domenica 30 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 30/11/2008 12:31 – VATICANO - Papa: Dio tocchi i cuori di chi crede che la violenza può risolvere i problemi - All’Angelus Benedetto XVI parla delle vittime delle violenze in India e Nigeria. L’inizio dell’Avvento, che celebra la venuta di Cristo “nei suoi due momenti”. Un ricordo di Pio XII dirante la visita alla basilica di San Lorenzo.
2) India. I cristiani tra due fuochi - Sono i soli a rifiutare il ricorso alla violenza, in un paese insanguinato da un doppio fondamentalismo in armi, musulmano e indù. Da Mumbai all'Orissa, l'analisi di conflitti interreligiosi che non sembrano aver fine, di Sandro Magister
3) Magdi Cristiano Allam torna a parlare della sua conversione - Il vicedirettore del "Corriere della Sera" ha incontrato gli universitari romani - di Luca Marcolivio
4) 29/11/2008 12:40 – VIETNAM - La linea politica di Hanoi è quella di eliminare i cattolici - di Thanh Thuy - C’è una incomprensione di fondo delle autorità verso il concetto stesso di religione dietro alle scelte di oppressione e discriminazione che si evidenziano nel processo contro I parrocchiani di Thai Ha.
5) L'artigianato è una risposta alla crisi, non va "ridotto" o sopportato: è una risorsa - Giorgio Vittadini - sabato 29 novembre 2008 – IlSussidiario.net
6) SCUOLA/ I bambini soldato entrano in classe - Redazione - domenica 30 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ISTRUZIONE/ Sui fondi alle scuole paritarie il governo tentenna. Dovrebbe imparare dal Tribunale di Roma… - Vincenzo Silvano - sabato 29 novembre 2008 – IlSussidiario.net
8) Apertura e ragione – L’Osservatore Romano, 30 Novembre 2008
9) Le religioni e il destino del mondo - di Khaled Fouad Allam - Università di Trieste e di Stanford – L’Osservatore Romano, 30 Novembre 2008
10) ANTICHE E NUOVE CONDANNE CONTRO TUTTI I PATIBOLI. MA PROPRIO TUTTI - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 novembre 2008
11) «Noi oppositori torturati e uccisi» - DI LUCIA CAPUZZI – Avvenire, 30 novembre 2008
12) La rivoluzione della carità nel sacchetto della spesa - GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 30 novembre 2008
13) L’OMAGGIO DEL TENORE Domingo: «È stato un uomo di fede straordinario Per onorarlo ho inciso un cd e farò concerti con brani ispirati ai suoi testi» «Canterò nel mondo le poesie di Wojtyla» - Avvenire, 30 novembre 2008


30/11/2008 12:31 – VATICANO - Papa: Dio tocchi i cuori di chi crede che la violenza può risolvere i problemi - All’Angelus Benedetto XVI parla delle vittime delle violenze in India e Nigeria. L’inizio dell’Avvento, che celebra la venuta di Cristo “nei suoi due momenti”. Un ricordo di Pio XII dirante la visita alla basilica di San Lorenzo.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Dio tocchi i cuori di chi crede che la violena può risolvere i problemi degli uomini. Le vittime di Mumbai e di Jos hanno dato occasione oggi a Benedetto XVI di rinnovare “l’orrore e la deplorazione” per il terrorismo e di pregare “il Signore di toccare il cuore” dei violenti. La preghiera del Papa ha segnato una domenica nella quale Benedetto XVI ha sottolineato l’inizio del tempo liturgico dell’Avvento, ha avuto un ricordo di Pio XII ed ha rivolto un augurio ai fedeli ortodossi del Patriarcato ecumenico. Momenti che hanno scandito la domenica di Benedetto XVI che prima si è recato in visita nella basilica romana di San Lorenzo (nella foto) e poi ha recitato, in piazza San Pietro, l’Angelus, alla presenza di circa 15mila persone.
“Il tempo liturgico dell’Avvento – ha detto al’Angelus - celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: ‘Vegliate!’ (Mc 13,33.35.37). E’ rivolto ai discepoli, ma anche ‘a tutti’, perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso”.
Dopo la recita della preghiera mariana, il Papa ha invitato i fedeli alla preghiera “per le numerose vittime sia dei brutali attacchi terroristici di Mumbai, in India, sia degli scontri scoppiati a Jos, in Nigeria, come pure per i feriti e quanti, in qualsiasi modo, sono stati colpiti. Diverse sono le cause e le circostanze di quei tragici avvenimenti, ma comuni devono essere l’orrore e la deplorazione per l’esplosione di tanta crudele e insensata violenza. Chiediamo al Signore di toccare il cuore di coloro che si illudono che questa sia la via per risolvere i problemi locali o internazionali e sentiamoci tutti spronati a dare esempio di mitezza e di amore per costruire una società degna di Dio e dell’uomo”.
Oggi, inoltre, “ricorre la festa dell’Apostolo sant’Andrea, fratello di Simon Pietro”. “Sant’Andrea – ha ricordato il Papa - è patrono del Patriarcato di Costantinopoli, così che la Chiesa di Roma si sente legata a quella costantinopolitana da un vincolo di speciale fraternità. Perciò, secondo la tradizione, in questa felice circostanza una delegazione della Santa Sede, guidata dal cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, si è recata in visita al Patriarca ecumenico Bartolomeo I. Di tutto cuore rivolgo il mio saluto e il mio augurio a lui e ai fedeli del Patriarcato, invocando su tutti l’abbondanza delle celesti benedizioni”.
Dell’Avvento, Benedetto XVI aveva parlato anche questa mattina, recandosi in visita all’antica basilica romana di San Lorenzo, per la conclusione dell’Anno lauretano, per i 1750 anni dalla morte del santo.
La visita ha dato occasione a Benedetto XVI di evocare alcuni degli eventi più recenti legati alla storia della chiesa, costruita sotto l’imperatore Costantino. “Cade quest’anno – ha ricordato - il 50° anniversario della morte del Servo di Dio, Papa Pio XII, e questo ci richiama alla memoria un evento particolarmente drammatico nella storia plurisecolare della vostra Basilica, verificatosi durante il secondo conflitto mondiale, quando, esattamente il 19 luglio 1943, un violento bombardamento inflisse danni gravissimi all’edificio e a tutto il quartiere, seminando morte e distruzione. Non potrà mai essere cancellato dalla memoria della storia – ha proseguito - il gesto generoso compiuto in quella occasione da quel mio venerato Predecessore, che corse immediatamente a soccorrere e consolare la popolazione duramente colpita, tra le macerie ancora fumanti. Non dimentico inoltre – ha detto ancora - che questa stessa Basilica accoglie le urne di due altre grandi personalità: nell’ipogeo infatti sono poste alla venerazione dei fedeli le spoglie mortali del beato Pio IX (ultimo papa non sepolto in Vaticano, ndr) mentre, nell’atrio, è collocata la tomba di Alcide De Gasperi, guida saggia ed equilibrata per l’Italia nei difficili anni della ricostruzione post-bellica e, al tempo stesso, insigne statista capace di guardare all’Europa con un’ampia visione cristiana”.
Non ricordato da Benedetto XVI, San Lorenzo è legata ad un altro evento del nostro tempo: i funerali che Paolo VI vi celebrò il 13 maggio 1978 per Aldo Moro, lo statista ucciso dalle Brigate Rosse.


India. I cristiani tra due fuochi - Sono i soli a rifiutare il ricorso alla violenza, in un paese insanguinato da un doppio fondamentalismo in armi, musulmano e indù. Da Mumbai all'Orissa, l'analisi di conflitti interreligiosi che non sembrano aver fine, di Sandro Magister
ROMA, 29 novembre 2008 – L'attacco terrorista islamico a Mumbai è scattato mentre ancora i cristiani dell'India sono sotto i colpi delle violenze indù in Orissa e in altre regioni. I crudi bilanci delle due offensive sono simili. Più di 190 gli uccisi in un sol giorno nella capitale economica dell'India. Almeno 118 quelli certificati in Orissa in tre mesi, ma alcune fonti spingono la cifra fino a 500. E poi le centinaia di feriti, le chiese distrutte, le migliaia di case bruciate, le decine di migliaia di fuggiaschi.

Stretto tra i due fondamentalismi aggressivi musulmano e induista, il "piccolo gregge" cristiano dell'India si distingue per il rifiuto di ricorrere alla violenza. L'uso della forza lo reclama dall'autorità costituita, che però manca al suo dovere di esercitarlo. Dalla comunità internazionale arriva un conforto anch'esso debole, distratto. Nemmeno tra i cristiani di tutto il mondo si attiva una forte solidarietà a favore delle vittime appartenenti alla propria stessa fede, siano esse in India o in altre regioni del globo. Giovedì 27 novembre, nelle stesse ore in cui Mumbai era sotto attacco, Benedetto XVI ha lanciato un nuovo appello per la liberazione di due suore missionarie rapite due settimane prima da bande musulmane tra il Kenya e la Somalia. Sempre nelle stesse ore, al Cairo, diecimila musulmani hanno assalito impunemente una chiesa gremita di cristiani copti in preghiera, la cui colpa era di aver aperto un nuovo luogo di culto.

Colpendo al cuore Mumbai, i suoi hotel di lusso, la sua clientela occidentale, l'attacco musulmano ha ottenuto una grandissima visibilità sui media di tutto il mondo. Le vittime designate erano americani, inglesi ed ebrei. Ed è bastato questo a dare una scossa alla geopolitica mondiale. Ma ciò non giustifica che si trascurino le quotidiane violenze interreligiose che insanguinano il continente indiano, e che probabilmente avranno una recrudescenza nel futuro prossimo, con nuovi scontri tra musulmani e indù.

La persecuzione che colpisce i cristiani in India non è un fenomeno soltanto locale. Alcuni dei moventi che la generano sono esclusivi di una società divisa per caste. Ma il caso dell'India è specchio di fratture molto più generali, che dividono il mondo intero lungo crinali che sono anche religiosi.

Basti pensare a quanto diversa e confliggente può essere l'idea di martirio: puro dono della vita per gli uni, arma d'uccisione efferata per altri. In questo tormentato paesaggio globale, i cristiani sono in India vittime pacifiche e maltrattate. Sono in Iraq l'unico gruppo religioso non armato e anche per questo il più perseguitato. Sono negli angoli più disastrati e ostili del mondo – la Somalia, ma non solo – quelli che restano accanto agli "ultimi" mentre tutti gli altri sono fuggiti via.

Di ogni situazione di conflitto interreligioso vanno analizzati a fondo sia i connotati generali, sia quelli particolari. Ed è quanto fa qui di seguito, per il caso dell'India, il teologo e gesuita indiano Michael Amaladoss, che opera tra Delhi, Bangalore e Chennai, autore di libri importanti tradotti in più lingue.

La sua analisi – scritta prima dell'attacco terroristico di Mumbai, ma quasi presagendolo – è apparsa sull'ultimo numero della rivista "Il Regno", pubblicata a Bologna dai religiosi dehoniani:


I recenti conflitti tra indù e cristiani in India di Michael Amaladoss
I conflitti tra indù e musulmani sono stati un fenomeno endemico in India per circa un secolo. Sono stati una caratteristica specifica dei periodi delle feste religiose, quando ogni comunità cerca di manifestare pubblicamente la propria esistenza. Il bersaglio di tali conflitti era costituito solitamente dai musulmani, poiché per la gran parte la polizia e la burocrazia erano favorevoli agli indù. Oggi la situazione sta peggiorando, dal momento che i musulmani preferiscono reagire con attacchi terroristici. Gli indiani di solito incolpavano di tale terrorismo i pakistani. Quest’anno si sono resi conto che i terroristi sono nati e cresciuti in casa propria, anche se possono aver ricevuto un qualche addestramento all’estero.

I conflitti tra indù e cristiani nel passato erano sporadici. Ce n’è stato uno nell’India del Sud circa vent’anni fa. In anni più recenti alcuni cristiani sono stati aggrediti e i loro edifici di culto dati alle fiamme nelle aree tribali del Gujarat. Gli assalti che si sono verificati da agosto nello stato dell’Orissa e in altre regioni sono stati fino ad ora i più gravi, prolungati ed estesi. Il 24 agosto 2008 un sannyasi (dal sanscrito "rinuncia", "abbandono"; è colui che ha raggiunto il culmine del cammino ascetico) indù, lo Swami Laxmananda Saraswati, e quattro dei suoi seguaci sono stati uccisi nel distretto di Kandhamal, nelle regioni montagnose dello stato dell’Orissa. Il corteo funebre per la cremazione della sua salma è stato fatto passare attraverso molti villaggi. Alle popolazioni indù è stato detto che dietro all’uccisione dello Swami c’erano i cristiani. Questo ha spinto le folle indù ad aggredire i cristiani, ad assaltare le loro case, i loro istituti e le loro chiese in tutto il distretto. Molti cristiani per salvarsi sono fuggiti nella giungla. Le loro case sono state saccheggiate e distrutte.

Ecco le cifre della distruzione nell’Orissa tra il 24 agosto e il 4 ottobre 2008: persone uccise 59, chiese o edifici di culto distrutti 151, scuole e orfanotrofi assaltati 13, case date alle fiamme 4.400, villaggi cristiani distrutti 300, feriti 15.000, senzatetto rifugiati in campi profughi 50.000. Una suora è stata picchiata e stuprata. Verso la metà di settembre il conflitto si è esteso allo stato del Karnataka, nel Sud, lungo la costa occidentale: chiese assaltate 22, feriti 20. Sono state attaccate anche 4 chiese nel Madhya Pradesh, 3 nel Kerala, 1 nel Tamil Nadu e 1 a Nuova Delhi.

Un gruppo maoista ha rivendicato la responsabilità dell’uccisione dello Swami e dei suoi compagni, affermando di averlo fatto perché le vittime stavano promuovendo divisioni tra il popolo in nome della religione. Ma gli indù hanno preferito accusare i cristiani di essere i mandanti degli omicidi. Il governo locale ha nominato una commissione giudiziaria per scoprire la "verità", ma ciò richiede solitamente un paio d’anni prima di giungere a una qualche conclusione e questo sistema è un modo per eludere la responsabilità immediata.


Il movimento Hindutva
Il gruppo che sta dietro la violenza è il movimento Hindutva, ossia della identità indù. Si tratta di un movimento identitario che sfrutta il sentimento religioso per scopi politici. Non sono veramente dei fondamentalisti dal punto di vista religioso, in quanto la religione è soltanto uno strumento politico. Questo movimento ha circa novant’anni di vita e numerose ramificazioni. Alla base vi è un gruppo chiamato Rashtriya Swayamsevak Sangh, RSS, "Organizzazione nazionale di volontari", che raccoglie gli indù e dà loro un addestramento paramilitare, instillando un forte senso dell’identità e una ferrea disciplina personale.

L’ala politica è il Bharatiya Janata Party, BJP, Partito popolare indiano. Questo partito è stato al potere nel governo centrale prima dell’attuale coalizione di governo, e attualmente è al comando in tre stati: Gujarat, Madhya Pradesh e Rajasthan. Nell’Orissa e nel Bihar fa parte di coalizioni di governo guidate da altri partiti locali. L’ala culturale è il Vishwa Hindu Parishad, VHP, Consiglio mondiale indù. La truppa è il Bajrang Dal, Brigata di Hanuman, ossia del dio-scimmia che stava a capo dell’esercito di Rama, un avatar divino, incarnazione di un essere celeste. Vi sono altre organizzazioni per studenti, lavoratori, sannyasi ecc. Il gruppo nel suo complesso è chiamato Hindu Sangh Parivar, Gruppo della famiglia indù.

L’ideologia dell’Hindutva si autoqualifica come nazionalismo culturale. Ritiene l’induismo una cultura più che una religione, che determina l’identità nazionale indiana. Afferma che le altre religioni indiane come il buddhismo, il giainismo e il sikhismo appartengono al più ampio ceppo indù. Per un indù l’India non è solo la madrepatria, ma anche una terra santa. L’islam e il cristianesimo sono considerati religioni straniere dal momento che le loro terre sante sono al di fuori dell’India. L’India deve diventare una nazione indù. Le religioni straniere saranno tollerate. Sebbene questa ideologia sia nata nel 1920 dal libro intitolato "Hindutva" di Vinayak Damodar Savarkar, il desiderio della libertà indù dalla dominazione musulmana e poi cristiana britannica, che aveva imperato per quasi mille anni, era già presente e vivo nella seconda metà del XIX secolo.

Quando l’India nel 1947 divenne indipendente, la leadership di Gandhi e di Nehru optò per uno stato "laico" che rispettasse equamente tutte le religioni. Tuttavia un certo orgoglio indù e una discreta antipatia verso i musulmani per il loro fondamentalismo e verso i cristiani per il loro proselitismo oggi sono diffusi tra gli indù a tutti i livelli, anche se non la manifestano secondo modalità violente.

Una strategia che il movimento Hindutva segue per affermarsi è alimentare tra gli indù la paura di essere una minoranza. Sebbene gli indù siano in India l’80 per cento della popolazione, viene detto loro che a livello mondiale sono una minoranza rispetto ai più potenti cristiani in Europa e nelle Americhe e ai musulmani in Medio Oriente, Pakistan, Bangladesh, Indonesia, Malaysia ecc. Inoltre la presenza cristiana viene presentata come una continuazione del colonialismo. In una democrazia i numeri contano, ed esponenti dell’Hindutva hanno accusato musulmani e cristiani d’incrementare i loro adepti, i primi mediante il loro più alto tasso di natalità, i secondi mediante le conversioni. Anche le conversioni sono viste come un oltraggio alla loro religione.


Il problema delle conversioni
Convertirsi non è semplicemente cambiare religione, ma ha conseguenze sociali e politiche. Ovviamente musulmani e cristiani non votano per il partito indù. Le poche conversioni al cristianesimo riguardano soprattutto i dalit – gli "intoccabili" che stanno nel gradino più basso della gerarchia delle caste – o i tribali, poveri e sottosviluppati, ma sfruttati e dominati dai più ricchi indù. I tribali seguono anche religioni naturali diverse dall’induismo, tuttavia viene fatto ogni sforzo per integrarli nel ceppo indù. I poveri che si convertono al cristianesimo ricevono un’istruzione migliore e una migliore assistenza sanitaria grazie alle istituzioni cristiane. Diventano consapevoli dei propri diritti e cominciano a richiederne il riconoscimento. In quanto cristiani non appartengono, almeno in senso tecnico, al sistema sociale gerarchico indù. La conversione, di conseguenza, affranca i dalit e i tribali e questo non viene certo apprezzato dagli indù economicamente e socialmente dominanti che li hanno sfruttati fino a oggi. Questo è causa di frizioni e di conflitto.

Sebbene la costituzione indiana garantisca a tutti i cittadini il diritto di praticare e di propagare qualsiasi religione, alcuni stati tra cui il Gujarat, l’Orissa, il Madhya Pradesh e il Rajasthan hanno approvato leggi che proibiscono la conversione sia mediante la forza sia mediante la persuasione. Le persone che vogliono convertirsi devono informare il funzionario del governo locale. Questa legge può essere usata per perseguitare missionari e nuovi convertiti, anche se questo non si è mai verificato su vasta scala. In alcune aree vi è un piano per riconvertire la popolazione all’induismo.

Il BJP non è in grado di raccogliere da solo più del 20-25 per cento dei voti nelle elezioni nazionali, ossia, senza coalizzarsi con partiti regionali. Tuttavia esso per affermarsi segue la strategia di dividere gli indù dagli altri gruppi mediante un’azione di falsa propaganda contro musulmani e cristiani. Essi arrivano a fare uso della violenza contro le minoranze solamente negli stati in cui il partito indù è al potere.

Il governo, che punta al sostegno politico, finge di non vedere le attività di questi indù. La polizia, la cui maggioranza è indù, tende a simpatizzare con loro e a non imporre il rispetto della legge, a meno che non vi sia una energica direttiva da parte del governo. In caso di manifestazioni, la polizia è spesso numericamente molto inferiore e impotente. Essa non intraprende alcuna azione di forza se non quando viene attaccata. Per questo motivo, a volte il governo per imporre la legge e riportare l’ordine deve far arrivare rinforzi da fuori del proprio stato, inviati dal governo centrale.

Il caso dell'Orissa
Questo è lo sfondo di ciò che è accaduto in Orissa. Qui la maggior parte delle violenze ha avuto luogo nel distretto di Kandhamal. La maggioranza della popolazione (650.000) è qui costituita da poveri: tribali (52 per cento) e dalit (18 per cento). I cristiani sono circa il 16 per cento, mentre nell'intero stato sono solo il 2,4 per cento. Il 60 per cento dei cristiani appartiene al gruppo di dalit chiamati panas. L’area è principalmente agricola e sottosviluppata. Si estende all’interno dello stato ed è di difficile accesso. Fra i tribali e i dalit vi è sempre stata tensione sia sul versante economico sia su quello sociale. Economicamente i dalit sembrano stare un po’ meglio. Facendo da intermediari in operazioni di prestiti di denaro da parte ricchi mercanti venuto da fuori hanno approfittato di questo ruolo per impadronirsi di terre appartenenti ai tribali. I tribali ovviamente non lo sopportano e vi si oppongono.

La costituzione prevede programmi di lotta alle discriminazioni delle minoranze, assegnando sia ai tribali sia ai dalit posti riservati negli istituti scolastici e posti di lavoro nell’amministrazione pubblica. Ma i dalit che diventano cristiani non sono classificati più come dalit dal governo, dal momento che il sistema delle caste è considerato un fenomeno essenzialmente indù. I dalit allora si sono mobilitati per essere riconosciuti come tribali, categoria alla quale essi rivendicano di aver appartenuto in origine. Ai dalit indù essere classificati come tribali faciliterebbe il possesso e il controllo delle terre, dal momento che vi sono leggi che cercano di tutelare la proprietà terriera. Ai dalit cristiani permetterebbe di avere accesso ai programmi contro la discriminazione delle minoranze, dal momento che i tribali, a differenza dei dalit, sono riconosciuti come tribali anche quando diventano cristiani. Questo implicherebbe anche un qualche tipo di avanzamento sociale per i dalit perché così non farebbero più parte del sistema castale indù.

Ma i tribali si sono opposti perché ciò significherebbe un dominio nei loro confronti da parte dei dalit, che godono di un maggior livello d’istruzione e di un maggior benessere economico, poiché occuperebbero i posti riservati nelle strutture scolastiche e nel mercato del lavoro nella pubblica amministrazione. Vi sono stati scontri occasionali tra i due gruppi da alcuni anni a questa parte. La novità degli ultimi anni è che i gruppi dell’Hindutva hanno aggiunto una dimensione religiosa a questo conflitto socio-economico, organizzando i tribali come un gruppo indù avversario dei dalit in gran parte cristiani.

Il sannyasi che è stato ucciso era attivamente impegnato nell’organizzazione politica dei tribali come gruppo indù militante. Quando è stato ucciso, i gruppi dell’Hindutva hanno approfittato dell’occasione per incolpare i dalit cristiani di aver architettato il suo assassinio e hanno spinto i tribali indù a rivoltarsi contro di loro. Tra persone povere, oppresse, in gran parte disoccupate è facile trovare giovani pronti a usare la violenza come mezzo per dare sfogo alle proprie frustrazioni, specialmente se c’è la possibilità di saccheggiare le case dei cristiani.

Dal momento che la regione è piuttosto isolata rispetto alle normali vie di comunicazione e la presenza della polizia è sporadica, è facile per gruppi di predatori distruggere con armi improvvisate e benzina tutto ciò che si para loro davanti. L’unica cosa che i cristiani indifesi possono fare è fuggire nella foresta per salvarsi la vita. Quando vi è soltanto un’unica strada stretta per raggiungere un luogo è facile rallentare l’avvicinamento delle auto della polizia, abbattendo un albero e gettandolo di traverso nella strada.

Anche se la polizia fosse stata presente, sarebbe stata comunque di forze troppo esigue per fronteggiare una sollevazione armata. Il governo dell'Orissa è alleato del BJP e non è stato né pronto, né disponibile, né sollecito né zelante nel tenere a freno la violenza. La legge e l’ordine sono responsabilità di ogni singolo stato stato, per cui il governo centrale non può intervenire in maniera diretta, a meno che questo non sia richiesto dallo stato locale. Anche quando il governo centrale invia alcune forze paramilitari, lo stato deve farne un uso effettivo.

Vi è anche il sospetto che, dal momento che le elezioni per il parlamento nazionale si terranno tra pochi mesi, le forze dell’Hindutva stiano usando tali conflitti come un mezzo per mobilitare il voto indù diffondendo paura e agitazione. Il governo centrale sta più che mai attento a non prestarsi al loro calcolo elettorale, benché abbia fornito consigli e chiesto che il governo locale gli inviasse rapporti sulla situazione, come da norma costituzionale.

Se la situazione dovesse portare a un collasso totale della legge e dell’ordine, il governo centrale potrebbe destituire il governo locale. Ma si tratta di un atto politico e il BJP ha già messo in guardia il governo centrale dall’intraprendere questa strada. Con il pretesto che è un’area turbolenta, diversi organismi ecclesiali e altre ONG indipendenti non sono stati autorizzati a entrare nella regione per portare aiuto alla gente che si trova ancora nei campi profughi. Vi sono leader ecclesiali che vivono sotto minaccia. Il movimento Hindutva sta costringendo i cristiani a riconvertirsi all’induismo se desiderano fare ritorno ai loro villaggi e alle loro case ormai distrutte.


La reazione dei cristiani
Sebbene vi siano state provocazioni anche in precedenza, i cristiani non erano mai andati oltre a delle blande proteste. Mentre la Chiesa cattolica e le principali Chiese protestanti non sono troppo attive nel fare conversioni, le Chiese pentecostali sono molto attive e addirittura aggressive, condannando le altre religioni come diaboliche. Ma gli indù non fanno distinzioni nei loro attacchi. Ora, per la prima volta, tutti i cristiani si sono uniti in un’azione comune di autodifesa.

Tutte le istituzioni cristiane in tutta l’India, in settembre, sono rimaste chiuse per una giornata in segno di protesta, e hanno fatto pressione in vari modi sul governo centrale perché prendesse provvedimenti adeguati. A Delhi i cristiani hanno fatto un pubblico sit-in di protesta per un’intera settimana e l’hanno poi concluso con un corteo alla tomba del Mahatma Gandhi, pregando per l’armonia nella comunità. Questa dimostrazione di protesta è stata condivisa da molti leader di altri gruppi religiosi.

Un altro sviluppo positivo è stato il fatto che i cristiani hanno spostato la questione del conflitto dal piano religioso a quello dei diritti umani e della società civile: il diritto e la libertà di ogni indiano di praticare la propria religione. Grazie a questo, persone di tutte le religioni e ideologie si sono unite alla protesta dei cristiani. Sono state contattate le commissioni per i diritti umani dell'India e delle Nazioni Unite.


Un gruppo di sfollati ha fatto appello alla commissione delle Nazioni Unite per i rifugiati perché li riconosca come rifugiati. Una parte dei media e della magistratura ha dato ampio sostegno. La commissione nazionale per le minoranze ha visitato l’area, ha condannato l’inazione del governo locale e ha chiesto un intervento del governo centrale. Sono state avanzate richieste di vietare alcune delle organizzazioni più attive dell’Hindutva, come il Vishwa Hindu Parishad e la Bajrang Dal. In tal modo la Chiesa sta percorrendo una via non violenta, ma politica, per fare pressione e cercare giustizia. Come potenza mondiale emergente, gli indiani devono essere attenti anche all’opinione della comunità internazionale.

Penso che, se nel paese vi saranno maggiore sviluppo economico, più giustizia, più uguaglianza e meno povertà, vi sarà anche meno violenza perché vi saranno meno soldati impegnati in battaglie per conto di altri. Fino ad allora i politici continueranno a usare temi come la casta, l’appartenenza etnica e la religione per provocare conflitti.

A Mumbai un gruppo si è mobilitato contro immigrati da altre zone dell'India, giunti in città in cerca di lavoro. All’inizio di ottobre sono scoppiati scontri nel Nordest fra tribali del luogo e immigrati musulmani provenienti dal Bangladesh. Un paio di mesi fa nel Kashmir vi è stata una mobilitazione di musulmani, durata un mese, contro il governo perché quest’ultimo aveva concesso in affitto un terreno a un ente pubblico indù per facilitare la sistemazione di grossi gruppi di pellegrini.

Il conflitto tra indù e musulmani sta peggiorando e sta assumendo connotazioni terroristiche. E così questa storia andrà avanti ancora. Che cosa significa "dialogo interreligioso" in una situazione del genere? Non possiamo dialogare con fondamentalisti e identitari. Il dialogo dovrà cominciare dalla risoluzione dei conflitti per poi spostarsi al livello della collaborazione per il rispetto dei diritti umani nella società civile, prima di raggiungere il livello religioso.


Magdi Cristiano Allam torna a parlare della sua conversione - Il vicedirettore del "Corriere della Sera" ha incontrato gli universitari romani - di Luca Marcolivio
ROMA, venerdì, 28 novembre 2008 (ZENIT.org) – Su invito della Pastorale Universitaria, Magdi Cristiano Allam è tornato a parlare della sua conversione al cattolicesimo. Nella cornice del Teatro Argentina, il vicedirettore del Corriere della Sera ha incontrato gli studenti degli atenei romani, ripercorrendo le tappe della sua vicenda umana e spirituale.
Partendo dalla notte di Pasqua 2008 (“il giorno più bello della mia vita”), durante la quale Allam ricevette il battesimo in San Pietro, dalle mani di Papa Benedetto XVI, il giornalista italo-egiziano, ha raccontato gli episodi della propria vita e le riflessioni che lo hanno indotto ad abbracciare “una nuova vita in Cristo ed un nuovo percorso di spiritualità”.
“Questo cammino – ha raccontato Allam – è iniziato in modo apparentemente fortuito, in realtà provvidenziale. Dall’età di quattro anni ebbi l’opportunità di frequentare, in Egitto, scuole italiane cattoliche: fui allievo, prima, delle suore comboniane, poi, dalla quinta elementare, dei salesiani”.
“Ricevetti così un’educazione che mi ha trasmesso valori sani e apprezzai la bellezza, la verità, la bontà e la ragionevolezza della fede cristiana”, dove “la persona non è un mezzo ma un punto di partenza e di arrivo”, ha proseguito Allam.
“Grazie al cristianesimo – ha detto ancora – ho compreso che la verità è l’altra faccia della libertà: esse sono un binomio indissolubile. La frase ‘La verità farà liberi’ è un principio che voi giovani dovreste tenere sempre in mente, specie oggi che, disprezzando la verità, si abdica alla libertà”.
“La mia conversione – ha aggiunto – è stata possibile grazie alla presenza di grandi testimoni della fede, primo fra tutti, Sua Santità Benedetto XVI. Chi non è convinto della propria fede, spesso, è perché non trovato nella propria testimoni credibili di questo grande dono”.
“Il secondo binomio indissolubile nel cristianesimo – ha proseguito il giornalista – è senz’altro quello tra fede e ragione. Quest’ultima è in grado di sostanziare la nostra umanità, la sacralità della vita, il rispetto della dignità umana e della libertà di scelta religiosa”.
“Un evento, prima della conversione, mi fece riflettere più degli altri – ha rivelato –: il discorso del Papa a Ratisbona (12 settembre 2006). In quell’occasione il Pontefice, citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, affermò ciò che i musulmani stessi non hanno mai rinnegato, ovvero che l’Islam diffonde il proprio credo, soprattutto con la spada”.
“C’è un pericolo più subdolo e più grosso di quello del terrorismo dei tagliagole – ha aggiunto Allam –; è il terrorismo dei taglialingue, ovvero quella paura di affermare e divulgare la nostra fede e la nostra civiltà e ci porta ad autocensurarci e a negare i nostri valori, mettendo sullo stesso piano tutto e il contrario di tutto: si pensi alla sharia applicata anche in Inghilterra”.
“Il cosidetto ‘buonismo’ – ha continuato –, ovvero concedere sempre all’altro ciò che lui vuole, è l’esatto contrario del bene comune, perfettamente indicato da Gesù: ‘ama il prossimo tuo come te stesso’ (Mt 19/16-19). Tale precetto evangelico ci conferma che non possiamo voler bene agli altri se prima non amiamo noi stessi. Lo stesso vale per la nostra civiltà”.
“Contrari a tale principio – ha detto ancora Allam – sono l’indifferentismo e il multiculturalismo che, senza alcun collante identitario, pretendono di concedere a piene mani diritti di ogni tipo a tutti. Risultato del multiculturalismo è stata l’implosione della solidità sociale e lo sviluppo di ghetti e gruppi etnici in perenne conflitto con la popolazione autoctona”.
“Ciò mi porta a considerare il terzo grande binomio della civiltà cristiana, quello relativo a regole e valori, volano di un possibile riscatto etico per l’Europa attuale – ha proseguito –. Il vecchio continente, però, è un colosso di materialità dai piedi d’argilla. Il materialismo, infatti, è un fenomeno globalizzato, a differenza della fede che non lo è”.
Rispondendo a una domanda sulla possibile compatibilità tra fede e ragione nell’Islam, l’ex musulmano Allam ha risposto che “a differenza del Cristianesimo, religione del Dio incarnato nell’uomo”, l’Islam si concretizza in un testo sacro ed “essendo tutt’uno con Dio, non è interpretabile”.
“Le stesse gesta di Maometto – ha aggiunto – documentate dalla storia e mai rinnegate dagli stessi fedeli musulmani, testimoniano di massacri ed eccidi perpetrati dal profeta. Quindi, il Corano è incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo e i valori non negoziabili. In passato cercai di farmi portavoce di un Islam moderato ma fui fortemente ostacolato. Possono esistere musulmani moderati, ma non un Islam moderato in sé”.
Quanto al dialogo tra Islam e cristianesimo, il vicedirettore del Corriere della Sera ha affermato che esso è possibile, solo ed esclusivamente “se saremo autenticamente cristiani nell’amore, anche verso i musulmani. Se relativizziamo il dialogo, incentiveremo i nostri interlocutori a guardarci come infedeli, quindi terreno di conquista”.
Rivolto agli studenti presenti in sala, Magdi Allam ha sottolineato l’importanza di un’educazione che ritorni a trasmettere “una concezione etica della vita, con valori e regole al centro di tutto”. Negazione di tali principi è, ad avviso di Allam “il capitalismo selvaggio che, paradossalmente, ha il suo massimo sviluppo, nella Cina comunista”.
“Non possiamo concepire la persona in termini ‘aziendalisti’ e dobbiamo trovare regole di convivenza che non siano fondate sul materialismo. Dobbiamo ridefinire la nostra società sull’essere e non più sull’avere”, ha poi concluso Allam.


29/11/2008 12:40 – VIETNAM - La linea politica di Hanoi è quella di eliminare i cattolici - di Thanh Thuy - C’è una incomprensione di fondo delle autorità verso il concetto stesso di religione dietro alle scelte di oppressione e discriminazione che si evidenziano nel processo contro I parrocchiani di Thai Ha.
Hanoi (AsiaNews) – C’è l’incomprensione verso l’idea stessa di religione da parte delle autorità politiche vietnamite dietro il continuo tentativo di soffocare cattolicesimo, protestantesimo ed anche altre religioni, che ora si evidenzia col processo che il 5 dicembre sarà celebrato contro otto fedeli della parrocchia di Thai Ha.
Se si visita il Vietnam, su molte parrocchie si possono vedere le scritte “prega per la Chiesa del Vietnam” o “prega per la pace e la giustizia”. Questa è una invocazione sempre presente nella preghiera dei cattolici di questo Paese. Cattolici che il governo comunista ha oppresso in modo sofisticato ed a vari livelli. Ma, in questa occasione le autorità non rispettano il Consiglio dei vescovi vietnamiti. Vogliono chiaramente eliminare i cattolici.
Il governo ha violato la libertà di religione e si prepara a giudicare gli otto fedeli della parrocchia di Thai Ha per motivi ingiusti, accusandoli di aver danneggiato proprietà e disturbato l’ordine sociale”. Processano gli otto fedeli per minacciare gli altri cattolici ed i fedeli di altre religioni ed in genere hanno l’obiettivo di minacciare le persone che vogliono battersi per la giustizia e la libertà di religione.
Ogni cattolico ed ogni parrocchia è stata invitata a pregare per la giustizia, la pace e la libertà religiosa in Vietnam. I fedeli questa volta hanno bisogno della voce dei vescovi per dire la verità, denunciando che il governo si è appropriato dei terreni della Chiesa, ma ha accusato falsamente i cattolici.
All’origine della discriminazione delle autorità verso i credenti, non solo cristiani, spiega ad AsiaNews un professore dell’Università nazionale di Hanoi “c’è un pregiudizio. Si spiegano male il concetto stesso di religione. Non capiscono bene e così guidano male il Paese, portando numerose cose negative, come la corruzione nel governo, il cattivo sistema educativo, l’ingiustizia verso i contadini che lavorano per vivere e mangiare”.
L’idea dei comunisti vietnamiti sulla religione è che essa “è una forma di coscienza sociale. La coscienza rispecchia il mitico, l’illusione della realtà oggettiva. La religione si basa sempre sulla credenza, una credenza del trascendente. La religione non può essere esaminata dalla realtà”.
Così, il governo ha dato istruzione alle autorità di tutti i livelli di “controllare la situazione dele religioni, classificare i fedeli delle religioni per avere soluzioni adatte a convincere le persone a lasciare la loro religione. E la linea politica è di opporsi, escludere e dicriminare i cattolici del Vietnam


L'artigianato è una risposta alla crisi, non va "ridotto" o sopportato: è una risorsa - Giorgio Vittadini - sabato 29 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Gli artigiani sono i protagonisti di un settore che rimane una leva portante del sistema produttivo italiano nei suoi tre comparti, sub-fornitura, produzione e servizi. Accanto alla rilevanza quantitativa, quale è il valore dell’artigianato per l’imprenditoria e, ancora più in generale, per il lavoro nel nostro Paese? Una certa parte della cultura e delle ideologie dominanti concepisce il lavoro come luogo di alienazione e sfruttamento da parte del più forte contro il più debole e perciò ripropone, in forme diverse, una perpetua lotta di classe, una continua rivendicazione dei propri diritti con assenza di responsabilità e ricerca del merito. Altre ideologie à la page riducono l’imprenditore a un animal oeconomicus, le leggi di mercato a una lotta darwinistica per l’eliminazione del più debole, la “risorsa umana” in azienda a una commodity, come fosse il petrolio o altri mezzi di produzione di tipo finanziario o materiale.
Invece l’artigianato si smarca, nella teoria e nella prassi, da queste riduzioni. La sua forza sta tutta nella centralità della persona e delle persone, maestranze e titolari della ditta. In questo settore sono le persone che con la loro creatività e operosità generano innovazione e sviluppo, perché non sono ridotte a una risorsa umana, a un fattore della produzione, ma sono piuttosto una risorsa nella loro integralità, nella loro capacità creativa e generativa.
È questa, in realtà, la caratteristica di ogni lavoro che non venga concepito in modo ridotto, così come afferma don Giussani: «Le cose ci vengono incontro, un’emozione preme il cuore, una fantasia si apre alla nostra mente, una volontà di afferrare queste cose, di collocarle dentro un disegno, di farne materia di una figura nuova, insorge: così avviene che ognuno si trova sulla strada della creatività»[1].
Questa verità, che vale per ogni lavoro, vale in particolare per l’artigianato dove il protagonista esprime un tratto della sua personalità nell’assetto stesso dell’azienda e nel processo produttivo. L’artigianato è la versione più innovativa e riuscita di quel capitalismo familiare che ha così grande parte nella nostra economia: «Il capitalismo familiare è infatti la versione moderna del cosiddetto capitalismo personale, che proprio nel mondo artigianale ha una lunghissima tradizione in Italia ed è costituito da tutte quelle attività imprenditoriali in cui impresa e imprenditore si sovrappongono (per esempio il nome stesso della società è quello dell’imprenditore, oppure il marchio sul prodotto riproduce il cognome dell’imprenditore, ecc.). L’azienda è il modo in cui la persona mette in gioco le sue idee, la sua voglia e capacità di rischiare, di intraprendere: d’altra parte il vantaggio competitivo dell’azienda è dato soprattutto dalle capacità e dalla reputazione della persona che la guida e che si identifica con essa. […] Dal punto di vista economico, il principale punto di forza della piccola impresa di famiglia è costituito dalla coincidenza che in essa si realizza tra proprietà e gestione: non essendoci bisogno di deleghe, vengono a mancare quelle situazioni di conflitto di interesse tra proprietari e manager, tipiche della grande impresa a proprietà diffusa, assai onerose per l’impresa stessa. Dal punto di vista ideale poi le imprese familiari rappresentano una ricchezza senza pari per la nostra economia, perché in esse trovano concretezza i valori dell’imprenditorialità e dello spirito di intrapresa, ovvero quella cultura d’impresa che significa capacità di assunzione del rischio non disgiunta però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa. Quindi, imprenditorialità, libertà e responsabilità: tre termini inscindibili, perché l’imprenditorialità ha bisogno di libertà e d’altronde non c’è vera imprenditorialità senza responsabilità».
Da questo punto di vista, il prodotto artigianale è significativo perché non è omologabile e porta i tratti dell’unicità e irripetibilità della persona umana: «Da questa prospettiva la ricerca della diversità, della non omologazione, della presenza - al contrario - delle tracce di un’umanità (quella dell’artigiano) è quella che contraddistingue qualitativamente la domanda di manufatti artigianali. Non tanto, quindi, un prodotto, una merce, nella quale identificarsi per i suoi significati, più o meno onirici, ma un manufatto nel quale trovare tracce di alterità, di umanità. In fondo tracce della persona. Cioè, in qualche modo, di se stessi».
Perché questo avvenga non si può però vivere di sogni. La creatività, l’immaginazione devono misurarsi con la realtà, così come dice ancora don Giussani: «C’è qualcosa da rispettare, da riconoscere, da abbracciare, da accettare per poter creare. Così entra nella nostra mente e nelle nostre braccia, fin dentro il nostro cuore, un fattore che sembrerebbe ostile: la fatica. (“Con il sudore della tua fronte…”)[2]. C’è un’obbedienza che dal di dentro deve governare l’iniziativa in cui ti lanci, il rischio in cui ti cimenti. Innanzitutto, deve essere obbedienza a fattori che non sono totalmente alla tua mercé, che ti si propongono e che ti si impongono: devi rispettare questi fattori e tutta la fatica, in tal senso, deve essere abbracciata come parte della tua genialità creativa, e perciò del tuo amore e del tuo gusto fattivo»[3].
Anche queste affermazioni valgono per ogni tipo di lavoro, ma assumono un valore paradigmatico nell’artigianato, dove il titolare non si limita a dare ordini da dietro una scrivania, ma si assoggetta a quel lavoro manuale, fisico, in cui la creatività diventa, nella generazione del prodotto, con il sudore della propria fronte, obbedienza a condizioni precise, puntuali, materiali, indispensabili per dar vita a oggetti, oltre che belli, fondamentali per la vita quotidiana: dalle forbici agli infissi, al disegno su vetro, alla produzione di arredo, alla sicurezza, all’illuminazione. Da questa disponibilità ad obbedire al reale nasce un tratto non sempre sottolineato dell’impresa artigiana: la sua grande e umile capacità di cambiamento, la disponibilità maggiore che in altro tipo di imprese ad accettare di modificarsi in funzione delle nuove necessità che nuovi bisogni e mutate condizioni di mercato impongono.
Ciò si traduce, sotto il profilo economico, nel suo carattere fortemente innovativo, spesso sottovalutato a causa di uno stereotipo abusato e stantio che vuole gli artigiani chiusi in botteghe minuscole e polverose, spesso legati a professioni in via di estinzione, come dice ancora Marseguerra: «L’elemento unificante delle storie di artigiani di successo riportate nel volume può forse essere rintracciato nella capacità mostrata da questi imprenditori artigiani di produrre innovazione (di prodotto principalmente, ma anche di organizzazione, di marketing, ecc.). Eppure, il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un modello innovativo spesso chiamato “senza ricerca” per i bassi livelli di spesa in ricerca e sviluppo. Come è stato possibile per un tale sistema produrre innovazione in modo così consistente e per così tanto tempo? Il punto è, in estrema sintesi, che in molti dei settori di specializzazione italiana, la ricerca formalizzata, quella che tende ad essere svolta nei laboratori di ricerca delle imprese, negli istituti di ricerca pubblica e nelle Università (e che è colta dai dati sulla spesa in R&S), costituisce solo una parte della innovazione delle nostre piccole e medie imprese. Nei nostri settori di specializzazione più tradizionali, i fattori d’innovazione tendono ad essere il design, la progettazione, l’organizzazione, l’introduzione di nuovi macchinari, l’imitazione, ecc. Queste attività innovative, peraltro estremamente rilevanti per la competitività delle imprese e del sistema, sono essenzialmente applicative e non formalizzate, e ben difficilmente contabilizzate nei bilanci come spese in R&S».
L’Artigiano in Fiera è anch’essa un’impresa “artigianale”, un esempio di “capitalismo familiare” nato dalla creatività di un gruppo di amici che, come spiega Antonio Intiglietta, suo fondatore, «ci porta a conoscere personalmente ogni singolo artigiano: in questo modo partecipiamo del suo destino e della scommessa che egli fa sul suo lavoro e sul suo possibile successo; analogamente partecipiamo ai suoi momenti di crisi e di fatica».
Una “ storia di storie” che, pur completamente immersa nel nostro tempo, affonda le radici nella nostra più autentica tradizione, in quelle fiere e mercati che per secoli hanno permesso lo sviluppo della nostra economia e di quella europea, attraverso scambi non solo commerciali ma anche, e forse soprattutto, culturali.
Non è quindi un caso che l’Artigiano in Fiera sia nato a Milano e ospitato dalla sua Fiera, erede di quella Fiera Campionaria tanto importante per la nostra ripresa economica nel dopoguerra e che rappresentò una riproposta, in chiave moderna, della fiera come momento di incontro di popolo, oltre che tra produttore e consumatore.
Solo un’ignavia, alimentata da pregiudizi ideologici, può far dimenticare, mentre si parla di economia e nuovo sviluppo, questa affascinante realtà.

[1] Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, 2000, p. 150.
[2] Gen 3,19.
[3] Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, 2000 cit., p.151.


SCUOLA/ I bambini soldato entrano in classe - Redazione - domenica 30 novembre 2008 – IlSussidiario.net
I bambini soldato sono entrati prepotentemente nelle scuole di Abbiategrasso; lo hanno fatto grazie alla mostra di AVSI esposta in questi giorni nei locali dell'Annunciata. Ben 58 classi hanno visitato la mostra che è imperniata sui disegni dei bambini soldato dell'Uganda e dai quali traspare sia la drammaticità del male di cui questi bambini sono stati vittime sia la forza del bene, capace di ricostruire il loro "io" così profondamente lacerato e di rilanciarlo in modo positivo all'attacco della vita.
Aver lasciato entrare dentro la quotidianità della scuola lo sguardo di questi bambini soldato è stata una significativa opportunità educativa, come ho potuto io stesso riscontrare dalla commozione degli studenti di una classe con cui sono andato a visitarla. Io conoscevo la drammatica vicenda degli ex-bambini soldato, sapevo di questo dramma, lo avevo seguito passo dopo passo; ma quanto mi hanno insegnato i "miei" studenti è stato molto di più di quanto in questi anni avevo appreso. Loro, guardando la mostra, mi hanno portato a scoprire la positività che si impone nello sguardo e nei disegni degli ex-bambini soldato, più forte della bruttura e della violenza di cui sono state vittime.
Quanto è stato bello guardando quella mostra essere stato provocato ad andare a cercare l'origine della positività che proprio perché esplode nei bambini soldato, i quali avrebbero tutte le ragioni per essere scettici e disperati, ci appartiene in quanto essere umani ed arriva fino a noi, dentro le nostre famiglie, dentro le nostre scuole, dentro le nostre amicizie.
Per questo sono grato che i bambini soldato siano entrati dentro la scuola, perché l'hanno aperta alle dimensioni del reale, e in questo ancor di più ad alcune studentesse e studenti che, impegnandosi a fare da guida, hanno accompagnato le classi a guardare la mostra. Questi giovani mi hanno commosso per la modalità con cui hanno fatto da guida: mentre parlavano dei bambini soldato, mentre spiegavano il loro dramma, mentre sottolineavano quel disegno o quell'altro, era evidente che si erano immedesimati con la loro umanità nell'esperienza dei bambini soldato e comunicavano la speranza che traspariva dai loro occhi. Così queste ragazze e queste ragazze mi hanno insegnato come si comunica un'esperienza, mettendoci dentro tutto il proprio cuore.
(Gianni Mereghetti)


ISTRUZIONE/ Sui fondi alle scuole paritarie il governo tentenna. Dovrebbe imparare dal Tribunale di Roma… - Vincenzo Silvano - sabato 29 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, intervenendo al question time alla Camera nel pomeriggio del 26 novembre in risposta alle interrogazioni parlamentari poste da Luisa Santolini dell’Udc, Rosa De Pasquale e Letizia Torre del Pd, ha assicurato l’impegno «formale e sostanziale» del governo per il «ripristino a breve dell’intera somma» dei fondi destinati alla scuola paritaria, per il quale «il Ministero dell’Istruzione è in contatto con il Ministero dell’Economia».
Ne prendiamo atto positivamente, anche se la ricostruzione dei fatti offerta desta qualche perplessità e non scioglie certamente tutti i dubbi.
Nel merito, ricordiamo che anche la recente legge di assestamento del bilancio dello Stato (L.167 del 17 ottobre 2008) ha confermato la cifra di 534 milioni di euro per le scuole paritarie nell’anno 2008. Se anche il Parlamento ha approvato tale previsione -e lo ha fatto poche settimane fa- non si è capito ancora chi si sia arrogato il diritto di decidere che i 140 milioni di euro (corrispondenti ai 4/12 del contributo 2008) fossero “accantonati”, “congelati”, fatti svanire nel nulla! Dobbiamo davvero pensare che ci sia stato un atto di “pirateria burocratica” dentro il Ministero, da parte di qualcuno che non ama la libertà di educazione o non si rende conto di quanto siano gravi le conseguenze di simili scorribande?
Per quanto riguarda la presenza di accantonamenti per100 milioni di euro segnalati dagli uffici scolastici regionali, fondi che il governo intende mettere a disposizione per alleviare nell’immediato lo stato di sofferenza in cui si trovano le scuole paritarie, non vorremmo che diventassero lo strumento per giustificare il mancato reintegro di quanto tagliato, che tra l’altro costituisce una cifra nettamente maggiore.
Se, come ha affermato Vito, «l'Esecutivo è pienamente consapevole che la riduzione dei finanziamenti per le scuole paritarie comporterebbe conseguenze sulle famiglie», tuttavia non viene meno il disagio causato dalla sensazione che la scuola paritaria sia considerata un’appendice del sistema nazionale di istruzione, non sua parte integrante e indispensabile. Possibile che si sia sempre costretti a rincorrere i finanziamenti -tra l’altro già inadeguati e fermi alla cifra di otto anni fa- come se non ci fosse una legge che stabilisce la parità? Davvero non si erano accorti che i cosiddetti tagli lineari avrebbero messo in ginocchio le scuole paritarie, oppure c’è una reale sottostima della loro importanza? Sarebbe necessario giungere, finalmente, ad una piena e stabile parità; queste vicende rivelano invece da parte di chi governa una mancanza di chiarezza e, conseguentemente, una contraddittorietà di azione che non possono che destare preoccupazione.
Un aiuto in tal senso è giunto dal Tribunale Ordinario di Roma, per il quale il docente di sostegno per un bambino con Handicap iscritto alle scuole paritarie «è a carico dello Stato e non della scuola» (sentenza 15389 del 10 giugno 2008, le cui motivazioni sono state recentemente depositate). Si tratta di una sentenza importante perché, tra l’altro, affermando che «il sostegno…è il supporto per rendere l’insegnamento fruibile e tanto costituisce un ulteriore argomento per ritenere che esso debba essere a carico dello Stato, sia nelle scuole pubbliche che in quelle private», riconosce implicitamente la chiara appartenenza delle scuole paritarie sistema nazionale di istruzione. Occorre trarne tutte le conseguenze.
Attendiamo dunque, da un lato, di vedere onorato al Senato l’impegno al reintegro dei 133 ML tagliati nella Finanziaria 2009 licenziata alla Camera, e dall’altro la ricomparsa dei 140 ML relativi al 2008 indebitamente sottratti, sperando che le promesse siano davvero mantenute e che simili situazioni non abbiano più a ripetersi.


Apertura e ragione – L’Osservatore Romano, 30 Novembre 2008
Gli avvenimenti tragici degli ultimi giorni - che hanno colpito e sconvolto un grande Paese già da mesi teatro di ripetuti episodi di intolleranza e violenza rivolti in particolare contro le minoranze cristiane - confermano una volta di più che il dialogo tra le culture del mondo è l'unica via percorribile per una convivenza umana. Come Benedetto XVI va ripetendo dall'inizio del pontificato e di nuovo ha ora confermato in una lettera al senatore Marcello Pera. Incluso nell'introduzione al libro appena pubblicato dall'esponente politico italiano con il titolo Perché dobbiamo dirci cristiani, il breve testo papale ne sottolinea alcune analisi. Tra queste, l'affermazione "che all'essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell'immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l'uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà". E urgente appare quel dialogo che - sottolinea con lucidità il Papa - "approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo". In questo modo, ancora una volta Benedetto XVI sottolinea l'importanza del dialogo tra le culture indicando che si tratta di una via più praticabile e suscettibile di conseguenze che vanno esaminate "nel confronto pubblico": proprio qui, infatti, "il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari".
Anche in tempi difficili come quelli presenti viene così confermata la scelta della Chiesa cattolica di aprirsi al dialogo con le culture del mondo. Con la volontà che questo colloquio - un termine caro a Paolo vi, che di questa apertura fece il tema della sua enciclica programmatica - sia autentico e porti frutti. Non solo dunque un dialogo di superficie che affermi sulla carta principi, ma un confronto vero. Innanzi tutto all'interno della stessa Chiesa, che deve approfondire "la coscienza di se stessa" - come afferma appunto la Ecclesiam suam - per poi "con candida fiducia" affacciarsi "sulle vie della storia" e ripetere "agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate".
Le parole di Benedetto XVI sono state comprese e apprezzate anche al di là dei confini cattolici, così come la ribadita volontà di confronto e di amicizia con l'ebraismo e con l'islamismo sta portando frutti. Il Papa continua a fare appello alla ragione di tutti e, senza stancarsi, chiede che questa ragione si apra: al confronto con ogni interlocutore su temi ragionevoli e condivisibili come quelli della dignità di ogni persona umana, creatura e immagine di Dio, e della libertà religiosa. Sono infatti queste alcune delle "conseguenze culturali" su cui è urgente confrontarsi, come per esempio è avvenuto dopo la lezione di Ratisbona. La Chiesa - scriveva ancora Paolo VI - senza promettere la felicità terrena offre però la sua luce e la sua grazia per poterla conseguire. E "parla agli uomini del loro trascendente destino" ragionando anche "di verità, di giustizia, di libertà, di progresso, di concordia, di pace, di civiltà. Sono parole queste, di cui la Chiesa conosce il segreto; Cristo glielo ha confidato".
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)


Le religioni e il destino del mondo - di Khaled Fouad Allam
Università di Trieste e di Stanford – L’Osservatore Romano, 30 Novembre 2008

Stiamo da tempo vivendo una crisi globale e proprio per questo la riflessione sul dialogo tra islam e cristianesimo merita di essere riproposta sotto una nuova angolazione. Le relazioni tra queste due grandi religioni sono ovviamente antiche, non solo per la prossimità geografica ma per la storia delle due tradizioni spirituali. Da decenni - per molti aspetti, dal concilio Vaticano ii - i rapporti tra musulmani e cristiani coinvolgono diverse dimensioni, tra le quali il confronto sul piano religioso, anche se spesso non si riesce ad approfondirlo e a evidenziarne luci e ombre, con il risultato che non di rado emerge la nostra incapacità a pensare oltre. Proprio per questa crisi generalizzata bisogna pensare il dialogo tra cristianesimo e islam nella sua dimensione filosofica, vale a dire nella ricerca e nell'analisi di ciò che potrebbe aiutarci a individuare i pericoli della crisi e gli strumenti per superarla. È sempre nell'esperienza del dolore, del male e della sofferenza che gli esseri umani sono chiamati alle proprie responsabilità dinanzi alla storia e all'eternità. Le catastrofi degli ultimi vent'anni, la radicalizzazione delle coscienze, l'attentato alle Twin Towers dell'11 settembre 2001, il ritorno dell'intolleranza nei confronti di alcune fedi sono il segnale di un male che la nostra umanità sta vivendo. Ma è proprio l'esperienza della sofferenza, individuale o collettiva, che rende possibile l'incontro con l'altro, anche se la sofferenza permane comunque intatta e ineludibile. Non è dunque un caso che nella ricerca di un nuovo ordine internazionale e di una convivenza pacifica fra popoli e culture, la nozione stessa di dialogo investa, com'è ovvio, terreni non inclusi in quelli delle tradizionali questioni religiose. Abbiamo difficoltà a entrare nel XXI secolo perché il xx secolo pesa ancora troppo; e se alcuni lo definiscono come il "secolo della storia", è semplicemente perché ha occultato il rapporto complesso fra storia ed eternità. Un inedito conflitto fra il desiderio di eternità e il vivere nella storia ha prodotto l'odierno oblio della sostanza delle cose; l'uso della parola "modernità" è significativo di tutto ciò, perché la modernità ci ha permesso di dimenticare che tutto è provvisorio su questa terra, e che qui siamo ospiti.
Viviamo ancor oggi nell'ambiguità di questo rapporto: i nostri comportamenti ne sono impregnati, al punto che spesso nelle religioni - ad esempio nel caso dell'islam - la storia si impadronisce dell'eternità, ad opera degli uomini meno adatti al dialogo. È ciò che avviene nel radicalismo islamico, che in alcune situazioni cerca di imporre il tragico ordine della tirannia. L'affrontare grandi questioni come la libertà di religione - un problema importante nel mondo islamico - rivisitando il rapporto fra storia ed eternità finirà per incidere sul dialogo tra musulmani e cristiani e sul rapporto tra islam e mondo. Il divorzio fra storia ed eternità si è tradotto nel senso di oblio - oblio dell'eternità, della continuità, della nostra provvisorietà - ed è in tale oblio che si sono fatte le guerre e le rivoluzioni, è in esso che sono nati i totalitarismi. Ma l'oblio ha intaccato anche le grandi questioni relative al destino dell'uomo, alle manipolazioni genetiche e alla bioetica, questioni angoscianti perché interrogano non solo l'individuo ma l'umanità intera.
Come ristabilire questo rapporto, come definire una reale complementarità fra il nostro vivere nella storia e il nostro desiderio di eternità? Ogni rivelazione si definisce come una redenzione, ma ognuna è anche un modello da riformulare volta per volta, perché una reale temporalità, un vero attraversamento del Mar Rosso come fece Mosè con il popolo ebraico, ha senso solo se si congiungono i due punti cardinali, storia ed eternità.
È anche così che si può vedere l'odierna questione del dialogo delle civiltà: un ipotetico nuovo ordine internazionale non può che passare attraverso due paradigmi, che andranno definiti nei contenuti: il primo è la democrazia, il secondo è il dialogo fra popoli, culture e religioni. Le due questioni sono intimamente legate, e il loro sviluppo sarà di primaria importanza per uscire dalle turbolenze di questo nuovo secolo. Mi preme aggiungere che il dialogo non solo è necessario, ha una urgenza sociale e una valenza etica e morale. L'islam non è una categoria astratta, è fatto di persone che hanno speranze e sofferenze, che vivono anche nel cuore delle città d'Europa, che desiderano integrarsi, anch'esse protagoniste di un'Europa che ritorni alle sue radici, aperte agli altri continenti. In un mondo attraversato da frontiere simboliche e culturali, è forse giunto il tempo che l'universalismo rappresenti l'antidoto all'odierna visione pessimistica del mondo, pessimismo che rende l'uomo muto di fronte all'umanità. Ma la geometria variabile del dialogo può assolvere anche un'altra funzione: liberare l'islam dal monopolio della teologia neofondamentalista, che occulta la simmetria del rapporto fra storia ed eternità, che tende a considerare la storia come eternità e l'eternità come storia, con l'effetto che l'islam si svuota della sua dimensione spirituale e impoverisce la sua stessa cultura. Di ciò i musulmani si devono rendere conto. Il dialogo è in qualche modo legato a quella "salvezza", anche nella sua versione profana, che dovrà illuminare il buio dei nostri giorni.
(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)


ANTICHE E NUOVE CONDANNE CONTRO TUTTI I PATIBOLI. MA PROPRIO TUTTI - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 novembre 2008
Il Colosseo illuminato ieri notte è stato il simbolo suggestivo della campagna che lega mille città del mondo contro la pena di morte, alla vigilia della votazio­ne all’Onu per una nuova moratoria. Tan­ta gente in piazza – grazie a Dio – in que­sta grande battaglia che accomuna cat­tolici e laici, sinistra e destra. Chissà tut­tavia se, tra tante luci, se ne è accesa una contro la morte sentenziata per Eluana Englaro.
Eppure quella che si vuol infliggere alla Englaro è morte data a una persona vi­va, che autonomamente respira, benché in stato vegetativo. I genitori di Terri Schiavo hanno chiesto che nessun altro muoia mai più come la figlia, nella stes­so stremato abbandono. Ma la morte che pende su Eluana è, nella mente di non pochi italiani, qualcosa che non turba, e certamente non indigna come le sedie e­lettriche e le forche che in tante parti del mondo fanno alacri il loro lugubre me­stiere. Questo benché i giustiziati, alme­no in teoria, siano di qualcosa colpevoli; mentre Terri Schiavo ed Eluana Englaro sono certamente innocenti.
La morte comminata dentro una logica retributiva è – grazie a Dio – sempre me­no accettabile per la coscienza del mon­do. La morte, invece, data 'per pietà' al malato considerato inguaribile, sebbene lunga e straziante come quella per fame e per sete, in Occidente non scuote. È, sostanzialmente, 'buona': misericor­dioso è giudicato, e perfino tra alcu­ni cristiani, inter­rompere vite iner­ti, 'irrecuperabili', quando al di là di ogni ragionevolez­za si ostinino, quelle creature, a respirare.
Uccidere Caino è intollerabile, ucci­dere inermi Abele in stato vegetativo è pietà: «Così smetteranno di soffrire». Un ac­cento, dunque, umanitario in questa pre­tesa.
C’è però un fatto storico che dovrebbe mettere in dubbio questo tipo di umani­tarismo. La filosofa ebrea Hannah Arendt dopo aver seguito a Gerusalemme il pro­cesso al nazista Eichmann spiegò detta­gliatamente ne 'La banalità del male' che le prime camere a gas, costruite in Germania nel ’39, non accolsero subito gli ebrei: il decreto di Hitler del primo set­tembre di quell’anno le prevedeva infat­ti per «concedere alle persone incurabi­li una morte pietosa». I primi 'beneficia­ti' furono infatti cinquantamila tedeschi malati di mente. Solo due anni dopo si passò alla 'soluzione finale'.
La morte 'pietosa' per gli alienati li­nearmente si saldò con l’Olocausto. Un non detto, atroce retropensiero, eviden­temente accettato da molti in Germania, alimentava però già la soppressione dei folli e degli idioti: e cioè che si è uomini solo se coscienti, se lucidi, capaci di in­tendere. Certo, nulla a che fare tra la Wel­tanschauung abietta
del nazismo e quel­la, distratta e buonista, nostra. Noi sia­mo pacifisti, ci sgomentano i boia, ci in­digna ogni crudeltà verso gli animali. So­lo per pietà ammettiamo la morte pro­vocata: del feto deforme, della ragazza da tanti anni addormentata. Perché? Perché in fondo non li consideriamo ancora, op­pure non più, pienamente uomini, giac­ché privi di coscienza. Anche i poveri fol­li del Reich non erano pienamente co­scienti.
Il passo radicale sta nel non riconoscere l’uomo. Che è sempre, sul patibolo, ma anche inerte in un letto, uomo, e dunque qualcosa di molto più grande di ciò che può fare o capire. Per i cristiani, immagi­ne di Dio. Parallelamente all’avanzante collettivo oblio di questo nesso, la mor­te data a un malato incosciente non è più una condanna inammissibile, ma ma­gnanima pietà – la stessa poi, in fondo, che si avrebbe per un cane malato.


«Noi oppositori torturati e uccisi» - DI LUCIA CAPUZZI – Avvenire, 30 novembre 2008
« S ono stati i miei aguzzi­ni a dirmi che ero stata condannata a morte, mentre mi frustavano sulle piante dei piedi. Non avevo neppure idea che ci fosse stato il processo». Ma­rina Nemat è stata una delle mi­gliaia di adolescenti iraniane rin­chiusa nel carcere di Evin durante la “rivoluzione culturale islamica”, i­naugurata da Khomeini. Nel 1982, a 16 anni, Marina è stata arrestata per aver criticato, sul giornale del­la scuola, l’opera di indottrina­mento svolta dai suoi insegnanti. «Invece di studiare storia, geogra­fia, letteratura, eravamo costretti ad ascoltare per ore la propaganda go­vernativa. Per me, cristiana ed edu­cata dai miei genitori al rispetto del­la libertà, era intollerabile».
Ventisei anni dopo a Teheran lo sce­nario resta, per molti aspetti, im­mutato. Il dissenso viene represso, le esecuzioni sono quotidiane. Co­me dimostra la condanna alla lapi­dazione per «un’adultera» emessa dalla Corte suprema. O l’agghiac­ciante decisione di accecare un ra­gazzo di 27 anni colpevole di aver sfregiato e fatto perdere la vista al­la moglie.
Signora Nemat, perché dopo l’era riformatrice di Khatami, il regime è tornato alla politica del pugno di ferro?
Il governo degli ayatollah alterna fa­si di feroce repressione a momenti di distensione. Ma si tratta di aper­ture fittizie. Khatami ha concesso alle donne di scoprire un po’ di più i capelli. Non ci sono stati, però, cambiamenti sostanziali. Né si po­tranno avere finché tutto il potere sarà nelle mani di un solo uomo. Che non è di certo Ahmadinejad.
Chi detiene allora la vera autorità nel Paese?
L’ayatollah Khamenei, che ha so­stituito Khomeini. Lui controlla la società e le massime cariche dello Stato, incluso il presidente. Ogni for­ma di opposizione viene stroncata. Ora, come negli anni Ottanta, le car­ceri sono stracolme di prigionieri politici che vengono spesso tortu­rati e in alcuni casi uccisi.
Com’è riuscita a evitare il patibolo?
Uno dei miei carcerieri – A­li – mi ha fatto commutare la sentenza in ergastolo. In cambio, mi ha obbligato a sposarlo e a convertirmi al­l’islam. In realtà, mi consi­derava una schiava. Dopo le nozze sono rimasta nell’inferno di Evin. Dormivamo in 70 in una cella. Per andare in bagno doveva­mo camminare sui corpi tumefatti dalle torture degli altri prigionieri. Quando sono stata rilasciata – do­po due anni, due mesi e 12 giorni – Alì era stato assassinato. Così, sfi­dando il regime, ho sposato in Chie­sa Andre, il mio vecchio amore. Un reato – per gli ayatollah restavo mu­sulmana – punibile con la morte. Ho vissuto nella paura fino al 1990, quando siamo fuggiti in Canada.
Crede che il programma nucleare del presidente Ahmadinejad rap­presenti una minaccia concreta per l’Occidente?
Ahmadinejad è uno “showman”. In­terpreta la parte del duro – e la mi­naccia nucleare è parte di questa strategia – per dimostrare agli ira­niani e al mondo che ha il potere. Mentre è Khamanei, che resta nel­l’ombra, a decidere. Non credo che ci sia un rischio atomico reale. È so­lo propaganda.
Dopo la vittoria in America di O­bama i rapporti tra Usa e Iran po­tranno cambiare?
Lo spero. Gli errori di Bush hanno favorito il regime iraniano. Gli Usa hanno eliminato Saddam, il peggior nemico di Teheran, che ora spera di veder nascere una repubblica scii­ta in Iraq. L’interventismo america­no ha, inoltre, rafforzato i conser­vatori. Perché la gente, vedendosi minacciata dall’esterno, si è stretta intorno al governo. La democrazia non si importa, si costruisce col tempo.
Marina aveva 16 anni nel 1982 quando venne rinchiusa a Evin per aver criticato il regime. Cristiana, fu costretta a convertirsi all’islam.


La rivoluzione della carità nel sacchetto della spesa - GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 30 novembre 2008
C’era una volta la quarta settimana, quando lo stipendio bastava per arrivare a fine mese. Poi fu l’epoca della terza, quando i morsi della crisi si facevano sentire in un numero crescente di famiglie. Oggi molti fanno fatica già alla seconda. Ma c’è chi le settimane neppure le conta, perché ogni giorno è uguale, ogni giorno è una battaglia per la sopravvivenza, per pagare l’affitto di casa e le bollette, e perfino per mangiare.
Sono tanti, i poveri, e stanno aumentando.
A loro è dedicata la Giornata nazionale della Colletta alimentare che si tiene oggi davanti a 7.500 supermercati. Ed è per loro che durante tutto l’anno il Banco alimentare raccoglie le eccedenze di viveri prossimi alla scadenza che vengono offerte dalle aziende e finiscono sulle mense dei poveri o nei 'pacchi' portati a casa delle famiglie che non arrivano a fine mese. Sono tanti, i volti del povero: il clochard, l’immigrato, il carcerato uscito di prigione e rimasto ai margini della società, il disoccupato, la moglie piantata dal marito (o viceversa), l’anziano che stenta a campare con la pensione sociale. La durezza del momento colpisce strati crescenti del Paese, la solitudine e la fragilità dei legami familiari e sociali rendono le persone ancora più deboli.
Viviamo tempi difficili. Tempi nei quali l’estraneità e la paura possono facilmente prendere il sopravvento, facendoci dimenticare chi siamo: uomini, creature fatte per con-vivere, non per chiudersi ciascuna nella propria tana come fossimo animali. Quello che ci viene proposto oggi è un gesto semplice: fare la spesa, una piccola spesa, per chi ha meno di noi. Un gesto di condivisione, nato dalla tradizione cristiana che da sempre lo chiama carità e che equivale ad accendere una luce nel buio del presente, a offrire una mano che sostenga la quotidiana fatica del vivere. C’è chi si vergogna ad usare una parola poco trendy
come carità. Eppure, scrive Benedetto XVI nella sua enciclica dedicata all’argomento, «la carità sarà sempre necessaria, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo» Oggi centomila volontari ci offrono un sacchetto di plastica in cui siamo invitati a mettere una scatola di fagioli, un pacco di pasta, una confezione di zucchero, una bottiglia d’olio. Quei centomila sono l’icona di un’Italia che non si arrende, che non rinuncia a sperare e a far sperare, che non cede alla tentazione di fermarsi al lamento e alla protesta, perché mossa da un’instancabile voglia di costruire, dal desiderio inesausto di affermare la positività dell’esistenza. Gente che vuole condividere i bisogni degli altri per condividere con loro il senso della vita.
Gente che vent’anni fa ha cominciato per un impeto di umanità, e che si è trovata da subito in una situazione tragicomica: il direttore della Fondazione Banco alimentare, Marco Lucchini, ricorda che la prima 'eccedenza alimentare' che venne donata, nel 1989, fu una fornitura di Fernet Branca: non avevano ancora dato da mangiare a un povero e si trovavano a distribuire un digestivo… Va bene lo stesso, si dissero, partiamo da quello che manda la Provvidenza, il resto arriverà. E il resto è arrivato, fino alle novemila tonnellate di generi alimentari raccolte nell’edizione 2007 della Colletta grazie alle offerte di 5 milioni di italiani, destinati a 8.500 enti che ogni giorno assistono un milione e mezzo di poveri. Un piccolo-grande impero della carità, costruito a partire dallo sguardo d’amore che ognuno di noi è capace di dare. Lo stesso sguardo che duemila anni fa Gesù rivolgeva a chiunque lo incontrava. Di quello sguardo, abbiamo tutti bisogno.


L’OMAGGIO DEL TENORE Domingo: «È stato un uomo di fede straordinario Per onorarlo ho inciso un cd e farò concerti con brani ispirati ai suoi testi» «Canterò nel mondo le poesie di Wojtyla» - Avvenire, 30 novembre 2008
DI VIRGILIO CELLETTI
P lacido Domingo non ha dubbi per lui Papa Giovanni Paolo II è già un santo. È così che lo de­finisce affidando a una sola parola ciò che pensa di lui, e cioè che egli sia stato « un uomo di rara grandez­za che scelse di dedicare la sua vita al servizio dell’umanità e di Dio » . Ol­tre a parlare in questo modo « del­l’uomo più grande che io abbia mai conosciuto » , il celebre tenore si e­sprime nel suo linguaggio più usua­le, lasciando al canto il compito di tradurre l’emozione e la venerazio­ne che la figura di Karol Wojtyla gli suggeriscono. Di questo passo, an­che il cd che ha visto la luce ieri si propone come « una delle incisioni più significative della mia vita » . Edi­to dalla Deutsche Grammophon, ha per titolo Amore infinito e compren­de dodici canzoni il cui testo è tratto da alcune tra le poesie scritte dal Pa­pa in vari periodi della sua vita.
A quando risale, maestro, questa sua così singolare iniziativa?
Un anno prima che il Papa morisse, il teatro lirico di Ancona fece esegui­re un Canto della pace. Era una pre­ghiera di Giovanni Paolo II messa in musica da Marco Tutino, e l’inter­pretazione fu affidata a me. Quando il Papa ci invitò in Vaticano per rin­graziarci, gli chiesi di poter fare una serie di canzoni con il testo delle sue poesie. Mi dette subito il suo con­senso, e anche la sua benedizione.
Stiamo parlando di cinque anni fa. Come si è arrivati a questo disco che abbraccia vari momenti dell’attività poetica del Papa?
Dopo Ancona rilessi attentamente tutti i suoi testi. Avevo anche qual­che idea sul tipo di musica, ma im­portante è stato in questo senso l’aiu­to di mio figlio che è un composito­re. In un primo momento volevamo privilegiare le liriche raggruppate nel cosiddetto Trittico romano; ma poi abbiamo pensato che il tema fosse troppo impegnativo e che, musical­mente, richiedesse uno stile classi­co, cioè un linguaggio che un po’ spa­venta il grande pubblico. Così lo ab­biamo per il momento accantonato, scegliendo i testi che esprimessero l’umanità e quasi la popolarità di questo Papa. Temi di significato uni­versale, l’amore di una madre per i suoi bambini, la libertà, i problemi sociali, dei quali il Papa si è fatto in­terprete nel mondo e che l’hanno fat­to amare da tutti, non solo da noi cat­tolici.
Oltre a suo figlio ed a lei, chi sono gli autori delle musiche?
Vari compositori. Maurizio Fabrizio, Antonio Galbiati, Fio Zanotti, Stefa­no Tomaselli, Kaballà. Di persona li ho conosciuti soltanto oggi, ma ave­vo apprezzato subito le loro musiche, scelte per due motivi: perché si a­dattano alla mia vocalità e perché e­sprimono una spiritualità che viene poi esaltata dalla concertazione di Jorge Calandrelli e dalla bravura del­la London Symphony Orchestra.
Anche quella riguardante gli inter­preti che duettano con lei in alcuni dei brani è una sua scelta?
Si, e anche questo mi sembra un ap­porto notevole. Con me cantano ta­lenti come Andrea Bocelli, Jopsh Gro­ban, Katherine Jenkins, e anche mio figlio esegue un brano insieme ai pic­coli cantori del coro di Los Angeles.
Lei si è assunto anche il compito di portare il disco in giro per il mondo nelle prossime settimane con dieci concerti. Andrà anche in Polonia?
Certo. Un mio commosso ricordo è il
Requiem di Verdi che diressi a Varsa­via nel primo anniversario della mor­te di Papa Wojtyla. Stavolta cantere­mo a Cracovia, dinanzi alla chiesa che lui aveva iniziato. Poi dappertut­to. In Germania davanti al duomo di Colonia. E in Messico ci serve anche uno spazio più grande. Forse lo Sta­dio Azteca.