontro con Cristo. Incoraggio per questo ogni componente della nostra Diocesi a proseguire il cammino intrapreso, attuando insieme il programma dell’anno pastorale in corso, che mira appunto ad "educare alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza".
In questi nostri tempi, segnati da incertezza e preoccupazione per l’avvenire, è necessario sperimentare la viva presenza di Cristo. E’ Maria, Stella della speranza, che a Lui ci conduce. E’ Lei, con il suo materno amore, che può guidare a Gesù specialmente i giovani, i quali portano insopprimibile nel loro cuore la domanda sul senso dell’umana esistenza. So che diversi gruppi di genitori, incontrandosi per approfondire la loro vocazione, cercano nuove vie per aiutare i propri figli a rispondere ai grandi interrogativi esistenziali. Li esorto cordialmente, insieme con tutta la comunità cristiana, a testimoniare alle nuove generazioni la gioia che scaturisce dall’incontro con Gesù, il quale nascendo a Betlemme è venuto non a toglierci qualcosa, ma a donarci tutto.
Nella Notte di Natale ho avuto un ricordo speciale per i bambini, questa sera invece è soprattutto ai giovani che vorrei rivolgere la mia attenzione. Cari giovani, responsabili del futuro di questa nostra città, non abbiate paura del compito apostolico che il Signore vi affida, non esitate a scegliere uno stile di vita che non segua la mentalità edonistica corrente. Lo Spirito Santo vi assicura la forza necessaria per testimoniare la gioia della fede e la bellezza di essere cristiani. Le crescenti necessità dell’evangelizzazione richiedono numerosi operai nella vigna del Signore: non esitate a rispondergli prontamente se Egli vi chiama. La società ha bisogno di cittadini che non si preoccupino solo dei propri interessi perché, come ho ricordato il giorno di Natale, "il mondo va in rovina se ciascuno pensa solo a sé".
Cari fratelli e sorelle, quest’anno si chiude con la consapevolezza di una crescente crisi sociale ed economica, che ormai interessa il mondo intero; una crisi che chiede a tutti più sobrietà e solidarietà per venire in aiuto specialmente delle persone e delle famiglie in più serie difficoltà. La comunità cristiana si sta già impegnando e so che la Caritas diocesana e le altre organizzazioni benefiche fanno il possibile, ma è necessaria la collaborazione di tutti, perché nessuno può pensare di costruire da solo la propria felicità. Anche se all’orizzonte vanno disegnandosi non poche ombre sul nostro futuro, non dobbiamo avere paura. La nostra grande speranza di credenti è la vita eterna nella comunione di Cristo e di tutta la famiglia di Dio. Questa grande speranza ci dà la forza di affrontare e di superare le difficoltà della vita in questo mondo. La materna presenza di Maria ci assicura questa sera che Dio non ci abbandona mai, se noi ci affidiamo a Lui e seguiamo i suoi insegnamenti. A Maria, dunque, con filiale affetto e fiducia, presentiamo le attese e le speranze, come pure i timori e le difficoltà che ci abitano nel cuore, mentre ci congediamo dal 2008 e ci apprestiamo ad accogliere il 2009. Lei, la Vergine Madre, ci offre il Bambino che giace nella mangiatoia come nostra sicura speranza. Pieni di fiducia, potremo allora cantare a conclusione del Te Deum: "In te, Domine,speravi: non confundar in aeternum – Tu, Signore, sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno!". Sì, Signore, in Te speriamo, oggi e sempre; Tu sei la nostra speranza. Amen!
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Benedetto XVI: la famiglia, specchio dell'amore gratuito di Dio - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate il 28 dicembre scorso da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle!
In questa domenica, che segue il Natale del Signore, celebriamo con gioia la Santa Famiglia di Nazaret. Il contesto è il più adatto, perché il Natale è per eccellenza la festa della famiglia. Lo dimostrano tante tradizioni e consuetudini sociali, specialmente l’usanza di riunirsi insieme, in famiglia appunto, per i pasti festivi e per gli auguri e lo scambio dei doni; e, come non rilevare che in queste circostanze, il disagio e il dolore causati da certe ferite familiari vengono amplificati? Gesù ha voluto nascere e crescere in una famiglia umana; ha avuto la Vergine Maria come mamma e Giuseppe che gli ha fatto da padre; essi l’hanno allevato ed educato con immenso amore. La famiglia di Gesù merita davvero il titolo di "santa", perché è tutta presa dal desiderio di adempiere la volontà di Dio, incarnata nell’adorabile presenza di Gesù. Da una parte, è una famiglia come tutte e, in quanto tale, è modello di amore coniugale, di collaborazione, di sacrificio, di affidamento alla divina Provvidenza, di laboriosità e di solidarietà, insomma, di tutti quei valori che la famiglia custodisce e promuove, contribuendo in modo primario a formare il tessuto di ogni società. Al tempo stesso, però, la Famiglia di Nazaret è unica, diversa da tutte, per la sua singolare vocazione legata alla missione del Figlio di Dio. Proprio con questa sua unicità essa addita ad ogni famiglia, e in primo luogo alle famiglie cristiane, l’orizzonte di Dio, il primato dolce ed esigente della sua volontà, la prospettiva del Cielo al quale siamo destinati. Per tutto questo oggi rendiamo grazie a Dio, ma anche alla Vergine Maria e a San Giuseppe, che con tanta fede e disponibilità hanno cooperato al disegno di salvezza del Signore.
Per esprimere la bellezza e il valore della famiglia, oggi si sono date appuntamento a Madrid migliaia di persone. Ad esse voglio ora rivolgermi in lingua spagnola.
[Rivolgo ora un cordiale saluto ai partecipanti che si trovano riuniti a Madrid in questa commovente festa per pregare per la famiglia e impegnarsi a lavorare in favore di essa con forza e speranza. La famiglia è certamente una grazia di Dio, che lascia trasparire ciò che Egli stesso è: Amore. Un amore pienamente gratuito, che sostiene la fedeltà senza limiti, persino nei momenti di difficoltà o di abbattimento. Queste qualità si riscontrano in modo eminente nella Santa Famiglia, nella quale Gesù è venuto al mondo ed è cresciuto ricolmo di sapienza, con le cure premurose di Maria e la custodia fedele di san Giuseppe. Care famiglie, non lasciate che l’amore, l’apertura alla vita e i vincoli incomparabili che uniscono il vostro focolare si indeboliscano. Domandatelo costantemente al Signore, pregate uniti, affinché i vostri propositi siano illuminati dalla fede e corroborati dalla grazia divina sulla via verso la santità. In tal modo, con la gioia del vostro condividere tutto nell’amore, darete al mondo una bella testimonianza di quanto sia importante la famiglia per la persona umana e per la società. Il Papa sta al vostro fianco, pregando specialmente il Signore per quanti in ogni famiglia hanno maggiori necessità di salute, lavoro, conforto e compagnia. In questa preghiera dell’Angelus, vi affido tutti alla nostra Madre del cielo, la Santissima Vergine Maria]
Cari fratelli e sorelle, parlando della famiglia, non posso poi non ricordare che, dal 14 al 18 gennaio 2009, avrà luogo a Città del Messico il VI Incontro Mondiale delle Famiglie. Preghiamo sin d’ora per questo importante evento ecclesiale, e affidiamo al Signore ogni famiglia, specialmente quelle più provate dalle difficoltà della vita e dalle piaghe dell’incomprensione e della divisione. Il Redentore, nato a Betlemme, doni a tutte la serenità e la forza di camminare unite nella via del bene.
Messaggio di Benedetto XVI per il Natale 2008
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 25 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio di Benedetto XVI per il Natale 2008, rivolto dal Papa a mezzogiorno di questo giovedì, Solennità del Natale del Signore, ai fedeli presenti in Piazza San Pietro e a quanti lo ascoltavano attraverso la radio e la televisione.
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"Apparuit gratia Dei Salvatoris nostri omnibus hominibus" (Tit 2,11).
Cari fratelli e sorelle, con le parole dell'apostolo Paolo rinnovo il gioioso annuncio del Natale di Cristo: sì, oggi, "è apparsa a tutti gli uomini la grazia di Dio nostro Salvatore"!
E' apparsa! Questo è ciò che la Chiesa oggi celebra. La grazia di Dio, ricca di bontà e di tenerezza, non è più nascosta, ma "è apparsa", si è manifestata nella carne, ha mostrato il suo volto. Dove? A Betlemme. Quando? Sotto Cesare Augusto, durante il primo censimento, al quale fa cenno anche l'evangelista Luca. E chi è il rivelatore? Un neonato, il Figlio della Vergine Maria. In Lui è apparsa la grazia di Dio Salvatore nostro. Per questo quel Bambino si chiama Jehoshua, Gesù, che significa "Dio salva".
La grazia di Dio è apparsa: ecco perché il Natale è festa di luce. Non una luce totale, come quella che avvolge ogni cosa in pieno giorno, ma un chiarore che si accende nella notte e si diffonde a partire da un punto preciso dell'universo: dalla grotta di Betlemme, dove il divino Bambino è "venuto alla luce". In realtà, è Lui la luce stessa che si propaga, come ben raffigurano tanti dipinti della Natività. Lui è la luce, che apparendo rompe la caligine, dissipa le tenebre e ci permette di capire il senso ed il valore della nostra esistenza e della storia. Ogni presepe è un invito semplice ed eloquente ad aprire il cuore e la mente al mistero della vita. E' un incontro con la Vita immortale, che si è fatta mortale nella mistica scena del Natale; una scena che possiamo ammirare anche qui, in questa Piazza, come in innumerevoli chiese e cappelle del mondo intero, e in ogni casa dove è adorato il nome di Gesù.
La grazia di Dio è apparsa a tutti gli uomini. Sì, Gesù, il volto del Dio-che-salva, non si è manifestato solo per pochi, per alcuni, ma per tutti. E' vero, nella umile disadorna dimora di Betlemme lo hanno incontrato poche persone, ma Lui è venuto per tutti: giudei e pagani, ricchi e poveri, vicini e lontani, credenti e non credenti... tutti. La grazia soprannaturale, per volere di Dio, è destinata ad ogni creatura. Occorre però che l'essere umano l'accolga, pronunci il suo "sì", come Maria, affinché il cuore sia rischiarato da un raggio di quella luce divina. Ad accogliere il Verbo incarnato, in quella notte, furono Maria e Giuseppe che lo attendevano con amore ed i pastori, che vegliavano accanto alle greggi (cfr Lc 2,1-20). Una piccola comunità, dunque, che accorse ad adorare Gesù Bambino; una piccola comunità che rappresenta la Chiesa e tutti gli uomini di buona volontà. Anche oggi coloro che nella vita Lo attendono e Lo cercano incontrano il Dio che per amore si è fatto nostro fratello; quanti hanno il cuore proteso verso di Lui desiderano conoscere il suo volto e contribuire all'avvento del suo Regno. Gesù stesso lo dirà, nella sua predicazione: sono i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia (cfr Mt 5,3-10). Questi riconoscono in Gesù il volto di Dio e ripartono, come i pastori di Betlemme, rinnovati nel cuore dalla gioia del suo amore.
Fratelli e sorelle che mi ascoltate, a tutti gli uomini è destinato l'annuncio di speranza che costituisce il cuore del messaggio di Natale. Per tutti è nato Gesù e, come a Betlemme Maria lo offrì ai pastori, in questo giorno la Chiesa lo presenta all'intera umanità, perché ogni persona e ogni umana situazione possa sperimentare la potenza della grazia salvatrice di Dio, che sola può trasformare il male in bene, che sola può cambiare il cuore dell'uomo e renderlo un'"oasi" di pace.
Possano sperimentare la potenza della grazia salvatrice di Dio le numerose popolazioni che ancora vivono nelle tenebre e nell'ombra di morte (cfr Lc 1,79). La Luce divina di Betlemme si diffonda in Terrasanta, dove l'orizzonte sembra tornare a farsi cupo per gli israeliani e i palestinesi; si diffonda in Libano, in Iraq e ovunque nel Medio Oriente. Fecondi gli sforzi di quanti non si rassegnano alla logica perversa dello scontro e della violenza e privilegiano invece la via del dialogo e del negoziato, per comporre le tensioni interne ai singoli Paesi e trovare soluzioni giuste e durature ai conflitti che travagliano la regione. A questa Luce che trasforma e rinnova anelano gli abitanti dello Zimbabwe, in Africa, stretti da troppo tempo nella morsa di una crisi politica e sociale che, purtroppo, continua ad aggravarsi, come pure gli uomini e le donne della Repubblica Democratica del Congo, specialmente nella martoriata regione del Kivu, del Darfur, in Sudan, e della Somalia, le cui interminabili sofferenze sono tragica conseguenza dell'assenza di stabilità e di pace. Questa Luce attendono soprattutto i bambini di quei Paesi e di tutti i Paesi in difficoltà, affinché sia restituita speranza al loro avvenire.
Dove la dignità e i diritti della persona umana sono conculcati; dove gli egoismi personali o di gruppo prevalgono sul bene comune; dove si rischia di assuefarsi all'odio fratricida e allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo; dove lotte intestine dividono gruppi ed etnie e lacerano la convivenza; dove il terrorismo continua a colpire; dove manca il necessario per sopravvivere; dove si guarda con apprensione ad un futuro che sta diventando sempre più incerto, anche nelle Nazioni del benessere: là risplenda la Luce del Natale ed incoraggi tutti a fare la propria parte, in spirito di autentica solidarietà. Se ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina.
Cari fratelli e sorelle, oggi "è apparsa la grazia di Dio Salvatore" (cfr Tt 2,11), in questo nostro mondo, con le sue potenzialità e le sue debolezze, i suoi progressi e le sue crisi, con le sue speranze e le sue angosce. Oggi, rifulge la luce di Gesù Cristo, Figlio dell'Altissimo e figlio della Vergine Maria: "Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo". Lo adoriamo quest'oggi, in ogni angolo della terra, avvolto in fasce e deposto in una povera mangiatoia. Lo adoriamo in silenzio mentre Lui, ancora infante, sembra dirci a nostra consolazione: Non abbiate paura, "Io sono Dio, non ce n'è altri" (Is 45,22). Venite a me, uomini e donne, popoli e nazioni, venite a me, non temete: sono venuto a portarvi l'amore del Padre, a mostrarvi la via della pace.
Andiamo, dunque, fratelli! Affrettiamoci, come i pastori nella notte di Betlemme. Dio ci è venuto incontro e ci ha mostrato il suo volto, ricco di grazia e di misericordia! Non sia vana per noi la sua venuta! Cerchiamo Gesù, lasciamoci attirare dalla sua luce, che dissipa dal cuore dell'uomo la tristezza e la paura; avviciniamoci con fiducia; con umiltà prostriamoci per adorarlo. Buon Natale a tutti!
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Omelia di Benedetto XVI per la Messa di mezzanotte di Natale
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 25 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere, nella Basilica Vaticana, la Messa di mezzanotte per la Solennità del Natale del Signore.
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Cari fratelli e sorelle!
"Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell'alto e si china a guardare nei cieli e sulla terra?" Così canta Israele in uno dei suoi Salmi (113 [112], 5s), in cui esalta insieme la grandezza di Dio e la sua benevola vicinanza agli uomini. Dio dimora nell’alto, ma si china verso il basso… Dio è immensamente grande e di gran lunga al di sopra di noi. È questa la prima esperienza dell’uomo. La distanza sembra infinita. Il Creatore dell’universo, Colui che guida il tutto, è molto lontano da noi: così sembra inizialmente. Ma poi viene l’esperienza sorprendente: Colui al quale nessuno è pari, che "siede nell’alto", Questi guarda verso il basso. Si china in giù. Egli vede noi e vede me. Questo guardare in giù di Dio è più di uno sguardo dall’alto. Il guardare di Dio è un agire. Il fatto che Egli mi vede, mi guarda, trasforma me e il mondo intorno a me. Così il Salmo continua immediatamente: "Solleva l’indigente dalla polvere…" Con il suo guardare in giù Egli mi solleva, benevolmente mi prende per mano e mi aiuta a salire, proprio io, dal basso verso l’alto. "Dio si china". Questa parola è una parola profetica. Nella notte di Betlemme, essa ha acquistato un significato completamente nuovo. Il chinarsi di Dio ha assunto un realismo inaudito e prima inimmaginabile. Egli si china – viene, proprio Lui, come bimbo giù fin nella miseria della stalla, simbolo di ogni necessità e stato di abbandono degli uomini. Dio scende realmente. Diventa un bambino e si mette nella condizione di dipendenza totale che è propria di un essere umano appena nato. Il Creatore che tutto tiene nelle sue mani, dal quale noi tutti dipendiamo, si fa piccolo e bisognoso dell’amore umano. Dio è nella stalla. Nell’Antico Testamento il tempio era considerato quasi come lo sgabello dei piedi di Dio; l’arca sacra come il luogo in cui Egli, in modo misterioso, era presente in mezzo agli uomini. Così si sapeva che sopra il tempio, nascostamente, stava la nube della gloria di Dio. Ora essa sta sopra la stalla. Dio è nella nube della miseria di un bimbo senza albergo: che nube impenetrabile e tuttavia – nube della gloria! In che modo, infatti, la sua predilezione per l’uomo, la sua preoccupazione per lui potrebbe apparire più grande e più pura? La nube del nascondimento, della povertà del bambino totalmente bisognoso dell’amore, è allo stesso tempo la nube della gloria. Perché niente può essere più sublime, più grande dell’amore che in questa maniera si china, discende, si rende dipendente. La gloria del vero Dio diventa visibile quando ci si aprono gli occhi del cuore davanti alla stalla di Betlemme.
Il racconto del Natale secondo san Luca, che abbiamo appena ascoltato nel brano evangelico, ci narra che Dio ha un po’ sollevato il velo del suo nascondimento dapprima davanti a persone di condizione molto bassa, davanti a persone che nella grande società erano piuttosto disprezzate: davanti ai pastori che nei campi intorno a Betlemme facevano la guardia agli animali. Luca ci dice che queste persone "vegliavano". Possiamo così sentirci richiamati a un motivo centrale del messaggio di Gesù, in cui ripetutamente e con crescente urgenza fino all’Orto degli ulivi torna l’invito alla vigilanza – a restare svegli per accorgersi della venuta del Signore ed esservi preparati. Pertanto anche qui la parola significa forse più del semplice essere esternamente svegli durante l’ora notturna. Erano persone veramente vigilanti, nelle quali il senso di Dio e della sua vicinanza era vivo. Persone che erano in attesa di Dio e non si rassegnavano all’apparente lontananza di Lui nella vita di ogni giorno. Ad un cuore vigilante può essere rivolto il messaggio della grande gioia: in questa notte è nato per voi il Salvatore. Solo il cuore vigilante è capace di credere al messaggio. Solo il cuore vigilante può infondere il coraggio di incamminarsi per trovare Dio nelle condizioni di un bambino nella stalla. Preghiamo il Signore affinché aiuti anche noi a diventare persone vigilanti.
San Luca ci racconta inoltre che i pastori stessi erano "avvolti" dalla gloria di Dio, dalla nube di luce, si trovavano nell’intimo splendore di questa gloria. Avvolti dalla nube santa ascoltano il canto di lode degli angeli: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini della sua benevolenza". E chi sono questi uomini della sua benevolenza se non i piccoli, i vigilanti, quelli che sono in attesa, sperano nella bontà di Dio e lo cercano guardando verso di Lui da lontano?
Nei Padri della Chiesa si può trovare un commento sorprendente circa il canto con cui gli angeli salutano il Redentore. Fino a quel momento – dicono i Padri – gli angeli avevano conosciuto Dio nella grandezza dell’universo, nella logica e nella bellezza del cosmo che provengono da Lui e Lo rispecchiano. Avevano accolto, per così dire, il muto canto di lode della creazione e l’avevano trasformato in musica del cielo. Ma ora era accaduta una cosa nuova, addirittura sconvolgente per loro. Colui di cui parla l’universo, il Dio che sostiene il tutto e lo porta in mano – Egli stesso era entrato nella storia degli uomini, era diventato uno che agisce e soffre nella storia. Dal gioioso turbamento suscitato da questo evento inconcepibile, da questa seconda e nuova maniera in cui Dio si era manifestato – dicono i Padri – era nato un canto nuovo, una strofa del quale il Vangelo di Natale ha conservato per noi: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini". Possiamo forse dire che, secondo la struttura della poesia ebraica, questo doppio versetto nei suoi due brani dice in fondo la stessa cosa, ma da un punto di vista diverso. La gloria di Dio è nell’alto dei cieli, ma questa altezza di Dio si trova ora nella stalla, ciò che era basso è diventato sublime. La sua gloria è sulla terra, è la gloria dell’umiltà e dell’amore. E ancora: la gloria di Dio è la pace. Dove c’è Lui, là c’è pace. Egli è là dove gli uomini non vogliono fare in modo autonomo della terra il paradiso, servendosi a tal fine della violenza. Egli è con le persone dal cuore vigilante; con gli umili e con coloro che corrispondono alla sua elevatezza, all’elevatezza dell’umiltà e dell’amore. A questi dona la sua pace, perché per loro mezzo la pace entri in questo mondo.
Il teologo medioevale Guglielmo di S. Thierry ha detto una volta: Dio – a partire da Adamo – ha visto che la sua grandezza provocava nell’uomo resistenza; che l’uomo si sente limitato nel suo essere se stesso e minacciato nella sua libertà. Pertanto Dio ha scelto una via nuova. È diventato un Bambino. Si è reso dipendente e debole, bisognoso del nostro amore. Ora – ci dice quel Dio che si è fatto Bambino – non potete più aver paura di me, ormai potete soltanto amarmi.
Con tali pensieri ci avviciniamo in questa notte al Bambino di Betlemme – a quel Dio che per noi ha voluto farsi bambino. Su ogni bambino c’è il riverbero del bambino di Betlemme. Ogni bambino chiede il nostro amore. Pensiamo pertanto in questa notte in modo particolare anche a quei bambini ai quali è rifiutato l’amore dei genitori. Ai bambini di strada che non hanno il dono di un focolare domestico. Ai bambini che vengono brutalmente usati come soldati e resi strumenti della violenza, invece di poter essere portatori della riconciliazione e della pace. Ai bambini che mediante l’industria della pornografia e di tutte le altre forme abominevoli di abuso vengono feriti fin nel profondo della loro anima. Il Bambino di Betlemme è un nuovo appello rivolto a noi, di fare tutto il possibile affinché finisca la tribolazione di questi bambini; di fare tutto il possibile affinché la luce di Betlemme tocchi i cuori degli uomini. Soltanto attraverso la conversione dei cuori, soltanto attraverso un cambiamento nell’intimo dell’uomo può essere superata la causa di tutto questo male, può essere vinto il potere del maligno. Solo se cambiano gli uomini, cambia il mondo e, per cambiare, gli uomini hanno bisogno della luce proveniente da Dio, di quella luce che in modo così inaspettato è entrata nella nostra notte.
E parlando del Bambino di Betlemme pensiamo anche alla località che risponde al nome di Betlemme; pensiamo a quel Paese in cui Gesù ha vissuto e che Egli ha amato profondamente. E preghiamo affinché lì si crei la pace. Che cessino l’odio e la violenza. Che si desti la comprensione reciproca, si realizzi un’apertura dei cuori che apra le frontiere. Che scenda la pace di cui hanno cantato gli angeli in quella notte.
Nel Salmo 96 [95] Israele, e con esso la Chiesa, lodano la grandezza di Dio che si manifesta nella creazione. Tutte le creature vengono chiamate ad aderire a questo canto di lode, e allora lì si trova anche l’invito: "Si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene" (12s). La Chiesa legge anche questo Salmo come una profezia e, insieme, come un compito. La venuta di Dio a Betlemme fu silenziosa. Soltanto i pastori che vegliavano furono per un momento avvolti nello splendore luminoso del suo arrivo e poterono ascoltare una parte di quel canto nuovo che era nato dalla meraviglia e dalla gioia degli angeli per la venuta di Dio. Questo venire silenzioso della gloria di Dio continua attraverso i secoli. Là dove c’è la fede, dove la sua parola viene annunciata ed ascoltata, Dio raduna gli uomini e si dona loro nel suo Corpo, li trasforma nel suo Corpo. Egli "viene". E così si desta il cuore degli uomini. Il canto nuovo degli angeli diventa canto degli uomini che, attraverso tutti i secoli in modo sempre nuovo, cantano la venuta di Dio come bambino e, a partire dal loro intimo, diventano lieti. E gli alberi della foresta si recano da Lui ed esultano. L’albero in Piazza san Pietro parla di Lui, vuole trasmettere il suo splendore e dire: Sì, Egli è venuto e gli alberi della foresta lo acclamano. Gli alberi nelle città e nelle case dovrebbero essere più di un’usanza festosa: essi indicano Colui che è la ragione della nostra gioia – il Dio che per noi si è fatto bambino. Il canto di lode, nel più profondo, parla infine di Colui che è lo stesso albero della vita ritrovato. Nella fede in Lui riceviamo la vita. Nel Sacramento dell’Eucaristia Egli si dona a noi – dona una vita che giunge fin nell’eternità. In quest’ora noi aderiamo al canto di lode della creazione e la nostra lode è allo stesso tempo una preghiera: Sì, Signore, facci vedere qualcosa dello splendore della tua gloria. E dona la pace sulla terra. Rendici uomini e donne della tua pace. Amen.
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GAZA/ Perché il sì a Israele non è un sì alla guerra - Mario Mauro - martedì 6 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Dopo due giorni dall'inizio dell'offensiva di terra a Gaza da parte dell'esercito israeliano con l'adeguamento del numero dei morti a oltre 500 rimane viva e anzi si rafforza la convinzione che Israele debba fermarsi. In un vortice di giudizi spesso affrettati da parte di autorevoli commentatori, ma anche di esponenti politici e Governi che si lasciano trasportare con troppa facilità dalla tentazione di schierarsi per forza totalmente e senza eccezioni in favore di una delle due parti in conflitto la posizione del Ministro Frattini e quindi del Governo italiano appare molto responsabile ed equilibrata: «Noi siamo fortemente preoccupati e ovviamente molto addolorati per le vite innocenti che i civili palestinesi pagano purtroppo questa situazione orrenda causata purtroppo da Hamas che ha violato la tregua, ma ovviamente facciamo un appello fortissimo e accorato a Israele perché eviti in assoluto azioni che possano compromettere la vita e l'incolumità fisica di tanti civili innocenti». La nota della Farnesina permette di spiegare meglio perché deve essere Israele ad avere un "sussulto di saggezza" e fare il primo passo verso il dialogo con la controparte palestinese. La prima motivazione risiede nel fatto che chiedere uno sforzo di responsabilità e di dialogo ad Hamas è completamente inutile: come tutti sappiamo si tratta di un movimento integralista che fonda la propria esistenza sulla volontà di distruggere lo Stato d'Israele. Lo Statuto di Hamas infatti richiede la distruzione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con un Stato islamico palestinese nella zona che ora è Israele, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. La stessa carta dichiara che "Non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihad". Usare la carta della diplomazia è ancora più difficile dopo che Hamas ha rotto la tregua, ma proprio perché siamo amici di Israele dobbiamo ribadire che l'azione di guerra non porterà alla soluzione dei problemi, ma rischia soltanto di aggravarli. Rischia innanzitutto una vera e propria catastrofe in termini di vittime civili, anche israeliane.
Rischia inoltre di provocare la folle reazione di tutte quelle forze terroristiche che attendono nuovi pretesti per sfogare il loro odio contro Israele e contro l'Occidente. Come ha dichiarato al Corriere della sera l'ex capo del comando centrale statunitense del Medio Oriente Anthony Zinni, che non può certo essere considerato filo Hamas, l'invasione di Israele nel territorio di Gaza "avrà successo a breve termine, ma a lungo termine alimenterà la spirale della violenza. Le file dei terroristi a Gaza si infoltiranno, i paesi arabi moderati si troveranno in difficoltà e in Medio Oriente crescerà l'antisemitismo. La questione palestinese non può essere risolta militarmente".
L'unica strada al momento percorribile è quella auspicata nell'ultimo comunicato della presidenza francese del Consiglio dell'Unione europea: iniziare il processo di pace come richiesto dalla Risoluzione Onu numero 1850, basare una soluzione sul processo iniziato ad Annan sulla costruzione di uno Stato palestinese in accordo con Israele, lavorare costantemente per una soluzione pacifica con Egitto e Lega araba che hanno dimostrato grandi sforzi di mediazione.
Dire Sì a Israele non significa dire Sì alla guerra. Allo stesso modo un cessate il fuoco non sarebbe affatto un accordo con i terroristi. Non sarebbe affatto l'inizio del dialogo con chi non vorrà mai dialogare.
Israele ha il sacrosanto diritto di difendersi dopo gli attacchi missilistici di Hamas, ma deve davvero comprendere che questa legittima difesa non deve passare attraverso la perdita di civili, perché tralasciare questo dettaglio vuol dire abbandonare del tutto la speranza nella pace, vuol dire togliere consistenza al pensiero stesso che si possa arrivare alla pace. In questo giudizio dobbiamo essere sempre coscienti del fatto che il male, terribilmente presente anche in ciascuno di noi e non solo in un nemico esterno (che cambia a seconda della parte con la quale ci si schiera), non deve vincere sul bene. Così che ogni giudizio e azione siano fattori di pace, di giustizia e di civiltà.
Durante l'ultimo Angelus Benedetto XVi ha affermato che “le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra. La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente”. Il riferimento alla “storia più recente” è una chiara citazione del mancato ascolto di Giovanni Paolo II quando invano implorò l’Iraq e la coalizione guidata dagli Stati Uniti di rinunciare alla guerra.
Per questo insieme a Roberto Formigoni e a diversi parlamentari italiani abbiamo promosso un appello che vuole fare eco alle parole del Papa evidenziando come la luce di verità che viene dalle parole della Chiesa costituisca un'opportunità anche per la buona politica.
A tu per tu con la tenerezza di Dio 31.12.2008 – Antonio Socci
Sant’Agostino, Bakhita, i santi del passato. Ma anche Andrea, Cilla, le testimonianze dell’ultimo Meeting. In modo inaspettato, nelle situazioni più drammatiche, è solo Cristo che può rispondere al cuore dell’uomo. E se diciamo di sì...
di Antonio Socci La padrona quel giorno si annoiava, così decise di far seviziare le tre ragazzine nere che aveva comprato come schiave: avevano circa 10 o 11 anni. Bakhita fu bloccata a terra e con un rasoio le fecero 114 tagli nella carne. Poi riempirono di sale le ferite. Così, per divertimento. Perché era considerata una cosa dai padroni musulmani. All’età di sette anni, nel 1876, era stata rapita nel suo villaggio sudanese e venduta come schiava quattro volte. Aveva conosciuto solo la ferocia.
Così è la storia umana senza Gesù. Joseph Ratzinger, nel suo Gesù di Nazaret, spiega che prima della venuta del Salvatore il mondo era infestato dai demoni. Dovunque hanno dominato la ferocia e la disumanità. Poi, un giorno, sono risuonate queste parole: «Ho visto la miseria del mio popolo… ho sentito il suo grido e sono sceso per liberarlo» (Es. 3,7). «Egli si è mostrato. Egli personalmente», duemila anni fa. E da allora ogni giorno, «in un fenomeno di umanità diversa», ci dice don Giussani. Pure quella disgraziata ragazza, Bakhita «vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita… non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile».
Bakhita neanche riusciva a sognarlo. Per circostanze casuali, a 16 anni fu portata dai padroni in Italia, a Venezia, e conobbe le suore canossiane. Fu colpita dalla loro umanità e dalla bontà di un vero cristiano, «uomo dal cuore d’oro» che era parente di colui che sarebbe diventato papa san Pio X e che le regalò un crocifisso: «Nel darmelo», ricorda la ragazza, «lo baciò con devozione, poi mi spiegò che Gesù Cristo, Figlio di Dio, era morto per noi». Bakhita restò abbagliata. Era morto per lei? Possibile che qualcuno l’amasse? Sì. Lo vedeva dai volti di «quelle sante madri che mi fecero conoscere Dio», specialmente la suora che la istruì: «Non posso ricordare senza piangere la cura che ebbe di me». Essendo tornati i padroni a riprenderla, per la prima volta, Bakhita, che non voleva più perdere Dio, si rifiutò di seguirli. Il 29 novembre 1889 il Patriarca di Venezia fece intervenire il procuratore del re, che dichiarò Bakhita libera dalla schiavitù. Lei restò in Italia, si fece battezzare, chiese di diventare suora e visse 78 anni «durante i quali sempre più ho conosciuto la bontà di Dio verso di me». Morta nel 1947, è stata proclamata santa nel 2000.
Non c’è situazione tanto estrema e drammatica che non possa essere raggiunta e liberata da Dio fatto uomo. Anche oggi, tempo di diverse schiavitù. E i lettori di Tracce lo sanno bene. Indimenticabile è la testimonianza di quel giovane, ammalato di Aids, Andrea, che due giorni prima di morire scrisse a don Giussani (la lettera è riportata ne Il tempo e il tempio). Ne ricordo dei brani: «Le scrivo solamente per dirle grazie; grazie di avere dato un senso a questa mia arida vita». Andrea spiegava così la sua gratitudine: «Sono un compagno delle superiori di Ziba… Quando Ziba recitava l’Angelus davanti a me che gli bestemmiavo in faccia, lo odiavo e gli dicevo che era un codardo perché l’unica cosa che sapeva fare era dire quelle stupide preghiere davanti a me. Ora, quando balbettando tento di dirlo con lui, capisco che il codardo ero io, perché non vedevo neppure ad un palmo dal naso la verità che mi stava di fronte. Grazie don Giussani, è l’unica cosa che un uomo come me può dirle. Grazie perché nelle lacrime posso dire che morire così ora ha un senso, non perché sia più bello - ho una gran paura di morire - ma perché ora so che c’è qualcuno che mi vuole bene e anch’io forse mi posso salvare e posso anch’io pregare affinché i compagni di letto incontrino e vedano come io ho visto e incontrato. Così mi sento utile… con l’unica cosa che ancora riesco ad usare bene (la voce) io posso essere utile; io che ho buttato via la vita posso fare del bene solamente dicendo l’Angelus. Penso che la mia più grande soddisfazione sia quella di averla conosciuta scrivendole questa lettera, ma la più grande ancora è che nella misericordia di Dio, se Lui vorrà, la conoscerò là dove tutto sarà nuovo, buono e vero. Nuovo, buono e vero come l’amicizia che lei ha portato nella vita di molte persone e della quale posso dire “anch’io c’ero”, anch’io in questa zozza vita ho visto e partecipato di questo avvenimento nuovo, buono e vero».
Una storia di oggi, insomma. Proprio come quelle, straordinarie, del Meeting 2008, appena raccolte da Paola Brizzi e Alberto Savorana nel volume Un’avventura per sé (vedi pagina 106; ndr), e così simili alle storie di duemila anni fa. Accadeva così anche nel IV secolo a quell’Agostino che era l’intellettuale più raffinato di Roma e poi di Milano dove era andato a insegnare nel 384 d.C.. Non gli mancava niente, né il successo accademico, né i beni, né l’amore femminile, né la soddisfazione della paternità, né gli svaghi, né l’amicizia con i potenti politici della città.
Eppure un inspiegabile male di vivere lo avvolgeva: «Ero infelice». Parla di «profondissimo tedio», di «paura della morte». Sarà l’incontro con Ambrogio - vescovo della città, che ha solo qualche anno più di lui - a colpirlo: «La dolcezza del suo dire mi dava piacere». Fa breccia in lui, lo affascina, ridimensiona anche l’orgoglio dell’intellettuale. «Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio».
La sua vita cambia. Ormai la «cupidigia di onori e guadagni… non avevano più forza, in confronto alla Tua dolcezza e allo splendore della Tua casa che amavo. Ma», confessa, «ero ancora attanagliato dalla donna», «le mie amanti di un tempo mi trattenevano». E ancora una volta sono degli incontri imprevisti a prevalere con l’attrattiva di una felicità più grande. Accade quando Ponticiano gli racconta che, a Treviri, due suoi amici hanno lasciato le fidanzate entrando in una comunità di vergini (le prime esperienze monastiche) e che lo stesso hanno fatto le due ragazze. Una nuova forma di vita che contagiava tanti giovani cristiani anche a Milano (dove erano seguiti da Ambrogio in persona). Agostino li incontra, ne è affascinato e coinvolto. Più avanti confesserà: «Tardi ti ho amato, o Bellezza, sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo ed io nella mia deformità mi gettavo sulle cose ben fatte che tu avevi creato. Tu eri con me ed io non ero con te. Quelle bellezze esteriori mi tenevano lontano da te e tuttavia se esse non fossero state in te non sarebbero affatto esistite. Tu mi hai chiamato e hai squarciato la mia sordità; tu hai brillato su di me e hai dissipato la mia cecità; ho gustato e ora ho fame e sete; tu mi hai toccato e io bramo la tua pace».
A distanza di molti secoli la stessa sete di felicità e lo stesso stupore commosso si trova nella vita di un’adolescente piemontese, altra presenza familiare ai lettori di questo giornale. Dal libro che don Primo Soldi ha dedicato a Cilla colgo due flash. Prima dell’«incontro», questa ragazza, quindicenne, ma così profonda e intelligente, in calce al suo diario, nelle “comunicazioni alla famiglia”, scrive di sé: «Signore, le comunico che sua figlia è sola. Signore le comunico che sua figlia non è felice. Signore le comunico che sua figlia vuole amare e non ci riesce».
E un giorno accade qualcosa. La semplicità di un invito delle amiche, che stanno iniziando il cammino di Cl, alla preghiera delle Lodi. Un lampo di meraviglia. Cilla annota: «È la prima volta che prego così… Credo di aver perso una delle cose più importanti della mia vita». Nel giro di poche settimane, con la scoperta di una vita nuova e di un’amicizia vera, la fioritura imprevista. Nel suo Diario si legge: «Prima non esistevo. Sono nata nel momento in cui ho capito cos’è la comunità: il mezzo che mi ha portato a Cristo».
In ogni epoca Gesù si è fatto incontrare in «un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita». Dice Agostino: «Dio si è fatto uomo. Saresti morto per sempre se Lui non fosse nato nel tempo. Mai saresti stato libero dalla carne del peccato, se Lui non avesse assunto una carne simile a quella del peccato. Ti saresti trovato sempre in uno stato di miseria, se Lui non ti avesse usato misericordia. Non saresti ritornato a vivere, se Lui non avesse condiviso la tua morte. Saresti venuto meno, se Lui non fosse venuto in tuo aiuto. Ti saresti perduto, se Lui non fosse arrivato».
Da “Tracce”, dicembre 2008