Nella rassegna stampa di oggi:
1) In Belgio l'eutanasia addormenta anche i bambini - In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio dimostra che è ampiamente praticata… - Il Foglio 28 marzo 2009
2) TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: Veronesi sbaglia, non serve un governo dei giudici - INT. Eugenia Roccella - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
3) PDL/ Il futuro è nell’Europa - Mario Mauro - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
4) DOPO ELUANA/ Chi esercita il “potere” sul nostro corpo? - Elisa Buzzi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
5) MARIJA JUDINA/ La pianista che commosse Stalin - Enrico Raggi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
6) 29/03/2009 15.30.38 - Radio Vaticana – Usa. I vescovi a Obama: dispotismo il no all'obiezione di coscienza
In Belgio l'eutanasia addormenta anche i bambini - In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio dimostra che è ampiamente praticata… - Il Foglio 28 marzo 2009
In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio (pubblicato dall’American Journal of Critical Care) dimostra che è ampiamente praticata.
Secondo i dati raccolti dall’Università VUB di Bruxelles e quella di Gand e d’Anversa, in cinque delle sette unità di cura intensiva pediatriche del paese negli ultimi due anni i casi sono almeno 76. Tra questi, 25 volte si è deciso di ricorrere a farmaci letali (paralizzanti neuromuscolari o barbiturici) con “l’esplicita intenzione di causare la morte”, mentre nei restanti casi sono state interrotte terapie o respirazione artificiale, oppure sono stati somministrati sedativi.
Nel 62 per cento dei casi in cui la morte è avvenuta con la somministrazione di un farmaco letale, la decisione è stata presa dal medico senza interpellare gli infermieri, mentre nel 31 per cento dei casi è stato proprio l’infermiere ad agire senza la presenza di un dottore. Il 69 per cento del personale infermieristico interpellato si è dichiarato “pronto a interrompere le sofferenze di un bambino somministrando farmaci letali” e secondo il 90 per cento “proseguire con i trattamenti non è sempre nell’interesse del minore”.
Il Foglio 28 marzo 2009
TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: Veronesi sbaglia, non serve un governo dei giudici - INT. Eugenia Roccella - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Giovedì scorso il ddl sul testamento biologico è stato approvato dal Senato e ora passa alla Camera. Si sono scatenate però le polemiche. Tra i punti più controversi la cosiddetta non vincolatività delle Dat: il medico infatti prende in considerazione quanto dichiarato nelle Dat, ma può non seguirle, motivando il perché della sua decisione. «Agli italiani - ha detto la capogruppo del Pd Anna Finocchiaro - avete spiegato che questa era una legge per poter scrivere il proprio testamento biologico, ora gli dite che invece non contano più niente». E il senatore Umberto Veronesi ha invitato gli italiani a scrivere e depositare il loro testamento biologico prima che la legge entri in vigore. Perché «all’occorrenza un buon magistrato potrà farlo valere». È proprio la situazione che volevamo evitare, dice a ilsussidiario.net il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella: il “far west” del testamento biologico, cioè «passare, anziché dal Parlamento, dalle sentenze dei magistrati».
Sottosegretario Roccella, ipotizziamo che la legge sul fine vita vada in vigore nella versione del ddl varato dal Senato. Cosa ne sarebbe di un altro caso Englaro?
Il punto è proprio questo: con la legge che sarà in vigore non sarà più possibile alcun “caso Englaro”. Devo comunque riconoscere che il verificarsi di un caso Englaro sarebbe difficile con qualunque dei progetti di legge che erano in discussione al Senato, perché l’anomalia del caso di Eluana è che non c’erano volontà scritte e questo ha consentito la ricostruzione delle sua ipotetica volontà da parte dei giudici. Quando si dice che Eluana è morta a causa di una sentenza non solo si dice l’assoluta verità, cioè che una sentenza ha consentito il distacco del sondino, ma anche che attraverso una sentenza è stata ricostruita la sua volontà di morire.
Umberto Veronesi, intervistato da Repubblica, ha detto che il ddl è antidemocratico, antistorico e anticostituzionale e ha lanciato un appello agli italiani: «scrivete il vostro testamento biologico prima che questa legge che lo vanifica entri in vigore. All’occorrenza, un buon magistrato potrà farlo valere». Che ne pensa?
La sua è una legittima provocazione politica, che ha il merito di esplicitare quello che stava effettivamente avvenendo: il “far west” del testamento biologico. Lo abbiamo visto in altri paesi, come l’Olanda. La prassi della sospensione delle cure in Olanda è stata prima introdotta attraverso sentenze e prassi mediche e solo alla fine è passata per il parlamento. Questo è l’indirizzo che stavano seguendo in Italia i fautori - più che del testamento biologico - del diritto a morire: passare dalle sentenze dei magistrati e creare una situazione di fatto della quale il Parlamento avrebbe potuto solo prendere atto.
Una posizione della quale la proposta di Veronesi esprime la formulazione coerente.
Sì. Penso che quello che dice Veronesi illumini molto bene sull’indirizzo che alcuni volevano intraprendere. Ma credo che per i cittadini il fatto che si passi dal Parlamento sia una garanzia fondamentale, perché il Parlamento esprime la volontà degli elettori. Che, se vogliono, possono bocciare l’operato dei politici, ma non quello dei magistrati.
Uno dei punti salienti del ddl è il rapporto fiduciario tra paziente e medico, formulato nel principio che riconosce come “prioritaria l’alleanza terapeutica”. In molti però hanno obiettato che le Dat sono rimaste senza vincolatività. Ecco perché l'opposizione ha accusato la maggioranza di aver “svuotato la legge”. È così?
No, e questo è un punto fondamentale che va chiarito. Noi abbiamo sempre detto che questa legge aveva tre punti fondamentali: la certezza della dichiarazione - quindi autenticata, frutto del consenso informato - , poi il principio dell’idratazione e alimentazione assicurate a tutti, e infine il fatto che non fosse vincolante per il medico. Il ddl presentato dal senatore Calabrò in commissione conteneva esattamente questi punti. Di conseguenza non è caduta nessuna vincolatività, perché non c’è mai stata. La maggioranza quindi non ha fatto un emendamento aggiuntivo “togliendo la vincolatività”, ma ha semplicemente ripristinato il ddl Calabrò originario.
In commissione, però, c’è stato un emendamento che inseriva la vincolatività del medico alle Dat.
In commissione un emendamento non dell’opposizione, ma di un’area della maggioranza inseriva la vincolatività con l’eccezione dell’articolo 7. Ma è una cosa più simbolica che fattuale, perché secondo l’articolo 7 il medico ha un margine di autonomia professionale che gli permette di dichiarare che non rispetterà le Dat, spiegandone i motivi sulla cartella clinica.
Perché la maggioranza ha deciso di abbandonare quella formulazione tornando al testo Calabrò originario?
L’emendamento di maggioranza recitava “vincolante con l’eccezione dell’articolo 7”, quindi dava più che altro un peso simbolico maggiore alle Dat pur senza cambiare la sostanza, cioè che il medico non può prendere in considerazione indicazioni contrarie alla tutela della vita del paziente. Questo emendamento è stato ritenuto poco chiaro, ipotizzando che potesse creare ambiguità presso la magistratura, dando l’opportunità ai magistrati o alla Corte costituzionale di inserirsi in una norma che poteva sembrare contraddittoria.
A suo avviso è prevalso il dialogo oppure ha ragione l’opposizione di dire che da parte della maggioranza si è “blindato” il ddl?
No, perché in commissione il dialogo c’è stato, per esempio i primi tre articoli sono stati riformulati in un unico articolo, il primo, raccogliendo vari suggerimenti della minoranza. Abbiamo accolto un emendamento Finocchiaro sull’inserimento del consenso informato all’articolo 1, cioè in sede di dichiarazione di principio. Il consenso informato era già presente all’articolo 4 ma è stato spostato perché la legge potesse aprirsi con una “dichiarazione di intenti”.
Come spiega allora le forti polemiche che hanno accompagnato l’approvazione?
Penso piuttosto ad un fatto politico. Il dialogo infatti c’è stato non solo in commissione, ma anche nella prima parte delle votazioni in aula. Tant’è vero che una parte dell’opposizione ha votato con noi più volte, soprattutto durante il voto segreto. Ma il secondo giorno questioni di equilibri interni, posso immaginare, hanno portato ad una radicale contrapposizione. Ne hanno fatto le spese gli emendamenti Baio e Bianchi: noi eravamo disposti a votarli, ma poiché era venuta meno la disponibilità da parte dell’opposizione, abbiamo ritirato il nostro consenso e lasciato all’aula la decisione e l’aula li ha bocciati.
Ora il ddl va alla Camera. Ci sono non pochi dissidenti, da Pera a Pecorella e Della Vedova. Vede il rischio di divisioni nella maggioranza?
Vedremo. Intanto il ddl ha dato una chiara manifestazione di compattezza, il che non ha impedito che ci fossero più voci di dissenso da noi che nell’opposizione. Che ha tuonato contro la nostra compattezza, ma ci ha dato più volte quindici, venti voti nelle votazioni segrete. Da noi comunque c’è una vera libertà di coscienza.
Esiste un deficit di laicità nella maggioranza?
No, perché non c’è un “diritto prevalente”, come ci viene rimproverato da più parti, ma un indirizzo coerente fondato su visione antropologica condivisa; che nulla toglie alla libertà personale. Ma la libertà di coscienza non è la mancanza di una visione antropologica condivisa dal partito; è la discrezionalità individuale che su questa si fonda e rimane legittima.
Cosa le rimane, come persona, di tutta la vicenda Englaro, dal punto di vista personale e politico?
Una grande amarezza, perché nel momento in cui davvero pensavamo di riuscire a salvare Eluana, quella notte, non ci siamo riusciti. Questo è rimasto come un segno, un senso di impotenza che ci ha segnato tutti. Ma anche la volontà che non ci sia mai più un caso Eluana. Mi auguro che sia la volontà di tutti e ho fiducia che anche alla Camera prevalga il buon senso.
PDL/ Il futuro è nell’Europa - Mario Mauro - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
La nascita del Popolo della Libertà segna la svolta storica che tutto il Paese attendeva. Tre giornate di lavori per affermare la vocazione di questo partito: diventare motore di una grande stagione per l’Italia. Una stagione nuova che vede nel popolo e nelle sue speranze il futuro dell’Italia e nella libertà l’unica garanzia di una vera democraticità.
Non è una novità, allora, se in un tempo ricco di sfide (dalla crisi economica ai grandi temi etici) il Pdl sceglie di puntare sull’Unione europea, rivendicando con forza la fiducia nell’Europa e nel rapporto di mutuo scambio tra i Paesi membri.
Il pensiero di chi aderisce al Popolo delle Libertà è espresso nella Carta dei Valori che rappresenta la base fondativa di questa grande formazione politica. All’interno di molti passaggi di questo documento programmatico sono raccolte le idee in cui si riconoscono la maggioranza degli italiani. Sono i valori che stanno a cuore alla grande famiglia politica del Partito Popolare Europeo: la dignità della persona, la libertà, la responsabilità, l’eguaglianza, la giustizia, la legalità, la solidarietà e la sussidiarietà. Questi sono gli ideali comuni alle grandi democrazie occidentali, fondate sul pluralismo democratico, sullo Stato di diritto, sulla non discriminazione, sulla tolleranza, sulla proprietà privata, sull’economia sociale di mercato.
Così si spiega il richiamo alla grande tradizione popolare di don Luigi Sturzo e del suo erede Alcide De Gasperi lanciata dal leader indiscusso di questa nuova formazione politica, Silvio Berlusconi. Nel 90° anniversario del suo celebre appello agli “uomini liberi e forti” il sacerdote siciliano resta ancora un modello perché ebbe la straordinaria intuizione di dare vita al Partito popolare italiano, da cui il Pdl trae origine perché, pur essendo una formazione moderna, non rinnega la propria tradizione.
Significativa è stata quindi la presenza al Congresso del presidente del Ppe, Wilfried Martens, che ha rimarcato, durante il suo intervento, il legame con il Pdl. Martens ha affermato che il Pdl è «un partito che si riconosce nei valori della grande famiglia politica dei popolari europei» che si ancora alla migliore tradizione che riconosce la dignità della persona, la libertà, la giustizia, l'uguaglianza, la democrazia. Il Pdl per il presidente del Ppe «non è che la sintesi di partiti i cui deputati si riconoscono nella storia della democrazia cristiana una grande forza democratica italiana», in «un cammino comune fatto di valori e battaglie politiche combattute insieme». Il Pdl, rifuggendo per sua natura posizioni euroscettice e nazionalistiche,ha «la capacità straordinaria di unire forze che avrebbero potuto seguire percorsi diversi».
Dello stesso tono anche l’intervento di Joseph Daul, Presidente del gruppo PPE-DE al Parlamento europeo che si è detto impressionato dalle coraggiose riforme intraprese dal governo guidato dal presidente Silvio Berlusconi. «Nella crisi che viviamo oggi, e che dobbiamo superare - ha aggiunto - il nostro successo non passerà attraverso scelte settarie o attraverso l'egoismo, ma bensì attraverso la capacità d'ascolto dell'altro e la capacità di compromesso. Il partito del quale ho il piacere di condividere con voi la nascita, ne sono sicuro, sarà caratterizzato da questa capacità di comprensione reciproca». Questo permetterà a un paese come l’Italia, prima a credere nell’Europa perché è stata tra gli Stati fondatori, di conciliare armoniosamente ciò che deriva dal patrimonio dei nostri valori e ciò che verrà dal mondo di domani, cioè l'innovazione.
Si legge a conclusione della Carta dei Valori: «Il Pdl si richiama dunque alla più grande forza politica europea, il Partito dei Popoli europei (PPE), e con essa condivide un’idea spirituale dell’Europa l’idea dei padri fondatori, che è all’origine stessa dell’Europa. Abbiamo un lungo cammino davanti a noi. Un cammino di impegno civile, in cui diritti e doveri si ricongiungono come facce di una stessa medaglia». È per questa idea di Europa che noi dobbiamo impegnarci, è in questa Europa che noi vogliamo credere. Un Europa in cui l’Italia ora può contare davvero.
DOPO ELUANA/ Chi esercita il “potere” sul nostro corpo? - Elisa Buzzi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Pochi giorni dopo la morte di Eluana Englaro sono apparsi su La Repubblica due articoli che da prospettive differenti, ma complementari, si proponevano di offrire una lettura del caso proiettandolo su uno scenario intellettuale più ampio di quanto il polverone della bagarre mediatica lasciasse intravedere. I problemi filosofici sollevati in questi interventi, per non ridursi alla semplice enunciazione di tesi, richiederebbero uno spazio di argomentazione meno limitato di quello concesso alla forma di comunicazione giornalistica. Tuttavia, bisogna riconoscere che entrambi gli autori, M. Niola e R. Esposito, hanno il merito di indicare una questione, o forse la questione, centrale, quella che il primo definisce “la posta in gioco” nella battaglia biopolitica, e Esposito individua, già nel titolo, in una domanda: «Può una persona appartenere a un altro?», che, ovviamente, è una domanda retorica, come mostra il resto dell’articolo: una volta che il corpo, nella fase terminale, è ridotto a “nuda vita” - Niola parla di “minimo comun denominatore biologico” – a “pura cosa”, avendo perso il suo “proprietario naturale”, cioè “il soggetto che lo abita”, chi ne diventa il proprietario, “Dio, lo Stato, chi lo ha generato, chi lo ha in custodia”? Una questione di “possesso” e di “potere”, dunque: a chi appartiene ultimamente l’uomo, la vita dell’uomo, chi ha potere di decidere il suo destino, chi e quando debba vivere o morire?
La risposta del primo articolo mi pare non lasci adito a dubbi: se «l’idea sociale di corpo precede e plasma gli individui in carne e ossa», se la “cera bianca” della mia identità corporea e, in fondo personale, è definita da un processo di normalizzazione che passa attraverso forme di controllo sociale, la società e, perciò, lo Stato che ultimamente la esprime, detiene già questo possesso, quindi ha anche il potere. In questo senso l’affermazione iniziale «non basta nascere per avere un corpo», è la versione antropologico-culturale della tesi antropologico-filosofica che oggi va per la maggiore: non basta essere un essere umano, nato da due esseri umani, per essere una persona, perciò non tutti gli esseri umani sono persone. Questa tesi che serpeggia in tutto il secondo articolo è sostenuta oggi da molti filosofi - Derek Parfit e Peter Singer, sono solo due esempi illustri - e anche, duole dirlo, da molti bioeticisti - basti citare Hugo Tristram Engelhardt Jr., il sommo sacerdote della bioetica americana. Anche Sebastiano Maffettone già nel 1989, in un volume intitolato Valori Comuni, nel capitolo “Un’etica pubblica per la vita”, indicava il principio di una visione “laica e pluralistica” nella «separazione del concetto di persona da un altro, che di solito viene associato naturalmente ad esso, quello di essere umano. Si può partire dall’assunzione [sic!] che non tutte le persone siano esseri umani e che non tutti gli esseri umani siano persone. È abbastanza facile [ sic!] – anche se non tutti sono d’accordo [è pluralista!] - trovare esempi di esseri umani che non sono persone, quali i feti e gli uomini che sono in stato comatoso grave.» (S. Maffettone, Valori comuni, 1989, p.223).
Niente di nuovo sotto il sole dunque? Non direi, visto che oggi sperimentiamo gli “effetti” di queste idee. Il che dovrebbe per lo meno guarirci dall’illusione che i filosofi siano personaggi bizzarri, ma tutto sommato innocui, che diffondono inoffensive panzane.
«Non basta nascere per avere un corpo», non basta nascere da due esseri umani per essere una persona, più che un giudizio pare proprio una sentenza, la sentenza di una corte-cultura che, prima ancora del valore della vita, ha perso il “senso” della nascita che «ha inizio da un’unione e ad un’unione tende», come dice una poesia di Karol Woityla.
Più aperta, sembra la conclusione del secondo articolo che auspica una modificazione radicale del nostro linguaggio, ma in quale direzione? E non è forse già avvenuta una modificazione radicale del nostro linguaggio, proprio riguardo al significato delle parole più importanti, che definiscono l’uomo, la nostra esperienza di uomini - di quelle che anche Maffettone deve riconoscere come le associazioni più naturali -, una sorta di alienazione che ci consegna alla “solitudine delle opinioni”?
Bisogna notare che la formulazione di Esposito tradisce una certa incoerenza: di fatto la questione così come è enunciata, non si limita alla fase terminale della vita, anche se in questa fase il problema può diventare più evidente. Se il corpo è pura cosa, “oggetto” posseduto da un soggetto/coscienza che lo abita, allora lo è sempre, in qualsiasi fase della vita, e qui sorge immediatamente una domanda: in che senso il corpo può essere considerato un puro oggetto, in che senso è “posseduto”? L’autore osserva in proposito che è sempre esistita una non completa identificazione tra “persona e essere umano” e, una volta che si è identificata la persona con la “parte razionale e volontaria” dell’essere vivente, «tutto ciò che rimane, vale a dire il suo stesso corpo, non può che scivolare nel regime della cosa. A riprova di ciò, anche nel linguaggio comune si afferma normalmente di “avere” piuttosto che di “essere”, un corpo».
A parte ogni altra considerazione – e l’affermata non identificazione tra persona e essere umano richiederebbe in realtà molte considerazioni storiche e teoretiche, Robert Spaemann ha dedicato a questo argomento uno dei suoi studi più densi e significativi (Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” ) -, potrebbe sollevare qualche interrogativo l’allusione al linguaggio comune e la sua identificazione con una forma specifica di linguaggio, cioè la completa riduzione del significato dell’ “avere” a quello del “possedere”, nei termini del gergo giuridico-economico della “proprietà” di beni, intesi come cose. Ci si potrebbe chiedere se questo linguaggio sia adeguato a esprimere totalmente il modo in cui abbiamo esperienza dell’“avere” qualcosa come il corpo o la vita, ad esempio, ma anche, ad un altro livello, i figli, i genitori, gli amici, un marito, una moglie, una famiglia, una comunità, una cultura, una patria… . La risposta alla domanda iniziale - può una persona “appartenere” ad un altro? - dipende principalmente dal significato che riconosciamo al verbo “appartenere” e dal cammino di conoscenza che questo riconoscimento innesca. Diversamente è una pura, amara, constatazione, che può determinare le reazioni più varie, per lo più velleitarie e alienanti. Si potrebbe ricordare che una certa tradizione, quella cristiana, ha cercato di esprimere i paradossi impliciti in alcune di queste singolari forme di “proprietà” e “appartenenza” utilizzando il linguaggio del “dono” - dicendo che la vita è un dono, che i figli sono un dono, ad esempio, o, a un livello ancor più profondo, che l’appartenenza è un carisma - il che, al di là di tutte le possibili interpretazioni pietistiche, introduce nell’idea dell’avere-appartenere un elemento di irriducibile gratuità, indisponibilità, responsabilità e, soprattutto, l’idea di un rapporto con un altro, il “donatore”, che, come ben sa chiunque abbia ricevuto un regalo, è più importante dell’oggetto ricevuto, gli dà valore, significato, riconfigura totalmente il senso della proprietà e del possesso. In ogni caso, anche ammessa una simile accezione riduttiva dell’avere un corpo, come l’unica concepibile nella nostra società ossessionata dal possesso e che pare aver smarrito il senso originariamente qualitativo della proprietas come rettitudine o giustizia del rapporto, si deve comunque trattare di una “proprietà” alquanto particolare, visto che nessuna forma di giurisprudenza mi riconosce il diritto di alienarla, di disporne totalmente: non posso autoridurmi in schiavitù o vendere parti del mio corpo. La mercificazione del corpo umano, attiva o passiva, ad ogni livello è considerata moralmente sbagliata e giuridicamente illecita o, come minimo, problematica (pensiamo al tema della donazione degli organi e del suo sempre possibile sconfinamento in commercio degli organi).
Che il corpo umano possa essere ridotto a puro oggetto, a cosa, e come tale trattato e posseduto, è un fatto attestato da tutta la storia umana e, purtroppo, anche dalla cronaca quotidiana di interminabili violenze e di continue violazioni, più o meno volgari e grossolane. È quello che Ricoeur definiva il “paradosso della medicina”, ma che non si limita al campo biomedico, dilatandosi come un’ombra in ogni rapporto umano e ponendo infine la vera questione di fondo, politica nel senso più ampio del termine: la questione del potere. Un potere che sempre si costruisce «sulle incertezze, sulle necessità, sulle indigenze, sui bisogni e sui limiti», come affermava don Giussani in un saggio del 1983 e più che mai attuale, perché indica con grande lucidità la radice della nostra debolezza di fronte al potere (L. Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana e il trionfo del potere). Un potere che si costruisce, dunque, anzitutto sul “corpo” e sulle sue necessità, ma che è potere su tutto l’uomo, secondo una logica che il progresso scientifico-tecnologico ha reso più ambigua e totalizzante, dal momento che «Ciò che va sotto il nome di potere dell’Uomo sulla Natura risulta essere un potere esercitato da alcuni uomini sopra altri uomini con la natura a fungere da strumento» (C.S.Lewis, L’abolizione dell’uomo, 1979, 59.)
MARIJA JUDINA/ La pianista che commosse Stalin - Enrico Raggi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Il toccante libro di Giovanna Parravicini, Liberi, recentemente edito da Rizzoli – inconsueta galleria di ritratti di nove protagonisti della Russia novecentesca, storie di grandi uomini, di luminosi testimoni della Fede, di martiri catacombali – fa riemergere da lontane nebbie la leggendaria figura della pianista Marija Judina.
Notizie biografiche ridotte al minimo. Scarse le registrazioni sopravvissute. Alcuni conoscitori ne tramandano giudizi entusiasti. Una certezza: fu la più grande pianista russa di tutti i tempi.
Virtuosismo, scatto, elettricità, bellezza del suono, un’eccezionalità umana più grandi del suo mito. Prodigio di perfezione e di poesia.
Classe 1899, a dodici anni è già artista completa. Legge avidamente Platone, Agostino, Tommaso d’Aquino, si appassiona ai poeti simbolisti, studia arti figurative, architettura, teatro, filologia, storia. Al suo cospetto i colleghi Richter, Gilels, Sofronitskij tremano come ragazzini. «Le sue dita sono artigli d’aquila», esclama un ammirato Shostakovich. Anche Prokofiev ne è sbalordito.
«Suonare per me è un avvenimento interiore», testimonia la giovane Judina, donna inquieta, inappagata, sempre in ricerca. «Non m’interessano la fama o la tranquillità. Al centro della mia vita c’è la ricerca della verità. Devo inoltrarmi nella mia vocazione, alla ricerca di un’illuminazione che mi sorprenderà», riassume. Questa sua tormentosa indagine approderà finalmente alla Fede. A vent’anni si fa battezzare nella Chiesa ortodossa: «Conosco solo una strada che porta a Dio, l’arte». Autorevoli membri di partito rimpiangono questa sua sciagurata decisione: «Noi la porteremmo in trionfo, se solo Lei non credesse in Dio!». «Non rinnegherò la mia fede. Sarete voi, invece, a venire tutti dalla nostra. Voglio mostrare alla gente che si può vivere senza odiare, pur essendo liberi e indipendenti», replica. Non nasconde amicizie pericolose (Pasternak, padre Pavel Florenskij, la poetessa Marina Cvetaeva, il monaco Feodor Andreev), ma fortunosamente evita sempre la reclusione.
Neri capelli lisci, occhi che mandano bagliori, lunghi abiti scuri su scarpe scalcagnate. Ai suoi concerti il pubblico non vuole andarsene, nemmeno dopo l’ennesimo bis. Lei entra in scena e recita poesie di autori proibiti, scatenando uragani di applausi. Subito le sue tournée sono cancellate. La sua notorietà è ormai mondiale, numerosi inviti le giungono dall’estero, ma ogni volta è costretta a rifiutare. «Ostenta la sua religione», è l’accusa. «Una sua lezione su Bach è catechismo, sembra di leggere un pezzo di Vangelo», confermano i suoi allievi.
La licenziano dal Conservatorio di Leningrado. Si trasferisce allora a Mosca, dove fatica perfino a pagarsi l’affitto e riesce a malapena a noleggiare un pianoforte. Aiuta tutti, paga visite mediche agli amici indigenti, difende i perseguitati dal regime. Quando tiene concerti, affigge avvisi di questo tipo: «Suonerò nella tale città. Posso portare pacchi di un chilo massimo l’uno». Poi recapita i vari pacchi agli sconosciuti destinatari, fino all’ultimo. Non teme nulla, nella certezza indistruttibile di un rapporto con un Tu vivo, presente, che la sostiene: «Ho due stelle che mi guidano: la musica e Dio».
Nel 1943 Stalin ascolta alla radio il Concerto K 488 di Mozart eseguito dal vivo dalla Judina. Ne resta così colpito da chiederne immediatamente il disco. Ma il disco non esiste perché si tratta di una diretta, effettuata negli studi della radio di Mosca. Non è il caso di perdere tempo in spiegazioni: la Judina è convocata d’urgenza, l’orchestra è pronta, due direttori declinano l’invito, solo un terzo accetta, in una notte la registrazione è fatta, il disco confezionato in pochi esemplari e recapitato all’illustre ammiratore.
Stalin è generoso, fa avere alla Judina ventimila rubli, una cifra strepitosa per l’epoca. Con un gesto folle, li rifiuta: «La ringrazio. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della chiesa in cui vado».
Ancora una volta, non le viene torto un capello. Sale spontaneamente alla bocca la parola “miracolo”. Alla morte di Stalin, sul grammofono del dittatore, c’è quel disco della Judina.
«Due stelle mi guidano, come una volta», continuerà a ripetere Marija, «ma ora mi sono accorta che l’ordine è diverso: Dio e la musica». «L’esperienza della musica è uno squarcio che si apre su un altro mondo, su una realtà più grande, sulla realtà: la Grazia di Dio».
Sono le ultime parole della Judina. Le legge il suo parroco, padre Vsevold Spiller, durante l’omelia funebre, il 24 novembre 1970.
29/03/2009 15.30.38 - Radio Vaticana – Usa. I vescovi a Obama: dispotismo il no all'obiezione di coscienza
Abbiamo bisogno di regole legislative per garantire la libertà di coscienza e di religione”. È il nuovo appello dei vescovi degli Stati Uniti al presidente Barak Obama affinchè non abroghi la legislazione sull'obiezione di coscienza del personale sanitario. ''Il rispetto di tali principi, ha detto il cardinale Francis Eugene George, presidente della Conferenza episcopale Usa - è necessario al fine di evitare ogni forma di oppressione''. Dunque un nuovo confronto tra l’episcopato cattolico statunitense e la Casa Bianca. Dopo lo sblocco dei fondi pubblici per la ricerca sulle cellule staminali embrionali infatti e il ripristino dei finanziamenti alle Ong che praticano e promuovono l’aborto all’estero, l’amministrazione statunitense si prepara ora ad abrogare le norme sull’obiezione di coscienza del personale sanitario, che consentono a medici e infermieri di rifiutare di praticare interruzioni di gravidanza e altre procedure contrarie a principi etici. Da qui la ferma opposizione del mondo cattolico statunitense: "Bisogna evitare - ha detto il cardinale George - che si slitti dalla democrazia al dispotismo". Nel messaggio che il porporato aveva inviato il 16 marzo scorso, e rilanciato ieri dall’Osservatore Romano, sottolinea che ''il rispetto per la coscienza dell'individuo e per la libertà religiosa'' sono principi irrinunciabili e rappresentano un terreno comune condiviso da tutti in quanto cittadini americani. Rimarcando la necessità di regole legislative per garantire la libertà di coscienza e di religione e la protezione attraverso tali regole di diritti umani, mons. William Francis Murphy, vescovo di Rockville Centre e presidente del Comitato per la giustizia interna e lo sviluppo umano dell'episcopato ha poi dichiarato: "Se i diritti di una singola persona possono essere abrogati, anche i diritti di ognuno di noi potrebbero essere in pericolo''. Inequivocabili anche le dichiarazioni dell'arcivescovo di Washington, mons. Donald William Wuerl, secondo cui se venissero abrogate le regole che proteggono il diritto all’obiezione di coscienza anche ''medici e infermieri cattolici potrebbero essere convocati a partecipare a interventi a carattere abortivo”. (A cura di Cecilia Seppia)
1) In Belgio l'eutanasia addormenta anche i bambini - In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio dimostra che è ampiamente praticata… - Il Foglio 28 marzo 2009
2) TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: Veronesi sbaglia, non serve un governo dei giudici - INT. Eugenia Roccella - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
3) PDL/ Il futuro è nell’Europa - Mario Mauro - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
4) DOPO ELUANA/ Chi esercita il “potere” sul nostro corpo? - Elisa Buzzi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
5) MARIJA JUDINA/ La pianista che commosse Stalin - Enrico Raggi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
6) 29/03/2009 15.30.38 - Radio Vaticana – Usa. I vescovi a Obama: dispotismo il no all'obiezione di coscienza
In Belgio l'eutanasia addormenta anche i bambini - In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio dimostra che è ampiamente praticata… - Il Foglio 28 marzo 2009
In Belgio l’eutanasia sui minorenni è proibita per legge, eppure uno studio (pubblicato dall’American Journal of Critical Care) dimostra che è ampiamente praticata.
Secondo i dati raccolti dall’Università VUB di Bruxelles e quella di Gand e d’Anversa, in cinque delle sette unità di cura intensiva pediatriche del paese negli ultimi due anni i casi sono almeno 76. Tra questi, 25 volte si è deciso di ricorrere a farmaci letali (paralizzanti neuromuscolari o barbiturici) con “l’esplicita intenzione di causare la morte”, mentre nei restanti casi sono state interrotte terapie o respirazione artificiale, oppure sono stati somministrati sedativi.
Nel 62 per cento dei casi in cui la morte è avvenuta con la somministrazione di un farmaco letale, la decisione è stata presa dal medico senza interpellare gli infermieri, mentre nel 31 per cento dei casi è stato proprio l’infermiere ad agire senza la presenza di un dottore. Il 69 per cento del personale infermieristico interpellato si è dichiarato “pronto a interrompere le sofferenze di un bambino somministrando farmaci letali” e secondo il 90 per cento “proseguire con i trattamenti non è sempre nell’interesse del minore”.
Il Foglio 28 marzo 2009
TESTAMENTO BIOLOGICO/ Roccella: Veronesi sbaglia, non serve un governo dei giudici - INT. Eugenia Roccella - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Giovedì scorso il ddl sul testamento biologico è stato approvato dal Senato e ora passa alla Camera. Si sono scatenate però le polemiche. Tra i punti più controversi la cosiddetta non vincolatività delle Dat: il medico infatti prende in considerazione quanto dichiarato nelle Dat, ma può non seguirle, motivando il perché della sua decisione. «Agli italiani - ha detto la capogruppo del Pd Anna Finocchiaro - avete spiegato che questa era una legge per poter scrivere il proprio testamento biologico, ora gli dite che invece non contano più niente». E il senatore Umberto Veronesi ha invitato gli italiani a scrivere e depositare il loro testamento biologico prima che la legge entri in vigore. Perché «all’occorrenza un buon magistrato potrà farlo valere». È proprio la situazione che volevamo evitare, dice a ilsussidiario.net il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella: il “far west” del testamento biologico, cioè «passare, anziché dal Parlamento, dalle sentenze dei magistrati».
Sottosegretario Roccella, ipotizziamo che la legge sul fine vita vada in vigore nella versione del ddl varato dal Senato. Cosa ne sarebbe di un altro caso Englaro?
Il punto è proprio questo: con la legge che sarà in vigore non sarà più possibile alcun “caso Englaro”. Devo comunque riconoscere che il verificarsi di un caso Englaro sarebbe difficile con qualunque dei progetti di legge che erano in discussione al Senato, perché l’anomalia del caso di Eluana è che non c’erano volontà scritte e questo ha consentito la ricostruzione delle sua ipotetica volontà da parte dei giudici. Quando si dice che Eluana è morta a causa di una sentenza non solo si dice l’assoluta verità, cioè che una sentenza ha consentito il distacco del sondino, ma anche che attraverso una sentenza è stata ricostruita la sua volontà di morire.
Umberto Veronesi, intervistato da Repubblica, ha detto che il ddl è antidemocratico, antistorico e anticostituzionale e ha lanciato un appello agli italiani: «scrivete il vostro testamento biologico prima che questa legge che lo vanifica entri in vigore. All’occorrenza, un buon magistrato potrà farlo valere». Che ne pensa?
La sua è una legittima provocazione politica, che ha il merito di esplicitare quello che stava effettivamente avvenendo: il “far west” del testamento biologico. Lo abbiamo visto in altri paesi, come l’Olanda. La prassi della sospensione delle cure in Olanda è stata prima introdotta attraverso sentenze e prassi mediche e solo alla fine è passata per il parlamento. Questo è l’indirizzo che stavano seguendo in Italia i fautori - più che del testamento biologico - del diritto a morire: passare dalle sentenze dei magistrati e creare una situazione di fatto della quale il Parlamento avrebbe potuto solo prendere atto.
Una posizione della quale la proposta di Veronesi esprime la formulazione coerente.
Sì. Penso che quello che dice Veronesi illumini molto bene sull’indirizzo che alcuni volevano intraprendere. Ma credo che per i cittadini il fatto che si passi dal Parlamento sia una garanzia fondamentale, perché il Parlamento esprime la volontà degli elettori. Che, se vogliono, possono bocciare l’operato dei politici, ma non quello dei magistrati.
Uno dei punti salienti del ddl è il rapporto fiduciario tra paziente e medico, formulato nel principio che riconosce come “prioritaria l’alleanza terapeutica”. In molti però hanno obiettato che le Dat sono rimaste senza vincolatività. Ecco perché l'opposizione ha accusato la maggioranza di aver “svuotato la legge”. È così?
No, e questo è un punto fondamentale che va chiarito. Noi abbiamo sempre detto che questa legge aveva tre punti fondamentali: la certezza della dichiarazione - quindi autenticata, frutto del consenso informato - , poi il principio dell’idratazione e alimentazione assicurate a tutti, e infine il fatto che non fosse vincolante per il medico. Il ddl presentato dal senatore Calabrò in commissione conteneva esattamente questi punti. Di conseguenza non è caduta nessuna vincolatività, perché non c’è mai stata. La maggioranza quindi non ha fatto un emendamento aggiuntivo “togliendo la vincolatività”, ma ha semplicemente ripristinato il ddl Calabrò originario.
In commissione, però, c’è stato un emendamento che inseriva la vincolatività del medico alle Dat.
In commissione un emendamento non dell’opposizione, ma di un’area della maggioranza inseriva la vincolatività con l’eccezione dell’articolo 7. Ma è una cosa più simbolica che fattuale, perché secondo l’articolo 7 il medico ha un margine di autonomia professionale che gli permette di dichiarare che non rispetterà le Dat, spiegandone i motivi sulla cartella clinica.
Perché la maggioranza ha deciso di abbandonare quella formulazione tornando al testo Calabrò originario?
L’emendamento di maggioranza recitava “vincolante con l’eccezione dell’articolo 7”, quindi dava più che altro un peso simbolico maggiore alle Dat pur senza cambiare la sostanza, cioè che il medico non può prendere in considerazione indicazioni contrarie alla tutela della vita del paziente. Questo emendamento è stato ritenuto poco chiaro, ipotizzando che potesse creare ambiguità presso la magistratura, dando l’opportunità ai magistrati o alla Corte costituzionale di inserirsi in una norma che poteva sembrare contraddittoria.
A suo avviso è prevalso il dialogo oppure ha ragione l’opposizione di dire che da parte della maggioranza si è “blindato” il ddl?
No, perché in commissione il dialogo c’è stato, per esempio i primi tre articoli sono stati riformulati in un unico articolo, il primo, raccogliendo vari suggerimenti della minoranza. Abbiamo accolto un emendamento Finocchiaro sull’inserimento del consenso informato all’articolo 1, cioè in sede di dichiarazione di principio. Il consenso informato era già presente all’articolo 4 ma è stato spostato perché la legge potesse aprirsi con una “dichiarazione di intenti”.
Come spiega allora le forti polemiche che hanno accompagnato l’approvazione?
Penso piuttosto ad un fatto politico. Il dialogo infatti c’è stato non solo in commissione, ma anche nella prima parte delle votazioni in aula. Tant’è vero che una parte dell’opposizione ha votato con noi più volte, soprattutto durante il voto segreto. Ma il secondo giorno questioni di equilibri interni, posso immaginare, hanno portato ad una radicale contrapposizione. Ne hanno fatto le spese gli emendamenti Baio e Bianchi: noi eravamo disposti a votarli, ma poiché era venuta meno la disponibilità da parte dell’opposizione, abbiamo ritirato il nostro consenso e lasciato all’aula la decisione e l’aula li ha bocciati.
Ora il ddl va alla Camera. Ci sono non pochi dissidenti, da Pera a Pecorella e Della Vedova. Vede il rischio di divisioni nella maggioranza?
Vedremo. Intanto il ddl ha dato una chiara manifestazione di compattezza, il che non ha impedito che ci fossero più voci di dissenso da noi che nell’opposizione. Che ha tuonato contro la nostra compattezza, ma ci ha dato più volte quindici, venti voti nelle votazioni segrete. Da noi comunque c’è una vera libertà di coscienza.
Esiste un deficit di laicità nella maggioranza?
No, perché non c’è un “diritto prevalente”, come ci viene rimproverato da più parti, ma un indirizzo coerente fondato su visione antropologica condivisa; che nulla toglie alla libertà personale. Ma la libertà di coscienza non è la mancanza di una visione antropologica condivisa dal partito; è la discrezionalità individuale che su questa si fonda e rimane legittima.
Cosa le rimane, come persona, di tutta la vicenda Englaro, dal punto di vista personale e politico?
Una grande amarezza, perché nel momento in cui davvero pensavamo di riuscire a salvare Eluana, quella notte, non ci siamo riusciti. Questo è rimasto come un segno, un senso di impotenza che ci ha segnato tutti. Ma anche la volontà che non ci sia mai più un caso Eluana. Mi auguro che sia la volontà di tutti e ho fiducia che anche alla Camera prevalga il buon senso.
PDL/ Il futuro è nell’Europa - Mario Mauro - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
La nascita del Popolo della Libertà segna la svolta storica che tutto il Paese attendeva. Tre giornate di lavori per affermare la vocazione di questo partito: diventare motore di una grande stagione per l’Italia. Una stagione nuova che vede nel popolo e nelle sue speranze il futuro dell’Italia e nella libertà l’unica garanzia di una vera democraticità.
Non è una novità, allora, se in un tempo ricco di sfide (dalla crisi economica ai grandi temi etici) il Pdl sceglie di puntare sull’Unione europea, rivendicando con forza la fiducia nell’Europa e nel rapporto di mutuo scambio tra i Paesi membri.
Il pensiero di chi aderisce al Popolo delle Libertà è espresso nella Carta dei Valori che rappresenta la base fondativa di questa grande formazione politica. All’interno di molti passaggi di questo documento programmatico sono raccolte le idee in cui si riconoscono la maggioranza degli italiani. Sono i valori che stanno a cuore alla grande famiglia politica del Partito Popolare Europeo: la dignità della persona, la libertà, la responsabilità, l’eguaglianza, la giustizia, la legalità, la solidarietà e la sussidiarietà. Questi sono gli ideali comuni alle grandi democrazie occidentali, fondate sul pluralismo democratico, sullo Stato di diritto, sulla non discriminazione, sulla tolleranza, sulla proprietà privata, sull’economia sociale di mercato.
Così si spiega il richiamo alla grande tradizione popolare di don Luigi Sturzo e del suo erede Alcide De Gasperi lanciata dal leader indiscusso di questa nuova formazione politica, Silvio Berlusconi. Nel 90° anniversario del suo celebre appello agli “uomini liberi e forti” il sacerdote siciliano resta ancora un modello perché ebbe la straordinaria intuizione di dare vita al Partito popolare italiano, da cui il Pdl trae origine perché, pur essendo una formazione moderna, non rinnega la propria tradizione.
Significativa è stata quindi la presenza al Congresso del presidente del Ppe, Wilfried Martens, che ha rimarcato, durante il suo intervento, il legame con il Pdl. Martens ha affermato che il Pdl è «un partito che si riconosce nei valori della grande famiglia politica dei popolari europei» che si ancora alla migliore tradizione che riconosce la dignità della persona, la libertà, la giustizia, l'uguaglianza, la democrazia. Il Pdl per il presidente del Ppe «non è che la sintesi di partiti i cui deputati si riconoscono nella storia della democrazia cristiana una grande forza democratica italiana», in «un cammino comune fatto di valori e battaglie politiche combattute insieme». Il Pdl, rifuggendo per sua natura posizioni euroscettice e nazionalistiche,ha «la capacità straordinaria di unire forze che avrebbero potuto seguire percorsi diversi».
Dello stesso tono anche l’intervento di Joseph Daul, Presidente del gruppo PPE-DE al Parlamento europeo che si è detto impressionato dalle coraggiose riforme intraprese dal governo guidato dal presidente Silvio Berlusconi. «Nella crisi che viviamo oggi, e che dobbiamo superare - ha aggiunto - il nostro successo non passerà attraverso scelte settarie o attraverso l'egoismo, ma bensì attraverso la capacità d'ascolto dell'altro e la capacità di compromesso. Il partito del quale ho il piacere di condividere con voi la nascita, ne sono sicuro, sarà caratterizzato da questa capacità di comprensione reciproca». Questo permetterà a un paese come l’Italia, prima a credere nell’Europa perché è stata tra gli Stati fondatori, di conciliare armoniosamente ciò che deriva dal patrimonio dei nostri valori e ciò che verrà dal mondo di domani, cioè l'innovazione.
Si legge a conclusione della Carta dei Valori: «Il Pdl si richiama dunque alla più grande forza politica europea, il Partito dei Popoli europei (PPE), e con essa condivide un’idea spirituale dell’Europa l’idea dei padri fondatori, che è all’origine stessa dell’Europa. Abbiamo un lungo cammino davanti a noi. Un cammino di impegno civile, in cui diritti e doveri si ricongiungono come facce di una stessa medaglia». È per questa idea di Europa che noi dobbiamo impegnarci, è in questa Europa che noi vogliamo credere. Un Europa in cui l’Italia ora può contare davvero.
DOPO ELUANA/ Chi esercita il “potere” sul nostro corpo? - Elisa Buzzi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Pochi giorni dopo la morte di Eluana Englaro sono apparsi su La Repubblica due articoli che da prospettive differenti, ma complementari, si proponevano di offrire una lettura del caso proiettandolo su uno scenario intellettuale più ampio di quanto il polverone della bagarre mediatica lasciasse intravedere. I problemi filosofici sollevati in questi interventi, per non ridursi alla semplice enunciazione di tesi, richiederebbero uno spazio di argomentazione meno limitato di quello concesso alla forma di comunicazione giornalistica. Tuttavia, bisogna riconoscere che entrambi gli autori, M. Niola e R. Esposito, hanno il merito di indicare una questione, o forse la questione, centrale, quella che il primo definisce “la posta in gioco” nella battaglia biopolitica, e Esposito individua, già nel titolo, in una domanda: «Può una persona appartenere a un altro?», che, ovviamente, è una domanda retorica, come mostra il resto dell’articolo: una volta che il corpo, nella fase terminale, è ridotto a “nuda vita” - Niola parla di “minimo comun denominatore biologico” – a “pura cosa”, avendo perso il suo “proprietario naturale”, cioè “il soggetto che lo abita”, chi ne diventa il proprietario, “Dio, lo Stato, chi lo ha generato, chi lo ha in custodia”? Una questione di “possesso” e di “potere”, dunque: a chi appartiene ultimamente l’uomo, la vita dell’uomo, chi ha potere di decidere il suo destino, chi e quando debba vivere o morire?
La risposta del primo articolo mi pare non lasci adito a dubbi: se «l’idea sociale di corpo precede e plasma gli individui in carne e ossa», se la “cera bianca” della mia identità corporea e, in fondo personale, è definita da un processo di normalizzazione che passa attraverso forme di controllo sociale, la società e, perciò, lo Stato che ultimamente la esprime, detiene già questo possesso, quindi ha anche il potere. In questo senso l’affermazione iniziale «non basta nascere per avere un corpo», è la versione antropologico-culturale della tesi antropologico-filosofica che oggi va per la maggiore: non basta essere un essere umano, nato da due esseri umani, per essere una persona, perciò non tutti gli esseri umani sono persone. Questa tesi che serpeggia in tutto il secondo articolo è sostenuta oggi da molti filosofi - Derek Parfit e Peter Singer, sono solo due esempi illustri - e anche, duole dirlo, da molti bioeticisti - basti citare Hugo Tristram Engelhardt Jr., il sommo sacerdote della bioetica americana. Anche Sebastiano Maffettone già nel 1989, in un volume intitolato Valori Comuni, nel capitolo “Un’etica pubblica per la vita”, indicava il principio di una visione “laica e pluralistica” nella «separazione del concetto di persona da un altro, che di solito viene associato naturalmente ad esso, quello di essere umano. Si può partire dall’assunzione [sic!] che non tutte le persone siano esseri umani e che non tutti gli esseri umani siano persone. È abbastanza facile [ sic!] – anche se non tutti sono d’accordo [è pluralista!] - trovare esempi di esseri umani che non sono persone, quali i feti e gli uomini che sono in stato comatoso grave.» (S. Maffettone, Valori comuni, 1989, p.223).
Niente di nuovo sotto il sole dunque? Non direi, visto che oggi sperimentiamo gli “effetti” di queste idee. Il che dovrebbe per lo meno guarirci dall’illusione che i filosofi siano personaggi bizzarri, ma tutto sommato innocui, che diffondono inoffensive panzane.
«Non basta nascere per avere un corpo», non basta nascere da due esseri umani per essere una persona, più che un giudizio pare proprio una sentenza, la sentenza di una corte-cultura che, prima ancora del valore della vita, ha perso il “senso” della nascita che «ha inizio da un’unione e ad un’unione tende», come dice una poesia di Karol Woityla.
Più aperta, sembra la conclusione del secondo articolo che auspica una modificazione radicale del nostro linguaggio, ma in quale direzione? E non è forse già avvenuta una modificazione radicale del nostro linguaggio, proprio riguardo al significato delle parole più importanti, che definiscono l’uomo, la nostra esperienza di uomini - di quelle che anche Maffettone deve riconoscere come le associazioni più naturali -, una sorta di alienazione che ci consegna alla “solitudine delle opinioni”?
Bisogna notare che la formulazione di Esposito tradisce una certa incoerenza: di fatto la questione così come è enunciata, non si limita alla fase terminale della vita, anche se in questa fase il problema può diventare più evidente. Se il corpo è pura cosa, “oggetto” posseduto da un soggetto/coscienza che lo abita, allora lo è sempre, in qualsiasi fase della vita, e qui sorge immediatamente una domanda: in che senso il corpo può essere considerato un puro oggetto, in che senso è “posseduto”? L’autore osserva in proposito che è sempre esistita una non completa identificazione tra “persona e essere umano” e, una volta che si è identificata la persona con la “parte razionale e volontaria” dell’essere vivente, «tutto ciò che rimane, vale a dire il suo stesso corpo, non può che scivolare nel regime della cosa. A riprova di ciò, anche nel linguaggio comune si afferma normalmente di “avere” piuttosto che di “essere”, un corpo».
A parte ogni altra considerazione – e l’affermata non identificazione tra persona e essere umano richiederebbe in realtà molte considerazioni storiche e teoretiche, Robert Spaemann ha dedicato a questo argomento uno dei suoi studi più densi e significativi (Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” ) -, potrebbe sollevare qualche interrogativo l’allusione al linguaggio comune e la sua identificazione con una forma specifica di linguaggio, cioè la completa riduzione del significato dell’ “avere” a quello del “possedere”, nei termini del gergo giuridico-economico della “proprietà” di beni, intesi come cose. Ci si potrebbe chiedere se questo linguaggio sia adeguato a esprimere totalmente il modo in cui abbiamo esperienza dell’“avere” qualcosa come il corpo o la vita, ad esempio, ma anche, ad un altro livello, i figli, i genitori, gli amici, un marito, una moglie, una famiglia, una comunità, una cultura, una patria… . La risposta alla domanda iniziale - può una persona “appartenere” ad un altro? - dipende principalmente dal significato che riconosciamo al verbo “appartenere” e dal cammino di conoscenza che questo riconoscimento innesca. Diversamente è una pura, amara, constatazione, che può determinare le reazioni più varie, per lo più velleitarie e alienanti. Si potrebbe ricordare che una certa tradizione, quella cristiana, ha cercato di esprimere i paradossi impliciti in alcune di queste singolari forme di “proprietà” e “appartenenza” utilizzando il linguaggio del “dono” - dicendo che la vita è un dono, che i figli sono un dono, ad esempio, o, a un livello ancor più profondo, che l’appartenenza è un carisma - il che, al di là di tutte le possibili interpretazioni pietistiche, introduce nell’idea dell’avere-appartenere un elemento di irriducibile gratuità, indisponibilità, responsabilità e, soprattutto, l’idea di un rapporto con un altro, il “donatore”, che, come ben sa chiunque abbia ricevuto un regalo, è più importante dell’oggetto ricevuto, gli dà valore, significato, riconfigura totalmente il senso della proprietà e del possesso. In ogni caso, anche ammessa una simile accezione riduttiva dell’avere un corpo, come l’unica concepibile nella nostra società ossessionata dal possesso e che pare aver smarrito il senso originariamente qualitativo della proprietas come rettitudine o giustizia del rapporto, si deve comunque trattare di una “proprietà” alquanto particolare, visto che nessuna forma di giurisprudenza mi riconosce il diritto di alienarla, di disporne totalmente: non posso autoridurmi in schiavitù o vendere parti del mio corpo. La mercificazione del corpo umano, attiva o passiva, ad ogni livello è considerata moralmente sbagliata e giuridicamente illecita o, come minimo, problematica (pensiamo al tema della donazione degli organi e del suo sempre possibile sconfinamento in commercio degli organi).
Che il corpo umano possa essere ridotto a puro oggetto, a cosa, e come tale trattato e posseduto, è un fatto attestato da tutta la storia umana e, purtroppo, anche dalla cronaca quotidiana di interminabili violenze e di continue violazioni, più o meno volgari e grossolane. È quello che Ricoeur definiva il “paradosso della medicina”, ma che non si limita al campo biomedico, dilatandosi come un’ombra in ogni rapporto umano e ponendo infine la vera questione di fondo, politica nel senso più ampio del termine: la questione del potere. Un potere che sempre si costruisce «sulle incertezze, sulle necessità, sulle indigenze, sui bisogni e sui limiti», come affermava don Giussani in un saggio del 1983 e più che mai attuale, perché indica con grande lucidità la radice della nostra debolezza di fronte al potere (L. Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana e il trionfo del potere). Un potere che si costruisce, dunque, anzitutto sul “corpo” e sulle sue necessità, ma che è potere su tutto l’uomo, secondo una logica che il progresso scientifico-tecnologico ha reso più ambigua e totalizzante, dal momento che «Ciò che va sotto il nome di potere dell’Uomo sulla Natura risulta essere un potere esercitato da alcuni uomini sopra altri uomini con la natura a fungere da strumento» (C.S.Lewis, L’abolizione dell’uomo, 1979, 59.)
MARIJA JUDINA/ La pianista che commosse Stalin - Enrico Raggi - lunedì 30 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Il toccante libro di Giovanna Parravicini, Liberi, recentemente edito da Rizzoli – inconsueta galleria di ritratti di nove protagonisti della Russia novecentesca, storie di grandi uomini, di luminosi testimoni della Fede, di martiri catacombali – fa riemergere da lontane nebbie la leggendaria figura della pianista Marija Judina.
Notizie biografiche ridotte al minimo. Scarse le registrazioni sopravvissute. Alcuni conoscitori ne tramandano giudizi entusiasti. Una certezza: fu la più grande pianista russa di tutti i tempi.
Virtuosismo, scatto, elettricità, bellezza del suono, un’eccezionalità umana più grandi del suo mito. Prodigio di perfezione e di poesia.
Classe 1899, a dodici anni è già artista completa. Legge avidamente Platone, Agostino, Tommaso d’Aquino, si appassiona ai poeti simbolisti, studia arti figurative, architettura, teatro, filologia, storia. Al suo cospetto i colleghi Richter, Gilels, Sofronitskij tremano come ragazzini. «Le sue dita sono artigli d’aquila», esclama un ammirato Shostakovich. Anche Prokofiev ne è sbalordito.
«Suonare per me è un avvenimento interiore», testimonia la giovane Judina, donna inquieta, inappagata, sempre in ricerca. «Non m’interessano la fama o la tranquillità. Al centro della mia vita c’è la ricerca della verità. Devo inoltrarmi nella mia vocazione, alla ricerca di un’illuminazione che mi sorprenderà», riassume. Questa sua tormentosa indagine approderà finalmente alla Fede. A vent’anni si fa battezzare nella Chiesa ortodossa: «Conosco solo una strada che porta a Dio, l’arte». Autorevoli membri di partito rimpiangono questa sua sciagurata decisione: «Noi la porteremmo in trionfo, se solo Lei non credesse in Dio!». «Non rinnegherò la mia fede. Sarete voi, invece, a venire tutti dalla nostra. Voglio mostrare alla gente che si può vivere senza odiare, pur essendo liberi e indipendenti», replica. Non nasconde amicizie pericolose (Pasternak, padre Pavel Florenskij, la poetessa Marina Cvetaeva, il monaco Feodor Andreev), ma fortunosamente evita sempre la reclusione.
Neri capelli lisci, occhi che mandano bagliori, lunghi abiti scuri su scarpe scalcagnate. Ai suoi concerti il pubblico non vuole andarsene, nemmeno dopo l’ennesimo bis. Lei entra in scena e recita poesie di autori proibiti, scatenando uragani di applausi. Subito le sue tournée sono cancellate. La sua notorietà è ormai mondiale, numerosi inviti le giungono dall’estero, ma ogni volta è costretta a rifiutare. «Ostenta la sua religione», è l’accusa. «Una sua lezione su Bach è catechismo, sembra di leggere un pezzo di Vangelo», confermano i suoi allievi.
La licenziano dal Conservatorio di Leningrado. Si trasferisce allora a Mosca, dove fatica perfino a pagarsi l’affitto e riesce a malapena a noleggiare un pianoforte. Aiuta tutti, paga visite mediche agli amici indigenti, difende i perseguitati dal regime. Quando tiene concerti, affigge avvisi di questo tipo: «Suonerò nella tale città. Posso portare pacchi di un chilo massimo l’uno». Poi recapita i vari pacchi agli sconosciuti destinatari, fino all’ultimo. Non teme nulla, nella certezza indistruttibile di un rapporto con un Tu vivo, presente, che la sostiene: «Ho due stelle che mi guidano: la musica e Dio».
Nel 1943 Stalin ascolta alla radio il Concerto K 488 di Mozart eseguito dal vivo dalla Judina. Ne resta così colpito da chiederne immediatamente il disco. Ma il disco non esiste perché si tratta di una diretta, effettuata negli studi della radio di Mosca. Non è il caso di perdere tempo in spiegazioni: la Judina è convocata d’urgenza, l’orchestra è pronta, due direttori declinano l’invito, solo un terzo accetta, in una notte la registrazione è fatta, il disco confezionato in pochi esemplari e recapitato all’illustre ammiratore.
Stalin è generoso, fa avere alla Judina ventimila rubli, una cifra strepitosa per l’epoca. Con un gesto folle, li rifiuta: «La ringrazio. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della chiesa in cui vado».
Ancora una volta, non le viene torto un capello. Sale spontaneamente alla bocca la parola “miracolo”. Alla morte di Stalin, sul grammofono del dittatore, c’è quel disco della Judina.
«Due stelle mi guidano, come una volta», continuerà a ripetere Marija, «ma ora mi sono accorta che l’ordine è diverso: Dio e la musica». «L’esperienza della musica è uno squarcio che si apre su un altro mondo, su una realtà più grande, sulla realtà: la Grazia di Dio».
Sono le ultime parole della Judina. Le legge il suo parroco, padre Vsevold Spiller, durante l’omelia funebre, il 24 novembre 1970.
29/03/2009 15.30.38 - Radio Vaticana – Usa. I vescovi a Obama: dispotismo il no all'obiezione di coscienza
Abbiamo bisogno di regole legislative per garantire la libertà di coscienza e di religione”. È il nuovo appello dei vescovi degli Stati Uniti al presidente Barak Obama affinchè non abroghi la legislazione sull'obiezione di coscienza del personale sanitario. ''Il rispetto di tali principi, ha detto il cardinale Francis Eugene George, presidente della Conferenza episcopale Usa - è necessario al fine di evitare ogni forma di oppressione''. Dunque un nuovo confronto tra l’episcopato cattolico statunitense e la Casa Bianca. Dopo lo sblocco dei fondi pubblici per la ricerca sulle cellule staminali embrionali infatti e il ripristino dei finanziamenti alle Ong che praticano e promuovono l’aborto all’estero, l’amministrazione statunitense si prepara ora ad abrogare le norme sull’obiezione di coscienza del personale sanitario, che consentono a medici e infermieri di rifiutare di praticare interruzioni di gravidanza e altre procedure contrarie a principi etici. Da qui la ferma opposizione del mondo cattolico statunitense: "Bisogna evitare - ha detto il cardinale George - che si slitti dalla democrazia al dispotismo". Nel messaggio che il porporato aveva inviato il 16 marzo scorso, e rilanciato ieri dall’Osservatore Romano, sottolinea che ''il rispetto per la coscienza dell'individuo e per la libertà religiosa'' sono principi irrinunciabili e rappresentano un terreno comune condiviso da tutti in quanto cittadini americani. Rimarcando la necessità di regole legislative per garantire la libertà di coscienza e di religione e la protezione attraverso tali regole di diritti umani, mons. William Francis Murphy, vescovo di Rockville Centre e presidente del Comitato per la giustizia interna e lo sviluppo umano dell'episcopato ha poi dichiarato: "Se i diritti di una singola persona possono essere abrogati, anche i diritti di ognuno di noi potrebbero essere in pericolo''. Inequivocabili anche le dichiarazioni dell'arcivescovo di Washington, mons. Donald William Wuerl, secondo cui se venissero abrogate le regole che proteggono il diritto all’obiezione di coscienza anche ''medici e infermieri cattolici potrebbero essere convocati a partecipare a interventi a carattere abortivo”. (A cura di Cecilia Seppia)