venerdì 13 marzo 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LEFEBVRIANI/ In una lettera tutta l’umanità e il grande cuore di Benedetto XVI - José Luis Restan - venerdì 13 marzo 2009 – ilsussidiario.net
2) Come la lettera ai Galati - LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA DEI QUATTRO VESCOVI CONSACRATI DALL’ARCIVESCOVO LEFEBVRE – L’Osservatore Romano, 13 marzo 2009
3) Errori, incomprensioni e “odio” nella vicenda dei vescovi lefebvriani - LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA DEI QUATTRO VESCOVI CONSACRATI DALL’ARCIVESCOVO LEFEBVRE - In una lettera a tutti i vescovi cattolici, Benedetto XVI spiega che la sua decisione di rimettere la scomunica è dettata dalla ricerca dell’unità, essenziale in un mondo nel quale “Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini”. Ci sono stati errori da parte del Vaticano, ma un mal interpretato senso della libertà ha portato a mettere in discussione la pace nella Chiesa, nella quale la Fraternità e i suoi ministri “non esercitano in modo legittimo alcun ministero”.
4) UMILTÀ E INTERIORITÀ - UNA «SVEGLIA» DA PADRE DELLA CHIESA - GIANNI CARDINALE – Avvenire, 13 marzo 2009
5) Per i rabbini, l'incontro con il Papa pone fine alla crisi - L'incontro di questo giovedì di Benedetto XVI con una delegazione del Gran Rabbinato d’Israele costituisce la fine della crisi sorta dopo le dichiarazioni di negazione dell'Olocausto fatte dal Vescovo Richard Williamson, la cui scomunica è stata revocata dal Papa insieme a quella di altri tre Vescovi.
6) Anche in Europa intolleranza e discriminazioni contro i cristiani
7) L’Islam spiegato da un sacerdote egiziano (parte I) - Intervista a padre Samir Khalil Samir, S.I. - di Annamarie Adkins
8) Un'apologia della non violenza in «Gran Torino» di Clint Eastwood - Il nemico della porta accanto forse non è un nemico - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 13 marzo 2009
9) USA/ I due grandi errori nella scelta di Obama sulle staminali – ilsussidiario.net - Eric Cohen, Robert George - venerdì 13 marzo 2009
10) CRISI/ Perché la finanza non può essere lasciata a sé stessa - Giorgio Vittadini - venerdì 13 marzo 2009 – ilsussidiario.net
11) Quel primo grido di Giovanni Paolo II - Pigi Colognesi - venerdì 13 marzo 2009 – ilsussidiario.net
12) KATYŃ/ Il console polacco: “vi racconto come il mio popolo è capace di fare memoria” - INT. Krzysztof Strzałka – venerdì 13 marzo 2009 – ilsussidiario.net
13) L’UNICO VINCOLO PER IL MEDICO CHE VOGLIA ESSERE TALE - Il bene dei suoi malati Anche di chi non si vuol bene - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 13 marzo 2009
14) CACCIA A PORDENONE AL GAY DISABILE - I temerari del nulla Voragine in fondo al cuore - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 marzo 2009


LEFEBVRIANI/ In una lettera tutta l’umanità e il grande cuore di Benedetto XVI - José Luis Restan - venerdì 13 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Viene una serena commozione nell’anima dopo la lettura della lettera che Benedetto XVI ha inviato ai suoi fratelli vescovi di tutto il mondo per spiegare le ragioni che hanno portato alla revoca della scomunica dei quattro vescovi nominati dall’Arcivescovo Lefebvre. Lì vi è soprattutto spalancato il cuore di un pastore al servizio di Cristo. Lì c’è il dolore di un padre che è stato maltrattato e incompreso da molti dei suoi. Lì c’è l’uomo umile che non nasconde gli errori del “corpo umano” della Chiesa che presiede. Lì si rivela, infine, la mano ferma di Pietro che tiene il timone nel mezzo della tempesta.
In primo luogo il Papa riconosce che la sua decisione ha suscitato un dibattito di una veemenza sconosciuta dentro e fuori la Chiesa. A ciò ha contribuito la mancanza di una spiegazione chiara dell’importanza e dei limiti della sua decisione nel momento in cui è stata resa pubblica, e inoltre la sovrapposizione del caso Williamson, con le sue nefaste dichiarazioni sulla Shoah. E così un gesto di riconciliazione con un gruppo ecclesiale separato è diventato l’opposto, «un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei», obiettivo che la telogia di Joseph Ratzinger ha servito fin dall’inizio.
Con paziente minuziosità, Benedetto XVI risponde a tutte le accuse che ha ricevuto. Non nasconde il suo dolore, ma non c’è ombra di risentimento, come se da questa voragine di critiche emergesse più limpida la sua umanità cristiana. «Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti?». La priorità del Papa può essere solamente far presente Dio in questo mondo, aprire agli uomini l’accesso al Dio che parlò sul Sinai e il cui volto riconosciamo in Cristo crocefisso e resuscitato. Perché quando si spegne la luce che viene da Dio, l’umanità si nasconde nell’oscurità.
Da questa missione di condurre gli uomini al Dio di Gesù Cristo deriva l’urgenza di cercare l’unità dei credenti. Per questo è opportuno cercare anche, dice il Papa, «le riconciliazioni piccole e medie». E Benedetto XVI dimostra che il suo non è stato un gesto romantico, slegato dalla realtà o frutto di un’ossessione personale: «Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande e ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti, cosi che poi ne sono emerse forze positive per l'insieme». Dovrebbe realmente il Papa lasciare tranquillamente che questa parte della comunità andasse alla deriva, dopo che aveva visto ragioni per un avvicinamento?
La revoca della scomunica ai quattro vescovi vuole invitarli al ritorno, ma non significa che la Fraternità San Pio X sia tornata alla piena comunione. Restano sospese serie questioni dottrinali (tra cui la piena accettazione del Concilio Vaticano II) e nel frattempo i membri di detta Fraternità non esercitano legittimamente alcun ministero nella Chiesa. A questo proposito il Papa li avverte che «non si può congelare l'autorità magisteriale della Chiesa all'anno 1962», ma aggiunge anche che «ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l'intera storia dottrinale della Chiesa».
Quando arriva il momento di trattare l’insieme di dichiarazioni che hanno caratterizzato questa polemica, Benedetto XVI non è proprio tenero. Riconosce che da parte lefebvriana si sono ascoltate molte cose fuori luogo, e le qualifica come superbia, presunzione e ostinazione, sebbene abbia anche ricevuto da questa sponda testimoni commossi da gratitudine e apertura di cuore.
Ma anche nell’ambito ecclesiale ci sono state amare uscite, come se il gesto di misericordia del Papa per molti giustificasse il fatto di rivolgergli accuse intolleranti e piene d’odio. Nella parte finale del testo, il Papa evoca il famoso passaggio della lettera ai Galati in cui san Paolo avverte la comunità del fatto che se si morderanno e divoreranno gli uni con gli altri finiranno per distruggersi a vicenda. Noi, dice il Papa, non siamo migliori dei Galati, e non dobbiamo scandalizzarci. Siamo minacciati dalle loro stesse tentazioni e dobbiamo imparare ancora la priorità dell’amore e il giusto uso della libertà. Per questo ci affidiamo al Signore, «che ci guiderà anche in tempi turbolenti».
Dopo aver letto le imprecazioni di alcuni teologi, i titoli miserabili di alcuni giornali e anche i dubbi timorosi di qualche episcopato centroeuropeo, la lettura di questa lettera mi porta le immagini contrapposte dell’aquila e delle galline. Benedetto XVI riprende il volo come un’aquila, ma allo stesso tempo è vicino al nostro dolore quotidiano, alle nostre povere dispute, alla nostra debole fede di ogni giorno. Questa è la sua missione, quella di confermarci nella fede, e con questa lettera impressionante lo ha fatto ancora una volta. Grazie padre.


Come la lettera ai Galati - LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA DEI QUATTRO VESCOVI CONSACRATI DALL’ARCIVESCOVO LEFEBVRE – L’Osservatore Romano, 13 marzo 2009
Un testo appassionato e senza precedenti nato dal cuore di Benedetto XVI per contribuire alla pace nella Chiesa: ecco la lettera del Papa ai vescovi cattolici sulla remissione della scomunica ai presuli consacrati nel 1988. Senza precedenti perché non ha precedenti recenti la bufera scatenata in seguito alla pubblicazione del provvedimento lo scorso 24 gennaio. Non a caso alla vigilia del cinquantesimo anniversario dell'annuncio del Vaticano II, perché l'intenzione del vescovo di Roma - ora confermata ma già di per sé evidente, come il giorno stesso aveva sottolineato il nostro giornale - era ed è quella di evitare il pericolo di uno scisma. Con un iniziale gesto di misericordia, perfettamente in linea con il concilio e con la tradizione della Chiesa. Sulla convenienza di questo gesto si sono moltiplicati interrogativi e soprattutto si sono scagliate contro Benedetto XVI accuse infondate ed enormi: di rinnegamento del Vaticano II e di oscurantismo. Fino a un disonesto e incredibile rovesciamento del gesto papale, favorito dalla diffusione, in una concomitanza di tempi certo non casuale, delle affermazioni negazioniste nei confronti della Shoah di uno dei presuli a cui il Papa ha rimesso la scomunica. Affermazioni inaccettabili - e anche questo è stato subito sottolineato dal giornale del Papa - come inaccettabili e vergognosi sono gli atteggiamenti verso l'ebraismo di alcuni membri dei gruppi a cui Benedetto XVI ha teso la mano.
Il rovesciamento della misericordia in un incredibile gesto di ostilità contro gli ebrei - che si è voluto ripetutamente attribuire al Pontefice da molte parti, anche autorevoli - è stato grave perché ha ignorato la realtà, stravolgendo il convincimento e le realizzazioni personali di Joseph Ratzinger come teologo, come vescovo e come Papa, in testi a disposizione di tutti. Di fronte a questo attacco concentrico, persino da parte di cattolici e anche "con odio", Benedetto XVI "tanto più" ha voluto ringraziare gli ebrei che hanno aiutato a superare questo difficile momento, confermando la volontà di un'amicizia e di una fratellanza che affonda le sue radici nella fede dell'unico Dio e nelle Scritture.
La lucidità dell'analisi papale non evita questioni aperte e difficili, come la necessità di una attenzione e di una comunicazione più preparate e tempestive in un contesto globale dove l'informazione, onnipresente e sovrabbondante, è di continuo esposta a manipolazioni e a strumentalizzazioni, tra cui le cosiddette fughe di notizie, che si fatica a non definire miserande. Anche all'interno della Curia romana, organismo storicamente collegiale e che nella Chiesa ha un dovere di esemplarità.
Il Papa affronta poi il cuore della questione: cioè il problema dei gruppi cosiddetti tradizionalisti e il pericolo dello scisma, con la distinzione dei livelli disciplinare e dottrinale. In altre parole, sul piano disciplinare Benedetto XVI ha revocato la scomunica ma su quello dottrinale è necessario che i tradizionalisti - verso i quali il Papa non risparmia toni severi ma confidando nella riconciliazione - non congelino il magistero della Chiesa al 1962. Così come i sedicenti grandi difensori del concilio devono ricordare che il Vaticano II non può essere separato dalla fede professata e confessata nel corso dei secoli.
Era davvero una priorità questo gesto? Il Papa risponde di sì perché in un mondo dove la fiamma della fede rischia di spegnersi la priorità è proprio condurre gli uomini verso il Dio che ha parlato sul Sinai e si è manifestato in Gesù. Un Dio che rischia di sparire dall'orizzonte umano e che solo la testimonianza di unità dei credenti rende credibile. Ecco perché sono importanti l'unità della Chiesa cattolica e l'impegno ecumenico, ecco perché ha significato il dialogo tra le religioni. Per questo la grande Chiesa - un termine caro alla tradizione - deve ricercare la pace con tutti. Per questo i cattolici non devono dilaniarsi come i Galati a cui Paolo intorno all'anno 56 scrisse di suo pugno una delle lettere più drammatiche e belle. Come questa di Papa Benedetto.
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 13 marzo 2009)



Errori, incomprensioni e “odio” nella vicenda dei vescovi lefebvriani - LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA DEI QUATTRO VESCOVI CONSACRATI DALL’ARCIVESCOVO LEFEBVRE - In una lettera a tutti i vescovi cattolici, Benedetto XVI spiega che la sua decisione di rimettere la scomunica è dettata dalla ricerca dell’unità, essenziale in un mondo nel quale “Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini”. Ci sono stati errori da parte del Vaticano, ma un mal interpretato senso della libertà ha portato a mettere in discussione la pace nella Chiesa, nella quale la Fraternità e i suoi ministri “non esercitano in modo legittimo alcun ministero”.
Cari Confratelli nel ministero episcopale!
La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata. Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo. Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento. Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione. La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa – con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi. Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere. Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009. Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva. La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu … conferma i tuoi fratelli" (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie. Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?
Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: "Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà – anche in tempi turbolenti. Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermo
Vostro nel Signore

BENEDICTUS PP. XVI
Dal Vaticano, 10 Marzo 2009
Sala Stampa Vaticana


UMILTÀ E INTERIORITÀ - UNA «SVEGLIA» DA PADRE DELLA CHIESA - GIANNI CARDINALE – Avvenire, 13 marzo 2009
La «parola chiarificatrice» scritta da Bene­detto XVI sulla remissione della scomuni­ca ai quattro vescovi 'lefebvriani' – ieri pub­blicata – incanta e ad un tempo conforta. In­canta perché scritta con uno stile e un lin­guaggio non solo poco usuali, ma inediti. Egli si rivolge ai confratelli vescovi – ma, ovvio, non solo a loro – con il cuore in mano. E un tono molto personale. E con il candore di chi non ha nulla di proprio da difendere. Ammette que­gli alcuni «sbagli» intercorsi nella vicenda (as­sumendosi in prima persona le responsabi­­lità), e propone dei rimedi anche molto con­creti (vedi l’uso di internet). Confessa in mo­do disarmato il dolore provato dagli attacchi subìti – e a far soffrire sono stati più i colpi ar­rivati dall’interno che non quelli esterni alla Chiesa –, sferrati da chi non aveva capito o non ha voluto capire il suo gesto di misericordia. A tutti spiega o, meglio, rispiega il perché di que­sta decisione. Lo fa con profonda umiltà e con grande energia interiore. Umiltà perché il Pa­pa di per sé non era tenuto a questa ulteriore spiegazione, che in effetti nessuno si aspetta­va. Energia perché ribadisce e conferma la pro­pria decisione, argomentandola da par suo e inserendola pienamente nell’ambito proprio della sua missione di successore di Pietro. Ri­sponde così a chi non aveva capito, o non ha voluto capire, quale fosse la posta in gioco, e quindi le ragioni della necessità – ora – della remissione della scomunica. E a chi – più o meno ingenuamente – era stato indotto a pen­sare che quella con i 'lefebvriani' fosse sem­plicemente una 'sua' personalissima e un po’ maniacale fissazione, e non piuttosto una stra­tegia giovevole a tutta la Chiesa odierna.
E qui arriva il motivo del conforto. Benedetto XVI con questa sua lettera mostra come, cat­tolicamente, il chiarimento su un fatto con­tingente può diventare l’occasione per trarre un insegnamento universale. Con stile sa­pienziale, e un afflato quasi patristico, il Papa ricorda qual è la sua missione essenziale, qual è cioè «la prima priorità» che Gesù ha affidato a Pietro («Tu... conferma i tuoi fratelli») e quin­di spiega che oggi – «in questo nostro momento della storia» in cui «Dio sparisce dall’orizzon­te degli uomini» – la «priorità suprema e fon­damentale della Chiesa e del successore di Pie­tro » non può non essere che questa: «Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nel­la Bibbia». E che da questa grande priorità – ri­corda sempre il Papa – « deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’u­nità dei credenti», quindi la causa ecumenica e, in un certo senso, il dialogo interreligioso, ma anche – e prima di tutto – la convergenza cor­diale all’interno della comunità cattolica. Di conseguenza – è il ragionamento stringente del Papa – anche le «riconciliazioni piccole e medie» rientrano per la forza della comunio­ne nella «vera priorità della Chiesa». Quasi a di­re che chi, nella comunità cattolica, si mostra così attento al dialogo con le altre confessioni cristiane e con le altre tradizioni religiose non può poi pretendere che rimanga sbarrata la porta verso una realtà che comunque conta migliaia di fedeli e 491 sacerdoti. In altre pa­role, che una scelta inclusiva non può essere strumentalmente selettiva. Il che non vuol di­re ovviamente che il Papa faccia sconti ai le­febvriani. Anzi, la significativa scelta annun­ciata nella lettera (e poi si dice che Benedetto XVI non governa…) di collegare la Commis­sione Ecclesia Dei alla Congregazione per la Dottrina della Fede sta a significare che il dia­logo dottrinale sarà serrato fino a una totale chiarificazione e questa non potrà non passa­re attraverso il riconoscimento del Vaticano II e del magistero pontificio post-conciliare. Ma anche i sedicenti «grandi difensori del Conci­lio » – e qui torna l’ermeneutica della conti­nuità – devono ricordare che «il Vaticano II por­ta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa». Infine, a brillare nella lettera del Papa è il rea­lismo. Che si manifesta soprattutto nell’ulti­ma parte, quando vengono evocate le parole di Paolo ai gàlati («ma se vi mordete e divora­te a vicenda…») che tanto hanno eccitato i ti­tolisti dei giornali di ieri. Benedetto XVI ci ri­corda che noi oggi, in fondo, non siamo mi­gliori di quei gàlati. E che «purtroppo questo 'mordere e divorare' esiste oggi nella Chiesa come espressione di una libertà male inter­pretata ». Ma grazie all’intercessione della Ma­donna della Fiducia egli confida – e pure que­sto è realismo cristiano – che suo Figlio Gesù ci sarà affidabile guida anche in questi «tem­pi turbolenti».


Per i rabbini, l'incontro con il Papa pone fine alla crisi - L'incontro di questo giovedì di Benedetto XVI con una delegazione del Gran Rabbinato d’Israele costituisce la fine della crisi sorta dopo le dichiarazioni di negazione dell'Olocausto fatte dal Vescovo Richard Williamson, la cui scomunica è stata revocata dal Papa insieme a quella di altri tre Vescovi.
“Non potevamo aspettarci di più”, afferma il Gran Rabbino di Haifa
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 12 marzo 2009 (ZENIT.org).- L'incontro di questo giovedì di Benedetto XVI con una delegazione del Gran Rabbinato d’Israele costituisce la fine della crisi sorta dopo le dichiarazioni di negazione dell'Olocausto fatte dal Vescovo Richard Williamson, la cui scomunica è stata revocata dal Papa insieme a quella di altri tre Vescovi.
“Ringraziamo la Santa Sede per aver reso possibile questo rinnovamento con le chiare e inequivocabili dichiarazioni che deplorano la negazione dell'Olocausto”, ha affermato nel corso di una conferenza stampa Shear-Yashuv Cohen, Gran Rabbino di Haifa, dopo essere stato ricevuto dal Papa.
Secondo il rabbino, il primo rappresentante ebraico nella storia ad aver partecipato al Sinodo dei Vescovi in Vaticano, nell'ottobre scorso, l'udienza “è stata un'esperienza molto speciale, che ha segnato la fine della crisi”.
“Non potevamo aspettarci di più”, ha confessato ai giornalisti.
Da parte sua, il rabbino David Rosen, presidente dell'International Jewish Committee for Interreligious Consultations, ha affermato: “'Abbiamo ragione di essere molto soddisfatti'”, considerando “risolta” la questione.
L'incontro del Papa con i rappresentanti del Gran Rabbinato era stato programmato per la fine di gennaio, ma è stato cancellato in seguito alle polemiche.
Nel discorso che ha rivolto ai rappresentanti ebraici, Benedetto XVI ha affermato che nel suo viaggio in Israele e nei Territori palestinesi, dall'11 al 15 maggio, vuole pregare “per il dono prezioso dell'unità e della pace sia all'interno della regione sia per la famiglia umana di tutto il mondo”.
Il rabbino Cohen ha confermato che durante l'incontro con il Papa si è parlato dell'“importanza della educazione dei bambini nelle scuole per combattere ogni forma di negazione dell’Olocausto e ricordare la Shoah, educando così le nuove generazioni perché non avvengano mai più nella storia tragedie simili”.


Anche in Europa intolleranza e discriminazioni contro i cristiani
BRUXELLES, giovedì, 12 marzo 2009 (ZENIT.org).- 200 anni dopo aver spento lo splendore di una grande storia dell’Europa, nuovi lumi, mai sopiti, tornano ad illuminare l’uomo e la sua storia passata e futura; la visione del mondo torna tridimensionale, a colori, mettendo in risalto luci ed ombre, cioè tornando a vedere la realtà, tutta la realtà.
Il servizio che segue a firma di Giorgio Salina, Presidente dell’Associazione Fondazione Europa, è il primo di una serie che fanno parte della rubrica “Lumi sull’Europa”.
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Il Vice Presidente del Parlamento Europeo (PE), Mario Mauro, il 15 gennaio scorso è stato nominato “Rappresentante personale della Presidenza dell’OSCE contro razzismo, xenofobia e discriminazione, con particolare riferimento alla discriminazione dei cristiani”. Indubbiamente un riconoscimento dell’azione svolta nelle Istituzioni europee: ordini del giorno, dichiarazioni, comunicati stampa, emendamenti presentati a numerose Risoluzioni del PE. Sue azioni non molto note sono quelle a favore dei cattolici venezuelani perseguitati dalla rivoluzione bolivariana di Chavez, ed altre a sostegno dei cristiani di Terra Santa.
L’OSCE è l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, con sede a Vienna, a cui appartengono 56 Stati dall’America del nord all’Estremo Oriente russo, attraverso l’Europa, il Caucaso e l’Asia centrale, che ha come proprio motto: “È questo il momento di realizzare le speranze e le aspettative dei nostri popoli per decenni: l’impegno costante per una democrazia basata sui diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali, la prosperità attraverso la libertà economica e la giustizia sociale nonché un’uguale sicurezza per tutti i nostri Paesi” (Carta di Parigi per una nuova Europa, 1990).
La prima iniziativa di Mauro è stata una tavola rotonda a Vienna, per discutere e approfondire la natura e la portata delle manifestazioni di intolleranza contro i cristiani. Il titolo del convegno era già di per sé eloquente, oltre che una salutare novità in ambito internazionale: “Intolleranza e discriminazione contro i cristiani. Focus sull’esclusione, emarginazione e negazione dei diritti”. Le risultanze dell’incontro sono preoccupanti anche per l’area UE.
Come ha scritto Antonietta Calabrò sul Corriere della Sera, “le testimonianze presentate a Vienna (sotto la clausola diplomatica della garanzia di riservatezza nei confronti dei Governi coinvolti) sono state addirittura più allarmanti, secondo tre direttrici: una più evidente nell’Est ex sovietico, la seconda nell’Europa laicizzata, la terza infine nei Paesi sempre più penetrati (…) dall’avanzata islamica”. È certamente noto, ad esempio, che nella parte turca di Cipro, 550 Chiese e Cappelle sono state destinate a moschee, a magazzini e a stalle, mentre in Turchia luoghi sacri di religioni diverse dall’Islam non possono affacciarsi su uno spazio pubblico, per cui alla Basilica del Patriarcato si accede attraverso un ristorante.
La morte di Hrant Dink, le azioni contro Orhan Ant, missionario protestante a Samsun, sul Mar Nero, che ha avuto minacce di morte, l’episodio della sospensione dal lavoro in Inghilterra di un dipendente aeroportuale colpevole di aver esposto un’immagine di Gesù, l’incendio presso la scuola cattolica e la cappella di Notre Dame de Fatima in Francia sono solo alcuni dei casi d’intolleranza e di discriminazione nei confronti dei cristiani, ad est e ad ovest di Vienna, senza contare le violente persecuzioni che colpiscono le comunità cristiane al di fuori dell’area Osce. È di mercoledì 11 marzo, la notizia dell’uccisione di tre sacerdoti in Africa (cfr. ZENIT, 10 marzo 2009).
In Gran Bretagna l’infermiera Caroline Petrie è stata licenziata per aver consegnato un’immagine sacra ad una paziente; nella Spagna di Zapatero si cerca in tutti i modi di impedire l’esercizio del fondamentale diritto all’obiezione di coscienza ai medici cattolici.
Gli episodi qui ricordati sono la punta dell’iceberg di una intolleranza che permea parte della società europea, dimostrando l’urgenza di quella “nuova evangelizzazione” di cui hanno parlato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, perché la convivenza civile ritrovi la strada maestra della cultura e della tradizione che hanno dato al Vecchio Continente i valori, che i popoli del terzo mondo invidiano ed invocano.
Indubbiamente il maggior risultato della tavola rotonda di Vienna, al di la delle denuncie dei singoli episodi per altro importanti, è stato rimettere a tema, nel contesto internazionale, l’intolleranza e le discriminazioni contro i cristiani, fino ad ora un tabù di cui non si doveva né poteva parlare, non solo per rispettare il politically correct, ma per non essere definiti reazionari ed “oscurantisti”. Discutere di queste cose è invece un’esigenza di giustizia ed un servizio all’intera comunità, perché la libertà religiosa è la cartina di tornasole che attesta il rispetto o meno di tutte le libertà; se non c’è la prima, purtroppo prima o poi vengono violate anche le altre.
Le Istituzioni europee non sono esenti da questo contagio nichilista e relativista con manifestazioni di intolleranza verso la religione cristiana, cattolica in particolare, e contro la Chiesa ed il Santo Padre. È in atto una forma più subdola ma non per questo meno violenta di discriminazione. Al PE si riscontra un’ostilità diffusa e manifesta, tale per cui, in particolare in questa legislatura, nessuno dei fondamentali principi etici naturali promossi dalla cultura cattolica sull’uomo e sulla società ha la ben che minima probabilità di essere condiviso.
A conferma di ciò possiamo citare un recente episodio, ancorché paradossale. Il 22 dicembre dello scorso anno, il Santo Padre in un discorso ai membri della Curia e della Prelatura Romana per la presentazione degli auguri natalizi, disse tra l’altro: “Il matrimonio, cioè il legame per tutta la vita tra uomo e donna (…) fa parte dell’annuncio che la Chiesa deve recare (…). Partendo da questa prospettiva occorrerebbe rileggere l’Enciclica Humanae vitae: l’intenzione di Papa Paolo VI era di difendere l’amore contro la sessualità come consumo, il futuro contro la pretesa esclusiva del presente e la natura dell’uomo contro la sua manipolazione”.
L’Onorevole Sophia in 't Veld, dei Paesi bassi, membro del Gruppo dell'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa, quando ne è venuta a conoscenza, ha preso carta e penna e ha scritto al Presidente Barroso chiedendogli di intervenire per impedire queste forme di prevaricazione e di grave ingerenza contro la laicità delle Istituzioni, accusando il Papa di “criminalizzare gli omosessuali, chiamando i cattolici a raccolta contro di loro.”
La signora Sophia in 't Veld è Copresidente dell’intergruppo Gay, Lesbiche, Bisessuali, Transessuali, Transgender, il più numeroso del PE.
Una simile farneticazione non meriterebbe nessuna attenzione, se in occasione di ogni discussione sulle discriminazioni nei confronti degli omosessuali, ricorrenti ad intervalli regolari, il Santo Padre non fosse accusato, da non pochi settori, di “fornire il supporto culturale ai discriminatori”.
Quest’altra assurdità altro non è che una manifestazione dell’ostilità, prima citata, che appartiene all’intolleranza e alla discriminazione contro i cristiani, affinché non abbiamo voce negli ambiti pubblici e politici in particolare; quell’intolleranza e discriminazione di cui si è iniziato a parlare a Vienna.
Trattandosi di un fenomeno rilevante, che ha un’influenza assai negativa sulla normale dialettica parlamentare e non solo, se ne dovrà parlare di nuovo, per approfondire cause, fatti e conseguenze.


L’Islam spiegato da un sacerdote egiziano (parte I) - Intervista a padre Samir Khalil Samir, S.I. - di Annamarie Adkins

BEIRUT, giovedì, 12 marzo 2009 (ZENIT.org).- La confusione su cos’è realmente l’Islam e le incomprensioni tra cristiani e musulmani hanno sicuramente toccato l'apice dopo gli attentati dell'11 settembre del 2001, tuttavia molte sono le questioni tuttora irrisolte.
Per questo motivo il sacerdote gesuita padre Samir Khalil Samir ha voluto offrire qualche risposta sull’argomento dall’alto della sua esperienza come studioso islamista, semitologo, orientalista e teologo cattolico, nato in Egitto e da oltre 20 anni residente in Medio Oriente.
Padre Samir insegna Teologia cattolica e Studi islamici presso l’Università San Giuseppe di Beirut, ha fondato il Centro di Documentazione e Ricerche Arabe Cristiane (CEDRAC), e di recente ha scritto il libro “111 Questions on Islam” (Ignatius).

In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Samir parla della sua esperienza e del suo impegno nella costruzione di una reciproca comprensione tra i fedeli delle due religioni abramiche.
Perché ha accettato di scrivere questo libro?

Padre Samir: Per due motivi. Un anno prima dell'11 settembre avevo iniziato a parlare di questo argomento con i giornalisti e a rilasciare interviste. Allora notai una grande ignoranza in Occidente in materia di Islam, sia tra i cristiani ma anche tra i non cristiani che tra i non credenti.
In generale la loro conoscenza dell'Islam era molto scarsa. Ho pensato quindi di dover dare dei chiarimenti. L'ignoranza, peraltro, spingeva alcuni di loro ad atteggiamenti aggressivi e negativi verso i musulmani. Alcuni erano molto ingenui e credevano a tutto ciò che sentivano dire. Altri usavano l'Islam come scusa per essere aggressivi verso il Cristianesimo. Tutto questo, come conseguenza della loro ignoranza.
Il secondo motivo era il desiderio di aiutare i musulmani a riflettere sulla propria religione e la propria fede. Precedentemente avevo avuto modo di constatare, tra i giovani musulmani dei sobborghi parigini, che essi non sapevano quasi nulla della loro religione.
Parlando con diversi musulmani in Europa - in Germania durante l'estate, in Francia dove insegno, o in Italia dove ho vissuto - era sempre lo stesso. D'altra parte, neanche la maggior parte dei cristiani conosce la propria religione.
Ho voluto dare qualche informazione corretta sull'Islam per aiutare le persone a non farsi idee sbagliate e a non alimentare pregiudizi.
Come hanno scelto, gli intervistatori, le 111 domande tra le migliaia che potevano essere formulate?

Padre Samir: I giornalisti con cui ho lavorato avevano già molte domande per conto loro, oltre alle questioni poste da altre persone. Le questioni riguardano la violenza, se i musulmani sarebbero in grado di accogliere la civiltà occidentale, e il problema dell'eguaglianza tra uomini e donne.
Le domande quindi sono indirizzate alla società occidentale, perché questa possa comprendere meglio la realtà dell'Islam.
Ritiene che i musulmani possano ritenersi soddisfatti del grado di oggettività delle sue risposte alle 111 domande?

Padre Samir: Io ho cercato di essere oggettivo. Ci ho provato, ma è impossibile raggiungere veramente un'oggettività perfetta.
Certamente non tutti saranno soddisfatti. Alcuni pensano che l'Islam sia una religione violenta o una religione contro le donne, e quindi non saranno soddisfatti perché riterranno che io non sia stato sufficientemente chiaro sulla violenza e l'ineguaglianza fra i sessi.
Ma neanche le persone che considerano l'Islam una religione di pace e di eguaglianza, e che Maometto abbia elevato lo status delle donne, si riterranno soddisfatte.
Ognuno ha una posizione diversa. Pochi saranno quelli pienamente soddisfatti, sia che siano a favore, sia che siano contro l'Islam.
Ma coloro che desiderano sapere qualcosa di attendibile sull'Islam potranno attingere ai fatti contenuti nel mio libro e farsi un’opinione personale.
L'introduzione al libro osserva che esso è un tentativo di promuovere una reciproca intesa fra cristiani e musulmani. Ma molte delle sue risposte dipingono l'Islam e le sue origini a tinte decisamente fosche. In che modo ritiene che l'opinione del cristiano medio sull'Islam possa cambiare dopo aver letto il libro?

Padre Samir: Io non credo che il libro sia molto negativo, anzi ritengo che non lo sia affatto. La mia intenzione è stata quella di migliorare la conoscenza. Non un sentimento, ma la conoscenza. E’ un qualcosa diretto soprattutto alla mente e solo dopo anche al cuore.
Per promuovere il dialogo e l'intesa reciproca, occorre dare anzitutto informazioni attendibili. Se non si dice tutta la verità, la verità stessa si manifesterà come tale comunque e la situazione sarà peggiore.
Io cerco di costruire una reciproca comprensione, non fondandola su compromessi e informazioni parziali o tendenziose. Il dialogo inizia da informazioni serie, accademiche e oneste sul Cristianesimo e l'Islam.
Le risposte alle domande vogliono veicolare questo tipo di informazioni. Alcune risposte sono negative perché l'argomento stesso è negativo.
Non so cosa pensi il cristiano medio. Oggigiorno suppongo che la maggioranza abbia un'opinione negativa dell'Islam, prima di aver letto qualsiasi libro.
Noi, arabi e musulmani, siamo in crisi. Quando noi arabi - musulmani e cristiani - parliamo insieme, riconosciamo di trovarci in un periodo brutto. Abbiamo avuto un'epoca gloriosa nei secoli passati, ma oggi stiamo toccando il fondo.
Io spero che il libro possa aiutare le persone a comprendere le cose che le riguardano, come il terrorismo; esistono delle spiegazioni, ma non delle giustificazioni. Non posso giustificare il terrorismo, ma posso spiegare il perché altri si sentano indotti a compiere atti terroristici, così come posso mostrare quali siano gli appigli nel Corano e nella Tradizione (la Sunna).
La maggior parte dei musulmani è in favore della pace e della non violenza. Ma il 10% che sceglie la violenza è più forte del restante 90%. Talvolta la parte cattiva dell'umanità, ancorché più piccola, risulta essere quella più forte.
Un'analisi critica della storia islamica e dei suoi sacri testi – che implica un sottoporre la fede alla ragione - è possibile oggi nel mondo musulmano?

Padre Samir: Normalmente, nella tradizione musulmana, la fede si pone al di sopra di ogni altra cosa; quindi anche della ragione.
Se fai notare a un musulmano che il Corano dice qualcosa e che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dice il contrario, il musulmano ti dirà che "dobbiamo seguire la legge e la parola di Dio e non la legge dei diritti umani".
Nella tradizione cristiana siamo molto più aperti ad un'interpretazione della Bibbia, rispetto a quanto siano aperti a una interpretazione del Corano i musulmani, che hanno avuto un periodo di interpretazione della parola coranica tra il IX e l'XI secolo, seguita successivamente da un'involuzione in questo senso.
Per quanto riguarda il rapporto fra ragione e fede, oggi i musulmani si trovano in un periodo negativo della loro storia. Certamente è possibile che riescano ad unire fede e ragione, ma per farlo dovranno impegnarsi molto. Molti sono i motivi di questa regressione, ma quello principale è riconducibile ad una diffusa ignoranza nel clero musulmano.


[La seconda parte sarà pubblicata domenica 14 marzo]


Un'apologia della non violenza in «Gran Torino» di Clint Eastwood - Il nemico della porta accanto forse non è un nemico - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 13 marzo 2009
L'ispettore Callaghan ha definitivamente chiuso nel cassetto la sua 44 Magnum. E se ha cambiato idea Clint Eastwood - che al cinema ha incarnato "Dirty" Harry, lo stereotipo del giustiziere, e in politica, da conservatore qual è, ha abbracciato le idee repubblicane - vuol proprio dire che negli Stati Uniti il vento soffia in un'altra direzione. La prova sta tutta nell'ultimo, notevole film diretto e ottimamente interpretato da Eastwood, Gran Torino: un'apologia della non violenza come risposta alla feroce brutalità della strada, ma anche un invito alla tolleranza razziale, contro ogni pregiudizio; in definitiva, una storia di redenzione. Questo "miracolo" cinematografico si compie attraverso il personaggio di Walt Kowalski, anziano reduce della guerra di Corea, burbero e pieno di risentimento verso una modernità che non lo entusiasma e soprattutto verso gli immigrati che hanno invaso il suo quartiere, una volta residenziale, nei sobborghi di Detroit. Si sente accerchiato. La sua casa di legno, con tanto di bandiera a stelle e strisce sventolante sul patio, in cui vive solo con il cane Daisy dopo la morte della moglie, è una sorta di trincea in cui ha finora resistito e dalla quale osserva perplesso e disilluso un mondo estraneo e in continuo mutamento da cui difendersi. In cantina, con la medaglia al valore, custodisce ancora il fucile con il quale ha sparato ai "musi gialli" e una pistola.
Il suo viso scavato e grinzoso, e i suoi occhi - due fessure di ghiaccio - esprimono solo disprezzo e acredine. Come il grugnito che gli sfugge spesso a commento di ciò che vede e non approva. Il suo biasimo non risparmia nessuno, né la nipote con il piercing né il giovane sacerdote che prova a scalfire la sua coscienza. Neanche con i figli ha un buon rapporto; del resto, non è un tipo facile. I suoi unici veri piaceri sono bere birra in compagnia del suo cane e, in particolare, prendersi cura della sua automobile: una Ford Gran Torino del 1972, amorevolmente e gelosamente custodita in garage, alla quale egli stesso ha montato il blocco dello sterzo quando lavorava nella locale fabbrica Ford. Con le sue cromature, il cofano bombato e aggressivo, la potenza del motore, quella macchina appare come il simbolo di un passato mitizzato che non tornerà più e sembra quasi rispecchiare il carattere duro e spavaldo del proprietario. La vita di Walt Kowalski, discendente di immigrati polacchi, è tutta qui, fino a quando una notte qualcuno tenterà di rubargli proprio la Gran Torino; un avvenimento che, suo malgrado, cambierà il suo modo di vedere le cose e gli altri, spingendolo a confrontarsi con i pregiudizi che lo imprigionano e ridare un senso alla sua vita. Segnerà, infatti, l'inizio di un'improbabile amicizia con il sedicenne Thao, che abita nella casa accanto alla sua con la nonna, la madre e la sorella più grande, tutti appartenenti all'etnia Hmong, originaria del sud-est asiatico trasferitasi negli Stati Uniti dopo essersi schierata con gli americani durante la guerra del Vietnam. Thao in qualche modo somiglia all'anziano. Anche lui è solo, attorniato com'è da donne. Unico maschio di famiglia, non ha alcun punto di riferimento al quale rifarsi. Goffo e insicuro, vittima di angherie e violenze da parte dei coetanei, trova in Walt, per quanto sprezzante e antipatico, un modello da seguire. Attraverso la gentilezza di Thao e in particolare della schietta e un po' sfrontata sorella Sue, l'uomo cambia atteggiamento, comincia a comprendere i suoi vicini, a non vederli più come nemici. Tanto da arrivare a dire: "Ho molte più cose in comune con questa gente di quante ne abbia con i miei figli viziati e fannulloni". Costruita sull'evoluzione di questa amicizia e sul suo peso nella vita di Kowalski, la storia passerà dai toni della commedia - non mancano, infatti, occasioni per sorridere - alle tinte del dramma e della tragedia, in un finale che è la summa del film.
A settantotto anni Eastwood con Gran Torino - in uscita nelle sale italiane - offre, dunque, una lezione di vita, oltre che un'altra superba pagina di cinema, inspiegabilmente ignorata nella notte degli Oscar. Nelle quasi due ore di film - grazie alla brillante sceneggiatura di Nick Schenk, alla sua prima prova, e all'accorta regia - si realizza la catarsi della figura del giustiziere, la cui presenza aleggia impalpabile sul protagonista; un uomo che, nonostante l'età, risulta ancora credibile quando intima minaccioso: "Fuori dalla mia proprietà!". "Questo è il mio film più piccolo - ha detto il regista - ma anche il più personale. Non è tempo di poliziotti estremi, ma di coraggio nel comprendere gli altri". Il messaggio è chiaro ed è diretto a tutti i Kowalski che, sentendosi assediati da un mondo che cambia e che non riescono o non vogliono comprendere, credono ancora di poter combattere una guerra personale. Non è la prima volta che Eastwood, vincitore di due Oscar come regista con Gli spietati e Million dollar baby, affronta temi delicati quali il razzismo e il pregiudizio, tuttavia non sempre gli accenti, per quanto autentici, sono stati politically correct, come si dice oggi. In Gran Torino c'è un deciso cambio di prospettiva, che sembra incarnare i tempi nuovi dell'America obamiana. Se le parole chiave sono cambiamento e speranza, questo film esprime in pieno la forza di quel Yes, we can. Un'ultima nota: non si perdano i titoli di coda; da raffinato musicista jazz, Eastwood si regala, come coautore e come cantante dalla ruvida voce, la pregevole canzone che li accompagna: davvero la ciliegina sulla torta.
(©L'Osservatore Romano - 13 marzo 2009)


USA/ I due grandi errori nella scelta di Obama sulle staminali – ilsussidiario.net - Eric Cohen, Robert George - venerdì 13 marzo 2009
Lunedì scorso, il presidente Barack Obama ha emanato un ordine esecutivo con cui autorizza il finanziamento federale delle ricerche che utilizzano cellule staminali prodotte distruggendo embrioni umani. Anche in questa occasione, Obama ha seguito il suo schema tipico: attuare politiche radicali sotto un atteggiamento tranquillo e moderato, predicando il vangelo della gentilezza e accusando al contempo chi è in disaccordo con le sue iniziative di “creare discordia” e perfino di voler “politicizzare la scienza”.
L’ordine esecutivo di Obama rovescia il tentativo fatto nel 2001 dal presidente George W. Bush di rispettare sia la scienza sulle staminali che le richieste dell’etica, permettendo al governo di finanziare la ricerca su linee già esistenti di cellule staminali, nei casi cioè in cui gli embrioni erano già stati distrutti, ma di impedire che venisse finanziata, o comunque incentivata, la distruzione di nuovi embrioni umani.
Per anni, questa politica è stata attaccata dai sostenitori della ricerca distruttiva su embrioni. Bush e la “destra religiosa”sono stati dipinti come dei malvagi contrari alla scienza, mentre gli scienziati che si occupavano di staminali da embrioni e i loro alleati venivano presentati come perseguitati salvatori di malati. In realtà, quella di Bush era una politica moderata: non vietava la ricerca basata sulla distruzione di nuovi embrioni (né il presidente aveva il potere di farlo), ma neppure la finanziava.
La politica del “moderato” Obama invece non è moderata, perché promuoverà la nascita di una nuova industria per la creazione e la distruzione di embrioni, compresa la creazione di embrioni umani per clonazione finalizzati a ricerche nelle quali verranno distrutti. E costringe i contribuenti americani a essere complici di questa pratica, compresi quelli che considerano profondamente ingiusta l’eliminazione della vita umana nello stadio embrionale.
Obama ha messo al centro del suo discorso l’intenzione di riportare correttezza nella politica riguardo la scienza e il suo desiderio di rimuovere dalle decisioni in campo scientifico il programma ideologico della precedente amministrazione. Questa pretesa di sottrarre la scienza alla politica è falsa e fuorviata sotto due aspetti.
Il primo è che la iniziativa di Obama è di per sé apertamente politica, fatta per soddisfare la profonda avversione verso Bush della sua base elettorale. Tuttavia, non ha riservato pressoché alcuna attenzione alle recenti scoperte scientifiche che rendono possibile la produzione di cellule biologicamente equivalenti alle staminali embrionali, senza la necessità né di creare né di distruggere embrioni umani. Inspiegabilmente, se non si tiene conto delle motivazioni politiche, Obama ha annullato non solo le restrizioni di Bush sul finanziamento a ricerche che comportino la distruzione di embrioni, ma anche l’ordine esecutivo del 2007 che invita i National Institutes of Health a cercare fonti di staminali che non prevedano la distruzione di embrioni.
Il secondo punto, ancor più fondamentale, è che la dichiarazione di voler togliere la politica dalla scienza è in sé antidemocratica. La questione se distruggere embrioni umani per scopi di ricerca fondamentalmente non è una questione scientifica: è una questione morale e civile sul corretto uso, sulle corrette ambizioni e sui limiti della scienza. È questione di come vogliamo trattare i membri della famiglia umana fin dall’alba della vita, e della nostra volontà di cercare vie alternative per il progresso medico che rispettino la dignità umana.
Per chi crede negli ideali più alti della democrazia deliberativa e per chi pensa che stiamo danneggiando le vite umane più vulnerabili, mettendo così a rischio la nostra stessa moralità, la affermazione di Obama di “togliere la politica dalla scienza” dovrebbe essere oggetto di lamentazione, non di celebrazione.
Negli anni a venire, continuerà certamente il dibattito sulle staminali, sollevando grandi domande sul significato della uguaglianza umana agli inizi della vita umana, sul rapporto tra scienza e politica e su come comportarci quando le politiche pubbliche giungono a toccare temi carichi di aspetti morali, sui quali una persona ragionevole può essere in disaccordo. Si può solo sperare che in futuro la creatività scientifica renderà inutile la distruzione di embrioni e che la nostra società non spiani la strada al Nuovo Mondo descritto da Huxley, sia pure con le migliori intenzioni di salvaguardare la salute.


CRISI/ Perché la finanza non può essere lasciata a sé stessa - Giorgio Vittadini - venerdì 13 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Nessuno conosce le dimensioni della crisi, né sa come uscirne. E’ possibile comunque capire cosa non si dovrebbe fare, prendendo spunto ad esempio dall’ultimo crollo della borsa milanese di venerdì scorso, precedutodal lancio del nuovo “future” di una banca di affari americana legata al rischio di bancarotta di paesi sviluppati. La notizia secondo cui l’Italia è in testa a tale poco gloriosa classifica - notizia riportata da un importante quotidiano e smentita dalla banca interessata solo dopo il crollo di borsa - ha portato così altrepreoccupazioni tra gli operatori già in stato di panico per via della non conoscenza circa l’esatto ammontare delle perdite nei bilanci delle banche. (Il Fondo monetario internazionale stima che nel mondo le perdite complessive di banche e altre istituzioni finanziarie ammontano a 2.200 miliardi di dollari ma solo cinque mesi fa la stima era di 1.400 miliardi). Causando la vendita collettiva che ha depresso una borsa già in stato comatoso.
Sembra che il passato non abbia insegnato nulla in certi ambienti. La crisi mondiale ha infatti avuto come grandi protagonisti - e si può anche dire colpevoli - quei grandi operatori finanziari che hanno prima proposto mutui senza verificare se chi li riceveva avrebbe potuto restituirli per poi inventare prodotti finanziari che avrebbero dovuto mitigarne il rischio e invece hanno moltiplicato all’infinito gli effetti negativi delle insolvenze. La caratteristica comune di questi strumenti finanziari è la noncuranza più assoluta della realtà, come se si potesse costruire un mondo virtuale dove il valore di un’azione di borsa possa prescindere totalmente dal rapporto con l’economia reale e lo si potesse poi proteggere con adeguati rating.
Gli editorialisti non pentiti che hanno per anni inneggiato a tali principi per difendere il sistema e difendere se stessi ogni tanto riemergono per ripetere che, in fin dei conti, il mondo non ha mai avuto una crescita così vertiginosa e che quindi, in fin dei conti, “a’ da passa la nuttata”: superato questo incidente di percorso bisogna sostanzialmente riprendere con la stessa logica perché questo è il “mercato”.
Qui sta il problema che dà origine a episodi come quello della scorsa settimana: non si capisce che si devono definitivamente abbandonare strumenti finanziari che non siano finalizzati al vero e unico scopo del sistema bancario e finanziario: assicurare risorse all’economia reale, in una trasparenza di informazioni e di mezzi. Ciò comporta, mentre si discute a livello nazionale e internazionale di regole, che in funzione, e non contro il mercato, si deve giungere a vietare la stessa proposta di prodotti finanziari assimilabili di fatto al gioco d’azzardo e capaci di turbare il mercato e creare sistematicamente speculazioni perché non verificabili nella loro attendibilità, nella loro metodologia, nel gap esistente tra fonti informative e illazioni che si fanno derivare da esse.
Dovrebbe fare riflettere, se non bastasse la crisi globale, che più di un premio Nobel conclamato per avere inventato tali prodotti abbia ripetutamente dato vita a fondi che incarnavano le loro immaginifiche intuizioni sui future e siano poi miseramente falliti, più di una volta. Si dovrebbe ricordare che prima di questa crisi chi persegue queste logiche ha generato, senza che nessuno intervenisse sul metodo, casi come Enron, bond argentini, Parmalat che hanno rovinato tantissima gente. Se non si interviene ponendo fine con regole precise a questo gioco a spese dell’intera economia dovremo forse sperare solo in qualche nuovo rovinoso fallimento di questi signori del nulla?
Pubblicato su Il Riformista del 13 marzo 2009


Quel primo grido di Giovanni Paolo II - Pigi Colognesi - venerdì 13 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Il 4 marzo di trent’anni fa, Giovanni Paolo II pubblicava la sua prima enciclica, la Redemptor homominis. Il suo inatteso pontificato, iniziato qualche mese prima, aveva trovato il proprio inconfondibile accento nelle parole della prima omelia: «Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo». A quel grido si aggiungevano ora le prime parole dell’enciclica, rimaste nella memoria di molti: «Il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia». È stato, ha detto don Luigi Giussani di fronte allo stesso Giovanni Paolo II durante l’incontro internazionale dei movimenti il 30 maggio 1998, «come bagliore in piene tenebre avvolgenti la terra oscura dell’uomo di oggi, con tutte le sue confuse domande».
Quel testo fece scandalo. Anzitutto perché, fin nel titolo, ricorda una questione scomoda, ma evidente per chi sappia leggere la propria esperienza con leale realismo e senza schemi preconcetti. L’uomo - io, tu, tutti - ha bisogno di un Redentore. L’uomo infatti, scrive il Papa, «è un essere incomprensibile a se stesso». È questa una verità che ogni persona scopre semplicemente osservando le sue giornate, guardando le proprie paure (magari generate, come acutamente osserva Giovanni Paolo II, dalla sua stessa azione), lasciandosi interrogare dalle domande che gli urgono dentro, constatando il misterioso limite che lo contraddistingue. Non lo abbiamo forse sentito tutti, questo limite, leggendo di Eluana e pensando ai tanti momenti di apparente non senso in cui si imbatte la nostra quotidianità?
L’uomo cerca un Redentore e l’unico scopo della Chiesa è quello di annunciare che questo bisogno di redenzione ha trovato una risposta nell’avvenimento storico di Gesù di Nazareth. Egli solo, dice il Papa, conosce cosa c’è veramente nel cuore umano, si fa carico dei suoi dubbi, accetta perfino di portare su di sé i suoi limiti ed errori.
La Chiesa, dunque, ha una sola via: l’uomo. Essa gli è compagna nel suo itinerario storico, avendo da proporgli solo l’unica ricchezza di quella sorprendente notizia: l’intromissione del Mistero nella vicenda storica, Cristo, compagnia di Dio all’uomo. Ma la Chiesa è anche inizio di una esperienza di vita redenta. Essa cioè non solo porta l’annuncio della redenzione, ma inizia a farla sperimentare.
Tutto ciò è stato ed è molto scandaloso. Scandaloso per il razionalismo che non accetta né i propri limiti, né, tantomeno, di avere bisogno di altro da sé, un avvenimento sorprendente, per conoscere la realtà e gustare la vita. Scandaloso per quei cristiani che riducono la loro fede ad un contenuto dottrinale, ad una «parola», oppure pensano che in fondo Cristo sia una delle tante, tutte uguali, opzioni del sentimento religioso. Trent’anni fa lo scandalo fu grande; vi si pose rimedio mettendo il silenziatore all’enciclica. E i rarissimi accenni all’anniversario documentano che la strategia del silenzio prosegue.
Ma per noi poveretti, che non abbiamo da difendere una presunta razionalità chiusa, che non ci perdiamo nelle sofisticherie teologiche, sentirci annunciare la compagnia del Redemptor hominis è un immenso conforto. Che suscita la voglia che lo conoscano e sperimentino tutti.


KATYŃ/ Il console polacco: “vi racconto come il mio popolo è capace di fare memoria” - INT. Krzysztof Strzałka – venerdì 13 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Pochi sanno che in ordine numerico, dopo gli ebrei, il secondo popolo a subire, durante la seconda guerra mondiale, una forma di martirio simile sotto molti aspetti al genocidio fu quello polacco. A circa quattro milioni di morti civili infatti si aggira la terribile cifra delle vittime lungo il corso del conflitto. Una comunanza di destini, quella fra i due popoli, che sembra non essersi limitata, per quanto sarebbe bastevole, al tragico olocausto, bensì anche alla questione territoriale. Paradossalmente due fra i popoli che maggiormente considerano sacrale il rapporto con la propria terra sono stati schiacciati e dispersi con angosciante crudeltà nel corso della storia. E proprio dal patto di spartizione della Polonia, il documento più terribile che la memoria storica ricordi, che vide mettersi d’accordo il nazismo e il comunismo staliniano comincia il film Katyn di Andrzej Wajda. Lungometraggio che qui in Italia sembra anch’esso condannato a un triste destino considerando l’estrema e inspiegabile brevità della sua vita pubblica nei cinematografi nostrani, fattore di scandalo per molti intellettuali, ma nulla più. E a parlarci di memoria, in una delle rare occasioni in cui la pellicola viene proiettata, è il console generale della Repubblica di Polonia Krzysztof Strzalka il quale ci spiega come il proprio popolo, anche nell’espressione delle generazioni più giovani, mantenga ben vivo il ricordo di quell’evento pur senza rancori o desideri di vendetta.
Krzysztof Strzalka, come è percepita oggi, a distanza di sessant’anni, quella tremenda pagina della vostra storia e di quella russa che fu il massacro di Katyn?
Il massacro di Katyn è molto sentito in Polonia. È divenuto uno dei simboli della storia e della tradizione polacca improntandosi nell’immaginario collettivo nazionale come un orrendo tragico evento che ha influito in modo drammatico anche sulla situazione sociale della Polonia contemporanea.
Sebbene al giorno d’oggi la sua eco viene trasmessa tramite la memoria umana di nonni e genitori il ricordo di quella strage è straordinariamente vivo e incide ancora sulla classe dirigente polacca, erede di quella che venne letteralmente spazzata via. Questo sentimento è facile da comprendere se si considera il passaggio epocale che ebbe la nostra nazione la cui causa era, fino al 1943, “protetta” dalle potenze occidentali e poi da queste ultime letteralmente “venduta” all’Unione Sovietica insieme a molti altri paesi dell’Europa Orientale.
Le giovani generazioni della Polonia sono coscienti di quanto accadde alla sua passata classe dirigente o, come spesso purtroppo avviene, tendono a dimenticare?
Certamente la storia di Katyn è una storia che continua a parlare in sé e a far parlare. È consolante vedere quanto ciò da noi avvenga anche per le generazioni più giovani, soprattutto attraverso il linguaggio dei simboli, che sono uno strumento fondamentale per fare memoria. Racconto un esempio molto semplice: se un turista visita la Polonia è pressoché impossibile che, qualora si imbattesse anche nel più piccolo dei paesi, non trovi le croci che simboleggiano quel massacro.
Devo dire che davvero la popolazione polacca è integralmente cosciente riguardo la propria storia, per lo meno quella recente. Per non parlare poi del grandissimo numero di documentari, materiale filmico, rappresentazioni teatrali e innumerevoli libri, opere letterarie e saggi pubblicati e letti sull’argomento.
Quindi è più opportuno preoccuparsi della memoria dei giovani che vivono qui nell’Europa occidentale a proposito di fatti come questo?
Ma certo, con una piccola avvertenza. La memoria di questo massacro per le giovani generazioni polacche significa innanzitutto il ricordare seguendo le tracce delle generazioni passate. Questo significa un interesse alle persone così forte da impedire qualsiasi recriminazione ideologica. Spesso infatti avviene che la memoria di un eccidio di questo tipo venga rivissuta nel rancore e nel desiderio di vendetta contro i responsabili. Ciò che sorprende in questo versante è invece l’atteggiamento, finora piuttosto costante, di giudizio che condanna l’ideologia e non le persone. Non vi è stato finora, in ambito culturale, ma anche sociale, alcun atti rivendicativo nei confronti dei russi. E questo si vede particolarmente bene nel film realizzato a Andrzej Wajda. È un film che cerca, il più possibile, di “salvare” le persone, in tutti i sensi.
Inoltre occorre ribadire che, oltre all’eccesso cui la storia ci dimostra che spesso l’ideologia totalitaria raggiunge, in questo caso è da condannarsi la grandissima menzogna che ha coperto questo tremendo crimine contro l’umanità. Katyn rappresenta una delle più grandi e gravi bugie che il XX secolo abbia mai conosciuto. Sotto questo aspetto noi polacchi ci aspettiamo che prima o poi dalla Russia ci venga riconosciuta questa verità. Perché senza verità alla lunga non c’è perdono. Lo so è una frase che può sembrare banale, ma in realtà riassume perfettamente il senso del sacrificio compiutosi a Katyn.
Per quale motivo la Russia continua a evitare un pubblico riconoscimento di come andarono i fatti e, conseguentemente, porgere ufficialmente le proprie scuse al vostro Paese?
Sono state importanti le “aperture” che fece Gorbaciov, ma molto più coraggiose furono le dichiarazioni da parte di Eltsin. Adesso, purtroppo, questo corso ha preso la direzione contraria alla precedente. In Russia la grande guerra patriottica condotta ai tempi dall’Unione Sovietica è stata riabilitata e indicata come un simbolo dell’unità nazionale e dell’orgoglio del Paese. Un fatto ormai certificato come il massacro di Katyn può infrangere, può distruggere questo mito della grande guerra patriottica che l’Unione Sovietica vinse contro la Germania nazista. Ma secondo me non c’è davvero il rischio di mettere a repentaglio la gloriosa storia russa dicendo la verità, anzi. Riconoscere come sono andati i fatti a Katyn sarebbe un segno di vera grandezza da parte del popolo russo. In sostanza credo che dietro questa reticenza si nascondano anche grosse questioni politiche, sulle quali preferirei però soprassedere, riguardanti anche l’attuale stato della Russia.


L’UNICO VINCOLO PER IL MEDICO CHE VOGLIA ESSERE TALE - Il bene dei suoi malati Anche di chi non si vuol bene - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 13 marzo 2009
Sostenere che la vita umana sia indisponibile sarebbe un «obbrobrio»: così, col solito lessico esasperato dei radicali, si è espressa una senatrice della Repubblica.
Naturalmente la questione non è di lessico, ma di sostanza e la sostanza della questione è chiarissima: nessuno può legittimarsi o può essere legittimato da chicchessia a disporre della vita, della vita altrui così come della propria. Se esiste infatti un principio «non negoziabile» è proprio questo; e non per ragioni «confessionali» (come i laicisti si affannano inutilmente a sostenere), ma per laicissime ragioni giuridiche e antropologiche.
Per ragioni giuridiche innanzi tutto, perché se si ritiene disponibile la vita, cioè il massimo «bene» a nostra disposizione, si devono poi per coerenza ritenere disponibili il corpo, i suoi organi, la libertà personale e tutti quei diritti che non a caso siamo abituati a qualificare come «inalienabili». Alle ragioni giuridiche si uniscono poi essenziali ragioni antropologiche: chi ritiene di avere il diritto di poter disporre della propria vita, arriva di fatto a disporre (magari senza rendersene conto) di tutta la rete di relazioni interpersonali (familiari, amicali, lavorative, politiche, sociali) al cui interno egli si è formato come persona e che hanno contribuito a costruire la sua identità.
Uscendo da questo mondo, e ritenendo di averne il diritto, egli si comporta ingiustamente con tutti coloro che hanno interagito nel passato e che potrebbero nel futuro interagire con lui, che cioè hanno o comunque potrebbero aver bisogno di lui.
Con buona pace dei laicisti, questo argomento, l’argomento più antico e più convincente contro un preteso diritto al suicidio, non è cristiano, ma aristotelico.
Ecco perché menti più sottili di quella della senatrice citata all’inizio stanno bene attente a parlare di un diritto alla «disponibilità della vita» e si limitano a rivendicare il diritto che avrebbe ogni persona di rifiutare le cure, anche salvavita. Diritto indiscutibile, soprattutto se presentato nella sua versione corretta, quella della nostra Costituzione, che si limita a proibire ogni trattamento sanitario coercitivo, se non imposto dalla legge. Una volta però che si riconosce l’esistenza di un diritto, bisogna poi individuare le condizioni concrete del suo possibile esercizio. Nel caso del rifiuto delle cure, queste condizioni sono ardue. Infatti, il soggetto che esercita il diritto al rifiuto delle cure non può che essere o sano o malato. Nel primo caso il suo rifiuto (formulato attraverso dichiarazioni anticipate di trattamento) sarà inevitabilmente ipotetico e generico: nel momento concreto in cui ad esso si dovesse dare seguito bisognerà esercitare la massima prudenza e non dare per scontato né che la volontà pregressa equivalga ad una volontà attuale né che un’indicazione anticipata e generica valga quanto una richiesta attuale e precisa.
Se invece il rifiuto delle cure fosse attuale e provenisse da un malato cosciente e competente, bisognerà tener conto che tale rifiuto proviene da una persona che, colpita da malattia grave, spesso terminale, è ineluttabilmente (o comunque con molta probabilità) una persona fragile, debole, depressa, impaurita, suggestionabile, spesso incapace di valutare oggettivamente la sua situazione clinica, bisognosa di intensa assistenza e dalla volontà facilmente manipolabile.
In un caso come nell’altro il rifiuto delle cure non potrà mai essere inteso come perentoriamente vincolante: esso dovrà sempre essere attentamente e in piena autonomia vagliato dal medico. Questo è il cuore bioetico di qualsiasi possibile legge sulla fine della vita: il più grave degli errori che un legislatore possa commettere è quello di porre al suo centro l’ astratto diritto all’autodeterminazione del paziente piuttosto che il concreto dovere del medico di rispettare il suo giuramento ippocratico, che lo vincola a lottare sempre e comunque per il bene dei suoi malati. Una lotta limpida, che dovrà essere doverosamente attenta alle richieste del paziente e pronta a rinunciare a qualsiasi forma di indebito accanimento terapeutico, ma pur sempre una lotta senza ambiguità per la difesa di quel bene indisponibile che è il bene della vita.


CACCIA A PORDENONE AL GAY DISABILE - I temerari del nulla Voragine in fondo al cuore - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 marzo 2009
Metti un venerdì sera d’inverno in provincia, in una piccola città dove tutti ci si conosce, e i più irrequieti si annoiano. Un venerdì, e il giorno non è un caso, giacché nella cultura del weekend il venerdì sera è l’inizio della festa, cui si arriva come costretti, e talvolta coatti, d’ansia di divertirsi dopo una settimana di lavoro. Dunque, quel venerdì in una piazza del centro di Pordenone ci sono tre tipi, dirà poi la polizia, che « non sapevano cosa fare » .
Cinema no, sala giochi basta, il bar, che noia.
Che facciamo allora, si domandano, ansiosi di non sprecare la serata. « Andiamo a dare una lezione ai froci del Bronx » , lancia uno. Vanno.
Il Bronx di Pordenone non è esattamente quello di New York, ma i tre si accontentano di quell’espressione, « dare una lezione » , che riempie la bocca e eccita le mani. « Gli diamo una lezione, dài » , e s’avviano in giro, sulle orme di una preda.
La preda, quella notte, è un giovane omosessuale che già una volta era stato picchiato da un amico, picchiato tanto che è finito in coma e ne è uscito cieco e mentalmente danneggiato. Gay, e disabile: quasi un doppio bersaglio. La vittima ideale.
Non è un incontro casuale: secondo la polizia, lo sono andati a cercare per la città. Facile caccia: la preda nemmeno pensava di scappare.
L’han trovato, circondato, e giù botte. Tante: il gusto feroce di dare, a chi non è come noi, una « lezione » .
Scappano poi, e la gente in piazza li lascia scappare. Il ragazzo alla polizia balbetta che non sa perché l’hanno aggredito. Infatti, non c’è una ragione. C’è solo, dietro la storia ignobile di Pordenone, lo stesso nulla gonfio e sfatto dell’aggressione a un clochard di Rimini dato alle fiamme, e di quell’altro straniero bruciato, vicino a Roma, per gioco. L’essenziale è che la vittima sia individuabile come altro dai « normali » . È la teoria, ben nota agli antropologi, del « capro espiatorio » . La frustrazione e la noia di un gruppo che inventa un nemico, perché ne ha fisiologicamente bisogno. Occorre qualcuno cui « farla pagare » , borbottano i manipoli di vendicatori del nulla di Pordenone o Rimini.
« Fare pagare » , cosa? I vendicatori sono ben vestiti, hanno in tasca il cellulare e soldi, a Rimini erano operai o studenti benestanti; e in tv spesso arriva una mamma che giura che suo figlio è un bravo ragazzo, che, certo, in quella brutta storia ce lo hanno trascinato.
Non saprebbero nemmeno, questi vendicatori miserabili, spiegare « di che » volevano punire la vittima. Se fossero sinceri, potrebbero solo dire di una confusa rabbia, di un oscuro rancore, di una mortifera noia. Poi, sopra, a questo personale nulla interiore appiccicano gli immigrati, o i gay, o i disperati che dormono sotto al cielo. L’essenziale è che il capro espiatorio sia « diverso » , e in quel momento indifeso. Non è uno scontro fra pari, la spedizione del branco; è l’infierire su un debole che si vuole annullare. Per quale colpa? « I clochard sono sporchi, i rom ladri, i gay diversi » , direbbero i vendicatori con povere e ignoranti parole. In fondo al cuore, una voragine. Niente che stia veramente a cuore, nulla in cui credere, niente per cui lottare; fame, mai vista, soldi, quanto basta; e allora nel giorno della ' festa' monta una voglia sordida di compensare quella mole opprimente di noia. E ci si immagina un Bronx, e ci si inventa un nemico, e meglio se è disabile, lo si picchierà più volentieri. « Gliela facciamo pagare » . Cosa?
Quel nulla bestiale addosso. Quel male che non può essere roba nostra, ma, certo, è colpa di un altro. ( È la cognizione del male proprio, personale, ciò che manca drammaticamente, in questa Italia liberata dalla memoria del peccato).