martedì 31 marzo 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 30/03/2009 15:43 - CINA – VATICANO - In Cina è persecuzione. Incontro in Vaticano - di Bernardo Cervellera - Un sacerdote sotterraneo dell’Hebei arrestato perché ha celebrato una messa. Controlli accresciuti per l’anniversario della morte di mons. Giuseppe Fan Xueyan, ucciso sotto tortura nel ’92. Vescovi e sacerdoti scomparsi o nei lager. Sotto pressione i vescovi ufficiali per farli tornare sotto l’obbedienza dell’Associazione patriottica. Da oggi in Vaticano incontro della Commissione per la Chiesa in Cina.
2) Sui preservativi il Papa fa “un appello al risveglio umano e spirituale”
3) Su preservativi e AIDS, il Lancet ha la memoria corta - Nel 2000 scrisse che i profilattici aumentano del 15% il rischio di contrarre l’HIV - di Antonio Gaspari
4) A proposito dell'espansione dell'Hiv/Aids - di Jacques Suaudeau - Si è compiuto un errore dedicando tutti gli sforzi al «contenimento» dell'HIV/AIDS, servendosi di una barriera meccanica, indegna della sessualità umana, indegna dell'uomo. La prevenzione dell'HIV/AIDS deve spingersi ad attaccare le vere radici sociali, economiche, politiche, morali, dell'epidemia. - [Da «L'Osservatore Romano», 5 aprile 2000]
5) Manuale per il diritto degli obiettori di coscienza - Un libro per difendere il personale sanitario che si rifiuta di praticare aborti
6) CONFRONTI/ Romano Guardini e John Dewey: il cattolico e il laico uniti sull’esperienza educativa - INT. Carlo Fedeli - martedì 31 marzo 2009 – ilsussidiario.net
7) SCUOLA/ Io, madre di un bimbo disabile, vi racconto come mio figlio è accolto in una scuola paritaria - Redazione - martedì 31 marzo 2009 – ilsussidiario.net
8) RICERCA/ Raisman (University College): le staminali embrionali? Tossiche come i subprime - INT. Geoffrey Raisman martedì 31 marzo 2009 – ilsussidiario.net
9) L’INTERVENTO DI BENEDETTO XVI - UNA SCOSSA CHE CHIAMA A NON DIMENTICARE - ANDREA LAVAZZA – Avvenire, 31 marzo 2009
10) I DIRITTI NEGATI - Dalla provincia di Avellino una mamma è costretta ad andare a Napoli per far curare il suo bambino «Ho scritto al premier per avere maggiore attenzione ai problemi delle persone disabili» - «Un figlio autistico. E siamo soli» - DA MILANO ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 31 marzo 2009


30/03/2009 15:43 - CINA – VATICANO - In Cina è persecuzione. Incontro in Vaticano - di Bernardo Cervellera - Un sacerdote sotterraneo dell’Hebei arrestato perché ha celebrato una messa. Controlli accresciuti per l’anniversario della morte di mons. Giuseppe Fan Xueyan, ucciso sotto tortura nel ’92. Vescovi e sacerdoti scomparsi o nei lager. Sotto pressione i vescovi ufficiali per farli tornare sotto l’obbedienza dell’Associazione patriottica. Da oggi in Vaticano incontro della Commissione per la Chiesa in Cina.
Roma (AsiaNews) – Vescovi e sacerdoti della Chiesa sotterranea arrestati, Chiese ufficiali sotto controllo, incremento della repressione contro i fedeli: è questa la situazione dei cattolici in Cina in questi giorni, mentre in Vaticano, da oggi, è in corso il raduno della Commissione plenaria sulla Chiesa cattolica in Cina.
Fonti di AsiaNews confermano che in queste settimane, soprattutto nell’Hebei (la regione vicina a Pechino, con la massima concentrazione di cattolici) le comunità sotterranee sono sotto pressione e viene loro proibito di incontrarsi per celebrare la messa. Giorni fa un sacerdote di Dung Lü, p. Paolo Ma, 55 anni, ha celebrato l’eucarestia con alcuni fedeli sotterranei e per questo è stato arrestato. La comunità cristiana è preoccupata per la sua sorte anche perché p. Ma è malato di cuore ed è probabile che in detenzione non venga curato.
Incremento di controlli e arresti sono dovuti al fatto che è vicino l’anniversario della morte di mons. Giuseppe Fan Xueyan, vescovo di Baoding, ucciso dalla polizia nel 1992. Per l’occasione i fedeli visitano la tomba del vescovo a Baoding e organizzano momenti di preghiere per il loro martire.
Mons. Fan, dopo aver passato decenni in campo di concentramento, è stato sequestrato dalla polizia nel 1992. Dopo alcuni mesi, il 13 aprile dello stesso anno è stato riportato morto, depositato nella notte davanti alla porta della casa dei familiari, il cadavere racchiuso in un sacco di plastica, con evidenti segni di tortura.
Fonti di AsiaNews ricordano che nella Chiesa sotterranea vi sono altri due vescovi scomparsi da anni nelle mani della polizia e dei quali non si conosce il loro destino. Il primo è mons. Giacomo Su Zhimin (diocesi di Baoding, Hebei), 75 anni, arrestato e scomparso dal 1996. Nel novembre 2003 è stato visto nell'ospedale di Baoding, controllato dalla polizia, dove ha subito cure al cuore e agli occhi. Ma dopo pochi giorni è scomparso ancora. Il secondo è mons. Cosma Shi Enxiang (diocesi di Yixian, Hebei), 86 anni, arrestato e scomparso il 13 aprile 2001. Mons. Shi, ordinato vescovo nel '82, era stato in prigione per 30 anni. L'ultima volta fu arrestato nel dicembre '90, poi rilasciato nel '93. Da allora aveva vissuto in isolamento forzato fino al suo ultimo arresto
Le stesse fonti affermano che vi sono anche decine di sacerdoti sotterranei in prigione o nei campi di lavoro forzato. E altre decine i vescovi sotterranei in isolamento.
Anche la Chiesa ufficiale subisce controlli e durezze. In questi mesi i vescovi riconosciuti dal governo sono stati chiamati molte volte a subire per settimane e perfino per mesi sessioni politiche sul valore della politica religiosa del Partito comunista cinese. Alcuni vescovi, come quello di Pechino, sono stati costretti anche a elogiare in pubblico l’operato dell’Associazione patriottica e a criticare “l’intromissione vaticana” negli affari religiosi in Cina. L’aumento delle pressioni è dovuto al fatto che ormai la quasi totalità dei vescovi ufficiali sono in segreto in comunione con la Santa Sede e molti vescovi riconosciuti dal governo collaborano sempre più con i vescovi sotterranei. Pechino vede male questa riconciliazione fra Chiesa sotterranea e ufficiale perché essa è generata “da una potenza straniera”, cioè il papa. Dal giugno 2007, quando Benedetto XVI ha pubblicato la sua Lettera ai cattolici cinesi, si sono moltiplicati i segni di riconciliazione fra i due rami della Chiesa in Cina, emarginando il potere dell’Associazione patriottica, l’organismo di controllo sulla Chiesa, voluto dal Partito.
Rompere questa unità è lo scopo di tutte queste vessazioni.
Da tempo l’Associazione patriottica prepara degli incontri a livello nazionale per votare il nuovo presidente dell’Associazione patriottica e il presidente del Consiglio dei vescovi cinesi [una specie di conferenza episcopale, che raduna solo i vescovi ufficiali, non riconosciuta dalla Santa Sede]. Le due cariche sono vacanti da tempo: il vescovo patriottico Michele Fu Tieshan, eletto presidente dell’Ap nel ’98, è morto nel 2007; mons. Giuseppe Liu Yuanren, vescovo patriottico di Nanchino, eletto presidente del Consiglio dei vescovi nel 2004, è morto nel 2005.L’elezione delle due cariche dovrebbe avvenire nel Congresso nazionale dei rappresentanti cattolici, già in programma da mesi. Ma l’incontro non si è ancora tenuto, a causa della resistenza di molti vescovi ufficiali a parteciparvi. Il card. Zen, in un messaggio ai vescovi cinesi lo scorso fine dicembre, ha chiesto loro di boicottare l’incontro, per onorare il loro rapporto di comunione con papa, che nella Lettera ha bollato come “inconciliabili” con la dottrina cattolica gli ideali e la politica dell’Ap.
La Commissione plenaria che si incontra in Vaticano da oggi fino al 2 aprile, è composta circa da 30 persone: superiori e membri della Segreteria di stato e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli; rappresentanti dell’episcopato cinese, fra cui il card. Joseph Zen di Hong Kong; il suo coadiutore, mons. John Tong Hon; mons. Jose Lai Hung-seng di Macao; mons. John Hung Shan-chuan di Taipei e mons. Bosco Lin Chi-nan di Tainan (Taiwan).
La notizia del raduno, pubblicato ieri sull’Osservatore Romano, annuncia che fra i temi in discussione vi sono “questioni religiose attuali e importanti”.


Sui preservativi il Papa fa “un appello al risveglio umano e spirituale”
Afferma il direttore dell'African Jesuit Aids Network
di Roberta Sciamplicotti

ROMA, lunedì, 30 marzo 2009 (ZENIT.org).- Le parole pronunciate da Benedetto XVI all'inizio del suo viaggio in Africa sull'uso del preservativo nella prevenzione dell'Aids hanno provocato una tempesta mediatica, ma i commenti papali rappresentano “un appello al risveglio umano e spirituale” e non sono affatto “irrealistici e inefficaci”, sostiene p. Michael Czerny SJ, direttore dell'African Jesuit Aids Network (AJAN).
In un articolo pubblicato su Thinking faith, la rivista online dei gesuiti britannici, p. Czerny spiega che il Papa ha sottolineato un contrasto fondamentale tra l'approccio della Chiesa e quello tipico dei Governi e delle organizzazioni internazionali: “La politica di salute pubblica ha a che fare con figure e trend, non con volti e persone umane. La visione cristiana include tutto questo, ma allarga e approfondisce questa politica”.
“Con una visione olistica, la Chiesa vede ogni persona come un figlio di Dio, come un fratello o una sorella, ciascuno capace sia di peccato che di santità”. “Di fronte non solo all'Aids ma alle molteplici crisi in ogni angolo del continente, gli africani hanno un buon motivo, basato sull'esperienza, per credere nella coraggiosa visione della Chiesa per loro”.
Circa l'affermazione del Pontefice secondo cui i preservativi non sono una risposta alla malattia, ma a volte aumentano il problema, p. Czerny sottolinea che bisogna considerare “due questioni distinte: lo status morale degli atti individuali e la possibilità di una strategia che inquadra intere popolazioni”.
Sugli atti individuali, il gesuita osserva che secondo gli esperti il preservativo, quando viene usato correttamente, può ridurre la possibilità di infezione. “Fare qualcosa di sbagliato potrebbe essere più sicuro con un preservativo, ma la sicurezza non rende l'atto giusto”, ha commentato.
Quanto alla strategia per intere popolazioni, secondo Czerny il fatto che l'uso del preservativo abbia ridotto i tassi di contagio è vero solo fuori dall'Africa e in sottogruppi identificabili, come prostitute e uomini omosessuali, “non per una popolazione generale”.
“In realtà, la maggiore disponibilità e il maggiore uso di preservativi sono consistentemente associati a più alti (e non più bassi) tassi di infezione da Hiv, forse perché quando si usa una 'tecnologia' che riduce il rischio come i preservativi si perde spesso il beneficio (la riduzione del rischio) perché si colgono più situazioni rispetto a una situazione senza tecnologia”.
A livello pubblico, quindi, “una politica aggressiva basata sui preservativi aumenta il problema perché allontana l'attenzione, la credibilità e le risorse da strategie più efficaci come l'astinenza e la fedeltà”, che “godono di poco sostegno nei discorsi occidentali dominanti, ma sono sostenuti da una solida ricerca scientifica e sono sempre più inclusi, e perfino favoriti, nelle strategie nazionali contro l'Aids in Africa”.
P. Czerny dichiara che la promozione dei preservativi come strategia per ridurre le infezioni da Hiv a livello di popolazione generale “si basa sulla probabilità statistica e sulla plausibilità intuitiva”, “ma ciò che manca è il sostegno scientifico”.
“Un preservativo è più di un pezzo di lattice – aggiunge –; rappresenta anche una dichiarazione sul significato della vita. Se in Europa e in Nordamerica l'idea è abbastanza accettabile (anche se non del tutto), in Africa la fertilità è lodata e il preservativo sembra straniero e strano, e i valori che incarna estranei”.
Un gesuita in Sudafrica, ricorda, gli ha detto che “la maggior parte degli africani pensa che 'il Papa e i preservativi' sia un'attrazione montata dai media e non una questione per la quale vogliamo versare altro inchiostro o distruggere più foreste”.
Come ha ricordato Benedetto XVI, la soluzione alla questione deve comprendere due elementi: sottolineare la dimensione umana della sessualità, che deve essere “basata sulla fede in Dio, sul rispetto per sé e per l'altro e sulla speranza per il futuro”, e “una vera amicizia offerta soprattutto a quanti soffrono”.
Questo servizio “compassionevole e generoso” è quello che viene vissuto in Africa “praticamente dall'inizio”: “i malati di Aids hanno in genere trovato accettazione, sollievo e assistenza da parte della Chiesa indipendentemente dal fatto che ne siano membri”.
“La formazione della coscienza e la cura disinteressata vanno di pari passo”, sottolinea. “Una Chiesa che serve instancabilmente i bisognosi è anche credibile nell'insegnamento e nella formazione che offre”.
P. Czerny conclude ricordando che “la maggior parte degli africani, cattolici o meno, è d'accordo” con le parole del Papa, perché ritiene ciò che ha detto “profondo e vero”.


Su preservativi e AIDS, il Lancet ha la memoria corta - Nel 2000 scrisse che i profilattici aumentano del 15% il rischio di contrarre l’HIV - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 30 marzo 2009 (ZENIT.org).- Ha destato scalpore e sconcerto l’editoriale "Redemption for the Pope?" pubblicato dalla rivista britannica The Lancet in cui si sostiene che sui preservativi Benedetto XVI “ha pubblicamente distorto le prove scientifiche” al punto che “non è chiaro se l'errore del Papa sia dovuto ad ignoranza o se sia un deliberato tentativo di manipolare la scienza”.
A queste accuse che anche la BBC ha definito “di una virulenza senza precedenti”, il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, non ha voluto replicare.
Alcune risposte che dimostrano la correttezza delle parole del Papa sono state però pubblicate dal quotidiano “Avvenire” e dalla “Radio Vaticana”.
L’aspetto più paradossale della vicenda è che lo studio in cui si dimostra la limitata efficacia del profilattico quale barriera contro l’AIDS è stato pubblicato proprio da The Lancet nel 2000.
La rivista medica britannica scrisse allora che “il rischio di contrarre il virus HIV usando i preservativi durante i rapporti sessuali è nell’ordine del 15%”.
“Avvenire” (25 e 28 marzo) e “Radio Vaticana” (29 marzo) ricordano che proprio nello studio di John Richens, John Imrie, Andrew Copas, dal titolo “Condoms and seat belts: the parallels and the lessons” pubblicata da The Lancet (Volume 355, Number 9201, 29 January 2000), gli autori sostengono che “il senso di sicu­rezza moltiplica i comportamenti a rischio”.
Riccardo Cascioli su “Avvenire” ha spiegato come “nel caso dei preservativi la responsabilità è di chi sostiene sia­no ‘la’ soluzione definitiva del pro­blema, inducendo perciò un senso di falsa sicurezza che moltiplica i rapporti promiscui, principale cau­sa della diffusione della malattia”.
Lo studio pubblicato da The Lancet mostra che in Africa i Paesi dove il preservativo è più diffuso (Zimbabwe, Botswana, Sudafrica e Kenya) sono anche quelli con i tas­si di sieropositività più alti.
“L’effi­cacia del preservativo – concludo­no i ricercatori – è legata soltanto al reale cambiamento dei compor­tamenti a rischio”.
La limitata efficacia del profilattico è stata confermata da altri studi quali quello di Weller S., Davis K., “Condom effectiveness in reducing heterosexual HIV transmission” pubblicato nel 2002 da Cochrane Database of Systematic Reviews e ampiamente citato al­la Conferenza dell’Onu di Rio de Janeiro nel 2005.
Lo studio in questione mostra che l’utilizzo locale non continuato (a volte sì, a volte no) e non appropriato (condom danneggiati, entrati in contatto con fluidi corporei, indossati troppo tardi, ecc.) tipico nei Paesi in via di sviluppo porta ad un efficacia massima dell’87%.
Su una proiezioni di dieci anni questa percentuale porterebbe fra gli utilizzatori "tipici" ad una percentuale di infezione pari al 75-78 %. Questi risultati sono stati presentati dalla Ward Cates di Family Health International, una Ong statunitense favorevole alla diffusione dei profilattici.
Uno studio presentato nel 1990 sul British Journal of Family Planning mostra che in un test effettuato in Inghilterra nel 52% dei casi, gli utilizzatori del profilattico ne hanno sperimentato la rottura o lo scivolamento.
Ancora su Family Planning Perspective viene citato uno studio di Marga­ret Fishel secondo cui in coppie sposate con un partner sieroposi­tivo, l’uso del preservativo come protezione ha prodotto l’infezione dell’altro partner nel giro di un an­no e mezzo nel 17% dei casi. Perché i preservativi non funzio­nano.
Intervistato da ZENIT, il dott. Marijo Zivkovic, direttore del Centro per la Famiglia di Zagabria (Croazia), ha spiegato che non è affatto vero che il profilattico è un mezzo per prevenire la diffusione del virus dell’HIV.
Come è chiaramente scritto nei libri di testo delle Facoltà di Ginecologia, ha sottolineato il dott. Zivkovic, il profilattico “è un mezzo inefficiente” per prevenire il concepimento, ed è “otto volte più inefficiente nella prevenzione dell’AIDS” perchè una donna “può concepire solo per alcuni giorni ogni mese, mentre può essere infettata ogni giorno”.
Inoltre, ha precisato il direttore del Centro per la Famiglia di Zagabria, la massiccia diffusione di profilattici si basa sulla illusoria e falsa considerazione secondo cui con il condom si può fare “sesso sicuro”, mentre in realtà si sta favorendo la frequenza e la diffusione di “rapporti a rischio infezione”.
Per impedire una maggiore diffusione dell’HIV, il dott. Zivkovic chiede che venga chiarito che il profilattico, se utilizzato con tutte le precauzioni del caso, può al massimo apportare una protezione parziale e incerta.
“Bisogna dire chiaramente – ha ribadito il dottore croato – che anche utilizzando il condom ogni persona rischia di essere infettata dall’HIV”.
“Da un punto di vista scientifico – ha concluso il dott. Zivkovic – la Chiesa ha ragione nel mettere in guardia tutti coloro che pensano che una volta utilizzato il profilattico si è certi di non essere infettati”.


A proposito dell'espansione dell'Hiv/Aids - di Jacques Suaudeau - Si è compiuto un errore dedicando tutti gli sforzi al «contenimento» dell'HIV/AIDS, servendosi di una barriera meccanica, indegna della sessualità umana, indegna dell'uomo. La prevenzione dell'HIV/AIDS deve spingersi ad attaccare le vere radici sociali, economiche, politiche, morali, dell'epidemia. - [Da «L'Osservatore Romano», 5 aprile 2000]

Profilattici e valori familiari.
Ogni anno, verso la fine di dicembre, il mondo scopre di nuovo la realtà dell'epidemia dell'HIV/AIDS, nella sua crudezza, in occasione dell'annuale Conferenza Internazionale sul soggetto. Quest'anno il resoconto dell'UNAIDS sull'evoluzione dell'epidemia è stato forse ancora più angosciante che negli anni passati, a causa, in particolare, delle gravi proiezioni che questa relazione implica per l'Africa subsahariana e per la sua sopravvivenza nel nuovo secolo.

Allorché il XX secolo giunge al suo termine, ci sono, secondo i dati forniti dall'UNAIDS, 2,6 milioni di persone che sono morte quest'anno nel mondo a causa dell'AIDS (1). È il totale più alto registrato dall'inizio dell'epidemia dell'HIV/AIDS, e questo malgrado lo sviluppo della terapia antiretrovirale che nei paesi ricchi ha rallentato la diffusione della malattia. 5,6 milioni sono i nuovi casi di infezione verificatisi quest'anno nel mondo. Ci sono 32,4 milioni di adulti e 1,2 milioni di bambini contagiati dall'HIV/AIDS, oggi, nel mondo, dei quali il 95% vive nei paesi poveri, in via di sviluppo. Queste cifre sono particolarmente impressionanti quando si pensa che il dramma dell'AIDS si vive specificamente oggi nell'Africa subsahariana. La conferenza di Lusaka (Zambia), tenutasi dal 12 al 16 settembre 1999, ha messo in evidenza come la situazione si sia purtroppo aggravata (2). Il 70% delle persone sieropositive nel mondo - cioè 23,3 milioni di persone - vive infatti nell'Africa subsahariana, e ciò tenendo conto che l'intera popolazione costituisce soltanto il 10% di quella del mondo. La maggior parte di essa morirà nei prossimi 10 anni. C'è una prevalenza nella popolazione adulta dell'8% (0,25% per l'Europa dell'Ovest, 0,13% per l'Africa del Nord e il Medio Oriente). Dall'inizio del- l'epidemia 34 milioni di persone nell'Africa subsahariana sono state contagiate dall'HIV. Di queste, 11,5 milioni sono già morte (l'83% delle persone morte a causa dell'AIDS dall'inizio dell'epidemia nel mondo). Nell'anno 1998 l'AIDS è stato responsabile di 2,2 milioni di morti nell'Africa subsahariana - contro i 200.000 morti per la guerra (3). La speranza di vita alla nascita che era aumentata nell'Africa del Sud, da 44 anni di età negli anni 50 a 59 anni negli anni 90, scenderà a 45 anni tra gli anni 2005 e 2010 (4). Questi morti costituivano la parte giovane della popolazione, quella che aveva istruzione, formazione professionale, o che insegnava nelle scuole (5). Erano la speranza di questi paesi poveri. Molti di loro erano giovani madri con bambini piccoli. Ne deriva oggi il terribile problema degli orfani dell'AIDS. Il 95% degli 11,2 milioni di orfani dell'AIDS sono africani (6). Se sette persone su dieci contagiate dall'HIV quest'anno vivono nell'Africa subsahariana, per quanto riguarda i bambini la proporzione aumenta a 9 su dieci. 570. 000 bambini di età inferiore ai 14 anni sono stati contagiati dall'HIV/AIDS quest'anno nell'Africa subsahariana, e di questi il 90% è nato da madri sieropositive. Da questi dati emerge la realtà della tragedia: l'epidemia dell'HIV/AIDS sta devastando l'Africa, e mette in gioco il futuro stesso del continente. Recentemente, il 10 gennaio di quest'anno, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito specificamente a tale proposito (7) e ha dichiarato l'epidemia di HIV/AIDS il più grave fattore di destabilizzazione economica e politica nell'Africa, «a security crisis» secondo le parole del Presidente A Gore (8): «L'epidemia è divenuta più devastante di una guerra» ha dichiarato il Dr Peter Piot, Direttore dell'UNAIDS. Di fronte a questa situazione, la Chiesa Cattolica non è rimasta indifferente. Al contrario. Dall'inizio dell'epidemia, la Chiesa Cattolica è stata presente, con i suoi ospedali, i centri di cura, le parrocchie, il servizio dei religiosi e delle religiose, le organizzazioni locali di aiuto ai malati e l'attenzione nei loro riguardi, ed è stata, in Africa, in prima linea della lotta contro l'HIV/AIDS. Per questo, il Pontificio Consiglio per la Famiglia, in occasione di corsi su famiglia e questioni etiche con la collaborazione delle Conferenze Episcopali, ha tenuto diverse riunioni con i medici e gli infermieri impegnati nella lotta contro l'AIDS. La maggioranza di tali riunioni sono state tenute nei paesi dell'Africa subsahariana interessati dall'epidemia. Occorre tener presente che l'impegno della Chiesa Cattolica è stato, come sempre, discreto ed efficace. Dobbiamo riconoscere, soprattutto, l'ammirevole dedizione e la singolare generosità delle tante persone che abbiamo visto visitare - in Uganda, Kenya, Tanzania, Ghana, Costa d'Avorio, Benin, Repubblica Centrafricana, Burkina-Faso - nelle loro case i malati di AIDS, portando loro assistenza umana, cura medica, e, spesso, bevande e cibo. Per capire la realtà dell'AIDS in questi paesi si deve seguire, come abbiamo fatto, i volontari nel loro percorso di visite, mentre entrano nelle case buie, si chinano con gesti di compassione e tenerezza verso una povera donna emaciata, sulla soglia della morte, circondata da tre o quattro bambini che domani non avranno più niente, neanche la loro madre.

Dobbiamo tenere in giusta considerazione quelle religiose che hanno accolto tanti bambini orfani dell'AIDS, e hanno provveduto a dare loro un tetto, del cibo, l'istruzione e la formazione professionale, mendicando soldi a destra e a sinistra, e contando su un minimo aiuto pubblico e un bassissimo contributo delle istituzioni responsabili a livello internazionale. Dobbiamo considerare queste persone, laici e laiche, venuti spesso da altri continenti, che sono riusciti a dare speranza, dignità di vita e cibo a tante donne, contagiate dall'AIDS e respinte da tutti come «immonde». Qui, sul posto, abbiamo visto Cristo sofferente, Cristo disprezzato, stigmatizzato, rigettato, Cristo malato e non visitato, Cristo moribondo per la fame e la sete. Abbiamo compreso l'orrenda solitudine e il terribile sentimento di chi sente di essere spacciato. Ma abbiamo anche visto Cristo che visita il malato, che consola il sofferente, che abbraccia il malato di AIDS, che si assume la responsabilità dei bambini ormai orfani. Serbando nella nostra memoria i volti sereni e sorridenti di tante donne e uomini dell'Africa che abbiamo visto impegnati quotidianamente, senza pubblicità, in questa lotta dura contro le devastazioni dell'epidemia di HIV/AIDS, siamo stati rattristati dalle recenti dichiarazioni che alcune persone hanno rilasciato alla stampa, con tanto clamore, in occasione del loro breve viaggio in alcuni paesi africani. In queste dichiarazioni, in sostanza, si accusa la Chiesa Cattolica di «indifferenza» di fronte alla tragedia dell'AIDS in Africa.

È vero che, per una persona che per la prima volta si trova a costatare con i propri occhi la terribile realtà del problema dell'AIDS in Africa, lo «shock» è veramente forte e le reazioni d'indignazione che ne conseguono sono naturali. Si cerca un colpevole di questa situazione, e, come accade spesso, si finisce con l'accusare proprio colui che, anche se non in modo perfetto, s'impegna concretamente per porvi rimedio, mentre gli altri si contentano di criticare. Dunque, la Chiesa Cattolica è stata accusata di mancare di senso di realtà e di essere poco responsabile di fronte all'epidemia di HIV/AIDS in Africa, a causa della sua posizione riguardo all'uso del profilattico nella prevenzione della contaminazione sessuale.

Il Pontificio Consiglio per la Famiglia non ha cessato di ricordare, nei differenti incontri, il messaggio della Chiesa Cattolica circa questa questione difficile della prevenzione dell'HIV/AIDS. Questo messaggio si basa, in poche parole, sul «valore familiare». Ciò che è in gioco qui è una visione dell'uomo e della donna, della loro dignità, del senso e significato del sesso, come presentato nel Documento di questo Consiglio dedicato alla sessualità umana (9). Laddove c'è una vera educazione ai valori della famiglia, della fedeltà, della castità degli sposi, al retto significato della donazione reciproca - e ciò interessa anche e molto gli Stati - e laddove si riesce a superare le forme invadenti di promiscuità, l'uomo avrà una vittoria umana, anche su questo terribile fenomeno.

Nella prevenzione di qualsiasi epidemia, si possono distinguere mezzi propriamente preventivi e mezzi di «contenimento». Per la malaria, per esempio, che è una malattia paragonabile all'HIV/AIDS per la sua incidenza sulla popolazione e per il numero di morti che procura, le misure preventive sviluppate nel corso degli anni - specialmente nella lotta contro gli anofeli - sono state piuttosto misure di «contenimento», perché non hanno portato alle radici della malattia. Teoricamente efficaci, queste misure si sono rivelate, nella pratica, poco effettive, perché è impossibile distruggere tutte le larve o prosciugare tutti i laghi o impedire alla popolazione di avere riserve d'acqua all'aperto. Un altro esempio è quello della febbre tifoide, per la quale la prevenzione è stata effettiva poiché si è riusciti a convincere la gente a fare attenzione alle sorgenti di acqua da bere. Questa è stata una vera prevenzione, perché è riuscita a correggere un atteggiamento sbagliato che era responsabile della contaminazione delle persone. Per quanto riguarda l'AIDS, se si vuole attuare una vera prevenzione occorre convincere le persone a modificare il loro atteggiamento sessuale, che è il principale responsabile della diffusione dell'infezione. Finché non si compirà un vero sforzo in questo senso, non si realizzerà una vera prevenzione.

Il profilattico fa parte dei mezzi per «contenere» la trasmissione sessuale dell'HIV/AIDS, cioè per limitare questa trasmissione. Però tutti sono d'accordo nel riconoscere che la «perfezione» in questo campo, non c'è e non ci può essere. Senza parlare della possibilità di rottura o di spostamento dei dispositivi penici in lattice - sempre possibili durante l'atto sessuale - è chiaro che il profilattico è effettivo «quando è usato nel modo corretto» (10), e soltanto così: una condizione ottimale che lascia, di fatto, ampio spazio al non ottimale (11). Il dettaglio dei numerosi casi di fallimento del profilattico è stato già ampiamente portato a conoscenza altrove (12). La realtà è che, per diversi motivi, si è equiparata la «prevenzione» al «buon uso del profilattico», senza che l'efficacia del profilattico sull'epidemia di HIV/AIDS sia stata statisticamente dimostrata e - in verità - sia dimostrabile, a causa dei molteplici fattori che intervengono nel corso dell'epidemia. Questa «decisione di principio», ha deliberatamente lasciato nell'ombra ciò che si sapeva già da molto tempo a proposito della relatività dell'efficacia del profilattico come contraccettivo (13). In effetti, le statistiche in questo campo hanno evidenziato quasi quindici fallimenti su cento rapporti sessuali «protetti» dal preservativo. Si vorrebbe dunque far credere che, come per magia, il virus HIV, 450 volte più piccolo degli spermatozoi, potrebbe essere quasi sempre bloccato dal preservativo, senza tener conto che, invece, gli stessi spermatozoi sarebbero capaci di passare la barriera di lattice 15 volte su cento rapporti sessuali compiuti. L'unico studio statisticamente valido riguardo all'efficacia del profilattico nella lotta contro l'HIV/AIDS, è quello del «Groupe d'Etudes européen» (14). Però questo studio prende in esame coppie stabili, sierodiscordanti (15), senza infezioni genitali, in base alla situazione dell'Europa dove, in ogni caso, la trasmissione sessuale del virus è più che contenuta. Altre statistiche - che devono essere interpretate con prudenza - mostrano sempre una percentuale di fallimento di almeno il 10% (dieci fallimenti su 100 profilattici usati) (16).

Infine, come hanno recentemente segnalato alcuni ricercatori dell'University College Medical School, di Londra (17), la pubblicità data al preservativo nella lotta contro l'HIV/AIDS potrebbe avere un effetto contrario a quello ricercato, nella misura in cui tale pubblicità porterebbe le persone ad atteggiamenti sessuali più rischiosi, a causa del senso di sicurezza che provano quando usano il profilattico. Non si può dunque sperare di fermare l'epidemia di HIV/AIDS soltanto con il preservativo, allo stesso modo in cui non si può sperare di arrestare l'alluvione di un fiume servendosi di sacchi di terra quando le dighe principali sono ormai rotte. Si può soltanto sperare di contenerla. In ogni caso, la posizione della Chiesa, riguardo alla prevenzione dell'HIV/AIDS, non è a questo livello tecnico-sanitario. Si rivolge invece alla radice umana e antropologica del problema, cioè al livello del rispetto della sessualità umana, al livello dei valori che definiscono la crescita umana degli individui del genere umano. Se l'epidemia di HIV/AIDS ha assunto tali proporzioni nei paesi dell'Africa subsahariana, è perché vi ha trovato le condizioni favorevoli per una tale diffusione: disoccupazione, miseria, condizione di profughi, guerre civili, carenza del potere politico, carenza delle strutture sanitarie, corruzione, concentrazione di popolazioni povere nelle grandi città, sviluppo di una prostituzione occasionale o permanente. Inoltre, la situazione della donna, sottomessa al volere del marito sotto pena di ripudio con gravissime conseguenze sociali, spiega in un certo modo perché sono le donne che, nei diversi paesi dell'Africa subsahariana, sono oggi le più colpite dall'infezione di HIV/AIDS (12- 13 donne contro 10 uomini) (18). La frequenza delle malattie sessualmente trasmesse, che aprono la strada all'HIV nell'organismo femminile, (19) spiega il resto. È a questo livello originario, sociale e dei valori che la prevenzione dell'AIDS deve agire per essere efficace (20).

La prevenzione più radicale dell'HIV/AIDS, quella che è efficace in assoluto e che nessuno può negare, è l'astinenza sessuale per gli adolescenti prima del matrimonio, e la castità coniugale nel matrimonio. Questo è il messaggio della Chiesa. Limitarsi ad invitare gli adolescenti ad usare il profilattico nelle loro esperienze sessuali, significa continuare ad alimentare il vizioso circolo sessuale che sta all'origine della gravità della pandemia nell'Africa subsahariana. È una illusione equiparare l'efficacia della lotta contro l'HIV/AIDS al numero di profilattici distribuiti nell'ambito di una popolazione. Oggi sono presentati, come casi esemplari, quelli dell'Uganda e della Tailandia (21), dove gli sforzi internazionali e nazionali a favore dell'uso del profilattico avrebbero portato frutti. Nel caso della Tailandia, lo sforzo delle autorità sanitarie si è rivolto verso le prostitute e i loro clienti. Benefici a seguito dell'uso del preservativo per queste persone ve ne sono stati specialmente per quanto riguarda la prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse (22). Non è chiaro, tuttavia, se la promozione del condom in questo paese ha avuto effetto sul corso generale dell'epidemia di HIV/AIDS (23). L'uso del profilattico in tale condizioni è effettivamente un «minor male», però non lo si può proporre come modello di umanizzazione e di sviluppo. Forse le autorità della Tailandia avrebbero potuto prima interrogarsi sulle ragioni che hanno determinato il particolare sviluppo della prostituzione in questo paese. Il caso dell'Uganda ci sembra più esemplare, in considerazione del fatto che gli sforzi della lotta sono stati indirizzati verso tutti i fronti e hanno toccato effettivamente le radici stesse dell'epidemia. Nello studio presentato dall'UNAIDS (24), ci si interroga sui fattori che hanno portato al declino dell'epidemia in Uganda (25). La diffusione dell'HIV è scesa dal 45% al 35% negli uomini esaminati nelle cliniche per malattie sessualmente trasmesse, a Kampala, e dal 21% al 5% nelle donne incinte esaminate a Jinja, tra 1990 e 1996. Se, dai questionari risulta che uomini e donne sessualmente attivi ricorrono ad un uso più frequente del profilattico, il fattore che ci sembra di importanza maggiore è il cambiamento nell'atteggiamento sessuale dei giovani, che ritardano i primi rapporti sessuali (il 56% dei ragazzi di 15-19 anni di età hanno dichiarato nel 1995 di non aver avuto rapporti sessuali, contro il 31% nel 1989, e il 46% delle ragazze hanno affermato la stessa cosa nel 1995 contro il 26% nel 1989), e rimandano l'età del matrimonio; fattore importante è anche la diminuzione dei rapporti sessuali fuori della coppia (dal 22, 6% nel 1989 si è passati al 18, 1% nel 1995 per gli uomini) (26). Per concludere queste osservazioni a proposito della prevenzione dell'epidemia di HIV/AIDS nell'Africa Subsahariana e del ruolo che la Chiesa Cattolica ha sviluppato in questa lotta, occorre segnalare, tra molte altre, alcune esemplari iniziative realizzate per gli adolescenti e i giovani di questi paesi. Si sono formati, in Uganda, Tanzania e Nigeria, gruppi di giovani, promossi da religiose, sacerdoti e laici cattolici che si occupano di loro. Tali gruppi si dedicano alla lotta contro l'HIV/AIDS (27) e portano nomi significativi: «Youth alive», «Youth for Life». In questi gruppi informali e indipendenti da qualsiasi organizzazione governativa o statale, ragazzi e ragazze di 16-18 anni di età si impegnano a lottare contro l'HIV/AIDS presso i loro compagni di scuola e ragazzi a loro vicini, cominciando da se stessi, con un impegno alla continenza sessuale fino al matrimonio e alla castità coniugale dopo il matrimonio. Questi gruppi non sono proiezioni teoretiche. Esistono realmente, e da anni, con discrezione ed efficacia. Abbiamo avuto occasione di incontrarli e di parlare con queste ragazze e questi ragazzi, «normali», sorridenti, allegri, interessati alla musica e al calcio, amanti della vita ma non del profilattico. Tali gruppi non chiedono denaro: chiedono amore, pazienza, tempo, dedicazione e fede da parte di chi li segue. Non si può negare che sia questo il modello da applicare: certo non è un modello facile, ma è qualcosa di pienamente umano, basato sulla fede e la speranza, e non su un materiale in lattice, da distribuire. Oggi, sembra che si preferisca il materiale da distribuire allo sforzo umano. Con i milioni di dollari spesi nell'industria dei profilattici, si sarebbe potuto fare molto di più per i giovani dell'Africa, per la loro educazione, per il loro sostentamento e per la prevenzione efficace contro il contagio da HIV/AIDS.

La Chiesa Cattolica crede nel valore dell'uomo, nelle sue risorse. Crede che «l'uomo sorpassa infinitamente l'uomo», come diceva Blaise Pascal, perché è creato ad immagine di Dio, perché «Iddio creò l'uomo (e la donna) a sua immagine» (Gen. 1, 27). Nel campo del HIV/AIDS abbiamo trattato l'uomo come se si trattasse di un animale sottoposto ad una visita veterinaria, dimenticandoci di tutte le energie che egli è capace di mettere in azione quando è convinto che vale la pena agire per una cosa necessaria. Allo stesso modo in cui Malthus si era sbagliato (28) nelle sue proiezioni perché non aveva pensato che l'uomo poteva moltiplicare le sue risorse grazie al suo genio, così si è compiuto un errore dedicando tutti gli sforzi al «contenimento» dell'HIV/AIDS, servendosi di una barriera meccanica, indegna della sessualità umana, indegna dell'uomo. Si può capire il motivo che spinge le autorità sanitarie a diffondere il profilattico tra le prostitute e i loro clienti. Però la prevenzione dell'HIV/AIDS deve essere più di questo, deve spingersi ad un altro livello ed attaccare le vere radici sociali, economiche, politiche, morali, dell'epidemia. Questo non è impossibile, è necessario soltanto ampliare la visuale ed assicurare un maggiore rispetto delle persone. «Youth alive», «Youth for Life», hanno fatto questa scelta. È una scelta per l'avvenire di un continente che potrebbe altrimenti perdere la sua speranza.

Note

1) M. Balter, AIDS Now World's Fourth Biggest Killer, Science, 1999, 284 (5417): 1101.

2) E. Favereau, Sida en Afrique: un bilan amer, Libération, 17/9/1999. N. Herzberg, Dans une immense solitude, l'Afrique meurt d'abord du sida, Le Monde, 14/9/2000, p. 1. N. Herzberg, L'épidémie de sida est sur le point d'anéantir les rares acquis du développement en Afrique, Le Monde, 16/9/1999, p. 4.

3) P. Benkimoun, N. Herzberg, Le sida est devenu la première cause de mortalité en Afrique, Le Monde, 14/9/1999, p. 6.

4) La speranza di vita, nello Zambia è scesa da 64 anni a 47 anni. In questo paese un ragazzo di 15 anni ha il 60% opportunità di morire di AIDS. D. Logie, AIDS cuts life expectancy in sub-Saharan Africa by a quarter, British Medical Journal, 1999, 319 (7213):806.

5) AIDS: Teachers Dying in Central Africa, Current Concerns, October 1999, n. 10/99, p. 7.
A quoi sert-il de construire des écoles en Afrique si les professeurs meurent comme des mouches?, Le Monde, Economie, 14/9/1999, p. III.

6) N. Herzberg, Les orphelins de Cairo Road, Le Monde, 30/9/1999, p. 14.

7) Afsané Bassir Pour, Les Etats-Unis saisissent l'ONU du problème du SIDA en Afrique, Le Monde, 12/1/2000, p. 3.

8) Africa's AIDS Crisis, Herald International Tribune, 13/1/2000, p. 8.

9) Sessualità umana: verità e significato. Orientamenti educativi in famiglia, Roma, 1995.

10) UNAIDS: Sexual behavioural change for HIV. Where have theories taken us?, UNAIDS Best Practice Collection/99. 27E, June 1999, WWW.unaids. org., p. 20.

11) Cates W., Hinman A. R., AIDS and absolutism - the demand for perfection in prevention, The New England Journal of Medicine, 327 (7): 492-494. Roper W. L., Peterson H. B., Curran J. W., Commentary: Condoms and HIV/STD Prevention - Clarifying the message, American Journal of Public Health, 83 (4): 501-503.

12) April K., Koster R., Fantacci G., et al., Qual è il grado effettivo di protezione dall'HIV del preservativo?, Medicina e Morale, 1994, 44 (5): 903-905. Kirkman R., Condom use and failure, The Lancet, 1990, 336 (8721): 1009. Kuss R., Lestradet H., SIDA: communication, information et prévention, in «Le SIDA, propagation et prévention, Rapports de la commission VII de l'Académie Nationale de Médecine», Editions de Paris, 1996, pp. 12-55. Suaudeau J., Le «sexe sûr» et le préservatif face au défi du Sida, Medicina e Morale, 1997 (4): 689-726.

13) Grady W. R., Hayward, M. D., Yagi, J., Contraceptive failure in the United States: estimates from 1982 National Survey of Family Growth, Family Planning Perspectives, 1986, 18 (5): 200 - 209. Jejeebhoy S., Measuring contraceptive use-failure and continuation: an overview of new approaches, in «Measuring the Dynamics of Contraceptive Use», United Nations, New York, 1991, pp. 21-51, tables 3, 5. Potts D. M., Swyer G. I. M., Effectiveness and risks of birth-control methods, British Medical Bulletin, 1970, 26 (1): 26-32. Jones E. F., Forrest J. D., Contraceptive failure rates based on the 1988 NSFG [National Survey of Family Growth], Family Planning Perspectives, 1992, 24 (1): 12-19. Vessey M. P., Lawless M., Yeates D., Efficacy of different contraceptive methods, The Lancet, 1982, 1 (8276): 841- 842. World Health Organization, «Communicating Family Planning in Reproductive Health. Key Message for Communicators», WHO, 1997, p. 18.

14) De Vincenzi I., Comparison of female to male and male to female transmission of HIV in 563 stable couples, British Medical Journal, 1992, 304: 809- 813. De Vincenzi I., for the European Study Group on Heterosexual Transmission of HIV, A longitudinal Study of Human immunodeficiency virus transmission by heterosexual partners, The New England Journal of Medicine, 1994, 331 (6): 341-346.

15) In questa situazione di coppie HIV siero-discordanti, il fattore più importante che interviene nella trasmissione dell'HIV non sembra l'uso o l'assenza di uso del preservativo, ma l'atteggiamento sessuale dei partner, e l'esistenza o l'assenza di malattie sessualmente trasmesse. Nella sua statistica del 1987, N. Padian ha mostrato che il rischio di contaminazione da HIV è basilarmente funzione del numero dei partner e del numero degli atti sessuali attuati con un partner contagiato. Padian N., Marquis L., Francis D. P. et al., Male-to-Female Transmission of Human Immunodeficiency Virus, Journal of the American Medical Association, 1987, 258 (6): 788-790.

16) Gøtzsche, P. C., Hørding M., Condoms to Prevent HIV Transmission Do Not Imply Truly Safe Sex, Scandinavian Journal of Infectious Diseases, 1988, 20 (2), pp. 233-234. Hearst H., Hulley S., Preventing the heterosexual spread of AIDS. Are we giving our patient the best advice?, JAMA, 1988, 259 (16): 2428-2432. Kelly J., Using condoms to prevent transmission of HIV. Condoms have an appreciable failure rate, British Medical Journal, 1996, 312 (7044): p. 1478. Kelly, J. A., St. Lawrence, J. S., Cautions about condoms in prevention of AIDS, The Lancet, 1987, 1 (8258): 323. Vermund S. H., Editorial: Casual sex and HIV Transmission, American Journal of Public Health, 1995, 85 (11): 1488- 1489. Vessey J. T., Larson D. B., Lyons J. S. et al., Condom Safety and HIV, Sexually Transmitted Diseases, 1994, 21 (1): 59-60. Weller S., A meta-analysis of condom effectiveness in reducing sexually transmitted HIV, Social Science Medicine, 1993, 36 (12): 1365-1644.

17) Richens J., Inrie J., Copas A., Condoms and seat belts: the parallels and the lessons, The Lancet, 2000, 355 (9201): 400-403.

18) AIDS epidemic update: december 1999, UNAIDS, p. 16.

19) Cohen M. S., Sexually transmitted diseases enhance HIV transmissionno longer an hypothesis, The Lancet, 1998, 351 (suppl III): SIII5-SIII7.

20) Gli studi realizzati a Mwanza, Tanzania (Grosskurth et al. ) e, più recentemente, nel Rakai Districti dell'Uganda (Waver et al. ) hanno mostrato, in un modo impressionante, come l'infezione da HIV può essere controllata e prevenuta nelle popolazioni con l'unico trattamento delle malattie sessualmente trasmesse, senza altre misure contro l'HIV/AIDS. Grosskurth H., Mosha F., Todd J., Impact of improved treatment of sexually transmitted diseases on HIV infection in rural Tanzania, Lancet, 1995, vol. 346, pp. 530-536 Lancet, 1997, vol. 350, pp. 1805-1809. Waver M. J., Sewankambo N. K., Serwadda D., Etal., Control of sexually transmitted diseases for AIDS prevention in Uganda: a randomized community trial, Lancet, 1999, 353 (9152): 515- 535.

21) W. Phoolcharoen, HIV/AIDS Prevention in Thailand: Success and Challenges, Science, 19 June 1998, 280 (5371): 1873.

22) Hanenberg R. S., Rojanapithayakorn W., M Kunasol P., Sokal D. C., Impact of Thailand's HIV-control programme as indicated by the decline of sexually transmitted diseases, The Lancvet, 1994, 344 (8917): 243-245.

23) Richens J., Imrie J., Copas A., Condoms and seat belts. . . , p. 401.

24) A measure of success in Uganda, UNAIDS Case Study, May 1998.

25) Asiimwe-Okiror G., Opio A. A., Musinguzi J., Madraa E., Tembo G., Carael M., Changes in sexual behavior and decline in HIV infection among young pregnant women in urban Uganda, AIDS, 1997, 11: 1757-1764.

26) Questi dati sono sostenuti da uno studio recente circa le differenze nell'atteggiamento sessuale della popolazione in quattro città africane che conoscono gradi molto diversi di prevalenza dell'HIV (dal 3. 3% a Cotonou, Benin, al 31. 9% a Ndola, Zambia). Questo studio evidenzia - tra altri aspetti - un rapporto tra la precocità nei primi rapporti sessuali delle ragazze e la prevalenza di HIV nel loro gruppo. Le adolescenti di Kisumu e Ndola hanno in particolare rapporti sessuali precoci con uomini di età più avanzata, e la prevalenza delle malattie sessuali trasmissibili tra loro è più elevata che nelle altre città studiate. Cohen J., AIDS Researchers Look to Africa for New Insights 5, Science, 2000, 287 (5455), : 942-943. Differences in HIV Spread in four sub-Saharan African cities, UNAIDS, Lusaka, 14 September 1999.

27) McSweeny L., «AIDS, your responsibility», The ambassador Publications, 1991; McSweeny L., «Changing behaviour. A challenge to love», Ambassador Publications, 1995; Campbell I. D., Williams G., AIDS management: an integrated approach, ACTION AID, 1994.

28) D. B. Marron, Biology, economics, and models of humanity's future: what we have learned since Malthus?, Perspectives in biology and Medicine, 1999, 42 (2): 195-206.


Manuale per il diritto degli obiettori di coscienza - Un libro per difendere il personale sanitario che si rifiuta di praticare aborti
ROMA, lunedì, 30 marzo 2009 (ZENIT.org).- Insieme al dibattito su come ridurre gli aborti, cresce l’attenzione sui medici e sul personale sanitario che pratica l’obiezione di coscienza.
Sulla legittimità e il diritto di rifiutarsi di praticare l’aborto, Maria Luisa Di Pietro, co-presidente di Scienza & Vita, Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, e Marina Casini, ricercatrice di Bioetica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, hanno appena pubblicato il libro “Obiezione di coscienza in sanità. Vademecum” (Cantagalli, Siena 2009).
Già nell’introduzione gli autori spiegano che lo scopo di questa pubblicazione è eminentemente pratico. Essa vuole essere una guida di rapida consultazione per gli operatori sanitari che vengono a trovarsi in situazioni concrete di disagio e difficoltà nei confronti di quanto viene loro richiesto in ordine alla soppressione certa o eventuale di un essere umano appena concepito o in una fase più avanzata dello sviluppo prenatale.
La situazione è talvolta particolarmente tormentata poiché ampi settori dell’opinione pubblica, dirigenti delle istituzioni da cui dipendono gli operatori sanitari, autorità che possono interpretare le leggi e imporne l’applicazione, giudicano inaccettabile giuridicamente, o comunque irrilevante l’inquietudine di coscienza riguardo all’intervento professionale che viene loro richiesto.
Pur considerando con molta attenzione la questione antropologica, il libro affronta il tema dell’obiezione di coscienza dal punto di vista giuridico.
Il testo si propone di aiutare il personale sanitario a capire cosa stabilisce il diritto positivo, interpretandolo secondo i normali canoni che vengono utilizzati in qualsiasi altro campo.
Nell’introduzione al volume gli autori hanno scritto: “Vogliamo, insomma, illustrare i dati giuridici dell’obiezione di coscienza, non presentare un manuale di morale”.
Il volume offre una esposizione semplice, facilmente consultabile, formulata in modo tale che l’interessato possa trovare senza difficoltà le pagine che riguardano il suo specifico problema.
Infatti, il medico, l’infermiere, l’ausiliario di sanità si trovano a dover tenere o non tenere un dato comportamento in situazioni concrete che non lasciano molto tempo alla riflessione.
L’esigenza è quella di conoscere subito ed in modo comprensibile ciò che l’ordinamento consente o non consente per prendere una decisione che, ultimamente, sarà “di coscienza”, ma che deve anche fondarsi su una base giuridica.
Per facilitarne la comprensione e l’utilizzo gli autori hanno usato la tecnica delle domande e delle risposte, approfittando anche del fatto che gran parte dei quesiti sono stati già in precedenza formulati privatamente o pubblicamente, verbalmente o per iscritto e che le relative soluzioni sono state già date nella stessa forma in cui le domande erano state proposte.
Il libro vuole rispondere anche alla critica, talvolta arrogante e minacciosa, specialmente nel campo dell’aborto, che è quello dove più diffusamente e frequentemente il valore della vita umana è messo in discussione.
A questo proposito gli autori riilevano: “Come non ricordare l’affissione nelle strade cittadine di manifesti contenenti i nomi dei medici obiettori, indicati alla pubblica esecrazione, all’indomani dell’approvazione della Legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza?”.
“O, attualmente, la pretesa di escludere dalla copertura della obiezione la prescrizione e somministrazione di prodotti chimici ad effetto anche abortivo?”.
“O la ricorrente tesi che l’obiezione avrebbe il non confessabile scopo di favorire la clandestinità dell’aborto con guadagni economici per i medici obiettori c he costringerebbero le donne a rivolgersi privatamente ai loro studi?”.
“O, ancora, la tesi ripetuta tanto ossessivamente quanto irragionevolmente, che la 'cattiva' gestione della Legge 194 sarebbe stata largamente causata dalla troppa estensione dell’obiezione di coscienza?”.
In tutti questi casi l’obiettore può trovarsi in una reale difficoltà se viene minacciato di denunce, licenziamenti o se può temere ostacoli per la serenità e lo sviluppo della sua professione.
“Ma è necessario che egli sappia reagire con serenità e a testa alta” è scritto nel libro, perché “nella moderna società la libertà resta un valore unanimemente riconosciuto e la libertà di coscienza ne è il cuore".
Dopo aver risposto alle domande più frequenti gli autori sostengono che in merito alla obiezione sanitaria, poche volte e in tempi remoti l’autorità giudiziaria è stata chiamata a pronunciarsi.
Ed in ogni caso gli autori nutrono la convinzione che alla fine di eventuali nuove vicende processuali, l’obiezione di coscienza verrà riconosciuta nella sua più ampia estensione
A questo proposito si ricorda che in molti casi minacce iniziali sono state regolarmente abbandonate di fronte alla serena conferma della obiezione.


CONFRONTI/ Romano Guardini e John Dewey: il cattolico e il laico uniti sull’esperienza educativa - INT. Carlo Fedeli - martedì 31 marzo 2009 – ilsussidiario.net
L’educazione come esperienza. Il contributo di John Dewey e Romano Guardini alla pedagogia del Novecento è il saggio da poco pubblicato, presso l’editrice “Aracne” di Roma, da Carlo M. Fedeli, ricercatore nella facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino.
Professor Fedeli, perché questo studio sull’educazione come “esperienza”?
Perché mi sembra che questo sia uno dei nodi cruciali dell’emergenza educativa che ha investito negli ultimi anni il nostro Paese, la nostra scuola e, più in generale, come si vede da molti segnali, anche la cultura europea e occidentale. Si può cercare di rispondere a questa emergenza con una rinnovata serie di analisi e discorsi, più o meno aggiornati, su che cosa non funziona nell’educazione dei giovani, nelle aule scolastiche, nei diversi ambiti di vita (lavoro, famiglia, società, Chiesa). Ma ci si può anche tornare a chiedere che cosa sia veramente, in sé, l’educazione, e come un’educazione autentica possa rispondere all’ampiezza – e anche gravità – dei problemi, con cui avremo sempre più a che fare in futuro.
Il saggio prende sul serio questa seconda ipotesi, e prova a svolgerla ricostruendo le concezioni di due grandi personalità del Novecento, John Dewey e Romano Guardini. Entrambi erano ben coscienti che non c’è vera educazione se non c’è reale “esperienza”, cioè rapporto vivo e significativo con le cose, gli avvenimenti e le persone.
Dewey e Guardini: il maestro del pragmatismo e della democrazia laica e liberal, e il professore di “visione cattolica del mondo”. Non è uno strano accostamento ?
Tutt’altro. Sono entrambi autori che, con la loro riflessione, il loro insegnamento e i loro scritti hanno esercitato un influsso enorme su molte generazioni di insegnanti e di educatori. Certo l’influsso di Dewey è più facilmente riconoscibile, essendo egli stato il padre e il maestro riconosciuto della concezione attivista e democratica della scuola e dell’educazione, che ha dominato nella cultura non solo americana, ma anche europea e italiana del Novecento. L’influsso di Guardini non è altrettanto appariscente, perché, a partire dalla Germania, sua terra d’adozione, esso si è irradiato lentamente, attraverso molti canali (fra cui la traduzione dei suoi scritti in diverse lingue, oppure la loro circolazione nei movimenti di studenti cattolici nelle scuole e in università), e nonostante il fatto che egli non fosse considerato un filosofo dell’educazione o un pedagogista in senso stretto, come è accaduto invece a Dewey.
Chi leggerà il saggio vedrà come ciascuno di loro, nella particolare situazione storica e culturale in cui ha vissuto, ha percepito e messo a tema la questione dell’educazione come “esperienza”: con quale sensibilità e apertura, con quanta passione di ragionevolezza e, naturalmente, anche con quali affinità e differenze, sia intellettuali che ideali.
Di solito, di fronte a un saggio scientifico, il lettore può temere di non essere all’altezza della terminologia, delle analisi… È così anche in questo caso?
Posso rispondere con ciò che mi ha detto una matricola, all’esame, qualche settimana fa. Volevo rendermi conto delle difficoltà, o meno, che aveva incontrato nella lettura, e così, prima di farle una domanda particolare, le ho chiesto un giudizio complessivo sul testo. Per risposta la studentessa mi ha mostrato le notazioni a margine che aveva apposto quasi su ogni pagina. Non erano solo richiami utili per lo studio, ma anche osservazioni che si riferivano alla sua esperienza come assistente ed educatrice in un centro pomeridiano di aiuto per ragazzi difficili, presso una popolosa parrocchia salesiana. Aveva spesso riconosciuto la pertinenza di questo o quell’aspetto delle concezioni di Dewey e di Guardini rispetto ai fatti, ai problemi e alle questioni educative che toccava con mano, ogni volta che si accostava ai ragazzi. Al punto che andava a fare il doposcuola portandosi dietro il saggio… Ecco: più che “difficile”, definirei “attivo” il libro, perché chiede a chi lo prende in mano di essere disposto a guardare e compiere l’esperienza – non solo di lettura, ma anche di paragone – in rapporto alla quale è stato concepito.


SCUOLA/ Io, madre di un bimbo disabile, vi racconto come mio figlio è accolto in una scuola paritaria - Redazione - martedì 31 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Gli amici della Foe, che curano per Il Sussidiario la rubrica "Il paritario.net", hanno ricevuto, per conoscenza, dalla madre di un bambino frequentante una scuola associata alla FOE, questa lettera scritta in risposta ad un articolo apparso sul Corriere della Sera ed. Milano lo scorso 9 marzo.
La proponiamo ai nostri lettori, a testimonianza dell’impegno profuso da tante scuole paritarie, insieme alle famiglie, per l’educazione dei bambini “con difficoltà”. Da domani troverete questo articolo nella rubrica Ilparitario.net.
Alcuni giorni fa (il 9 marzo u.s.) ho letto sul Corriere della Sera, nella Cronaca di Milano, un articolo che mi ha lasciata davvero molto perplessa. Così, dopo alcuni giorni di riflessione (dedicati anche a documentarmi….), ho deciso di rispondere.
Questo il titolo dell’articolo: «I presidi ai capi delle private: “La Vera parità? Anche voi dovete accogliere gli alunni difficili”». Il contenuto dell’articolo è in sostanza un perentorio atto di accusa dei presidi statali alle scuole private, colpevoli –a loro dire- di respingere gli alunni portatori di handicap e stranieri con la scusa che non hanno strutture per accoglierli e seguirli; una requisitoria che si conclude con la richiesta di “riservare alcuni posti, completamente gratuiti, a studenti disabili e immigrati”.
Io, a dir la verità, di scuole paritarie che accolgono alunni “difficili” ne conosco parecchie; infatti sono madre di un bambino disabile di 11 anni, iscritto sin dalla prima classe della primaria ad una scuola paritaria e, direi, felicemente inserito e seguito. Anzi, posso dire che verifico quotidianamente una cura e una disponibilità che non so quanto siano diffuse nelle scuole statali, almeno stando a quanto mi raccontano amici e conoscenti che hanno situazioni familiari analoghe alla mia.
Certo, paghiamo una retta; di più: per avere l’insegnante di sostegno –che le scuole statali hanno in abbondanza e gratuitamente!- la scuola non statale si accolla costi ulteriori ed è costretta a svolgere continue azioni di fund raising, talvolta in collaborazione con associazioni di genitori costituite ad hoc (come nel mio caso).
A proposito: la legge 62/2000 non ha definito queste scuole “PARITARIE”….? Paritarie nei doveri, sicuramente, ma quanto a diritti…..
Per quel che ne so io, infatti, nel caso in cui i genitori ne facciano richiesta, questi istituti sono assolutamente tenuti ad accogliere gli allievi con disabilità, in condizioni di svantaggio, o con disturbi specifici di apprendimento, garantendo la presenza di docenti di sostegno specializzati. Ottimo, giusto, ma chi paga? Qualcuno sa quanto costa un insegnante di sostegno per un anno scolastico? Se consideriamo poi che le classi che accolgono studenti in situazione di handicap devono essere costituite da un numero ridotto di alunni, ci rendiamo conto dello sforzo che le scuole paritarie devono sostenere, visto che sopravvivono grazie alle rette corrisposte dalle famiglie?
Eppure lo fanno. Con grandi sacrifici per tutti, gestori e genitori. Però anche con grande disponibilità e attenzione alla persona. E in cambio di cosa? Ad esclusione delle scuole primarie parificate, che hanno fino ad oggi usufruito di un contributo ministeriale previsto da una convenzione con il Ministero (cifra che non consente la copertura totale delle spese per l’insegnante di sostegno), le altre scuole paritarie (dell’infanzia, secondarie di primo e di secondo grado) che accolgono studenti in condizioni di svantaggio non ricevono contributi sostanziali, anzi…. Eppure sono aperte a tutti, e si prendono cura dei propri alunni solitamente meglio di quanto accade nelle sovvenzionate, gratuite e spesso indifferenti scuole di Stato.
Dispiace creare contrapposizioni, ma non l’ho fatto io per prima; vorrei che tutti gli alunni disabili (o no) fossero accolti, amati e seguiti come meritano e come è seguito mio figlio; mi piacerebbe che tutte le scuole funzionassero come si deve, statali o non statali che siano.
Ma quando si assiste a così palesi deformazioni della realtà, stare zitti significa diventare complici della menzogna. E a me questo non va proprio.


RICERCA/ Raisman (University College): le staminali embrionali? Tossiche come i subprime - INT. Geoffrey Raisman martedì 31 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Per molti Paesi, e ovviamente molti media, la ricerca sulle cellule staminali sembra privilegiare in particolar modo le staminali embrionali, considerate la chiave per la cura di parecchie malattie generiche che ora come ora non lasciano speranze. Tale atteggiamento rischia di screditare la ricerca, che molte prove testimoniano essere più efficace e semplice, sulle staminali adulte. Il professor Geoffrey Raisman è il direttore dello Spinal Repair Unit all’University College London – Institute of Neurology. Dirige un gruppo di ricerca il cui lavoro potrebbe un giorno condurre alla terapia del midollo spinale danneggiato, il tutto con l’aiuto delle staminali adulte. Ilsussidiario.net ha chiesto al professore di spiegare l’attuale situazione.



Professor Raisman, le cellule staminali e in particolare quelle di origine embrionale sono al centro dell’attenzione dei media. Qual è il vero stato della ricerca sulle cellule staminali dal punto di vista scientifico?



Le cellule staminali embrionali hanno la proprietà di dividersi all’infinito e di poter diventare un qualsiasi tessuto del corpo. Dal punto di vista del trapianto di cellule embrionali, questi non sono interamente dei vantaggi, perché una divisione non controllata porterebbe a un tessuto invasivo, non adeguatamente integrato con il corpo. Ciò che è necessario per la riparazione dei tessuti sono cellule già differenziate nel tipo di tessuto che si deve riparare. Le cellule staminali embrionali, come esito di una donazione, sarebbero estranee a chi le riceve e perciò sotto attacco immunitario.



Lei ha detto recentemente che le cellule staminali adulte sono molto più promettenti sotto il profilo terapeutico. Può approfondire questa affermazione?



Nei trapianti di cellule staminali adulte il confronto con il ricevente è effettuato in uno stato di maturità delle cellule, che sono già predisposte a costituire i tessuti richiesti e non sono incompatibili dal punto di vista immunologico.



Secondo quanto risulta da una discussione sull’argomento alla Camera dei Lord, Lei ha paragonato la spinta al finanziamento degli esperimenti con cellule embrionali alla faccenda dei mutui subprime. Cosa intendeva con questo?



Il pubblico considera le cellule staminali embrionali la via per ricuperare situazioni inguaribili. Per le ragioni esposte questa è un’aspettativa irrealistica entro un concepibile periodo di tempo. I finanziamenti pubblici sembrano rispondere solo a queste aspettative del pubblico e, ancor di più, a quelle dell’industria che vedono nelle cellule staminali embrionali un’inesauribile sorgente di ricchezza. Perciò, malgrado gli svantaggi e la lontananza nel tempo dell’uso delle cellule embrionali e, per converso, i vantaggi dell’utilizzo di cellule staminali adulte, la ricerca su quest’ultime non è ritenuta altrettanto meritevole di finanziamento.



In futuro, Lei vede qualche possibile cambiamento nelle politiche di finanziamento in Gran Bretagna?



Non ho la sfera di cristallo per poter indovinare le intenzioni di chi gestisce i fondi governativi. In questa area, io sono una vittima, non il persecutore. Ma forse costoro dovrebbero ricordarsi che il trapianto di cellule derivanti da staminali adulte è il trattamento di maggior successo esistente ed è stato attuato in tutto il mondo da più di mezzo secolo. Si chiama trasfusione di sangue. I trapianti di pelle adulta (innesti sullo stesso paziente) funzionano perché sono derivati da staminali adulte destinate a diventare pelle, si integrano bene nella zona ospite, la loro divisione è controllata in modo chiaro e non presentano alcun problema di rigetto.



Qual è la Sua opinione sulle cellule pluripotenti indotte? Il loro uso comporta tuttora rischi collaterali?



Queste cellule non sono adatte per i trapianti. Esse forniscono un eccellente sistema per lo studio nelle culture di tessuti dei processi delle malattie, specialmente quelle genetiche.



Allo University College London Lei ha condotto una importante ricerca sull’autotrapianto di cellule adulte olfattive per riparare lesioni al midollo spinale. Può dirci qualcosa su questa ricerca?



I modelli animali indicano che i trapianti di cellule ensheathing (inguainanti) olfattive possono ripristinare funzioni molto importanti (noi abbiamo studiato il controllo della mano e del respiro) nelle lesioni del midollo e della radice spinale nei topi. I risultati di queste ricerche sono così incoraggianti che, se lo potremo, non cesseremo di tentare di trovare le conoscenze necessarie per trasferire questi benefici ai pazienti che sono attualmente senza possibilità di cura. Stiamo facendo ricerche su come ottenere queste cellule da tessuti umani adulti e per capire se queste cellule, prese dalla mucosa del naso, possono essere rese così efficaci come quelle ottenute dall’interno del cranio.

Se riusciamo a risolvere questi problemi, pensiamo di effettuare i primi trapianti, basati sulle cellule dello stesso paziente, in casi in cui i nervi del braccio sono staccati dal midollo spinale. Un successo aprirebbe le porte allo sviluppo delle tecniche necessarie per il trattamento futuro delle lesioni del midollo spinale, degli ictus, della cecità e della sordità. Lo scopo della ricerca è la conoscenza; la conoscenza porta la speranza.



Un’ultima domanda. Nel dibattito sulle cellule staminali da embrione sono coinvolti anche aspetti etici, poiché l’inevitabile distruzione dell’embrione significa per molti la distruzione di una vita umana. Qual è la Sua opinione su questi temi?



Non vi è nessuna risposta logica a cosa è una vita umana. Nel normale concepimento, la maggioranza degli ovuli fertilizzati non sopravvive. La natura, spinta dall’evoluzione, utilizza la propria scure. Gli ovuli fertilizzati usati nella fecondazione in vitro sono buttati. In quale punto un ovulo vivo, capace di diventare un essere umano, acquista le proprietà di una vita umana non può essere stabilito scientificamente, né vi è un momento, in questo viaggio verso una persona, che può dare una risposta assoluta. Tutto sta nell’equilibrio, nel giudizio di moderazione.

La facilità con cui la razza umana parla del Quinto Comandamento è di gran lunga superata dalla nostra maggior capacità di non rispettarlo. Per qualche strano meccanismo mentale, ci riferiamo alla produzione di bombe, cannoni e strumenti di distruzione di massa usando il termine difesa, quando attorno a noi, tutto questo armamentario, venduto con enormi profitti, è dispiegato nel pieno della sua letale potenza, con una tecnologia sempre più potenziata nelle sue capacità distruttive. E ciò avviene in ogni società e tempo, con ogni religione e governo. E il numero di coloro che muoiono di malattie evitabili e di fame eccede di gran lunga il numero di quelli che uccidiamo. Una frazione del costo di una delle bombe intelligenti lanciate su Bagdad accelererebbe la scoperta di una cura per le lesioni alla spina dorsale.

Il fatto che non possiamo avere un mondo perfetto non significa che siamo liberi da ogni obbligazione morale di scegliere il mondo migliore che possiamo. E questa decisione non sta in regole o insegnamenti corretti, ma è compito di ogni uomo chiedersi in quale tipo di mondo vorrebbe vivere e quale parte lui stesso può giocare per realizzarlo.


L’INTERVENTO DI BENEDETTO XVI - UNA SCOSSA CHE CHIAMA A NON DIMENTICARE - ANDREA LAVAZZA – Avvenire, 31 marzo 2009
« N el nome di Dio, liberateli». Ci voleva un accorato ap­pello di Benedetto XVI per accende­re i riflettori sul drammatico ultima­tum che riguarda tre operatori u­manitari sequestrati nelle Filippine, tra cui l’italiano Eugenio Vagni. I coo­peranti della Croce Rossa sono nel­le mani di un gruppo estremistico separatista dal 15 gennaio, quando furono catturati sull’isola meridio­nale di Jolo, in cui spadroneggia il gruppo terroristico islamico Abu Sayyaf.
Entro stamattina l’esercito di Mani­la dovrebbe ritirarsi totalmente, al­trimenti uno degli ostaggi sarà de­capitato, è il macabro messaggio re­capitato ieri alle autorità. Una ri­chiesta di difficile esecuzione logi­stica, anche se il governo accettasse le condizioni poste dai guerriglieri.
Sono passati oltre due mesi dal gior­no in cui Vagni, esperto di approvvi­gionamenti idrici, con i suoi colle­ghi – lo svizzero Andreas Notter, e la filippina Mary Jean Lacaba –, fu vit­tima di un’imboscata dopo essersi recato in una prigione per cercare di migliorare le condizioni dei detenu­ti. La sua unica colpa, e il richiamo per i rapitori, è quella di essere occi­dentale, quindi preziosa merce di scambio. Merce paradossalmente ri­velatasi meno appetibile – non sem­bri cinismo, è una constatazione – proprio perché, almeno in Italia, al­la sorte di Vagni non ci si è appas­sionati molto. Per il tecnico di Montevarchi, 62 an­ni, moglie filippina e una figlia pic­cola, iniziative di solidarietà a livel­lo locale, nella provincia di Arezzo, ma scarsa mobilitazione nazionale. Un po’ come accadde per Giancarlo Bossi, il missionario del Pime rapito sempre nel Sud delle Filippine due anni or sono, la cui vicenda si con­cluse felicemente con la liberazione, senza che però il nostro Paese gli ri­servasse quell’attenzione e quella so­lidarietà che hanno invece accom­pagnato altri ostaggi in diversi sce­nari bellici. Il ministero degli Esteri, come in pas­sato, sta seguendo da vicino la trat­tativa e agisce comprensibilmente senza clamore. Ma il caso degli ope­ratori della Croce Rossa è emblema­tico di una situazione che merite­rebbe ben maggiore attenzione, non solo per l’immediato pericolo di vita dei tre (uno dei quali connazionale). La parte meridionale dell’arcipelago asiatico è da anni nella morsa del fon­damentalismo, in alcune sue frange legato ad al-Qaeda e determinato a instaurare uno Stato islamico nella regione. Una nuova entità creata con la violenza e fondata sull’intolleran­za. Tra gli obiettivi principali di Abu Sayyaf, vi è la presenza cattolica mi­noritaria eppure consistente di quel­le isole, oltre a scuole e luoghi pub­blici; i loro mezzi di lotta e finanzia­mento sono le estorsioni.
Lo stesso dietrofront delle forze ar­mate intimato dai terroristi rischie­rebbe di mettere a rischio molte al­tre persone, lasciate a quel punto senza una difesa. Il messaggio del Papa, «affinché il senso umanitario e la ragione abbiano il sopravvento sull’intimidazione», vuole rilancia­re anche l’istanza di pacificazione per tutte le popolazioni coinvolte.
Si può sperare che l’ultimatum, co­me altri precedenti, non venga se­guito dalla 'sentenza' annunciata. Ma se pure si guadagnasse tempo, la trepidazione per gli ostaggi in con­dizioni sempre più precarie non ver­rebbe certo meno. Un 'ambasciato­re' della solidarietà come Eugenio Vagni è un silenzioso testimonial dell’Italia all’estero che merita, in­sieme con la sua famiglia e i suoi compagni di sventura, le nostre pre­ghiere e la nostra vicinanza.


I DIRITTI NEGATI - Dalla provincia di Avellino una mamma è costretta ad andare a Napoli per far curare il suo bambino «Ho scritto al premier per avere maggiore attenzione ai problemi delle persone disabili» - «Un figlio autistico. E siamo soli» - DA MILANO ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 31 marzo 2009
B usserà a tutte le porte mam­ma Daniela per avere l’aiuto di cui suo figlio Giuseppe, au­tistico, ha bisogno. E a cui ha diritto. Dalla provincia di Avellino, dove vi­ve con la famiglia composta dal ma­rito e da quattro bambini (il più gran­de va in prima elementare, l’ultimo non ancora alla scuola materna), la mamma ha scritto una lettera aper­ta al capo del governo per denun­ciare il sostanziale disinteresse delle istituzioni per le necessità dei disa­bili. «Mi chiedo se esiste davvero un diritto alla cura, un diritto all’assi­stenza o se debba restare solo scrit­to come al solito» scrive la mamma al presidente del Consiglio. E ha ini­ziato da quattro giorni uno sciopero della fame finché non otterrà l’at­tenzione che merita: «Ieri sono sta­ta ricevuta da un funzionario della prefettura di Avellino, che mi ha so­lo potuto dire che “parlerà con la A­sl” ». La difficoltà di questa famiglia nasce quando, due anni or sono, si osser­va che il piccolo Giuseppe manife­sta sintomi che si riveleranno auti­smo. Racconta mamma Daniela: «Già è difficile ottenere una diagno­si, ma una volta individuata la pato­logia, ho dovuto personalmente in­teressarmi delle migliori possibilità terapeutiche per mio figlio». Infatti Giuseppe ha bisogno sia di cure me­diche (per problemi intestinali) sia della terapia comportamentale: «Il miglior aiuto viene dal metodo Aba – spiega la mamma – che però non è previsto nella nostra Asl, nonostan­te sia riconosciuto dal ministero del­la Salute. Alla fine sono riuscita a ot­tenere (dopo essere stata in televi­sione) una prestazione di 12 ore set­timanali ». Il problema è che il centro per la terapia si trova a Napoli, a 40 chilometri da casa: «Per fare curare il mio Giuseppe – continua Daniela – tre o quattro volte alla settimana devo prendere alcuni o tutti i miei fi­gli, e portarli con me a Napoli: a se­conda dell’orario dell’appuntamen­to, significa che qualche volta devo prelevarli da scuola, costringerli a u­na lunga trasferta, e talvolta farli mangiare in macchina. Per stare poi tre o quattro ore a Napoli durante la terapia di Giuseppe».
«Io voglio poter curare mio figlio qui, vicino a casa» è la decisa richiesta di mamma Daniela. E non è una pre­tesa: «Le leggi ci sono. La 104, sul ri­conoscimento della disabilità, la 328 per gli interventi sociali. Ma da noi non vengono applicate. Perché il punto di riferimento non è il diritto del cittadino, ma il bilancio dell’en­te pubblico. In sostanza ci hanno spiegato che se non ci sono i fondi, le prestazioni non possono essere e­rogate. Anche se sono prevista dalla legge. Per esempio, l’ente incaricato del trasporto dei disabili è il Comu­ne ». «E oltre al grave disagio che ci comporta la cura – continua papà Tommaso – non ci viene riconosciu­to neppure un rimborso sulle spese di viaggio. Noi vorremmo anche a­prire una porta sulla questione disa­bilità in Italia: i 470 euro mensili del­l’indennità di accompagnamento spesso non bastano». Anche perché, e lo sanno bene tutti i Tommaso e Daniela d’Italia, la presenza del­l’handicap può stravolgere la vita: «Abbiamo dovuto chiudere la nostra attività in proprio – rivela Daniela –. Io ho smesso di dipingere e mio ma­rito ora lavora in un ristorante». Quello che li sostiene, «è l’amore ver­so nostro figlio. E la forza della fede».


lunedì 30 marzo 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) In Belgio l'eutanasia addormenta anche i bambini - In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio dimostra che è ampiamente praticata… - Il Foglio 28 marzo 2009
2) TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: Veronesi sbaglia, non serve un governo dei giudici - INT. Eugenia Roccella - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
3) PDL/ Il futuro è nell’Europa - Mario Mauro - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
4) DOPO ELUANA/ Chi esercita il “potere” sul nostro corpo? - Elisa Buzzi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
5) MARIJA JUDINA/ La pianista che commosse Stalin - Enrico Raggi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
6) 29/03/2009 15.30.38 - Radio Vaticana – Usa. I vescovi a Obama: dispotismo il no all'obiezione di coscienza


In Belgio l'eutanasia addormenta anche i bambini - In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio dimostra che è ampiamente praticata… - Il Foglio 28 marzo 2009
In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio (pubblicato dall’American Journal of Critical Care) dimostra che è ampiamente praticata.
Secondo i dati raccolti dall’Università VUB di Bruxelles e quella di Gand e d’Anversa, in cinque delle sette unità di cura intensiva pediatriche del paese negli ultimi due anni i casi sono almeno 76. Tra questi, 25 volte si è deciso di ricorrere a farmaci letali (paralizzanti neuromuscolari o barbiturici) con “l’esplicita intenzione di causare la morte”, mentre nei restanti casi sono state interrotte terapie o respirazione artificiale, oppure sono stati somministrati sedativi.
Nel 62 per cento dei casi in cui la morte è avvenuta con la somministrazione di un farmaco letale, la decisione è stata presa dal medico senza interpellare gli infermieri, mentre nel 31 per cento dei casi è stato proprio l’infermiere ad agire senza la presenza di un dottore. Il 69 per cento del personale infermieristico interpellato si è dichiarato “pronto a interrompere le sofferenze di un bambino somministrando farmaci letali” e secondo il 90 per cento “proseguire con i trattamenti non è sempre nell’interesse del minore”.
Il Foglio 28 marzo 2009


TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: Veronesi sbaglia, non serve un governo dei giudici - INT. Eugenia Roccella - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Giovedì scorso il ddl sul testamento biologico è stato approvato dal Senato e ora passa alla Camera. Si sono scatenate però le polemiche. Tra i punti più controversi la cosiddetta non vincolatività delle Dat: il medico infatti prende in considerazione quanto dichiarato nelle Dat, ma può non seguirle, motivando il perché della sua decisione. «Agli italiani - ha detto la capogruppo del Pd Anna Finocchiaro - avete spiegato che questa era una legge per poter scrivere il proprio testamento biologico, ora gli dite che invece non contano più niente». E il senatore Umberto Veronesi ha invitato gli italiani a scrivere e depositare il loro testamento biologico prima che la legge entri in vigore. Perché «all’occorrenza un buon magistrato potrà farlo valere». È proprio la situazione che volevamo evitare, dice a ilsussidiario.net il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella: il “far west” del testamento biologico, cioè «passare, anziché dal Parlamento, dalle sentenze dei magistrati».
Sottosegretario Roccella, ipotizziamo che la legge sul fine vita vada in vigore nella versione del ddl varato dal Senato. Cosa ne sarebbe di un altro caso Englaro?
Il punto è proprio questo: con la legge che sarà in vigore non sarà più possibile alcun “caso Englaro”. Devo comunque riconoscere che il verificarsi di un caso Englaro sarebbe difficile con qualunque dei progetti di legge che erano in discussione al Senato, perché l’anomalia del caso di Eluana è che non c’erano volontà scritte e questo ha consentito la ricostruzione delle sua ipotetica volontà da parte dei giudici. Quando si dice che Eluana è morta a causa di una sentenza non solo si dice l’assoluta verità, cioè che una sentenza ha consentito il distacco del sondino, ma anche che attraverso una sentenza è stata ricostruita la sua volontà di morire.
Umberto Veronesi, intervistato da Repubblica, ha detto che il ddl è antidemocratico, antistorico e anticostituzionale e ha lanciato un appello agli italiani: «scrivete il vostro testamento biologico prima che questa legge che lo vanifica entri in vigore. All’occorrenza, un buon magistrato potrà farlo valere». Che ne pensa?
La sua è una legittima provocazione politica, che ha il merito di esplicitare quello che stava effettivamente avvenendo: il “far west” del testamento biologico. Lo abbiamo visto in altri paesi, come l’Olanda. La prassi della sospensione delle cure in Olanda è stata prima introdotta attraverso sentenze e prassi mediche e solo alla fine è passata per il parlamento. Questo è l’indirizzo che stavano seguendo in Italia i fautori - più che del testamento biologico - del diritto a morire: passare dalle sentenze dei magistrati e creare una situazione di fatto della quale il Parlamento avrebbe potuto solo prendere atto.
Una posizione della quale la proposta di Veronesi esprime la formulazione coerente.
Sì. Penso che quello che dice Veronesi illumini molto bene sull’indirizzo che alcuni volevano intraprendere. Ma credo che per i cittadini il fatto che si passi dal Parlamento sia una garanzia fondamentale, perché il Parlamento esprime la volontà degli elettori. Che, se vogliono, possono bocciare l’operato dei politici, ma non quello dei magistrati.
Uno dei punti salienti del ddl è il rapporto fiduciario tra paziente e medico, formulato nel principio che riconosce come “prioritaria l’alleanza terapeutica”. In molti però hanno obiettato che le Dat sono rimaste senza vincolatività. Ecco perché l'opposizione ha accusato la maggioranza di aver “svuotato la legge”. È così?
No, e questo è un punto fondamentale che va chiarito. Noi abbiamo sempre detto che questa legge aveva tre punti fondamentali: la certezza della dichiarazione - quindi autenticata, frutto del consenso informato - , poi il principio dell’idratazione e alimentazione assicurate a tutti, e infine il fatto che non fosse vincolante per il medico. Il ddl presentato dal senatore Calabrò in commissione conteneva esattamente questi punti. Di conseguenza non è caduta nessuna vincolatività, perché non c’è mai stata. La maggioranza quindi non ha fatto un emendamento aggiuntivo “togliendo la vincolatività”, ma ha semplicemente ripristinato il ddl Calabrò originario.
In commissione, però, c’è stato un emendamento che inseriva la vincolatività del medico alle Dat.
In commissione un emendamento non dell’opposizione, ma di un’area della maggioranza inseriva la vincolatività con l’eccezione dell’articolo 7. Ma è una cosa più simbolica che fattuale, perché secondo l’articolo 7 il medico ha un margine di autonomia professionale che gli permette di dichiarare che non rispetterà le Dat, spiegandone i motivi sulla cartella clinica.
Perché la maggioranza ha deciso di abbandonare quella formulazione tornando al testo Calabrò originario?
L’emendamento di maggioranza recitava “vincolante con l’eccezione dell’articolo 7”, quindi dava più che altro un peso simbolico maggiore alle Dat pur senza cambiare la sostanza, cioè che il medico non può prendere in considerazione indicazioni contrarie alla tutela della vita del paziente. Questo emendamento è stato ritenuto poco chiaro, ipotizzando che potesse creare ambiguità presso la magistratura, dando l’opportunità ai magistrati o alla Corte costituzionale di inserirsi in una norma che poteva sembrare contraddittoria.
A suo avviso è prevalso il dialogo oppure ha ragione l’opposizione di dire che da parte della maggioranza si è “blindato” il ddl?
No, perché in commissione il dialogo c’è stato, per esempio i primi tre articoli sono stati riformulati in un unico articolo, il primo, raccogliendo vari suggerimenti della minoranza. Abbiamo accolto un emendamento Finocchiaro sull’inserimento del consenso informato all’articolo 1, cioè in sede di dichiarazione di principio. Il consenso informato era già presente all’articolo 4 ma è stato spostato perché la legge potesse aprirsi con una “dichiarazione di intenti”.
Come spiega allora le forti polemiche che hanno accompagnato l’approvazione?
Penso piuttosto ad un fatto politico. Il dialogo infatti c’è stato non solo in commissione, ma anche nella prima parte delle votazioni in aula. Tant’è vero che una parte dell’opposizione ha votato con noi più volte, soprattutto durante il voto segreto. Ma il secondo giorno questioni di equilibri interni, posso immaginare, hanno portato ad una radicale contrapposizione. Ne hanno fatto le spese gli emendamenti Baio e Bianchi: noi eravamo disposti a votarli, ma poiché era venuta meno la disponibilità da parte dell’opposizione, abbiamo ritirato il nostro consenso e lasciato all’aula la decisione e l’aula li ha bocciati.
Ora il ddl va alla Camera. Ci sono non pochi dissidenti, da Pera a Pecorella e Della Vedova. Vede il rischio di divisioni nella maggioranza?
Vedremo. Intanto il ddl ha dato una chiara manifestazione di compattezza, il che non ha impedito che ci fossero più voci di dissenso da noi che nell’opposizione. Che ha tuonato contro la nostra compattezza, ma ci ha dato più volte quindici, venti voti nelle votazioni segrete. Da noi comunque c’è una vera libertà di coscienza.
Esiste un deficit di laicità nella maggioranza?
No, perché non c’è un “diritto prevalente”, come ci viene rimproverato da più parti, ma un indirizzo coerente fondato su visione antropologica condivisa; che nulla toglie alla libertà personale. Ma la libertà di coscienza non è la mancanza di una visione antropologica condivisa dal partito; è la discrezionalità individuale che su questa si fonda e rimane legittima.
Cosa le rimane, come persona, di tutta la vicenda Englaro, dal punto di vista personale e politico?
Una grande amarezza, perché nel momento in cui davvero pensavamo di riuscire a salvare Eluana, quella notte, non ci siamo riusciti. Questo è rimasto come un segno, un senso di impotenza che ci ha segnato tutti. Ma anche la volontà che non ci sia mai più un caso Eluana. Mi auguro che sia la volontà di tutti e ho fiducia che anche alla Camera prevalga il buon senso.


PDL/ Il futuro è nell’Europa - Mario Mauro - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
La nascita del Popolo della Libertà segna la svolta storica che tutto il Paese attendeva. Tre giornate di lavori per affermare la vocazione di questo partito: diventare motore di una grande stagione per l’Italia. Una stagione nuova che vede nel popolo e nelle sue speranze il futuro dell’Italia e nella libertà l’unica garanzia di una vera democraticità.
Non è una novità, allora, se in un tempo ricco di sfide (dalla crisi economica ai grandi temi etici) il Pdl sceglie di puntare sull’Unione europea, rivendicando con forza la fiducia nell’Europa e nel rapporto di mutuo scambio tra i Paesi membri.
Il pensiero di chi aderisce al Popolo delle Libertà è espresso nella Carta dei Valori che rappresenta la base fondativa di questa grande formazione politica. All’interno di molti passaggi di questo documento programmatico sono raccolte le idee in cui si riconoscono la maggioranza degli italiani. Sono i valori che stanno a cuore alla grande famiglia politica del Partito Popolare Europeo: la dignità della persona, la libertà, la responsabilità, l’eguaglianza, la giustizia, la legalità, la solidarietà e la sussidiarietà. Questi sono gli ideali comuni alle grandi democrazie occidentali, fondate sul pluralismo democratico, sullo Stato di diritto, sulla non discriminazione, sulla tolleranza, sulla proprietà privata, sull’economia sociale di mercato.
Così si spiega il richiamo alla grande tradizione popolare di don Luigi Sturzo e del suo erede Alcide De Gasperi lanciata dal leader indiscusso di questa nuova formazione politica, Silvio Berlusconi. Nel 90° anniversario del suo celebre appello agli “uomini liberi e forti” il sacerdote siciliano resta ancora un modello perché ebbe la straordinaria intuizione di dare vita al Partito popolare italiano, da cui il Pdl trae origine perché, pur essendo una formazione moderna, non rinnega la propria tradizione.
Significativa è stata quindi la presenza al Congresso del presidente del Ppe, Wilfried Martens, che ha rimarcato, durante il suo intervento, il legame con il Pdl. Martens ha affermato che il Pdl è «un partito che si riconosce nei valori della grande famiglia politica dei popolari europei» che si ancora alla migliore tradizione che riconosce la dignità della persona, la libertà, la giustizia, l'uguaglianza, la democrazia. Il Pdl per il presidente del Ppe «non è che la sintesi di partiti i cui deputati si riconoscono nella storia della democrazia cristiana una grande forza democratica italiana», in «un cammino comune fatto di valori e battaglie politiche combattute insieme». Il Pdl, rifuggendo per sua natura posizioni euroscettice e nazionalistiche,ha «la capacità straordinaria di unire forze che avrebbero potuto seguire percorsi diversi».
Dello stesso tono anche l’intervento di Joseph Daul, Presidente del gruppo PPE-DE al Parlamento europeo che si è detto impressionato dalle coraggiose riforme intraprese dal governo guidato dal presidente Silvio Berlusconi. «Nella crisi che viviamo oggi, e che dobbiamo superare - ha aggiunto - il nostro successo non passerà attraverso scelte settarie o attraverso l'egoismo, ma bensì attraverso la capacità d'ascolto dell'altro e la capacità di compromesso. Il partito del quale ho il piacere di condividere con voi la nascita, ne sono sicuro, sarà caratterizzato da questa capacità di comprensione reciproca». Questo permetterà a un paese come l’Italia, prima a credere nell’Europa perché è stata tra gli Stati fondatori, di conciliare armoniosamente ciò che deriva dal patrimonio dei nostri valori e ciò che verrà dal mondo di domani, cioè l'innovazione.
Si legge a conclusione della Carta dei Valori: «Il Pdl si richiama dunque alla più grande forza politica europea, il Partito dei Popoli europei (PPE), e con essa condivide un’idea spirituale dell’Europa l’idea dei padri fondatori, che è all’origine stessa dell’Europa. Abbiamo un lungo cammino davanti a noi. Un cammino di impegno civile, in cui diritti e doveri si ricongiungono come facce di una stessa medaglia». È per questa idea di Europa che noi dobbiamo impegnarci, è in questa Europa che noi vogliamo credere. Un Europa in cui l’Italia ora può contare davvero.


DOPO ELUANA/ Chi esercita il “potere” sul nostro corpo? - Elisa Buzzi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Pochi giorni dopo la morte di Eluana Englaro sono apparsi su La Repubblica due articoli che da prospettive differenti, ma complementari, si proponevano di offrire una lettura del caso proiettandolo su uno scenario intellettuale più ampio di quanto il polverone della bagarre mediatica lasciasse intravedere. I problemi filosofici sollevati in questi interventi, per non ridursi alla semplice enunciazione di tesi, richiederebbero uno spazio di argomentazione meno limitato di quello concesso alla forma di comunicazione giornalistica. Tuttavia, bisogna riconoscere che entrambi gli autori, M. Niola e R. Esposito, hanno il merito di indicare una questione, o forse la questione, centrale, quella che il primo definisce “la posta in gioco” nella battaglia biopolitica, e Esposito individua, già nel titolo, in una domanda: «Può una persona appartenere a un altro?», che, ovviamente, è una domanda retorica, come mostra il resto dell’articolo: una volta che il corpo, nella fase terminale, è ridotto a “nuda vita” - Niola parla di “minimo comun denominatore biologico” – a “pura cosa”, avendo perso il suo “proprietario naturale”, cioè “il soggetto che lo abita”, chi ne diventa il proprietario, “Dio, lo Stato, chi lo ha generato, chi lo ha in custodia”? Una questione di “possesso” e di “potere”, dunque: a chi appartiene ultimamente l’uomo, la vita dell’uomo, chi ha potere di decidere il suo destino, chi e quando debba vivere o morire?
La risposta del primo articolo mi pare non lasci adito a dubbi: se «l’idea sociale di corpo precede e plasma gli individui in carne e ossa», se la “cera bianca” della mia identità corporea e, in fondo personale, è definita da un processo di normalizzazione che passa attraverso forme di controllo sociale, la società e, perciò, lo Stato che ultimamente la esprime, detiene già questo possesso, quindi ha anche il potere. In questo senso l’affermazione iniziale «non basta nascere per avere un corpo», è la versione antropologico-culturale della tesi antropologico-filosofica che oggi va per la maggiore: non basta essere un essere umano, nato da due esseri umani, per essere una persona, perciò non tutti gli esseri umani sono persone. Questa tesi che serpeggia in tutto il secondo articolo è sostenuta oggi da molti filosofi - Derek Parfit e Peter Singer, sono solo due esempi illustri - e anche, duole dirlo, da molti bioeticisti - basti citare Hugo Tristram Engelhardt Jr., il sommo sacerdote della bioetica americana. Anche Sebastiano Maffettone già nel 1989, in un volume intitolato Valori Comuni, nel capitolo “Un’etica pubblica per la vita”, indicava il principio di una visione “laica e pluralistica” nella «separazione del concetto di persona da un altro, che di solito viene associato naturalmente ad esso, quello di essere umano. Si può partire dall’assunzione [sic!] che non tutte le persone siano esseri umani e che non tutti gli esseri umani siano persone. È abbastanza facile [ sic!] – anche se non tutti sono d’accordo [è pluralista!] - trovare esempi di esseri umani che non sono persone, quali i feti e gli uomini che sono in stato comatoso grave.» (S. Maffettone, Valori comuni, 1989, p.223).
Niente di nuovo sotto il sole dunque? Non direi, visto che oggi sperimentiamo gli “effetti” di queste idee. Il che dovrebbe per lo meno guarirci dall’illusione che i filosofi siano personaggi bizzarri, ma tutto sommato innocui, che diffondono inoffensive panzane.
«Non basta nascere per avere un corpo», non basta nascere da due esseri umani per essere una persona, più che un giudizio pare proprio una sentenza, la sentenza di una corte-cultura che, prima ancora del valore della vita, ha perso il “senso” della nascita che «ha inizio da un’unione e ad un’unione tende», come dice una poesia di Karol Woityla.
Più aperta, sembra la conclusione del secondo articolo che auspica una modificazione radicale del nostro linguaggio, ma in quale direzione? E non è forse già avvenuta una modificazione radicale del nostro linguaggio, proprio riguardo al significato delle parole più importanti, che definiscono l’uomo, la nostra esperienza di uomini - di quelle che anche Maffettone deve riconoscere come le associazioni più naturali -, una sorta di alienazione che ci consegna alla “solitudine delle opinioni”?
Bisogna notare che la formulazione di Esposito tradisce una certa incoerenza: di fatto la questione così come è enunciata, non si limita alla fase terminale della vita, anche se in questa fase il problema può diventare più evidente. Se il corpo è pura cosa, “oggetto” posseduto da un soggetto/coscienza che lo abita, allora lo è sempre, in qualsiasi fase della vita, e qui sorge immediatamente una domanda: in che senso il corpo può essere considerato un puro oggetto, in che senso è “posseduto”? L’autore osserva in proposito che è sempre esistita una non completa identificazione tra “persona e essere umano” e, una volta che si è identificata la persona con la “parte razionale e volontaria” dell’essere vivente, «tutto ciò che rimane, vale a dire il suo stesso corpo, non può che scivolare nel regime della cosa. A riprova di ciò, anche nel linguaggio comune si afferma normalmente di “avere” piuttosto che di “essere”, un corpo».
A parte ogni altra considerazione – e l’affermata non identificazione tra persona e essere umano richiederebbe in realtà molte considerazioni storiche e teoretiche, Robert Spaemann ha dedicato a questo argomento uno dei suoi studi più densi e significativi (Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” ) -, potrebbe sollevare qualche interrogativo l’allusione al linguaggio comune e la sua identificazione con una forma specifica di linguaggio, cioè la completa riduzione del significato dell’ “avere” a quello del “possedere”, nei termini del gergo giuridico-economico della “proprietà” di beni, intesi come cose. Ci si potrebbe chiedere se questo linguaggio sia adeguato a esprimere totalmente il modo in cui abbiamo esperienza dell’“avere” qualcosa come il corpo o la vita, ad esempio, ma anche, ad un altro livello, i figli, i genitori, gli amici, un marito, una moglie, una famiglia, una comunità, una cultura, una patria… . La risposta alla domanda iniziale - può una persona “appartenere” ad un altro? - dipende principalmente dal significato che riconosciamo al verbo “appartenere” e dal cammino di conoscenza che questo riconoscimento innesca. Diversamente è una pura, amara, constatazione, che può determinare le reazioni più varie, per lo più velleitarie e alienanti. Si potrebbe ricordare che una certa tradizione, quella cristiana, ha cercato di esprimere i paradossi impliciti in alcune di queste singolari forme di “proprietà” e “appartenenza” utilizzando il linguaggio del “dono” - dicendo che la vita è un dono, che i figli sono un dono, ad esempio, o, a un livello ancor più profondo, che l’appartenenza è un carisma - il che, al di là di tutte le possibili interpretazioni pietistiche, introduce nell’idea dell’avere-appartenere un elemento di irriducibile gratuità, indisponibilità, responsabilità e, soprattutto, l’idea di un rapporto con un altro, il “donatore”, che, come ben sa chiunque abbia ricevuto un regalo, è più importante dell’oggetto ricevuto, gli dà valore, significato, riconfigura totalmente il senso della proprietà e del possesso. In ogni caso, anche ammessa una simile accezione riduttiva dell’avere un corpo, come l’unica concepibile nella nostra società ossessionata dal possesso e che pare aver smarrito il senso originariamente qualitativo della proprietas come rettitudine o giustizia del rapporto, si deve comunque trattare di una “proprietà” alquanto particolare, visto che nessuna forma di giurisprudenza mi riconosce il diritto di alienarla, di disporne totalmente: non posso autoridurmi in schiavitù o vendere parti del mio corpo. La mercificazione del corpo umano, attiva o passiva, ad ogni livello è considerata moralmente sbagliata e giuridicamente illecita o, come minimo, problematica (pensiamo al tema della donazione degli organi e del suo sempre possibile sconfinamento in commercio degli organi).
Che il corpo umano possa essere ridotto a puro oggetto, a cosa, e come tale trattato e posseduto, è un fatto attestato da tutta la storia umana e, purtroppo, anche dalla cronaca quotidiana di interminabili violenze e di continue violazioni, più o meno volgari e grossolane. È quello che Ricoeur definiva il “paradosso della medicina”, ma che non si limita al campo biomedico, dilatandosi come un’ombra in ogni rapporto umano e ponendo infine la vera questione di fondo, politica nel senso più ampio del termine: la questione del potere. Un potere che sempre si costruisce «sulle incertezze, sulle necessità, sulle indigenze, sui bisogni e sui limiti», come affermava don Giussani in un saggio del 1983 e più che mai attuale, perché indica con grande lucidità la radice della nostra debolezza di fronte al potere (L. Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana e il trionfo del potere). Un potere che si costruisce, dunque, anzitutto sul “corpo” e sulle sue necessità, ma che è potere su tutto l’uomo, secondo una logica che il progresso scientifico-tecnologico ha reso più ambigua e totalizzante, dal momento che «Ciò che va sotto il nome di potere dell’Uomo sulla Natura risulta essere un potere esercitato da alcuni uomini sopra altri uomini con la natura a fungere da strumento» (C.S.Lewis, L’abolizione dell’uomo, 1979, 59.)


MARIJA JUDINA/ La pianista che commosse Stalin - Enrico Raggi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Il toccante libro di Giovanna Parravicini, Liberi, recentemente edito da Rizzoli – inconsueta galleria di ritratti di nove protagonisti della Russia novecentesca, storie di grandi uomini, di luminosi testimoni della Fede, di martiri catacombali – fa riemergere da lontane nebbie la leggendaria figura della pianista Marija Judina.
Notizie biografiche ridotte al minimo. Scarse le registrazioni sopravvissute. Alcuni conoscitori ne tramandano giudizi entusiasti. Una certezza: fu la più grande pianista russa di tutti i tempi.
Virtuosismo, scatto, elettricità, bellezza del suono, un’eccezionalità umana più grandi del suo mito. Prodigio di perfezione e di poesia.
Classe 1899, a dodici anni è già artista completa. Legge avidamente Platone, Agostino, Tommaso d’Aquino, si appassiona ai poeti simbolisti, studia arti figurative, architettura, teatro, filologia, storia. Al suo cospetto i colleghi Richter, Gilels, Sofronitskij tremano come ragazzini. «Le sue dita sono artigli d’aquila», esclama un ammirato Shostakovich. Anche Prokofiev ne è sbalordito.
«Suonare per me è un avvenimento interiore», testimonia la giovane Judina, donna inquieta, inappagata, sempre in ricerca. «Non m’interessano la fama o la tranquillità. Al centro della mia vita c’è la ricerca della verità. Devo inoltrarmi nella mia vocazione, alla ricerca di un’illuminazione che mi sorprenderà», riassume. Questa sua tormentosa indagine approderà finalmente alla Fede. A vent’anni si fa battezzare nella Chiesa ortodossa: «Conosco solo una strada che porta a Dio, l’arte». Autorevoli membri di partito rimpiangono questa sua sciagurata decisione: «Noi la porteremmo in trionfo, se solo Lei non credesse in Dio!». «Non rinnegherò la mia fede. Sarete voi, invece, a venire tutti dalla nostra. Voglio mostrare alla gente che si può vivere senza odiare, pur essendo liberi e indipendenti», replica. Non nasconde amicizie pericolose (Pasternak, padre Pavel Florenskij, la poetessa Marina Cvetaeva, il monaco Feodor Andreev), ma fortunosamente evita sempre la reclusione.
Neri capelli lisci, occhi che mandano bagliori, lunghi abiti scuri su scarpe scalcagnate. Ai suoi concerti il pubblico non vuole andarsene, nemmeno dopo l’ennesimo bis. Lei entra in scena e recita poesie di autori proibiti, scatenando uragani di applausi. Subito le sue tournée sono cancellate. La sua notorietà è ormai mondiale, numerosi inviti le giungono dall’estero, ma ogni volta è costretta a rifiutare. «Ostenta la sua religione», è l’accusa. «Una sua lezione su Bach è catechismo, sembra di leggere un pezzo di Vangelo», confermano i suoi allievi.
La licenziano dal Conservatorio di Leningrado. Si trasferisce allora a Mosca, dove fatica perfino a pagarsi l’affitto e riesce a malapena a noleggiare un pianoforte. Aiuta tutti, paga visite mediche agli amici indigenti, difende i perseguitati dal regime. Quando tiene concerti, affigge avvisi di questo tipo: «Suonerò nella tale città. Posso portare pacchi di un chilo massimo l’uno». Poi recapita i vari pacchi agli sconosciuti destinatari, fino all’ultimo. Non teme nulla, nella certezza indistruttibile di un rapporto con un Tu vivo, presente, che la sostiene: «Ho due stelle che mi guidano: la musica e Dio».
Nel 1943 Stalin ascolta alla radio il Concerto K 488 di Mozart eseguito dal vivo dalla Judina. Ne resta così colpito da chiederne immediatamente il disco. Ma il disco non esiste perché si tratta di una diretta, effettuata negli studi della radio di Mosca. Non è il caso di perdere tempo in spiegazioni: la Judina è convocata d’urgenza, l’orchestra è pronta, due direttori declinano l’invito, solo un terzo accetta, in una notte la registrazione è fatta, il disco confezionato in pochi esemplari e recapitato all’illustre ammiratore.
Stalin è generoso, fa avere alla Judina ventimila rubli, una cifra strepitosa per l’epoca. Con un gesto folle, li rifiuta: «La ringrazio. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della chiesa in cui vado».
Ancora una volta, non le viene torto un capello. Sale spontaneamente alla bocca la parola “miracolo”. Alla morte di Stalin, sul grammofono del dittatore, c’è quel disco della Judina.
«Due stelle mi guidano, come una volta», continuerà a ripetere Marija, «ma ora mi sono accorta che l’ordine è diverso: Dio e la musica». «L’esperienza della musica è uno squarcio che si apre su un altro mondo, su una realtà più grande, sulla realtà: la Grazia di Dio».
Sono le ultime parole della Judina. Le legge il suo parroco, padre Vsevold Spiller, durante l’omelia funebre, il 24 novembre 1970.


29/03/2009 15.30.38 - Radio Vaticana – Usa. I vescovi a Obama: dispotismo il no all'obiezione di coscienza
Abbiamo bisogno di regole legislative per garantire la libertà di coscienza e di religione”. È il nuovo appello dei vescovi degli Stati Uniti al presidente Barak Obama affinchè non abroghi la legislazione sull'obiezione di coscienza del personale sanitario. ''Il rispetto di tali principi, ha detto il cardinale Francis Eugene George, presidente della Conferenza episcopale Usa - è necessario al fine di evitare ogni forma di oppressione''. Dunque un nuovo confronto tra l’episcopato cattolico statunitense e la Casa Bianca. Dopo lo sblocco dei fondi pubblici per la ricerca sulle cellule staminali embrionali infatti e il ripristino dei finanziamenti alle Ong che praticano e promuovono l’aborto all’estero, l’amministrazione statunitense si prepara ora ad abrogare le norme sull’obiezione di coscienza del personale sanitario, che consentono a medici e infermieri di rifiutare di praticare interruzioni di gravidanza e altre procedure contrarie a principi etici. Da qui la ferma opposizione del mondo cattolico statunitense: "Bisogna evitare - ha detto il cardinale George - che si slitti dalla democrazia al dispotismo". Nel messaggio che il porporato aveva inviato il 16 marzo scorso, e rilanciato ieri dall’Osservatore Romano, sottolinea che ''il rispetto per la coscienza dell'individuo e per la libertà religiosa'' sono principi irrinunciabili e rappresentano un terreno comune condiviso da tutti in quanto cittadini americani. Rimarcando la necessità di regole legislative per garantire la libertà di coscienza e di religione e la protezione attraverso tali regole di diritti umani, mons. William Francis Murphy, vescovo di Rockville Centre e presidente del Comitato per la giustizia interna e lo sviluppo umano dell'episcopato ha poi dichiarato: "Se i diritti di una singola persona possono essere abrogati, anche i diritti di ognuno di noi potrebbero essere in pericolo''. Inequivocabili anche le dichiarazioni dell'arcivescovo di Washington, mons. Donald William Wuerl, secondo cui se venissero abrogate le regole che proteggono il diritto all’obiezione di coscienza anche ''medici e infermieri cattolici potrebbero essere convocati a partecipare a interventi a carattere abortivo”. (A cura di Cecilia Seppia)