Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti - Per la prima volta, in un libro, la biografia spirituale del fondatore di Comunione e Liberazione. Al centro di tutto ci sono un "avvenimento" e un "incontro". Un estratto del capitolo culminante del volume - di Sandro Magister
2) Il Foglio 26 Febbraio 2009 - Vito Mancuso chiede un Concilio per liberare l`uomo dalla natura - DOCTOR DIABOLICUS
3) Aspettando l'enciclica sociale – L’Osservatore Romano, 5 marzo 2009
4) Basterà il 5 in condotta? Scuola, un'esperienza da comprendere - Autore: Agostino, Fiorello Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 marzo 2009
5) L’Europa del Grande Fratello - Roberto Fontolan - giovedì 5 marzo 2009 – ilsussidiario.net
6) VATICANO II/ Il Concilio che i media divisero fra “conservatori” e “progressisti" - INT. Matthew Lamb - giovedì 5 marzo 2009 – ilsussidiario.net
7) PAOLO DOVETTE CADERE DA CAVALLO, NON VOLEVA ASCOLTARE - Ai giovani ebbri del nulla la proposta di un «Dio accanto» - MARINA CORRADI – Avvenire, 5 marzo 2009
Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti - Per la prima volta, in un libro, la biografia spirituale del fondatore di Comunione e Liberazione. Al centro di tutto ci sono un "avvenimento" e un "incontro". Un estratto del capitolo culminante del volume - di Sandro Magister
ROMA, 4 marzo 2009 – Sono pochissimi, nell'ultimo mezzo secolo, i fondatori di nuovi movimenti cattolici che si siano distinti per profondità di visione, spessore di vita spirituale, carisma di guida, pienezza di testimonianza cristiana.
Uno di questi fu don Luigi Giussani, stando a quanto disse di lui l'allora cardinale Joseph Ratzinger, nell'omelia dei suoi funerali nella cattedrale di Milano, il 24 febbraio 2005.
Don Giussani, morto all'età di 82 anni, è noto in tutto il mondo come fondatore di Comunione e Liberazione.
Oggi CL è presente in più di 70 paesi. Gli aderenti alla Fraternità sono circa 100 mila. Vi sono poi i Memores Domini, con i voti, uomini e donne, quattro delle quali servono Benedetto XVI nella casa pontificia. Vi sono i sacerdoti della Fraternità dei Missionari di San Carlo Borromeo; le Suore di Carità dell’Assunzione; la Compagnia delle Opere che collega circa 30 mila imprese industriali; riviste, editrici...
Ma nel 2004, in una lettera a papa Giovanni Paolo II, don Giussani scrisse:
“Non ho mai inteso ‘fondare’ niente. Ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”.
Ed è vero. Don Giussani ha sempre avuto questa passione bruciante: annunciare il cristianesimo nella sua purezza e integralità, come "avvenimento" prima che come dottrina, come incontro personale con la persona Gesù.
Cominciò come professore di religione in un liceo di Milano. La sua storia – incrociata con quella della Chiesa cattolica di fine Novecento – è stata raccontata in tre volumi pubblicati tra il 2001 e il 2006 da don Massimo Camisasca, che gli fu sempre a fianco e oggi è superiore generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo.
Ma di lui mancava ancora, fino a ieri, una sintesi del pensiero. Quella che oggi si può leggere in un altro libro che don Camisasca ha pubblicato proprio con questo scopo: "far conoscere don Giussani a chi non l'ha conosciuto, a chi non ha avuto la fortuna di sentirlo parlare, di passare del tempo con lui o di leggere i suoi libri".
Il libro è una biografia spirituale di don Giussani, ricostruita percorrendo i suoi scritti, molti dei quali ancora inediti.
Tra i libri che don Giussani pubblicò quand'era in vita ve ne sono tre che hanno un'importanza centrale. Divennero i libri di testo della "scuola della comunità", la catechesi sistematica che il sacerdote teneva ai suoi seguaci. La trilogia ha come titolo generale "PerCorso" e si compone di tre volumi pubblicati in edizione definitiva tra il 1997 e il 2003, ma in cantiere già mezzo secolo prima: "Il senso religioso", "All'origine della pretesa cristiana", "Perché la Chiesa". Il primo di questi volumi ha avuto una diffusione mondiale ed è stato tradotto in 18 lingue.
Qui di seguito è riportato un estratto del capitolo VI del libro di don Camisasca che illustra il pensiero di don Giussani.
È il capitolo che sintetizza il secondo volume del "PerCorso", quello intitolato "All'origine della pretesa cristiana".
La "pretesa cristiana" spiegata da don Giussani
di Massimo Camisasca
La persona di Gesù è stata il centro affettivo e razionale della vita di don Luigi Giussani. Questa centralità è stata l’àncora della sua esistenza. In Gesù Cristo Giussani ha trovato l’unico essere che, proprio per la sua duplice natura, era pienamente uomo, capace di conoscere dal profondo le attese di ognuno, e nello stesso tempo capace di rispondervi come nessun altro, perché era Dio. [...]
Non che Gesù fosse soltanto il compimento dell’attesa dell’uomo, quasi preteso da essa, come una teologia esageratamente antropocentrica si ridurrà a dire. Cristo non è soltanto la risposta al senso religioso. Lo chiarirà molto bene Giussani: "La cosa più importante su cui costruire, su cui siamo costruiti, non è il senso religioso, ma è l’incontro con Cristo". [...]
Nel suo desiderio di ridare spessore esistenziale alla proposta cristiana, Giussani non cade nell’errore di vedere Dio come fattore implicato nelle esigenze dell’uomo. La sua non è una teologia politica, guidata dalla preoccupazione di costruire il regno di Dio sulla terra. Egli conosce bene il primato della grazia, ma vuole nello stesso tempo liberare l’annuncio cristiano da ogni tentazione di spiritualismo, di soprannaturalismo, di inincidenza sulla storia. [...]
Queste questioni occupano il secondo volume, intitolato "All'origine della pretesa cristiana", della trilogia giussaniana del "PerCorso". [...] L’attenzione di questo volume è posta su ciò che Gesù ha detto di se stesso, su ciò che ha compiuto, sul metodo con cui si è manifestato. Proprio in questa attenzione al metodo della rivelazione di Gesù sta il livello più prezioso di questo scritto, ciò che lo rende originale, anche in mezzo a tante e importanti vite di Gesù scritte nel secolo passato o in quello che sta cominciando. [...]
* * *
Il punto di partenza è una fenomenologia dell’esistenza, poiché Giussani è convinto che ogni azione dell’uomo contenga la finalità fondamentale che governa tutta la sua vita. Quando l’uomo esamina se stesso, alla fine la sua ragione non può che trovare il senso religioso e chiamare l’oggetto del suo desiderio ultimo con il nome Dio: qualcosa o qualcuno che egli vorrebbe conoscere, che sa esistere, ma che non riesce a definire nei suoi contorni precisi. [...] Si può notare come Giussani abbia assimilato il Concilio Vaticano I, la sua lotta al fideismo e al razionalismo. Vuol farsi difensore della ragione, di una ragione che arriva a percepire l’esistenza del Mistero, anzi che vorrebbe conoscerlo, ma che non riesce da sola a dare volto a questo Ignoto.
Sono nate così le religioni: attraverso di esse l’uomo ha cercato di immaginare, di definire il Mistero in rapporto a sé. Le loro differenze si spiegano anche attraverso gli ambienti storico-culturali diversi in cui sono nate. Geni religiosi ne sono all’origine. In molte di esse troviamo una grande dignità. Giussani non è integrista. Si commuove ed è interessato di fronte ad ogni cammino percorso dall’uomo per dare nome e volto a ciò da cui viene e verso cui è diretto. Sa che molte religioni nascono dallo stupore per l’armonia di leggi che governano l’universo e a cui l’uomo cerca di obbedire. Si esalta addirittura perché trova in esse accenni di confidenza alla misericordia del divino. Ma conclusivamente per lui le varie religioni rimangono solamente sforzo dell’uomo.
Come allora trovare la religione migliore, quella più confacente? Attraverso un confronto? Oppure è meglio andare verso una religione universale? La conclusione di Giussani sorprende: "Ognuno segua la religione della sua tradizione", parta da lì, da dove Dio lo ha messo. È una norma pratica, che si arrende alla sapienza di Dio. Più che un confronto fra le religioni, quel che interessa a Giussani è spostare completamente l’asse della riflessione. E se il Mistero volesse venire incontro alla solitudine e allo smarrimento dell’uomo, si coinvolgesse con l’uomo per sostenerlo? "La ragione non può escludere nulla di ciò che il Mistero può intraprendere".
Lungo la sua storia, l’umanità ha potuto sperimentare il manifestarsi del sacro in tante occasioni. Ma con la nascita di Israele si afferma qualcosa di assolutamente nuovo. Con la chiamata di Abramo, Dio sceglie il tempo, la storia, come ambito privilegiato entro cui rivelarsi. La strada si inverte. Non è più l’uomo alla ricerca di Dio, ma Dio alla ricerca dell’uomo. È Lui che decide di entrare nella storia, di manifestarsi attraverso avvenimenti, parole e fatti. [...] Che il cristianesimo non sia un insieme di dottrine, un catalogo di norme di comportamento, ma un fatto accaduto nella storia, un evento, un "avvenimento", è un tema ricorrente in Giussani, è il cuore della sua fede e della sua esperienza. [...] Non penso sia esagerato dire che una certa presenza di tali parole nel magistero pontificio di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI si debba anche all’insistenza di Giussani. Alla fine del millennio il sacerdote lombardo ha dedicato una lunghissima serie di incontri con i suoi collaboratori ad approfondire l’idea del cristianesimo come avvenimento. [...]
Il cristianesimo è dunque una strada completamente nuova. Giussani avverte la radicalità di questa affermazione e anche lo sconcerto che si può provare di fronte ad essa. Vede quasi in anticipo e profeticamente il secolo che nasce, quello che in nome della tolleranza vorrebbe bruciare ogni idea di verità e di differenza. Scrive: "Se c’è un delitto che una religione può compiere è quello di dire: io sono l’unica strada. È esattamente ciò che pretende il cristianesimo. Non è ingiusto sentirsi ripugnare di fronte a tale affermazione. Ingiusto sarebbe non domandarsi il motivo di tale pretesa".
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Ecco dunque il senso di tutto il libro: rispondere all’obiezione, che sarà molto presente nei decenni successivi alla pubblicazione di queste pagine, circa l’unicità salvifica di Cristo, sentita come negazione ingiusta della libertà e delle differenze fra gli uomini. [...]
Giussani ci invita a porre la domanda adeguata: non dobbiamo chiederci che cosa sia giusto o ingiusto, ma che cosa sia accaduto. Il Mistero potrebbe incarnarsi, diventare un fatto normale nella storia? L’unica cosa da domandarsi è questa: è accaduto o no? "Se fosse accaduto, questa strada sarebbe l’unica, perché l’avrebbe tracciata Dio". Non più dunque lo studio, la ricerca, l’immaginazione di una cosa lontana, ma "l’imbattersi in un presente", la semplicità di un riconoscimento. [...]. Ogni uomo può imbattersi per grazia in quell’avvenimento. Sono favoriti gli umili, i poveri. Vengono alla mente le parole di san Paolo: "Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili" (1 Corinzi 1, 26).
"Sì, questo è accaduto", dice l’annuncio cristiano. Per il semplice fatto che un annuncio del genere raggiunge l’uomo, non c’è cosa più importante che verificarne la verità: "Tutto si riduce a rispondere alla domanda: chi è Gesù?". La società in ogni tempo non vuole saperne di questo annuncio. Esso è troppo grande, troppo disturbante. In effetti è l’unico caso della storia in cui un uomo si sia dichiarato Dio.[...]
Dove possiamo trovare la testimonianza di questa pretesa di Gesù, del Mistero entrato nella storia? Nei Vangeli, risponde Giussani. Si sofferma nelle pagine del libro a parlare della particolare storicità dei vangeli, in cui troviamo memoria di eventi e annuncio di essi. Attraverso i Vangeli l’uomo può incontrare quell’avvenimento e farsi provocare dalla totalità di esso. Nella Rivelazione arriva a noi una persona vivente: "L’oggetto rivelato non è una serie di proposizioni, ma è la realtà di un essere personale". [...]
Un fatto si può incontrare. Come incontrarlo oggi? Cominciando a vivere la memoria e l’annuncio che di Lui fanno coloro che ne sono stati afferrati. È qui anticipato un tema che sarà sviluppato nel terzo e ultimo volume del "PerCorso": la Chiesa come continuità di Cristo, come suo corpo, sua attualità. Attraverso la vita della Chiesa possiamo raggiungere certezze adeguate sulla vita di Gesù di Nazareth, aderire a ciò che Egli ha affermato, intuire i motivi adeguati per credere in Lui.
Gesù certamente è un fatto della storia. In molte occasioni Giussani si è speso per esaltare e difendere la storicità dei Vangeli, in particolare della resurrezione di Gesù che ne costituisce il cuore. Nulla era così estraneo al suo spirito come la contrapposizione tra il Gesù della fede e quello della storia. Eppure, nello stesso tempo, reagisce di fronte alla riduzione del fatto cristiano ad avvenimento del passato. Gesù di Nazareth non è soltanto colui che è vissuto e che è morto. Egli è vivo. "L’annuncio cristiano è che Dio si è reso presenza umana, carnale, dentro la storia. Dio non è una lontananza a cui con uno sforzo l’uomo tenti di arrivare, ma Qualcuno che si è affiancato al cammino dell’uomo e ne è diventato compagno".
Per verificare dunque la pretesa di Gesù non basta riandare ai testi che parlano di Lui. E non è neppure sufficiente un’esperienza interiore, come per il protestantesimo. L’avvenimento cristiano è, invece, "un fatto integralmente umano, secondo tutti i fattori della realtà umana, che sono interiori ed esteriori, soggettivi ed oggettivi". Incontrare Gesù vuol dire incontrare coloro che credono in Lui, l’unità dei credenti, il corpo che lo Spirito crea assimilando a Gesù ogni persona che a Lui si affida.
Giussani riprende qui i temi dell’apologetica tradizionale, quella che si è diffusa a spiegare le ragioni per cui si può o si deve credere. Ma il suo discorso è completamente rinnovato rispetto all’antico. La sua apologetica diventa finissima descrizione della psicologia dell’uomo, individuata nell’analisi dei rapporti fra Cristo e i suoi contemporanei, perché "il Mistero ha scelto di entrare nella storia dell’uomo, con una storia identica a quella di qualsiasi uomo". [...]
Il lettore è così portato a seguire Gesù sulle strade della Palestina, ma soprattutto a seguire l’itinerario psicologico, affettivo e conoscitivo di chi gli era più vicino. [...] La domanda che nasce negli apostoli sull’identità di Gesù sgorgava proprio dalla vita quotidiana che essi vivevano con Lui. Si affidavano a Lui perché capivano che quell’abbandono era conveniente per la loro vita. Era un cammino quasi inavvertito della loro coscienza verso una certezza sempre più chiara. Gesù non ha avuto bisogno con loro di affermare dogmaticamente la sua divinità. "Sarebbe suonata follia più che bestemmia". Lui si è proposto lentamente, così da provocare negli altri una graduale evoluzione.
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Giussani deve avere meditato a lungo il metodo pedagogico di Gesù. Ha cercato infatti di riviverlo tale e quale nel suo rapporto con i giovani. [...] In questo volume parla di tre fattori della pedagogia di Gesù. Innanzitutto la sequela. Gesù è un maestro da seguire. Allo stesso modo nel cristianesimo occorre seguire qualcuno che rivive nella concretezza della sua vita l’origine dell’avvenimento. Poi, la necessità di una rinuncia. Cristo ha chiesto di lasciare tutto per seguirlo, anche se ha promesso il centuplo a chi lo avrebbe fatto. Non c’è cristianesimo, per Giussani, se non c’è sacrificio, accettazione della prova, distanza nel possesso. Infine, terzo principio, occorre pronunciarsi per Gesù di fronte a tutti: che gli uomini sappiano che Egli è il centro della nostra affettività e della nostra libertà.
Solo l’amore può spiegare e permettere questo itinerario, può far entrare in modo giusto in questa inconcepibile pretesa di Gesù. Altrimenti non può nascere che opposizione. Cosa potevano fare gli ebrei di fronte a uno che identificava se stesso con la fonte della legge, che sosteneva di avere il potere di rimettere i peccati, di essere il discrimine fra il bene e il male, di essere la via, la verità e la vita? O dobbiamo dire che Gesù è pazzo oppure Egli è veramente Dio. Ma per arrivare a questa conclusione, perché si affacci nella nostra vita questa ipotesi, occorre un’apertura d’animo, un disagio per il proprio male, una vera scoperta di Gesù e della sua infinita umanità.
C’è un sigillo, un segno particolare nella predicazione e nella vita di Gesù che per Giussani è il più illuminante segno della sua divinità: la concezione dell’uomo che Egli ha proclamato.
Gesù è venuto per rivelarci il Padre, per dirci che siamo figli, che in ciascuno di noi c’è una realtà superiore a qualsiasi altra realtà soggetta al tempo e allo spazio. Ognuno racchiude in sé un principio originario e irriducibile, fondamento di diritti inalienabili, sorgente di valori. È ciò che chiamiamo anima, spirito, quel livello del nostro essere personale che è rapporto immediato con l’infinito. Già nel primo volume della trilogia, intitolato "Il senso religioso", Giussani si era soffermato su questo tema, a lui estremamente caro. Si può dire che esso sia la chiave di volta di tutta la sua posizione culturale, la ragione della sua opposizione a ogni potere e della sua venerazione per la Chiesa in quanto custode dell’intangibile verità dell’uomo. "Gesù è concentrato su questo problema, il rapporto col Padre. Senza quel rapporto il singolo uomo non ha la possibilità di avere un volto suo, non ha possibilità di essere persona".
Con Gesù la scoperta della persona entra nel mondo: Egli è il messaggero, dice Giussani, della dipendenza unica e totale del singolo uomo dal Padre, il grande educatore della religiosità. Essa è l’atteggiamento più conveniente all’uomo, quello che fa scoprire la preghiera, la coscienza della dipendenza costitutiva da Dio, quella dipendenza continua che riguarda ogni istante e ogni sfumatura del nostro agire. In questo modo l’esistenza si realizza come dialogo con la grande presenza, con l’Essere che è amore, che dona se stesso continuamente. [...] La nostra dipendenza dall’essere che ci crea si compie nel dono di noi stessi, nel sacrificio, nel "darsi tutto" [...].
La visione che Giussani ha della salvezza non evita assolutamente il tema del peccato, tantomeno quello del peccato originale. Egli è ben consapevole che l’uomo da solo ricade continuamente nella tentazione di riferire tutto a sé: ha bisogno di un altro, di accettare l’amore di un altro, di essere liberato per essere libero. Tutto questo fa della sua vita una tensione, una lotta, una ricerca. Se l’immersione nella tradizione orientale porta Giussani a sentire la trasfigurazione divina già all’opera nel mondo, la vicinanza all’uomo moderno e in particolare al mondo protestante – che egli ha ben conosciuto nei suoi studi americani – lo fa sentire compagno di tutto il dramma dell’uomo caduto. Nella Chiesa egli vedrà la strada della redenzione. Da quando Dio si è fatto uomo Egli salva l’uomo attraverso altri uomini, per rendere possibile sempre ed ovunque la salvezza. Saranno i temi del terzo volume del "PerCorso", intitolato: "Perché la Chiesa".
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Il libro:
Massimo Camisasca, "Don Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio", Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, pp. 168, euro 14,00.
Il Foglio 26 Febbraio 2009 - Vito Mancuso chiede un Concilio per liberare l`uomo dalla natura - DOCTOR DIABOLICUS
Diabolico nel nostro linguaggio laico è perfino un complimento. Magari un complimento ambiguo, ma un complimento. E come sanno i lettori del Foglio, e dei suoi libri, Vito Mancuso merita la considerazione di chi ama il pensiero diretto, forte, umile nel metodo e orgoglioso nella sostanza. L`ultima uscita nella Repubblica, il suo nuovo giornale, propone alla cattolicità la convocazione di un Concilio che completi l`opera del Vaticano II. Il Concilio convocato nel 1959, e chiuso nel 1965, definì un nuovo orientamento della chiesa in sostegno alla libertà di autodeterminazione umana nella storia. Ora per Mancuso occorre estendere questa nuova libertà cristiana al rapporto con la natura: l`uomo deve essere riconosciuto libero di autodeterminarsi nella natura e di liberarsi dalla natura. Vaste programme, verrebbe da obiettare. Eppure la spinta culturale verso la disumanizzazione dell`umanità e la denaturalizzazione della natura impressa dal progresso delle tecniche di ingegneria genetica, nel loro rapporto intrinseco con il "progresso" ideologico sottostante, è obiettivamente molto forte, e forse giustifica simili ambizioni. Tutti i Papi conciliari e postconciliari hanno spiegato che la storia non è nelle mani dell`uomo, e che né lo spirito né la lettera del Vaticano II lasciano pensare a una libertà assoluta, capace di relativizzare al soggetto che la detiene la verità cattolica o anche solo la metafisica razionale della filosofia greca classica. Ora chi non è d`accordo con loro tende a rilanciare la sfida: oltre a liberare la storia dall`ipoteca divina (Provvidenza), proviamo a liberare la natura da ogni ancoraggio all`essere, facciamoci creatori e esecutori testamentari della nostra vita. Sono belle idee, che appartengono di diritto alla gloriosa tradizione del libero pensiero. Ma che cosa c`entrino con la tradizione, la cultura e la fede cattolica, è questo che attende ancora di essere laicamente spiegato
Aspettando l'enciclica sociale – L’Osservatore Romano, 5 marzo 2009
La crisi internazionale che in crescendo attanaglia uomini, donne e famiglie dei Paesi ricchi e poveri e semina sgomento, chiedendo a ciascuno una nuova lettura della storia, è una prova del nove anche per misurare lo spessore del magistero di Benedetto XVI. Le luci crepuscolari che si sono addensate sull'occidente sono un contesto che favorisce una lettura serena, libera da pregiudizi ideologici, dell'azione del Pontefice che si va dispiegando sempre meglio facendo apparire frettolose, quando non fatue, le letture schematiche.
Il Papa ha un pensiero per uscire dalla crisi. Non nel senso di ricette economiche specifiche capaci di ripristinare l'ordinato flusso nel rapporto capitale e lavoro, finanze e bisogni di famiglie e imprese. Ma perché da questa crisi non si esce senza una speranza che sia più credibile di quella che viene solo dai mercati e dalle teorie economiche. Per farcela occorre ricuperare ragioni per vivere. La depressione economica si supera se si vince la depressione ideale e l'appassirsi della speranza.
È a questo crocevia tra il cuore e la capacità programmatica delle risorse che si pone la parola di Papa Ratzinger. Dove è un bene per tutti dialogare con le sue sollecitazioni intellettuali e religiose, e dove può apparire ragionevole e plausibile la saggezza cristiana che egli chiede di far entrare con rinnovata cittadinanza nella società degli uomini d'oggi. C'è attesa per l'annunciata enciclica sociale di Benedetto XVI. Ma è lo stesso Papa a non voler essere preso come un oracolo. Egli preferisce un ritorno alla ragione perché senza questo ritorno diventa difficile anche valutare e apprezzare la serietà della proposta cristiana.
Il messaggio per la Giornata mondiale della gioventù è un esempio concreto di quale spirito potrebbe animare la prossima enciclica. Tanto da pensare che per coglierne il senso in profondità potrebbe essere utile rileggere l'enciclica, Spe salvi, che mostra in maniera solare come il ragionare del Pontefice porti sempre alle ultime conseguenze ogni umana ricerca.
Benedetto XVI vorrebbe altrettanto che i grandi principi di amore, distintivi dell'essere cristiani, fossero portati alle conseguenze. Chiede di prendere sul serio il Vangelo. Rivitalizza con questa fonte il senso di appartenere alla Chiesa che definisce "la grande famiglia dei cristiani". I cristiani autentici non sono mai tristi nonostante le difficoltà e le prove perché essi sanno che Cristo è un vivente. I cristiani sono parte del "popolo della speranza" formato da profeti e santi di tutti i tempi che hanno seguito l'esempio di Abramo che si fidò di Dio contro ogni speranza.
L'intento del Papa è quello di trovare un modo convincente per incoraggiare l'attuale generazione a fidarsi di Dio. E a tenerlo presente in ogni scelta di vita personale e collettiva.
Non si nega autonomia alla politica, alla scienza, alla tecnica, all'economia e a ogni altra risorsa materiale quando si dice che da sole "non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo". Il Papa ricorda semplicemente che da sole non bastano a risolvere ogni genere di problema. È il nostro cuore infatti a voler sapere un di più e, se questo manca, continuiamo a vivere nello scontento pure in mezzo all'abbondanza di benessere.
Benedetto XVI è un Papa giusto per un tempo di crisi perché sa confortare e indica un ragionevole percorso per uscirne fuori insieme anziché ciascuno per sé. Prima ancora che si delineassero i disastri bancari che hanno scoperchiato la voragine economica rischiosa per tutti, il Papa ha posto due grandi questioni: quella dell'amore e subito dopo quella della speranza, "centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell'epoca contemporanea". Infine, l'affidare a un messaggio destinato ai giovani, la riflessione su così grandi questioni di comune interesse, rimane un segnale di metodo per quanti sono coinvolti nel compito di educare.
c. d. c.
(©L'Osservatore Romano - 5 marzo 2009)
Basterà il 5 in condotta? Scuola, un'esperienza da comprendere - Autore: Agostino, Fiorello Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 marzo 2009
Il Ministero della Pubblica Istruzione ha reso noto i risultati del primo quadrimestre, tre studenti su quattro hanno almeno una insufficienza, gravi le carenze in lingue straniere e matematica, 34.311 gli studenti che hanno 5 in condotta.
E gli adulti? Questi voti giudicano prima di tutto loro.
Il Ministero della Pubblica Istruzione ha reso noto i risultati del primo quadrimestre, tre studenti su quattro hanno almeno una insufficienza, gravi le carenze in lingue straniere e matematica, 34.311 gli studenti che hanno 5 in condotta. I commentatori sembrano tutti concordi nel dire che si tratta di un ritorno alla severità, sono stati sdoganati i cattivi voti e forse si crede che in questo modo si tornerà ad amare Dante e la matematica, a studiare inglese e latino. E gli adulti? Questi voti giudicano prima di tutto loro.
Abbiamo chiesto ad un insegnate impegnato in ambito educativo, di commentare questi dati.
Che cos'è la scuola?
La scuola è una comunicazione appassionata di sé attraverso una scoperta e la capacità di coinvolgere il giovane in questa esperienza della scoperta.
Per me l'insegnante è un profeta, uno che comunica un fatto interessante capitato a sé e lo condivide con agli altri: la scoperta della realtà nelle sue molteplici forme e aspetti e la sua ragionevolezza, ovvero che la mia ragione è adeguata ad afferrare qualcosa di essa: " adaequatio rei et intellectus " dice S. Tommaso.
Come sta la scuola?
Una scuola che si salvaguarda con i 5 in condotta ha sicuramente perso di vista la scaturigine del suo essere e del fare scuola. Una scuola che si salvaguarda con i 5 in condotta registra oramai una situazione patologica e incancrenita.
Una scuola che non si percepisce come “rapporto con ...” non è più scuola.
Ma la scuola oggi non è così: è un coacervo di frustrazioni e problemi strutturali mai risolti quali il reclutamento degli insegnanti per cui oggi trovi l'insegnante preparato e motivato accanto ad uno completamento ignorante e sicuramente non adeguato ad un lavoro con i ragazzi dentro un sistema dove l'autonomia didattica e amministrativa non esiste e che impedisce o comunque rende molto più complicato il fare scuola a quei molti docenti che la motivazione ce l'hanno ancora nonostante tutto.
In questa deficienza, in questa mancanza, si capisce perché la risposta è solo formale: nelle scuole tecniche e professionali statali con circa 700 studenti sono stati spesi nel 2008 intorno ai 120-140 mila euro per i corsi di recupero (per istituto) e questo maggiore impegno ha comunque comportato un 35-40% di bocciati nei bienni di questi tipi di scuole. Ovviamente le scuole fornirebbero dati molto più incoraggianti indicando percentuali di insuccesso molto più basse. Per questo si ricorre a un vero e proprio bluff: per abbassare la percentuale di bocciati si fa la somma degli studenti bocciati dalla prima alla quarta superiore e si divide per il totale dei ragazzi frequentanti queste classi. Ma come è noto gli studenti bocciati della terza e quarta superiore sono molto pochi (considerato che si tratta di ragazzi già selezionati) e così la media complessiva si è abbassata ... e così sembra che i corsi di recupero abbiano funzionato.
La tragedia dei bienni delle scuole tecniche e professionali racconta tutta un'altra situazione: la percentuale nazionale rimane intorno al 40% dei bocciati. La scuola di oggi è una scuola che produce insuccessi. Incredibile.
Ma la vera natura dell'insuccesso è nell'origine dell'azione scolastica: non si è più preoccupati del ragazzo ma di " coprirsi le spalle " da eventuali ricorsi al Tar: è questo il vero motivo che muove questa complessa e costosa macchina dei corsi di recupero: " la scuola si è attivata per quel che ha potuto e quindi tu utente non hai appigli per contestare il risultato finale ".
E' quanto raccontato in "Cani perduti senza collare" - per un ragazzo che ruba una bicicletta la società è preoccupata della bicicletta rubata o del ragazzo? -
Tutti sanno che le cose stanno in questo modo, ma nessuno è disposto a riconoscerlo. Al rapporto col ragazzo, al tentativo di riprendere un percorso scolastico con lui, al tentativo di motivarlo si sostituisce una risposta burocratica e per certe volte spesso ridicola: è possibile recuperare 5-6 mesi di lavoro scolastico con 6 ore di recupero?
Non si possono offrire più ore di recupero perché per equità le ore che si possono pagare devono essere distribuite su tutte le materie, così siamo tutti uguali e tutti arrotondiamo un po’ lo stipendio.
L'esperienza di Portofranco parte da un altro presupposto: dalla libertà del ragazzo che vuole tentare un percorso per uscire dalla propria situazione scolastica. Ma questo non sarebbe sufficiente se il ragazzo rimanesse solo col suo bisogno. Portofranco offre un percorso personalizzato e continuo nel tempo. E' questa la risposta che il ragazzo chiede: di non essere lasciato solo nel suo bisogno dello studio, ma di essere seguito ogni qualvolta si rendesse necessario un intervento. A volte capita che l'intervento è di pochi minuti perché sblocca una situazione problematica, altre volte è necessario programmare un intervento più preciso e dilatato nel tempo: insomma l'attenzione al ragazzo passa attraverso un intervento adeguato al suo bisogno. I risultati fanno oramai parte di una statistica consolidata e confortante: il centro di Desio segue 150 ragazzi all'anno e l'indice di successo scolastico è intorno al 95% e tutto ciò a costo zero per le famiglie e per la collettività tutta. Anzi la collettività ci guadagna perché può disporre di centri di eccellenza che sono il vero argine alla dispersione scolastico e al disagio non normato espresso dai nostri giovani. Per completezza occorre dire che il Ministero della Pubblica Istruzione ha riconosciuto il valore dell'esperienza dei centri di Portofranco in Italia finanziando un progetto di circa 300 mila euro, finanziamento che è stato poi distribuito tra i diversi centri in Italia e che ha coperto le sole spese vive sostenute da queste associazioni quali affitto e spese di gestione. Ma si tratta di un contributo occasionale e non continuo a fronte di un intervento massiccio sulle scuole statali di 250 milioni di euro nel solo 2008, soldi spesi veramente male.
L’Europa del Grande Fratello - Roberto Fontolan - giovedì 5 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Qualche occhiata al Grande Fratello getta nel panico e nello sconforto. Raramente si può toccare così da vicino il disastro di qualche generazione di trentenni europei - occorre ragionare in questa chiave, data la circolazione continentale del format. L’ossessione per il sesso, e oltretutto un sesso primordiale, la coprolalia sfrenata, rapporti umani vissuti secondo le logiche della prepotenza o della sottomissione, ignoranza abissale, vouyerismo e psicologismo da quattro soldi.
Cinque minuti davanti alle esibizioni della sventurata compagnia ti lasciano nella desolazione: cos’è, cos’è questa roba? Se i testi scritti potessero parlare, questa domanda andrebbe urlata e poi scandita, alla ricerca di risposte. Alcuni si consolano pensando che in fondo si tratti di televisione e che le persone vengano deformate dal vivere davanti alle telecamere e che perciò e per loro fortuna, nella vita reale siano diverse, migliori; altri ritengono invece che il GF, capostipite dell’infausta genìa dei cosiddetti reality show, metta in luce proprio la natura autentica degli esseri umani e che le grandi platee di telespettatori (milioni e milioni) vengano attratte proprio dal gioco barbarico delle istintività che ambiscono a esibirsi.
Qualunque sia l’opzione, resta il fatto che da diversi anni decine di migliaia di giovani dei diversi paesi europei (tanti più giovani quanto i paesi sono più “modernizzati”) le tentino tutte per poter accedere alle svariate “case” - di volta in volta giardini di infanzia o motel dell’orrore. Che se anche non ci riescono ne rimangono poi avvinti insieme alle platee casalinghe. E che da questo fenomeno si generi tutto un mondo di chiacchiere mediatiche, di personaggi, di comparsate, di immagini: un circo sottoculturale impressionante per vastità e contaminazioni, capace di raggiungere decine di milioni di homini sapientes. E mai un interesse leggermente più profondo della superficie epiteliale, mai un libro, mai un fatto del mondo, mai uno squarcio di verità elementare.
Così accade in tutto il vecchio continente, al punto che GF, Fattorie, Isole e Talpe, rappresentano uno dei fattori dell’unità europea di linguaggi e costumi ben più dei governi nazionali, del Parlamento e della Commissione (gli altri fattori sono, come è noto, Erasmus e le compagnie aeree low cost).
Ma anche in quelle famigerate stanze o spiagge, attraverso la caricatura e il grottesco - per cui l’amore si riduce all’eliminazione della lingerie e le relazioni interpersonali a nevrosi - emerge, disperatamente e inconsapevolmente, come dappertutto e come sempre, il bisogno di una felicità diversa e finalmente vera, il desiderio di un’esperienza di pienezza e senso umani.
Nell’anno elettorale europeo ci vorrebbe una battaglia culturale, o forse una scossa elettrica, per poter risvegliare in queste nostre generazioni di trentenni il senso autentico del proprio io, quello che porta alla coscienza della dignità personale e alla responsabilità verso l’altro. Ci vorrebbe anche una battaglia televisiva. Certo non per censurare né tantomeno vietare: continui a vivere il GF, ma mettetelo in concorrenza con altri trentenni, con altre idee, con altre passioni.
Tutto questo non c’entra con l’incipiente campagna elettorale per ottenere un seggio a Bruxelles? Invece c’entra, e molto.
VATICANO II/ Il Concilio che i media divisero fra “conservatori” e “progressisti" - INT. Matthew Lamb - giovedì 5 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Matthew Lamb, assieme al suo collega dell’università «Ave Maria» in Florida Matthew Levering, è autore di un importante volume sul Concilio Vaticano II (Vatican II. Renewal within Tradition, Oxford University Press, 2008). A cinquant’anni dall’annuncio della convocazione del ventunesimo Concilio della Chiesa cattolica, il dibattito sulla sua interpretazione è ancora molto vivace. Ilsussidiario.net ha chiesto allo stesso professor Lamb, decano della Facoltà teologica, di spiegare il risultato del suo lavoro.
Come è nata l’idea del volume da lei curato, qual è la sua impostazione e come è strutturato?
L’idea del libro ha un’ origine remota ed una prossima. L’origine remota: ero un giovane studente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana a Roma durante le ultime due sessioni del Concilio. Il senso del sacro nel Concilio, con le Sante Messe e le preghiere che incorniciavano tutti i dibattiti, indicava come questo XXI Concilio ecumenico fosse in continuità con la grande Tradizione magisteriale della Chiesa.
I Padri conciliari erano di fronte alle sfide e alle situazioni nuove della fine del XX secolo e cercavano di rispondervi con riforme in continuità con le grandi verità della nostra fede cattolica. Però io notavo che i giornalisti che si occupavano del Concilio per i mass-media non comprendevano questi aspetti teologici dei dibattiti. Al contrario, inserivano le loro informazioni nelle categorie politiche di “conservatori” contro “progressisti”. Nel mondo anglofono questo è esemplificato al meglio dalle Letters from the Vatican di Xavier Rynne, pubblicate dal New Yorker. Era lo pseudonimo di un sacerdote redentorista, Francis X. Murphy, e non pochi tra i periti tendevano a cadere in questa retorica diffusa da giornali, settimanali, radio e televisione che si occupavano del Concilio. L’origine prossima. Nell’estate del 2002 incominciai a discutere con colleghi in Nord America e in Europa riguardo alla necessità di offrire una comprensione dei 16 documenti del Concilio alla luce della grande tradizione bimillenaria della fede cattolica. Nella primavera dell’anno successivo la lista dei collaboratori era stilata ed iniziò il lavoro di stesura. Come linee guida prendemmo i sei principi di interpretazione dei documenti indicati dal Sinodo dei Vescovi del 1985:
1) continuità dei documenti conciliari con la tradizione cattolica; 2) ciascun passaggio è illuminato dal contesto sapienziale dell’intero Concilio; 3) leggere i nove decreti e le tre dichiarazioni alla luce delle quattro costituzioni; 4) la portata pastorale dei documenti deriva dalla dottrina cattolica; 5) il dogma e la dottrina cattolici esprimono il vero spirito del concilio; 6) perciò tutte le sfide e situazioni nuove alle quali si rivolgono le riforme conciliari possono venire comprese adeguatamente alla luce della continuità della fede cattolica.
Mentre stavamo lavorando al libro fu eletto papa Benedetto XVI. Nel suo primo discorso egli enunciò il suo «impegno ad attuare il Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in fedele continuità con la tradizione bimillenaria della Chiesa». Poi, quando tenne l´allocuzione alla Curia nel dicembre del 2005, risultò chiaro che stava spiegando che cosa era necessario nell’ermeneutica del Concilio.
Pertanto la struttura del libro è la seguente: il discorso di papa Benedetto apre il volume, segue poi un’introduzione dei curatori. A ciascuna delle 4 costituzioni conciliari sono dedicati due capitoli; a ciascuno dei 9 decreti e delle 3 dichiarazioni è riservato un capitolo. Infine uno studioso protestante, il professor Geoffrey Wainwright, presenta la sua interpretazione del Concilio nella continuità; segue infine un capitolo conclusivo scritto da me.
Per molti anni, nella storiografia sul Concilio ha prevalso, almeno in Italia, l’ermeneutica della rottura rispetto a quella della continuità. Può spiegare la differenza tra le due impostazioni e perché la prima si è imposta così a lungo?
Nel mondo occidentale si è largamente diffusa l’immagine del Concilio dipinta dai media come una lotta tra conservatori e progressisti nella quale questi ultimi hanno vinto.
Come afferma Papa Benedetto nel suo discorso alla Curia, alcuni teologi contemporanei adottarono questa chiave di lettura e vennero spesso citati nei mass-media come esperti. Mi ricordo di una conferenza stampa, durante una sessione del Concilio. In essa un teologo serio stava spiegando l’importanza e il valore teologico di ciò che era stato discusso in quella giornata. Egli insistette sul fatto che l’aspetto teologico era la cosa più importante. Intervenne un altro perito il quale disse che la questione era sostanzialmente molto semplice: «I conservatori…». Il primo relatore disse di non essere d’accordo.
Ora, i mass-media fecero uso dello schema conservatori/progressisti nella loro cronaca di quell’episodio nonché di tutti gli altri dibattiti e delibere conciliari. Quando i vescovi, i sacerdoti e i religiosi incominciarono a mettere in atto le riforme conciliari si rivolsero spesso proprio a questi periti e ad altri teologi citati dai mass-media. La categoria politica di conservatori contro progressisti significava che tutte le volte che un documento conciliare citava un Concilio precedente o una precedente dottrina, si trattava di una manovra politica per indurre i conservatori a votare a favore di ciò che era nuovo. Così, l’evento del Concilio venne considerato più importante che non i documenti, i quali spesso vennero mal interpretati come compromessi politici.
Come ha osservato Papa Benedetto: «In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità». Questo condusse, come affermò papa Benedetto, a un’errata comprensione del Concilio e della Chiesa, come se il Concilio fosse «una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova». A partire dai mass-media questa nozione di rottura, di radicale discontinuità del Concilio rispetto al passato della Chiesa, incominciò ad influenzare i lavori teologici e storico sul Concilio. Se prima del Concilio ogni prete doveva conoscere il latino e un po’ di greco, ora anche nei corsi di dottorato molti non erano in grado di leggere il latino; tanto meno il greco. Teologi dediti alla divulgazione cominciarono ad influenzare l’educazione delle successive generazioni di teologi. Lo studio serio dei padri greci e latini, così come dei maestri medievali venne lasciato a storici con scarsa o addirittura nessuna conoscenza degli argomenti filosofici e teologici in gioco.
La teologia cattolica dogmatica e dottrinale venne spesso ignorata per lasciare spazio a categorie derivate dalla politica, dalla psicologia e dalla sociologia. Così i lavori storici sul Concilio, nella misura in cui influenzarono l’opinione pubblica forgiata dai mass-media, diffusero la nozione di rottura – prima del Vaticano II facevamo in questo modo, ora facciamo in quest’altro – nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle scuole e nelle università. In Italia l’Istituto di studi religiosi di Bologna, sotto la direzione di Giuseppe Alberigo, ha pubblicato una storia del Vaticano II in cinque volumi, che è stata molto influente nel concentrarsi sui dibattiti che portarono alla redazione dei documenti, a discapito del far emergere come le riforme di fatto adottate fossero in continuità con la tradizione della Chiesa. Nei paesi comunisti dell’est, invece, i mass-media non avevano la tendenza a parlare del Concilio in modo così ampio come in occidente. Così, per esempio, l’arcivescovo Karol Wojtyla e altri vescovi e teologi polacchi furono in grado di fornire una intelligenza delle riforme del Vaticano II in continuità con i principi della fede cattolica; come dimostra il libro di Wojtyla, Alle fonti del rinnovamento.
Come ha influito l’ermeneutica della rottura a livello della base della Chiesa?
La comprensione del Concilio per la maggior parte dei cattolici avvenne tramite due fonti. Una di queste furono i mass-media laici i quali riferirono del Vaticano II come se non ci fossero interventi del Magistero anteriori al Vaticano II.
Per chi era un corrispondente dall’estero per una qualunque testata fra il 1962 e il ’65 c’erano due zone al mondo dalle quali i servizi erano sicuramente ricercati: il Vietnam e il Concilio di Roma. Così i cattolici poterono leggere resoconti sul Concilio basati sullo schema dei mass-media: conservatori contro progressisti.
L’altra fonte erano le Messe le prediche nelle parrocchie. Immediatamente dopo il Concilio ci furono in numerose parrocchie, comunità religiose e seminari esperimenti liturgici e traduzioni in lingua volgare non approvate che enfatizzavano la rottura. La partecipazione alla Messa domenicale e la pratica dei sacramenti cominciarono a diminuire, così come le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa. Alcuni teologi che dissentivano dagli insegnamenti della Chiesa, per esempio dall’Humanae vitae e dall'Ordinatio sacerdotalis, favorirono la nozione di rottura, specialmente da quando tale dissenso venne diffuso massicciamente nei mass- media con poco o nessun contenuto teologico serio.
A che punto è la recezione del Concilio?
Grazie ai vigorosi insegnamenti dei papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e al fatto che nel post-Concilio sorsero molti istituti e organizzazioni sia religiosi che laici, una genuina recezione del Vaticano II è andata continuamente crescendo nel corso dei decenni passati. Molti cattolici si sono resi conto di ciò che il Concilio ha veramente insegnato e come il dissenso dottrinale e morale oscuri la mente e corrompa la vita. La verità della fede cattolica è il Signore vivente, Gesù Cristo, e noi siamo membri della grande comunione dei santi. La gioia, la bellezza, la sapienza e la santità del vangelo nella Chiesa sono testimoniate nella vita di tanti santi nel corso dei secoli e fino ai giorni nostri, per esempio in padre Pio e in madre Teresa di Calcutta.
Questo è il contesto nel quale, come ha detto papa Benedetto, la recezione genuina del Concilio Vaticano II ha saldamente guadagnato terreno. La letteratura teologica si sta applicando sempre più in una lettura delle riforme del Vaticano II all’interno della tradizione bimillenaria della Chiesa. In maniera crescente teologi cattolici, seguendo l’esempio dei Papi, stanno affrontando la sfida del terzo millennio in vista di integrare la scienza contemporanea della natura, le scienze umane e l’arte nella sapienza e nella santità del cattolicesimo – i «vetera novis augere et perficere» del programma leonino. Non c’è solamente il nostro volume sul Vaticano II, ma sta uscendo una traduzione inglese del libro dell’arcivescovo Agostino Marchetto: Il Concilio Ecumenico Vaticano II (Città del Vaticano, 2005). Questo libro offre un’accurata analisti storica e teologica dei fatti del Vaticano II, non nelle categorie drammatiche e retoriche di conservatori contro progressisti, ma in sereni e dettagliati giudizi scientifici, sia positivi che negativi, riguardanti gli avvenimenti del Vaticano II. Questo libro presenta i documenti del Concilio non solo nelle tensioni e dibattiti e nelle varie bozze durante la loro redazione, ma mostra anche come questi dibattiti hanno condotto a documenti che hanno saputo individuare le riforme necessarie per rimanere fedeli alla bimillenaria tradizione dottrinale e teologica della Chiesa.
PAOLO DOVETTE CADERE DA CAVALLO, NON VOLEVA ASCOLTARE - Ai giovani ebbri del nulla la proposta di un «Dio accanto» - MARINA CORRADI – Avvenire, 5 marzo 2009
Rivolgendosi ai ragazzi nel messaggio per la prossima 24ª Giornata mondiale della gioventù Benedetto XVI ha parlato di un giovane, «uno come voi», sui venti o venticinque anni. Uno che duemila anni fa se ne andava a cavallo verso Damasco, fiero della Legge di Mosè e deciso ad affermarla con la forza contro ai suoi nemici. Quel tal ragazzo dunque, ha rievocato il Papa, improvvisamente abbagliato da una gran luce cadde da cavallo, mentre una voce gli chiedeva: Saulo, perché mi perseguiti?
Ben nota è poi la storia di colui che scrisse: «Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente», e aprì la strada a generazioni di cristiani.
Ma colpisce nel messaggio papale quella annotazione, «era un giovane come voi». Paolo, uno come voi, nel fiore dell’età, e forte, e certo dei suoi disegni; Paolo disarcionato a terra sulla sabbia della strada per Damasco, costretto a domandare in ginocchio a quel Dio ignoto: chi sei?
È paolino il percorso che porterà verso la Gmg di Madrid del 2011: «Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede», è il tema. E Paolo, dice non a caso il Papa, era un giorno come uno di voi. Uno che aveva tutto, all’apparenza, e a cui però mancava l’essenziale: la speranza, la grande speranza dei cristiani. Che non è una speranza contingente, né attesa di fortunati destini, né il disporre le cose in modo che, ragionevolmente, ce la caviamo. La grande speranza, dice Benedetto, «può essere solo Dio». Un Dio che conosce e ama ciascun uomo, e che promette a ciascuno «il centuplo quaggiù», e la vita per sempre. La speranza dunque è senso che colmi ogni giornata, per quanto sfortunata o dolorosa o banale.
Martedì, sulla prima pagina di
Repubblica
Pietro Citati sosteneva che l’evangelista Giovanni «non provava il minimo interesse per la vita quotidiana», per l’«insignificante» nascere e morire degli uomini, ma solo tendeva alla vita eterna. È vero esattamente il contrario: già 'questa' vita dalla promessa di Cristo è colmata, così che l’eterno con Cristo si è fatto quotidiano.
Ed è questo che il Papa continua a dirci: «La fede – ha scritto nella Spe salvi
– non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti (...) Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro 'non-ancora'.
Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future». È la speranza, dice il Papa, la questione fondamentale dell’oggi, quando «l’oblio di Dio» si allarga in «evidente smarrimento, con risvolti di solitudine e violenza». E qui parla dei giovani – e «purtroppo», dice «non sono pochi» – «feriti della vita», esposti alla deriva di un vuoto familiare o di un’educazione distratta. Come, si chiede, annunciare la speranza anche a loro? (Perché, dice il Papa, «il desiderio di amore vero e di felicità non si spegne», neanche in quelli che paiono i peggiori).
Come annunciare? La speranza, ripete Benedetto XVI con l’insistenza con cui si dice qualcosa di troppo a lungo dimenticato, «non è un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo».
Non è un 'valore' o un’astratta nobile morale: è un Dio vivo, è un Dio accanto, cui l’uomo sta a cuore. Un Dio che dice ai giovani seguaci del nulla, ai violenti, a chi sembra perduto e gli è dunque ancora più caro: la speranza, sono io. Come lo disse un giorno a un giovane ebreo persecutore di cristiani, uno che si sentiva giusto e 'a posto'. E per farsi sentire dovette buttarlo giù dal suo orgoglioso cavallo: perché quello, a vent’anni, potente, pago di sé, non ne voleva sapere di ascoltare.
1) Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti - Per la prima volta, in un libro, la biografia spirituale del fondatore di Comunione e Liberazione. Al centro di tutto ci sono un "avvenimento" e un "incontro". Un estratto del capitolo culminante del volume - di Sandro Magister
2) Il Foglio 26 Febbraio 2009 - Vito Mancuso chiede un Concilio per liberare l`uomo dalla natura - DOCTOR DIABOLICUS
3) Aspettando l'enciclica sociale – L’Osservatore Romano, 5 marzo 2009
4) Basterà il 5 in condotta? Scuola, un'esperienza da comprendere - Autore: Agostino, Fiorello Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 marzo 2009
5) L’Europa del Grande Fratello - Roberto Fontolan - giovedì 5 marzo 2009 – ilsussidiario.net
6) VATICANO II/ Il Concilio che i media divisero fra “conservatori” e “progressisti" - INT. Matthew Lamb - giovedì 5 marzo 2009 – ilsussidiario.net
7) PAOLO DOVETTE CADERE DA CAVALLO, NON VOLEVA ASCOLTARE - Ai giovani ebbri del nulla la proposta di un «Dio accanto» - MARINA CORRADI – Avvenire, 5 marzo 2009
Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti - Per la prima volta, in un libro, la biografia spirituale del fondatore di Comunione e Liberazione. Al centro di tutto ci sono un "avvenimento" e un "incontro". Un estratto del capitolo culminante del volume - di Sandro Magister
ROMA, 4 marzo 2009 – Sono pochissimi, nell'ultimo mezzo secolo, i fondatori di nuovi movimenti cattolici che si siano distinti per profondità di visione, spessore di vita spirituale, carisma di guida, pienezza di testimonianza cristiana.
Uno di questi fu don Luigi Giussani, stando a quanto disse di lui l'allora cardinale Joseph Ratzinger, nell'omelia dei suoi funerali nella cattedrale di Milano, il 24 febbraio 2005.
Don Giussani, morto all'età di 82 anni, è noto in tutto il mondo come fondatore di Comunione e Liberazione.
Oggi CL è presente in più di 70 paesi. Gli aderenti alla Fraternità sono circa 100 mila. Vi sono poi i Memores Domini, con i voti, uomini e donne, quattro delle quali servono Benedetto XVI nella casa pontificia. Vi sono i sacerdoti della Fraternità dei Missionari di San Carlo Borromeo; le Suore di Carità dell’Assunzione; la Compagnia delle Opere che collega circa 30 mila imprese industriali; riviste, editrici...
Ma nel 2004, in una lettera a papa Giovanni Paolo II, don Giussani scrisse:
“Non ho mai inteso ‘fondare’ niente. Ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”.
Ed è vero. Don Giussani ha sempre avuto questa passione bruciante: annunciare il cristianesimo nella sua purezza e integralità, come "avvenimento" prima che come dottrina, come incontro personale con la persona Gesù.
Cominciò come professore di religione in un liceo di Milano. La sua storia – incrociata con quella della Chiesa cattolica di fine Novecento – è stata raccontata in tre volumi pubblicati tra il 2001 e il 2006 da don Massimo Camisasca, che gli fu sempre a fianco e oggi è superiore generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo.
Ma di lui mancava ancora, fino a ieri, una sintesi del pensiero. Quella che oggi si può leggere in un altro libro che don Camisasca ha pubblicato proprio con questo scopo: "far conoscere don Giussani a chi non l'ha conosciuto, a chi non ha avuto la fortuna di sentirlo parlare, di passare del tempo con lui o di leggere i suoi libri".
Il libro è una biografia spirituale di don Giussani, ricostruita percorrendo i suoi scritti, molti dei quali ancora inediti.
Tra i libri che don Giussani pubblicò quand'era in vita ve ne sono tre che hanno un'importanza centrale. Divennero i libri di testo della "scuola della comunità", la catechesi sistematica che il sacerdote teneva ai suoi seguaci. La trilogia ha come titolo generale "PerCorso" e si compone di tre volumi pubblicati in edizione definitiva tra il 1997 e il 2003, ma in cantiere già mezzo secolo prima: "Il senso religioso", "All'origine della pretesa cristiana", "Perché la Chiesa". Il primo di questi volumi ha avuto una diffusione mondiale ed è stato tradotto in 18 lingue.
Qui di seguito è riportato un estratto del capitolo VI del libro di don Camisasca che illustra il pensiero di don Giussani.
È il capitolo che sintetizza il secondo volume del "PerCorso", quello intitolato "All'origine della pretesa cristiana".
La "pretesa cristiana" spiegata da don Giussani
di Massimo Camisasca
La persona di Gesù è stata il centro affettivo e razionale della vita di don Luigi Giussani. Questa centralità è stata l’àncora della sua esistenza. In Gesù Cristo Giussani ha trovato l’unico essere che, proprio per la sua duplice natura, era pienamente uomo, capace di conoscere dal profondo le attese di ognuno, e nello stesso tempo capace di rispondervi come nessun altro, perché era Dio. [...]
Non che Gesù fosse soltanto il compimento dell’attesa dell’uomo, quasi preteso da essa, come una teologia esageratamente antropocentrica si ridurrà a dire. Cristo non è soltanto la risposta al senso religioso. Lo chiarirà molto bene Giussani: "La cosa più importante su cui costruire, su cui siamo costruiti, non è il senso religioso, ma è l’incontro con Cristo". [...]
Nel suo desiderio di ridare spessore esistenziale alla proposta cristiana, Giussani non cade nell’errore di vedere Dio come fattore implicato nelle esigenze dell’uomo. La sua non è una teologia politica, guidata dalla preoccupazione di costruire il regno di Dio sulla terra. Egli conosce bene il primato della grazia, ma vuole nello stesso tempo liberare l’annuncio cristiano da ogni tentazione di spiritualismo, di soprannaturalismo, di inincidenza sulla storia. [...]
Queste questioni occupano il secondo volume, intitolato "All'origine della pretesa cristiana", della trilogia giussaniana del "PerCorso". [...] L’attenzione di questo volume è posta su ciò che Gesù ha detto di se stesso, su ciò che ha compiuto, sul metodo con cui si è manifestato. Proprio in questa attenzione al metodo della rivelazione di Gesù sta il livello più prezioso di questo scritto, ciò che lo rende originale, anche in mezzo a tante e importanti vite di Gesù scritte nel secolo passato o in quello che sta cominciando. [...]
* * *
Il punto di partenza è una fenomenologia dell’esistenza, poiché Giussani è convinto che ogni azione dell’uomo contenga la finalità fondamentale che governa tutta la sua vita. Quando l’uomo esamina se stesso, alla fine la sua ragione non può che trovare il senso religioso e chiamare l’oggetto del suo desiderio ultimo con il nome Dio: qualcosa o qualcuno che egli vorrebbe conoscere, che sa esistere, ma che non riesce a definire nei suoi contorni precisi. [...] Si può notare come Giussani abbia assimilato il Concilio Vaticano I, la sua lotta al fideismo e al razionalismo. Vuol farsi difensore della ragione, di una ragione che arriva a percepire l’esistenza del Mistero, anzi che vorrebbe conoscerlo, ma che non riesce da sola a dare volto a questo Ignoto.
Sono nate così le religioni: attraverso di esse l’uomo ha cercato di immaginare, di definire il Mistero in rapporto a sé. Le loro differenze si spiegano anche attraverso gli ambienti storico-culturali diversi in cui sono nate. Geni religiosi ne sono all’origine. In molte di esse troviamo una grande dignità. Giussani non è integrista. Si commuove ed è interessato di fronte ad ogni cammino percorso dall’uomo per dare nome e volto a ciò da cui viene e verso cui è diretto. Sa che molte religioni nascono dallo stupore per l’armonia di leggi che governano l’universo e a cui l’uomo cerca di obbedire. Si esalta addirittura perché trova in esse accenni di confidenza alla misericordia del divino. Ma conclusivamente per lui le varie religioni rimangono solamente sforzo dell’uomo.
Come allora trovare la religione migliore, quella più confacente? Attraverso un confronto? Oppure è meglio andare verso una religione universale? La conclusione di Giussani sorprende: "Ognuno segua la religione della sua tradizione", parta da lì, da dove Dio lo ha messo. È una norma pratica, che si arrende alla sapienza di Dio. Più che un confronto fra le religioni, quel che interessa a Giussani è spostare completamente l’asse della riflessione. E se il Mistero volesse venire incontro alla solitudine e allo smarrimento dell’uomo, si coinvolgesse con l’uomo per sostenerlo? "La ragione non può escludere nulla di ciò che il Mistero può intraprendere".
Lungo la sua storia, l’umanità ha potuto sperimentare il manifestarsi del sacro in tante occasioni. Ma con la nascita di Israele si afferma qualcosa di assolutamente nuovo. Con la chiamata di Abramo, Dio sceglie il tempo, la storia, come ambito privilegiato entro cui rivelarsi. La strada si inverte. Non è più l’uomo alla ricerca di Dio, ma Dio alla ricerca dell’uomo. È Lui che decide di entrare nella storia, di manifestarsi attraverso avvenimenti, parole e fatti. [...] Che il cristianesimo non sia un insieme di dottrine, un catalogo di norme di comportamento, ma un fatto accaduto nella storia, un evento, un "avvenimento", è un tema ricorrente in Giussani, è il cuore della sua fede e della sua esperienza. [...] Non penso sia esagerato dire che una certa presenza di tali parole nel magistero pontificio di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI si debba anche all’insistenza di Giussani. Alla fine del millennio il sacerdote lombardo ha dedicato una lunghissima serie di incontri con i suoi collaboratori ad approfondire l’idea del cristianesimo come avvenimento. [...]
Il cristianesimo è dunque una strada completamente nuova. Giussani avverte la radicalità di questa affermazione e anche lo sconcerto che si può provare di fronte ad essa. Vede quasi in anticipo e profeticamente il secolo che nasce, quello che in nome della tolleranza vorrebbe bruciare ogni idea di verità e di differenza. Scrive: "Se c’è un delitto che una religione può compiere è quello di dire: io sono l’unica strada. È esattamente ciò che pretende il cristianesimo. Non è ingiusto sentirsi ripugnare di fronte a tale affermazione. Ingiusto sarebbe non domandarsi il motivo di tale pretesa".
* * *
Ecco dunque il senso di tutto il libro: rispondere all’obiezione, che sarà molto presente nei decenni successivi alla pubblicazione di queste pagine, circa l’unicità salvifica di Cristo, sentita come negazione ingiusta della libertà e delle differenze fra gli uomini. [...]
Giussani ci invita a porre la domanda adeguata: non dobbiamo chiederci che cosa sia giusto o ingiusto, ma che cosa sia accaduto. Il Mistero potrebbe incarnarsi, diventare un fatto normale nella storia? L’unica cosa da domandarsi è questa: è accaduto o no? "Se fosse accaduto, questa strada sarebbe l’unica, perché l’avrebbe tracciata Dio". Non più dunque lo studio, la ricerca, l’immaginazione di una cosa lontana, ma "l’imbattersi in un presente", la semplicità di un riconoscimento. [...]. Ogni uomo può imbattersi per grazia in quell’avvenimento. Sono favoriti gli umili, i poveri. Vengono alla mente le parole di san Paolo: "Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili" (1 Corinzi 1, 26).
"Sì, questo è accaduto", dice l’annuncio cristiano. Per il semplice fatto che un annuncio del genere raggiunge l’uomo, non c’è cosa più importante che verificarne la verità: "Tutto si riduce a rispondere alla domanda: chi è Gesù?". La società in ogni tempo non vuole saperne di questo annuncio. Esso è troppo grande, troppo disturbante. In effetti è l’unico caso della storia in cui un uomo si sia dichiarato Dio.[...]
Dove possiamo trovare la testimonianza di questa pretesa di Gesù, del Mistero entrato nella storia? Nei Vangeli, risponde Giussani. Si sofferma nelle pagine del libro a parlare della particolare storicità dei vangeli, in cui troviamo memoria di eventi e annuncio di essi. Attraverso i Vangeli l’uomo può incontrare quell’avvenimento e farsi provocare dalla totalità di esso. Nella Rivelazione arriva a noi una persona vivente: "L’oggetto rivelato non è una serie di proposizioni, ma è la realtà di un essere personale". [...]
Un fatto si può incontrare. Come incontrarlo oggi? Cominciando a vivere la memoria e l’annuncio che di Lui fanno coloro che ne sono stati afferrati. È qui anticipato un tema che sarà sviluppato nel terzo e ultimo volume del "PerCorso": la Chiesa come continuità di Cristo, come suo corpo, sua attualità. Attraverso la vita della Chiesa possiamo raggiungere certezze adeguate sulla vita di Gesù di Nazareth, aderire a ciò che Egli ha affermato, intuire i motivi adeguati per credere in Lui.
Gesù certamente è un fatto della storia. In molte occasioni Giussani si è speso per esaltare e difendere la storicità dei Vangeli, in particolare della resurrezione di Gesù che ne costituisce il cuore. Nulla era così estraneo al suo spirito come la contrapposizione tra il Gesù della fede e quello della storia. Eppure, nello stesso tempo, reagisce di fronte alla riduzione del fatto cristiano ad avvenimento del passato. Gesù di Nazareth non è soltanto colui che è vissuto e che è morto. Egli è vivo. "L’annuncio cristiano è che Dio si è reso presenza umana, carnale, dentro la storia. Dio non è una lontananza a cui con uno sforzo l’uomo tenti di arrivare, ma Qualcuno che si è affiancato al cammino dell’uomo e ne è diventato compagno".
Per verificare dunque la pretesa di Gesù non basta riandare ai testi che parlano di Lui. E non è neppure sufficiente un’esperienza interiore, come per il protestantesimo. L’avvenimento cristiano è, invece, "un fatto integralmente umano, secondo tutti i fattori della realtà umana, che sono interiori ed esteriori, soggettivi ed oggettivi". Incontrare Gesù vuol dire incontrare coloro che credono in Lui, l’unità dei credenti, il corpo che lo Spirito crea assimilando a Gesù ogni persona che a Lui si affida.
Giussani riprende qui i temi dell’apologetica tradizionale, quella che si è diffusa a spiegare le ragioni per cui si può o si deve credere. Ma il suo discorso è completamente rinnovato rispetto all’antico. La sua apologetica diventa finissima descrizione della psicologia dell’uomo, individuata nell’analisi dei rapporti fra Cristo e i suoi contemporanei, perché "il Mistero ha scelto di entrare nella storia dell’uomo, con una storia identica a quella di qualsiasi uomo". [...]
Il lettore è così portato a seguire Gesù sulle strade della Palestina, ma soprattutto a seguire l’itinerario psicologico, affettivo e conoscitivo di chi gli era più vicino. [...] La domanda che nasce negli apostoli sull’identità di Gesù sgorgava proprio dalla vita quotidiana che essi vivevano con Lui. Si affidavano a Lui perché capivano che quell’abbandono era conveniente per la loro vita. Era un cammino quasi inavvertito della loro coscienza verso una certezza sempre più chiara. Gesù non ha avuto bisogno con loro di affermare dogmaticamente la sua divinità. "Sarebbe suonata follia più che bestemmia". Lui si è proposto lentamente, così da provocare negli altri una graduale evoluzione.
* * *
Giussani deve avere meditato a lungo il metodo pedagogico di Gesù. Ha cercato infatti di riviverlo tale e quale nel suo rapporto con i giovani. [...] In questo volume parla di tre fattori della pedagogia di Gesù. Innanzitutto la sequela. Gesù è un maestro da seguire. Allo stesso modo nel cristianesimo occorre seguire qualcuno che rivive nella concretezza della sua vita l’origine dell’avvenimento. Poi, la necessità di una rinuncia. Cristo ha chiesto di lasciare tutto per seguirlo, anche se ha promesso il centuplo a chi lo avrebbe fatto. Non c’è cristianesimo, per Giussani, se non c’è sacrificio, accettazione della prova, distanza nel possesso. Infine, terzo principio, occorre pronunciarsi per Gesù di fronte a tutti: che gli uomini sappiano che Egli è il centro della nostra affettività e della nostra libertà.
Solo l’amore può spiegare e permettere questo itinerario, può far entrare in modo giusto in questa inconcepibile pretesa di Gesù. Altrimenti non può nascere che opposizione. Cosa potevano fare gli ebrei di fronte a uno che identificava se stesso con la fonte della legge, che sosteneva di avere il potere di rimettere i peccati, di essere il discrimine fra il bene e il male, di essere la via, la verità e la vita? O dobbiamo dire che Gesù è pazzo oppure Egli è veramente Dio. Ma per arrivare a questa conclusione, perché si affacci nella nostra vita questa ipotesi, occorre un’apertura d’animo, un disagio per il proprio male, una vera scoperta di Gesù e della sua infinita umanità.
C’è un sigillo, un segno particolare nella predicazione e nella vita di Gesù che per Giussani è il più illuminante segno della sua divinità: la concezione dell’uomo che Egli ha proclamato.
Gesù è venuto per rivelarci il Padre, per dirci che siamo figli, che in ciascuno di noi c’è una realtà superiore a qualsiasi altra realtà soggetta al tempo e allo spazio. Ognuno racchiude in sé un principio originario e irriducibile, fondamento di diritti inalienabili, sorgente di valori. È ciò che chiamiamo anima, spirito, quel livello del nostro essere personale che è rapporto immediato con l’infinito. Già nel primo volume della trilogia, intitolato "Il senso religioso", Giussani si era soffermato su questo tema, a lui estremamente caro. Si può dire che esso sia la chiave di volta di tutta la sua posizione culturale, la ragione della sua opposizione a ogni potere e della sua venerazione per la Chiesa in quanto custode dell’intangibile verità dell’uomo. "Gesù è concentrato su questo problema, il rapporto col Padre. Senza quel rapporto il singolo uomo non ha la possibilità di avere un volto suo, non ha possibilità di essere persona".
Con Gesù la scoperta della persona entra nel mondo: Egli è il messaggero, dice Giussani, della dipendenza unica e totale del singolo uomo dal Padre, il grande educatore della religiosità. Essa è l’atteggiamento più conveniente all’uomo, quello che fa scoprire la preghiera, la coscienza della dipendenza costitutiva da Dio, quella dipendenza continua che riguarda ogni istante e ogni sfumatura del nostro agire. In questo modo l’esistenza si realizza come dialogo con la grande presenza, con l’Essere che è amore, che dona se stesso continuamente. [...] La nostra dipendenza dall’essere che ci crea si compie nel dono di noi stessi, nel sacrificio, nel "darsi tutto" [...].
La visione che Giussani ha della salvezza non evita assolutamente il tema del peccato, tantomeno quello del peccato originale. Egli è ben consapevole che l’uomo da solo ricade continuamente nella tentazione di riferire tutto a sé: ha bisogno di un altro, di accettare l’amore di un altro, di essere liberato per essere libero. Tutto questo fa della sua vita una tensione, una lotta, una ricerca. Se l’immersione nella tradizione orientale porta Giussani a sentire la trasfigurazione divina già all’opera nel mondo, la vicinanza all’uomo moderno e in particolare al mondo protestante – che egli ha ben conosciuto nei suoi studi americani – lo fa sentire compagno di tutto il dramma dell’uomo caduto. Nella Chiesa egli vedrà la strada della redenzione. Da quando Dio si è fatto uomo Egli salva l’uomo attraverso altri uomini, per rendere possibile sempre ed ovunque la salvezza. Saranno i temi del terzo volume del "PerCorso", intitolato: "Perché la Chiesa".
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Il libro:
Massimo Camisasca, "Don Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio", Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, pp. 168, euro 14,00.
Il Foglio 26 Febbraio 2009 - Vito Mancuso chiede un Concilio per liberare l`uomo dalla natura - DOCTOR DIABOLICUS
Diabolico nel nostro linguaggio laico è perfino un complimento. Magari un complimento ambiguo, ma un complimento. E come sanno i lettori del Foglio, e dei suoi libri, Vito Mancuso merita la considerazione di chi ama il pensiero diretto, forte, umile nel metodo e orgoglioso nella sostanza. L`ultima uscita nella Repubblica, il suo nuovo giornale, propone alla cattolicità la convocazione di un Concilio che completi l`opera del Vaticano II. Il Concilio convocato nel 1959, e chiuso nel 1965, definì un nuovo orientamento della chiesa in sostegno alla libertà di autodeterminazione umana nella storia. Ora per Mancuso occorre estendere questa nuova libertà cristiana al rapporto con la natura: l`uomo deve essere riconosciuto libero di autodeterminarsi nella natura e di liberarsi dalla natura. Vaste programme, verrebbe da obiettare. Eppure la spinta culturale verso la disumanizzazione dell`umanità e la denaturalizzazione della natura impressa dal progresso delle tecniche di ingegneria genetica, nel loro rapporto intrinseco con il "progresso" ideologico sottostante, è obiettivamente molto forte, e forse giustifica simili ambizioni. Tutti i Papi conciliari e postconciliari hanno spiegato che la storia non è nelle mani dell`uomo, e che né lo spirito né la lettera del Vaticano II lasciano pensare a una libertà assoluta, capace di relativizzare al soggetto che la detiene la verità cattolica o anche solo la metafisica razionale della filosofia greca classica. Ora chi non è d`accordo con loro tende a rilanciare la sfida: oltre a liberare la storia dall`ipoteca divina (Provvidenza), proviamo a liberare la natura da ogni ancoraggio all`essere, facciamoci creatori e esecutori testamentari della nostra vita. Sono belle idee, che appartengono di diritto alla gloriosa tradizione del libero pensiero. Ma che cosa c`entrino con la tradizione, la cultura e la fede cattolica, è questo che attende ancora di essere laicamente spiegato
Aspettando l'enciclica sociale – L’Osservatore Romano, 5 marzo 2009
La crisi internazionale che in crescendo attanaglia uomini, donne e famiglie dei Paesi ricchi e poveri e semina sgomento, chiedendo a ciascuno una nuova lettura della storia, è una prova del nove anche per misurare lo spessore del magistero di Benedetto XVI. Le luci crepuscolari che si sono addensate sull'occidente sono un contesto che favorisce una lettura serena, libera da pregiudizi ideologici, dell'azione del Pontefice che si va dispiegando sempre meglio facendo apparire frettolose, quando non fatue, le letture schematiche.
Il Papa ha un pensiero per uscire dalla crisi. Non nel senso di ricette economiche specifiche capaci di ripristinare l'ordinato flusso nel rapporto capitale e lavoro, finanze e bisogni di famiglie e imprese. Ma perché da questa crisi non si esce senza una speranza che sia più credibile di quella che viene solo dai mercati e dalle teorie economiche. Per farcela occorre ricuperare ragioni per vivere. La depressione economica si supera se si vince la depressione ideale e l'appassirsi della speranza.
È a questo crocevia tra il cuore e la capacità programmatica delle risorse che si pone la parola di Papa Ratzinger. Dove è un bene per tutti dialogare con le sue sollecitazioni intellettuali e religiose, e dove può apparire ragionevole e plausibile la saggezza cristiana che egli chiede di far entrare con rinnovata cittadinanza nella società degli uomini d'oggi. C'è attesa per l'annunciata enciclica sociale di Benedetto XVI. Ma è lo stesso Papa a non voler essere preso come un oracolo. Egli preferisce un ritorno alla ragione perché senza questo ritorno diventa difficile anche valutare e apprezzare la serietà della proposta cristiana.
Il messaggio per la Giornata mondiale della gioventù è un esempio concreto di quale spirito potrebbe animare la prossima enciclica. Tanto da pensare che per coglierne il senso in profondità potrebbe essere utile rileggere l'enciclica, Spe salvi, che mostra in maniera solare come il ragionare del Pontefice porti sempre alle ultime conseguenze ogni umana ricerca.
Benedetto XVI vorrebbe altrettanto che i grandi principi di amore, distintivi dell'essere cristiani, fossero portati alle conseguenze. Chiede di prendere sul serio il Vangelo. Rivitalizza con questa fonte il senso di appartenere alla Chiesa che definisce "la grande famiglia dei cristiani". I cristiani autentici non sono mai tristi nonostante le difficoltà e le prove perché essi sanno che Cristo è un vivente. I cristiani sono parte del "popolo della speranza" formato da profeti e santi di tutti i tempi che hanno seguito l'esempio di Abramo che si fidò di Dio contro ogni speranza.
L'intento del Papa è quello di trovare un modo convincente per incoraggiare l'attuale generazione a fidarsi di Dio. E a tenerlo presente in ogni scelta di vita personale e collettiva.
Non si nega autonomia alla politica, alla scienza, alla tecnica, all'economia e a ogni altra risorsa materiale quando si dice che da sole "non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo". Il Papa ricorda semplicemente che da sole non bastano a risolvere ogni genere di problema. È il nostro cuore infatti a voler sapere un di più e, se questo manca, continuiamo a vivere nello scontento pure in mezzo all'abbondanza di benessere.
Benedetto XVI è un Papa giusto per un tempo di crisi perché sa confortare e indica un ragionevole percorso per uscirne fuori insieme anziché ciascuno per sé. Prima ancora che si delineassero i disastri bancari che hanno scoperchiato la voragine economica rischiosa per tutti, il Papa ha posto due grandi questioni: quella dell'amore e subito dopo quella della speranza, "centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell'epoca contemporanea". Infine, l'affidare a un messaggio destinato ai giovani, la riflessione su così grandi questioni di comune interesse, rimane un segnale di metodo per quanti sono coinvolti nel compito di educare.
c. d. c.
(©L'Osservatore Romano - 5 marzo 2009)
Basterà il 5 in condotta? Scuola, un'esperienza da comprendere - Autore: Agostino, Fiorello Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 4 marzo 2009
Il Ministero della Pubblica Istruzione ha reso noto i risultati del primo quadrimestre, tre studenti su quattro hanno almeno una insufficienza, gravi le carenze in lingue straniere e matematica, 34.311 gli studenti che hanno 5 in condotta.
E gli adulti? Questi voti giudicano prima di tutto loro.
Il Ministero della Pubblica Istruzione ha reso noto i risultati del primo quadrimestre, tre studenti su quattro hanno almeno una insufficienza, gravi le carenze in lingue straniere e matematica, 34.311 gli studenti che hanno 5 in condotta. I commentatori sembrano tutti concordi nel dire che si tratta di un ritorno alla severità, sono stati sdoganati i cattivi voti e forse si crede che in questo modo si tornerà ad amare Dante e la matematica, a studiare inglese e latino. E gli adulti? Questi voti giudicano prima di tutto loro.
Abbiamo chiesto ad un insegnate impegnato in ambito educativo, di commentare questi dati.
Che cos'è la scuola?
La scuola è una comunicazione appassionata di sé attraverso una scoperta e la capacità di coinvolgere il giovane in questa esperienza della scoperta.
Per me l'insegnante è un profeta, uno che comunica un fatto interessante capitato a sé e lo condivide con agli altri: la scoperta della realtà nelle sue molteplici forme e aspetti e la sua ragionevolezza, ovvero che la mia ragione è adeguata ad afferrare qualcosa di essa: " adaequatio rei et intellectus " dice S. Tommaso.
Come sta la scuola?
Una scuola che si salvaguarda con i 5 in condotta ha sicuramente perso di vista la scaturigine del suo essere e del fare scuola. Una scuola che si salvaguarda con i 5 in condotta registra oramai una situazione patologica e incancrenita.
Una scuola che non si percepisce come “rapporto con ...” non è più scuola.
Ma la scuola oggi non è così: è un coacervo di frustrazioni e problemi strutturali mai risolti quali il reclutamento degli insegnanti per cui oggi trovi l'insegnante preparato e motivato accanto ad uno completamento ignorante e sicuramente non adeguato ad un lavoro con i ragazzi dentro un sistema dove l'autonomia didattica e amministrativa non esiste e che impedisce o comunque rende molto più complicato il fare scuola a quei molti docenti che la motivazione ce l'hanno ancora nonostante tutto.
In questa deficienza, in questa mancanza, si capisce perché la risposta è solo formale: nelle scuole tecniche e professionali statali con circa 700 studenti sono stati spesi nel 2008 intorno ai 120-140 mila euro per i corsi di recupero (per istituto) e questo maggiore impegno ha comunque comportato un 35-40% di bocciati nei bienni di questi tipi di scuole. Ovviamente le scuole fornirebbero dati molto più incoraggianti indicando percentuali di insuccesso molto più basse. Per questo si ricorre a un vero e proprio bluff: per abbassare la percentuale di bocciati si fa la somma degli studenti bocciati dalla prima alla quarta superiore e si divide per il totale dei ragazzi frequentanti queste classi. Ma come è noto gli studenti bocciati della terza e quarta superiore sono molto pochi (considerato che si tratta di ragazzi già selezionati) e così la media complessiva si è abbassata ... e così sembra che i corsi di recupero abbiano funzionato.
La tragedia dei bienni delle scuole tecniche e professionali racconta tutta un'altra situazione: la percentuale nazionale rimane intorno al 40% dei bocciati. La scuola di oggi è una scuola che produce insuccessi. Incredibile.
Ma la vera natura dell'insuccesso è nell'origine dell'azione scolastica: non si è più preoccupati del ragazzo ma di " coprirsi le spalle " da eventuali ricorsi al Tar: è questo il vero motivo che muove questa complessa e costosa macchina dei corsi di recupero: " la scuola si è attivata per quel che ha potuto e quindi tu utente non hai appigli per contestare il risultato finale ".
E' quanto raccontato in "Cani perduti senza collare" - per un ragazzo che ruba una bicicletta la società è preoccupata della bicicletta rubata o del ragazzo? -
Tutti sanno che le cose stanno in questo modo, ma nessuno è disposto a riconoscerlo. Al rapporto col ragazzo, al tentativo di riprendere un percorso scolastico con lui, al tentativo di motivarlo si sostituisce una risposta burocratica e per certe volte spesso ridicola: è possibile recuperare 5-6 mesi di lavoro scolastico con 6 ore di recupero?
Non si possono offrire più ore di recupero perché per equità le ore che si possono pagare devono essere distribuite su tutte le materie, così siamo tutti uguali e tutti arrotondiamo un po’ lo stipendio.
L'esperienza di Portofranco parte da un altro presupposto: dalla libertà del ragazzo che vuole tentare un percorso per uscire dalla propria situazione scolastica. Ma questo non sarebbe sufficiente se il ragazzo rimanesse solo col suo bisogno. Portofranco offre un percorso personalizzato e continuo nel tempo. E' questa la risposta che il ragazzo chiede: di non essere lasciato solo nel suo bisogno dello studio, ma di essere seguito ogni qualvolta si rendesse necessario un intervento. A volte capita che l'intervento è di pochi minuti perché sblocca una situazione problematica, altre volte è necessario programmare un intervento più preciso e dilatato nel tempo: insomma l'attenzione al ragazzo passa attraverso un intervento adeguato al suo bisogno. I risultati fanno oramai parte di una statistica consolidata e confortante: il centro di Desio segue 150 ragazzi all'anno e l'indice di successo scolastico è intorno al 95% e tutto ciò a costo zero per le famiglie e per la collettività tutta. Anzi la collettività ci guadagna perché può disporre di centri di eccellenza che sono il vero argine alla dispersione scolastico e al disagio non normato espresso dai nostri giovani. Per completezza occorre dire che il Ministero della Pubblica Istruzione ha riconosciuto il valore dell'esperienza dei centri di Portofranco in Italia finanziando un progetto di circa 300 mila euro, finanziamento che è stato poi distribuito tra i diversi centri in Italia e che ha coperto le sole spese vive sostenute da queste associazioni quali affitto e spese di gestione. Ma si tratta di un contributo occasionale e non continuo a fronte di un intervento massiccio sulle scuole statali di 250 milioni di euro nel solo 2008, soldi spesi veramente male.
L’Europa del Grande Fratello - Roberto Fontolan - giovedì 5 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Qualche occhiata al Grande Fratello getta nel panico e nello sconforto. Raramente si può toccare così da vicino il disastro di qualche generazione di trentenni europei - occorre ragionare in questa chiave, data la circolazione continentale del format. L’ossessione per il sesso, e oltretutto un sesso primordiale, la coprolalia sfrenata, rapporti umani vissuti secondo le logiche della prepotenza o della sottomissione, ignoranza abissale, vouyerismo e psicologismo da quattro soldi.
Cinque minuti davanti alle esibizioni della sventurata compagnia ti lasciano nella desolazione: cos’è, cos’è questa roba? Se i testi scritti potessero parlare, questa domanda andrebbe urlata e poi scandita, alla ricerca di risposte. Alcuni si consolano pensando che in fondo si tratti di televisione e che le persone vengano deformate dal vivere davanti alle telecamere e che perciò e per loro fortuna, nella vita reale siano diverse, migliori; altri ritengono invece che il GF, capostipite dell’infausta genìa dei cosiddetti reality show, metta in luce proprio la natura autentica degli esseri umani e che le grandi platee di telespettatori (milioni e milioni) vengano attratte proprio dal gioco barbarico delle istintività che ambiscono a esibirsi.
Qualunque sia l’opzione, resta il fatto che da diversi anni decine di migliaia di giovani dei diversi paesi europei (tanti più giovani quanto i paesi sono più “modernizzati”) le tentino tutte per poter accedere alle svariate “case” - di volta in volta giardini di infanzia o motel dell’orrore. Che se anche non ci riescono ne rimangono poi avvinti insieme alle platee casalinghe. E che da questo fenomeno si generi tutto un mondo di chiacchiere mediatiche, di personaggi, di comparsate, di immagini: un circo sottoculturale impressionante per vastità e contaminazioni, capace di raggiungere decine di milioni di homini sapientes. E mai un interesse leggermente più profondo della superficie epiteliale, mai un libro, mai un fatto del mondo, mai uno squarcio di verità elementare.
Così accade in tutto il vecchio continente, al punto che GF, Fattorie, Isole e Talpe, rappresentano uno dei fattori dell’unità europea di linguaggi e costumi ben più dei governi nazionali, del Parlamento e della Commissione (gli altri fattori sono, come è noto, Erasmus e le compagnie aeree low cost).
Ma anche in quelle famigerate stanze o spiagge, attraverso la caricatura e il grottesco - per cui l’amore si riduce all’eliminazione della lingerie e le relazioni interpersonali a nevrosi - emerge, disperatamente e inconsapevolmente, come dappertutto e come sempre, il bisogno di una felicità diversa e finalmente vera, il desiderio di un’esperienza di pienezza e senso umani.
Nell’anno elettorale europeo ci vorrebbe una battaglia culturale, o forse una scossa elettrica, per poter risvegliare in queste nostre generazioni di trentenni il senso autentico del proprio io, quello che porta alla coscienza della dignità personale e alla responsabilità verso l’altro. Ci vorrebbe anche una battaglia televisiva. Certo non per censurare né tantomeno vietare: continui a vivere il GF, ma mettetelo in concorrenza con altri trentenni, con altre idee, con altre passioni.
Tutto questo non c’entra con l’incipiente campagna elettorale per ottenere un seggio a Bruxelles? Invece c’entra, e molto.
VATICANO II/ Il Concilio che i media divisero fra “conservatori” e “progressisti" - INT. Matthew Lamb - giovedì 5 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Matthew Lamb, assieme al suo collega dell’università «Ave Maria» in Florida Matthew Levering, è autore di un importante volume sul Concilio Vaticano II (Vatican II. Renewal within Tradition, Oxford University Press, 2008). A cinquant’anni dall’annuncio della convocazione del ventunesimo Concilio della Chiesa cattolica, il dibattito sulla sua interpretazione è ancora molto vivace. Ilsussidiario.net ha chiesto allo stesso professor Lamb, decano della Facoltà teologica, di spiegare il risultato del suo lavoro.
Come è nata l’idea del volume da lei curato, qual è la sua impostazione e come è strutturato?
L’idea del libro ha un’ origine remota ed una prossima. L’origine remota: ero un giovane studente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana a Roma durante le ultime due sessioni del Concilio. Il senso del sacro nel Concilio, con le Sante Messe e le preghiere che incorniciavano tutti i dibattiti, indicava come questo XXI Concilio ecumenico fosse in continuità con la grande Tradizione magisteriale della Chiesa.
I Padri conciliari erano di fronte alle sfide e alle situazioni nuove della fine del XX secolo e cercavano di rispondervi con riforme in continuità con le grandi verità della nostra fede cattolica. Però io notavo che i giornalisti che si occupavano del Concilio per i mass-media non comprendevano questi aspetti teologici dei dibattiti. Al contrario, inserivano le loro informazioni nelle categorie politiche di “conservatori” contro “progressisti”. Nel mondo anglofono questo è esemplificato al meglio dalle Letters from the Vatican di Xavier Rynne, pubblicate dal New Yorker. Era lo pseudonimo di un sacerdote redentorista, Francis X. Murphy, e non pochi tra i periti tendevano a cadere in questa retorica diffusa da giornali, settimanali, radio e televisione che si occupavano del Concilio. L’origine prossima. Nell’estate del 2002 incominciai a discutere con colleghi in Nord America e in Europa riguardo alla necessità di offrire una comprensione dei 16 documenti del Concilio alla luce della grande tradizione bimillenaria della fede cattolica. Nella primavera dell’anno successivo la lista dei collaboratori era stilata ed iniziò il lavoro di stesura. Come linee guida prendemmo i sei principi di interpretazione dei documenti indicati dal Sinodo dei Vescovi del 1985:
1) continuità dei documenti conciliari con la tradizione cattolica; 2) ciascun passaggio è illuminato dal contesto sapienziale dell’intero Concilio; 3) leggere i nove decreti e le tre dichiarazioni alla luce delle quattro costituzioni; 4) la portata pastorale dei documenti deriva dalla dottrina cattolica; 5) il dogma e la dottrina cattolici esprimono il vero spirito del concilio; 6) perciò tutte le sfide e situazioni nuove alle quali si rivolgono le riforme conciliari possono venire comprese adeguatamente alla luce della continuità della fede cattolica.
Mentre stavamo lavorando al libro fu eletto papa Benedetto XVI. Nel suo primo discorso egli enunciò il suo «impegno ad attuare il Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in fedele continuità con la tradizione bimillenaria della Chiesa». Poi, quando tenne l´allocuzione alla Curia nel dicembre del 2005, risultò chiaro che stava spiegando che cosa era necessario nell’ermeneutica del Concilio.
Pertanto la struttura del libro è la seguente: il discorso di papa Benedetto apre il volume, segue poi un’introduzione dei curatori. A ciascuna delle 4 costituzioni conciliari sono dedicati due capitoli; a ciascuno dei 9 decreti e delle 3 dichiarazioni è riservato un capitolo. Infine uno studioso protestante, il professor Geoffrey Wainwright, presenta la sua interpretazione del Concilio nella continuità; segue infine un capitolo conclusivo scritto da me.
Per molti anni, nella storiografia sul Concilio ha prevalso, almeno in Italia, l’ermeneutica della rottura rispetto a quella della continuità. Può spiegare la differenza tra le due impostazioni e perché la prima si è imposta così a lungo?
Nel mondo occidentale si è largamente diffusa l’immagine del Concilio dipinta dai media come una lotta tra conservatori e progressisti nella quale questi ultimi hanno vinto.
Come afferma Papa Benedetto nel suo discorso alla Curia, alcuni teologi contemporanei adottarono questa chiave di lettura e vennero spesso citati nei mass-media come esperti. Mi ricordo di una conferenza stampa, durante una sessione del Concilio. In essa un teologo serio stava spiegando l’importanza e il valore teologico di ciò che era stato discusso in quella giornata. Egli insistette sul fatto che l’aspetto teologico era la cosa più importante. Intervenne un altro perito il quale disse che la questione era sostanzialmente molto semplice: «I conservatori…». Il primo relatore disse di non essere d’accordo.
Ora, i mass-media fecero uso dello schema conservatori/progressisti nella loro cronaca di quell’episodio nonché di tutti gli altri dibattiti e delibere conciliari. Quando i vescovi, i sacerdoti e i religiosi incominciarono a mettere in atto le riforme conciliari si rivolsero spesso proprio a questi periti e ad altri teologi citati dai mass-media. La categoria politica di conservatori contro progressisti significava che tutte le volte che un documento conciliare citava un Concilio precedente o una precedente dottrina, si trattava di una manovra politica per indurre i conservatori a votare a favore di ciò che era nuovo. Così, l’evento del Concilio venne considerato più importante che non i documenti, i quali spesso vennero mal interpretati come compromessi politici.
Come ha osservato Papa Benedetto: «In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità». Questo condusse, come affermò papa Benedetto, a un’errata comprensione del Concilio e della Chiesa, come se il Concilio fosse «una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova». A partire dai mass-media questa nozione di rottura, di radicale discontinuità del Concilio rispetto al passato della Chiesa, incominciò ad influenzare i lavori teologici e storico sul Concilio. Se prima del Concilio ogni prete doveva conoscere il latino e un po’ di greco, ora anche nei corsi di dottorato molti non erano in grado di leggere il latino; tanto meno il greco. Teologi dediti alla divulgazione cominciarono ad influenzare l’educazione delle successive generazioni di teologi. Lo studio serio dei padri greci e latini, così come dei maestri medievali venne lasciato a storici con scarsa o addirittura nessuna conoscenza degli argomenti filosofici e teologici in gioco.
La teologia cattolica dogmatica e dottrinale venne spesso ignorata per lasciare spazio a categorie derivate dalla politica, dalla psicologia e dalla sociologia. Così i lavori storici sul Concilio, nella misura in cui influenzarono l’opinione pubblica forgiata dai mass-media, diffusero la nozione di rottura – prima del Vaticano II facevamo in questo modo, ora facciamo in quest’altro – nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle scuole e nelle università. In Italia l’Istituto di studi religiosi di Bologna, sotto la direzione di Giuseppe Alberigo, ha pubblicato una storia del Vaticano II in cinque volumi, che è stata molto influente nel concentrarsi sui dibattiti che portarono alla redazione dei documenti, a discapito del far emergere come le riforme di fatto adottate fossero in continuità con la tradizione della Chiesa. Nei paesi comunisti dell’est, invece, i mass-media non avevano la tendenza a parlare del Concilio in modo così ampio come in occidente. Così, per esempio, l’arcivescovo Karol Wojtyla e altri vescovi e teologi polacchi furono in grado di fornire una intelligenza delle riforme del Vaticano II in continuità con i principi della fede cattolica; come dimostra il libro di Wojtyla, Alle fonti del rinnovamento.
Come ha influito l’ermeneutica della rottura a livello della base della Chiesa?
La comprensione del Concilio per la maggior parte dei cattolici avvenne tramite due fonti. Una di queste furono i mass-media laici i quali riferirono del Vaticano II come se non ci fossero interventi del Magistero anteriori al Vaticano II.
Per chi era un corrispondente dall’estero per una qualunque testata fra il 1962 e il ’65 c’erano due zone al mondo dalle quali i servizi erano sicuramente ricercati: il Vietnam e il Concilio di Roma. Così i cattolici poterono leggere resoconti sul Concilio basati sullo schema dei mass-media: conservatori contro progressisti.
L’altra fonte erano le Messe le prediche nelle parrocchie. Immediatamente dopo il Concilio ci furono in numerose parrocchie, comunità religiose e seminari esperimenti liturgici e traduzioni in lingua volgare non approvate che enfatizzavano la rottura. La partecipazione alla Messa domenicale e la pratica dei sacramenti cominciarono a diminuire, così come le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa. Alcuni teologi che dissentivano dagli insegnamenti della Chiesa, per esempio dall’Humanae vitae e dall'Ordinatio sacerdotalis, favorirono la nozione di rottura, specialmente da quando tale dissenso venne diffuso massicciamente nei mass- media con poco o nessun contenuto teologico serio.
A che punto è la recezione del Concilio?
Grazie ai vigorosi insegnamenti dei papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e al fatto che nel post-Concilio sorsero molti istituti e organizzazioni sia religiosi che laici, una genuina recezione del Vaticano II è andata continuamente crescendo nel corso dei decenni passati. Molti cattolici si sono resi conto di ciò che il Concilio ha veramente insegnato e come il dissenso dottrinale e morale oscuri la mente e corrompa la vita. La verità della fede cattolica è il Signore vivente, Gesù Cristo, e noi siamo membri della grande comunione dei santi. La gioia, la bellezza, la sapienza e la santità del vangelo nella Chiesa sono testimoniate nella vita di tanti santi nel corso dei secoli e fino ai giorni nostri, per esempio in padre Pio e in madre Teresa di Calcutta.
Questo è il contesto nel quale, come ha detto papa Benedetto, la recezione genuina del Concilio Vaticano II ha saldamente guadagnato terreno. La letteratura teologica si sta applicando sempre più in una lettura delle riforme del Vaticano II all’interno della tradizione bimillenaria della Chiesa. In maniera crescente teologi cattolici, seguendo l’esempio dei Papi, stanno affrontando la sfida del terzo millennio in vista di integrare la scienza contemporanea della natura, le scienze umane e l’arte nella sapienza e nella santità del cattolicesimo – i «vetera novis augere et perficere» del programma leonino. Non c’è solamente il nostro volume sul Vaticano II, ma sta uscendo una traduzione inglese del libro dell’arcivescovo Agostino Marchetto: Il Concilio Ecumenico Vaticano II (Città del Vaticano, 2005). Questo libro offre un’accurata analisti storica e teologica dei fatti del Vaticano II, non nelle categorie drammatiche e retoriche di conservatori contro progressisti, ma in sereni e dettagliati giudizi scientifici, sia positivi che negativi, riguardanti gli avvenimenti del Vaticano II. Questo libro presenta i documenti del Concilio non solo nelle tensioni e dibattiti e nelle varie bozze durante la loro redazione, ma mostra anche come questi dibattiti hanno condotto a documenti che hanno saputo individuare le riforme necessarie per rimanere fedeli alla bimillenaria tradizione dottrinale e teologica della Chiesa.
PAOLO DOVETTE CADERE DA CAVALLO, NON VOLEVA ASCOLTARE - Ai giovani ebbri del nulla la proposta di un «Dio accanto» - MARINA CORRADI – Avvenire, 5 marzo 2009
Rivolgendosi ai ragazzi nel messaggio per la prossima 24ª Giornata mondiale della gioventù Benedetto XVI ha parlato di un giovane, «uno come voi», sui venti o venticinque anni. Uno che duemila anni fa se ne andava a cavallo verso Damasco, fiero della Legge di Mosè e deciso ad affermarla con la forza contro ai suoi nemici. Quel tal ragazzo dunque, ha rievocato il Papa, improvvisamente abbagliato da una gran luce cadde da cavallo, mentre una voce gli chiedeva: Saulo, perché mi perseguiti?
Ben nota è poi la storia di colui che scrisse: «Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente», e aprì la strada a generazioni di cristiani.
Ma colpisce nel messaggio papale quella annotazione, «era un giovane come voi». Paolo, uno come voi, nel fiore dell’età, e forte, e certo dei suoi disegni; Paolo disarcionato a terra sulla sabbia della strada per Damasco, costretto a domandare in ginocchio a quel Dio ignoto: chi sei?
È paolino il percorso che porterà verso la Gmg di Madrid del 2011: «Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede», è il tema. E Paolo, dice non a caso il Papa, era un giorno come uno di voi. Uno che aveva tutto, all’apparenza, e a cui però mancava l’essenziale: la speranza, la grande speranza dei cristiani. Che non è una speranza contingente, né attesa di fortunati destini, né il disporre le cose in modo che, ragionevolmente, ce la caviamo. La grande speranza, dice Benedetto, «può essere solo Dio». Un Dio che conosce e ama ciascun uomo, e che promette a ciascuno «il centuplo quaggiù», e la vita per sempre. La speranza dunque è senso che colmi ogni giornata, per quanto sfortunata o dolorosa o banale.
Martedì, sulla prima pagina di
Repubblica
Pietro Citati sosteneva che l’evangelista Giovanni «non provava il minimo interesse per la vita quotidiana», per l’«insignificante» nascere e morire degli uomini, ma solo tendeva alla vita eterna. È vero esattamente il contrario: già 'questa' vita dalla promessa di Cristo è colmata, così che l’eterno con Cristo si è fatto quotidiano.
Ed è questo che il Papa continua a dirci: «La fede – ha scritto nella Spe salvi
– non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti (...) Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro 'non-ancora'.
Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future». È la speranza, dice il Papa, la questione fondamentale dell’oggi, quando «l’oblio di Dio» si allarga in «evidente smarrimento, con risvolti di solitudine e violenza». E qui parla dei giovani – e «purtroppo», dice «non sono pochi» – «feriti della vita», esposti alla deriva di un vuoto familiare o di un’educazione distratta. Come, si chiede, annunciare la speranza anche a loro? (Perché, dice il Papa, «il desiderio di amore vero e di felicità non si spegne», neanche in quelli che paiono i peggiori).
Come annunciare? La speranza, ripete Benedetto XVI con l’insistenza con cui si dice qualcosa di troppo a lungo dimenticato, «non è un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo».
Non è un 'valore' o un’astratta nobile morale: è un Dio vivo, è un Dio accanto, cui l’uomo sta a cuore. Un Dio che dice ai giovani seguaci del nulla, ai violenti, a chi sembra perduto e gli è dunque ancora più caro: la speranza, sono io. Come lo disse un giorno a un giovane ebreo persecutore di cristiani, uno che si sentiva giusto e 'a posto'. E per farsi sentire dovette buttarlo giù dal suo orgoglioso cavallo: perché quello, a vent’anni, potente, pago di sé, non ne voleva sapere di ascoltare.