Nella rassegna stampa di oggi:
1) Campagna pro-vita via posta elettronica negli USA
2) Il Papa: le radici cristiane, soluzione alla “povertà spirituale”
3) Avvenire 7 Marzo 2009 - Storia - Secoli d’oro, altro che bui - di Antonio Giuliano
4) Date a Darwin quel che è di Darwin. Ma la creazione è di Dio - Un grande convegno patrocinato dal Vaticano ha messo assieme scienziati, filosofi e teologi di diverse tendenze. Tutti hanno detto sì all'evoluzione. Ma anche la struttura intelligente del creato ha i suoi difensori. A cominciare dal libro della Genesi - di Sandro Magister
5) 10/03/2009 10:17 - CINA – TIBET - Pechino vuole distruggere il Dalai Lama, ma senza di lui non ci sarà pace in Tibet - di Bernardo Cervellera
6) 10/03/2009 08:50 - CINA – TIBET - Dalai Lama: La Cina ha trasformato il Tibet in un inferno
7) La centralità del Crocifisso nella celebrazione liturgica - «Guarderanno a Colui che hanno trafitto» - di Mauro Gagliardi - Consultore dell'Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice – L’Osservatore Romano, 9-10 marzo 2009
8) La pace che è abbandono a Dio nel canto di Piccarda Donati - Il segreto luminoso del cielo lunare - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 9-10 marzo 2009
9) CRISI/ Ecco cosa farà l’Europa per uscirne - Mario Mauro - martedì 10 marzo 2009 – ilsussidiario.net
10) STORIA/ Ma quale Averroé? I monaci di Mont Saint-Michel diffusero la filosofia occidentale - Redazione - martedì 10 marzo 2009 – ilsussidiario.net
11) RICERCA SULLE STAMINALI E MOTIVI DELLA SINISTRA - Le embrionali per i ricchi Le «rigenerate» per tutti - MICHELE ARAMINI – Avvenire, 10 marzo 2009
12) «Inattendibili i test con le embrionali su lesioni spinali acute, perché talora regrediscono da sole»
Campagna pro-vita via posta elettronica negli USA
Per ampliare gli sforzi fatti dalla Chiesa con cartoline
di Nieves San Martín
WASHINGTON, lunedì, 9 marzo 2009 (ZENIT.org).- La Conferenza Episcopale degli Stati Uniti (USCCB) ha lanciato una campagna per posta elettronica esortando il Congresso a mantenere le politiche a favore della vita e a opporsi a finanziare con fondi federali e promuovere l'aborto.
L'iniziativa amplia la massiccia campagna di cartoline lanciata nelle Diocesi di tutto il Paese a gennaio.
I due sforzi vengono coordinati in partnership con l'organizzazione Comitato Nazionale per un Emendamento sulla Vita Umana (NCHLA).
Dal 1993, il NCHLA ha coordinato campagne di cartoline che danno ai cittadini strumenti per esprimere al Congresso i loro punti di vista a favore della vita, in modo chiaro e rispettoso.
La campagna attuale non ha precedenti negli obiettivi, superando quelle patrocinate finora dai Vescovi.
Deirdre A. McQuade, responsabile per la Politica e le Comunicazioni delle Attività Pro-Vita dell'USCCB, ha spiegato – come rende noto la pagina web dei Vescovi statunitensi – questa campagna che si aggiunge a quella delle cartoline. “Decine di milioni di cartoline sono stati distribuiti in parrocchie, scuole, chiese non cattoliche e organizzazioni cittadine di tutto il Paese – ha detto –. La campagna per e-mail darà ancor di più ai cittadini la possibilità di partecipare”.
Il messaggio di posta elettronica esorta i senatori e i rappresentanti: “Per favore, opponetevi al FOCA [The Freedom of Choice Act, la Legge di Libera Scelta sul tema dell'aborto, ndr] o a qualunque misura simile”; “Mantenete le attuali leggi contro il finanziamento e la promozione dell'aborto”.
“E' importante soprattutto che il Congresso mantenga queste leggi nelle varie proposte normative”, aggiunge il testo.
Si tratta, ha affermato la McQuade di “mettere in guardia contro l'erosione delle attuali misure pro-vita e di mantenere l'aborto fuori dalla futura protezione federale. La nostra voce è più necessaria che mai”.
Per ulteriori informazioni: www.usccb.org/postcard
Il Papa: le radici cristiane, soluzione alla “povertà spirituale”
Nel discorso agli amministratori capitolini riuniti in seduta straordinaria
ROMA, lunedì, 9 marzo 2009 (ZENIT.org).- Riappropriarsi delle radici cristiane per far fronte all'attuale crisi economica e contrastare la “povertà spirituale” che fa da scenario ai tanti problemi della vita urbana. E' stato questo l'invito espresso lunedì da Benedetto XVI nel partecipare in Campidoglio, a una seduta straordinaria del Consiglio comunale.
A undici anni dall'ultima visita compiuta da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI è salito quest'oggi sul colle capitolino, che sin dall'antichità ha rappresentato il centro religioso e politico di Roma, per “condividere le attese e le speranze degli abitanti” e ascoltarne “le preoccupazioni e i problemi”.
Richiamando i valori perenni del Vangelo, il Papa ha sottolineato che “nell’era post-moderna Roma deve riappropriarsi della sua anima più profonda, delle sue radici civili e cristiane, se vuole farsi promotrice di un nuovo umanesimo che ponga al centro la questione dell’uomo riconosciuto nella sua piena realtà”.
Infatti, ha spiegato, “l’uomo, svincolato da Dio, resterebbe privo della propria vocazione trascendente”.
“Il cristianesimo – ha aggiunto – è portatore di un luminoso messaggio sulla verità dell'uomo, e la Chiesa, che di tale messaggio è depositaria, è consapevole della propria responsabilità nei confronti della cultura contemporanea”.
Giunto questo lunedì mattina poco prima delle 11 ai piedi della scala intitolata a Sisto IV, il Papa è stato accolto dal Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e dalla moglie Isabella Rauti. Successivamente è salito al primo piano del Palazzo Senatorio, dove si trova lo studio del primo cittadino. Da qui si è affacciato al balcone con vista sul Foro Romano.
Il Pontefice ha poi salutato alcuni familiari del Sindaco, prima di incontrarsi nella Sala dell'Arazzo con esponenti del governo italiano,assessori capitolini e funzionari di palazzo.
Nella Sala delle Bandiere, il Pontefice ha quindi firmato il “Libro d’Oro” del Comune, scrivendo: “Omnibus qui sunt Romae pax a Deo” (“A quanti sono in Roma [...] pace da Dio”, cfr. Rom 1, 7).
Il Papa è stato poi accolto da un lungo applauso nel fare ingresso nell’Aula Giulio Cesare, dove subito dopo il Presidente del Consiglio comunale, Marco Pomarici, ha dichiarato aperta la seduta straordinaria dedicata al valore universale di Roma, “capitale del cattolicesimo e dei suoi valori”.
Nel suo discorso Pomarici ha parlato della realtà che i giovani si trovano ad affrontare nel confrontarsi con “una realtà spesso ostile che ha affievolito la loro fiducia e la loro speranza, rifugiandosi nel venale e nell'effimero, sempre più lontani dai valori”.
Per questo, ha detto, è nostro dovere “non lasciarli in balia di se stessi” o “esposti alla scuola di cattivi maestri”, accennando poi a una serie di iniziative per le scuole di Roma lanciate dal Consiglio comunale per combattere i fenomeni di bullismo.
Nel prendere la parola, il Sindaco Alemanno ha quindi tracciato il quadro di una città colpita dagli effetti della crisi economica globale e che si trova a fronteggiare “le sfide faticose dell'integrazione, il bisogno di sicurezza e di legalità, la ricerca di un'identità profonda e al tempo stesso proiettata verso il futuro”.
Al centro delle sue preoccupazioni anche “le condizioni difficili delle nostre periferie, degli anziani soli e degli ammalati, dei disabili, delle famiglie in difficoltà, dei giovani che guardano con preoccupazione al loro avvenire, degli immigrati che cercano di integrarsi, di chi vive ai margini delle nostre comunità, di chi non ha voce”.
Per rispondere in modo concreto a questi problemi Alemanno ha sottolineato quindi la necessità di “riconoscere le nostre vere radici culturali e spirituali, la nostra memoria storica di romani, figli di una città universale”.
“Roma è e vuole essere la città della vita, la città dell'accoglienza e della speranza”, ha detto il Sindaco annunciando di voler promuovere una maggiore sicurezza e legalità, incentrare sulla lotta e la prevenzione di ogni forma di violenza “che ferisce i nostri quartieri, che colpisce ed umilia la dignità delle donne, che viola l'innocenza dei bambini, che emargina i disabili e le persone più deboli”.
Alemanno ha poi annunciato la decisione del Comune di Roma di realizzare un polo di accoglienza e di formazione dedicato agli adolescenti, in particolare a quelli disagiati e in difficoltà, e ai ragazzi rom, denominato “Centro Benedetto XVI”.
Il polo specializzato sorgerà sul terreno donato dal Comune al Papa in occasione della visita in Campidoglio: tredici ettari sulla Cassia, presso il Parco di Veio.
“In esso saranno realizzate strutture ed attività miranti particolarmente alla prevenzione e formazione dei ragazzi – ha detto Alemanno –: attorno a una casa famiglia per minori in difficoltà, si articoleranno corsi di formazione professionale, attività sportive, educative con attenzione al territorio”.
Il Sindaco capitolino ha inoltre dichiarato di voler creare un “Osservatorio per la libertà religiosa” dal quale si leverà “un costante messaggio a difesa della libertà dei credenti nel mondo, perché cessi l'indifferenza e il silenzio sui tanti crimini che ancora purtroppo si compiono per motivi ideologici e di odio fondamentalista”.
Nel suo discorso, Benedetto XVI ha toccato le nuove emergenze sociali, affermando che solo “attingendo nuova linfa alle radici della sua storia plasmata dal diritto antico e dalla fede cristiana, Roma saprà trovare la forza per esigere da tutti il rispetto delle regole della convivenza civile e respingere ogni forma di intolleranza e discriminazione".
Una legalità messa in discussione da quegli “episodi di violenza” che, ha osservato il Papa, deplorati da tutti sono tuttavia il segno di “un disagio più profondo”.
“Sono il segno – direi – di una vera povertà spirituale che affligge il cuore dell’uomo contemporaneo – ha detto il Pontefice –. La eliminazione di Dio e della sua legge, come condizione della realizzazione della felicità dell’uomo, non ha affatto raggiunto il suo obiettivo; al contrario, priva l’uomo delle certezze spirituali e della speranza necessarie per affrontare le difficoltà e le sfide quotidiane”.
Al termine è avvenuto lo scambio dei doni. Il Pontefice ha donato al sindaco e agli amministratori una copia rilegata e numerata, con autografo di Benedetto XVI, del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, e al Comune una Forma urbis Romae, una pianta monumentale della città pubblicata dalla Biblioteca Apostolica Vaticana per il Grande Giubileo del 2000.
Il Sindaco ha invece donato al Pontefice una medaglia d'oro commemorativa della visita - coniata in un unico esemplare per l’occasione - e una pergamena contenente l'intitolazione a Benedetto XVI del centro di via dell'Inviolatella Borghese.
Successivamente è stata scoperta la targa-ricordo apposta sulla parete dell’Aula Giulio Cesare. “A Sua Santità Benedetto XVI - si legge sulla targa - i cittadini romani nel giorno dedicato a santa Francesca Romana con l'impegno di fare di Roma la capitale della vita e della solidarietà”.
Quindi Benedetto XVI si è affacciato alla loggia del Palazzo Senatorio per salutare i tantissimi romani convenuti sulla piazza del Campidoglio, ornata da splendide composizioni floreali, e dove era stato allestito un grande schermo per consentire a tutti di seguire la visita.
"Anch’io - ha concluso suscitando un lungo applauso - vivendo a Roma da tantissimi anni, ormai sono diventato un po’ romano; ma più romano mi sento come vostro Vescovo”.
“Roma è bella per le vestigia della sua antichità, per le istituzioni culturali e i monumenti che ne narrano la storia, per le chiese e i suoi molteplici capolavori d’arte”, ha detto.
“Ma Roma è bella soprattutto per la generosità e la santità di tanti suoi figli, che hanno lasciato tracce eloquenti della loro passione per la bellezza di Dio, la bellezza dell’amore che non sfiorisce né invecchia”, ha continuato.
“Cari amici, rientrando nelle vostre case, comunità e parrocchie, dite a quanti incontrerete che il Papa assicura a tutti la sua comprensione, la sua vicinanza spirituale e la sua preghiera”, ha concluso.
Infine il Papa, dopo un brevissimo incontro con i francescani dell'Aracoeli, si è recato in automobile al vicino monastero delle Oblate di santa Francesca Romana in Tor de' Specchi.
Avvenire 7 Marzo 2009 - Storia - Secoli d’oro, altro che bui - di Antonio Giuliano
Quando si parla di Medioevo, il pregiudizio è ancora duro a morire. I secoli dell’età di mezzo, soprattutto quelli del primo millennio, sono stati etichettati come bui e chiusi al progresso, figurarsi se possono essere considerati come i primi trampolini di lancio dell’economia europea moderna. Ma Michael McCormick, storico dell’Università di Harvard, è pronto a sfidare i più ostinati luoghi comuni, dopo aver raccolto una mole impressionante di indizi nel suo libro Le origini dell’economia europea. Comunicazioni e commercio 300-900 d.C., edito in Italia da Vita e Pensiero. Lo studioso ha maturato la convinzione che l’economia mercantile europea non sia cominciata dopo il fatidico anno Mille, ma già nell’Alto Medioevo, in particolare negli ultimi decenni dell’VIII secolo. Documenta come durante il regno di Carlo Magno il bacino del Mediterraneo fosse in continuo fermento.
Lo testimoniano 669 storie di viaggiatori che forniscono una quantità di dati importanti sulle rotte e sulle generalità di coloro che partivano. Sappiamo così che erano in maggioranza ambasciatori e pellegrini, ma che sfruttavano imbarcazioni mercantili. Le raccolte di reliquie svelano poi le comunicazioni tra le chiese della Gallia centrale e i santuari dell’Asia Minore, dell’Africa, dell’Egitto e i legami con la Terra Santa e il Sinai. Così le monete, sia quelle citate nei documenti altomedioevali sia quelle arabe e bizantine scoperte nel suolo dell’Europa occidentale evidenziano un afflusso di 'dinari' arabi in Italia dal 775 circa: arrivavano soprattutto attraverso l’Adriatico e Venezia e salivano oltre le Alpi lungo il Reno e verso i territori slavi lungo il Danubio. Le date sulle monete permettono anche di ricomporre la cronologia delle arterie, dimostrando come l’Europa carolingia comunicasse con il Medio Oriente attraverso la vecchia rotta tra Roma e l’Egeo ma anche attraverso nuove vie battute dai viaggiatori di fine VIII e inizio IX secolo.
Persiste ancora il convincimento che al tempo di Carlo Magno l’economia agraria fosse stagnante e chiusa, poiché i grandi monasteri e il tesoro reale con i loro estesi possedimenti producevano soltanto per le proprie necessità. In realtà, grazie a metodi innovativi nella lavorazione della terra e all’impiego dei mulini ad acqua, i raccolti erano così abbondanti che le eccedenze venivano poi vendute nei mercati periodici regionali e non solo. Ad esempio l’abbazia di Saint Denis lavorò per l’espansione della sua fiera internazionale: miele e tintura rossa, oltre al vino, attiravano mercanti a cavallo da tutt’Europa e dall’Asia.
Si stimolavano così la manutenzione delle strade e lo sviluppo di porti fluviali. I grandi corsi d’acqua, come il Reno, offrirono benefici enormi allo sviluppo dei commerci verso il Mare del Nord. L’economia franca aveva relazioni con la Scandinavia e l’Inghilterra, i territori slavi e quelli dell’impero bulgaro, Bisanzio e la Spagna musulmana. C’è da dire infatti che l’espansione araba non arrestò il flusso crescente delle comunicazioni e del commercio, ma offrì ricchezza e mercati che favorirono il decollo occidentale. Anche perché nell’VIII secolo la situazione interna europea fece aumentare la domanda di beni esotici. Le economie europee si intrecciarono con quelle del mondo musulmano e di Bisanzio. L’Europa importava spezie incenso, seta e persino le prime droghe usate come ingredienti dalla farmacologia araba.
E le navi occidentali partivano con tessuti, stagno, pelli o le ambite spade franche. Dal 770 all’830 queste reti di comunicazione furono favorite dall’eccezionale stabilità politica dell’impero carolingio, fino a quando esso fu scosso da guerre civili e attacchi vichinghi e magiari. Occorre peraltro riconoscere che fu un periodo non privo di contraddizioni, come l’impulso venuto dal commercio di schiavi occidentali. La vendita di europei alle più avanzate economie dell’Africa e dell’Asia, giocò un ruolo decisivo per l’economia dell’Europa: la forza dei loro corpi faceva gola al potente Califfato. Così come bisogna ammettere che la varietà dei beni in circolazione era ancora modesta in rapporto a secoli più prosperosi. Ma l’VIII e il IX secolo gettarono le basi per il progresso degli inizi del primo millennio. Quando Carlo Magno conquistò l’Italia riuscì a saldare il fiorente mondo politico, culturale ed economico dell’Europa transalpina a quello risorgente della pianura padana. Il sovrano in persona entrò in contatto non solo con Alemanni, Sassoni, Danesi, Anglosassoni, Longobardi e Visigoti, ma anche con Arabi, Ebrei, Bizantini e Slavi. «E forse – scrive McCormick – mai nella sua storia l’Europa sarebbe stata di nuovo così aperta culturalmente, in così tante direzioni, in così tanti modi».
Michael McCormick
Le origini dell'economia europea
Vita e Pensiero, Pagine 1168. Ero 50
Date a Darwin quel che è di Darwin. Ma la creazione è di Dio - Un grande convegno patrocinato dal Vaticano ha messo assieme scienziati, filosofi e teologi di diverse tendenze. Tutti hanno detto sì all'evoluzione. Ma anche la struttura intelligente del creato ha i suoi difensori. A cominciare dal libro della Genesi - di Sandro Magister
ROMA, 9 marzo 2009 – A duecento anni dalla nascita di Charles Darwin e a centocinquanta dalla sua opera più famosa, il pontificio consiglio della cultura presieduto dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi ha patrocinato un sontuoso convegno internazionale dal titolo: "L'evoluzione biologica: i fatti e le teorie. Una valutazione critica 150 anni dopo 'L'origine delle specie'".
Il convegno si è tenuto dal 3 al 7 marzo a Roma, alla Pontificia Università Gregoriana. Ed è stato promosso da questa università assieme all'americana University of Notre Dame.
Vi hanno preso la parola i maggiori specialisti mondiali nelle diverse discipline, dalla biologia alla paleontologia, dall'antropologia alla filosofia alla teologia. Molto varie anche le posizioni messe a confronto. C'erano studiosi cattolici, protestanti, ebrei, agnostici, atei.
Da Darwin in poi, poche teorie scientifiche sono state così aspramente discusse come l'evoluzione e hanno determinato un tale cambiamento di paradigma nella comune interpretazione dell’intera realtà, uomo compreso.
Sia nel campo scientifico, sia nella visione della Chiesa cattolica, creazione ed evoluzione di per sé non si escludono. Nell'uno e nell'altro campo vi sono però tendenze ad erigere delle costruzioni teoriche che sono sì tra loro escludenti.
Nel presentare ufficialmente il convegno, in Vaticano, il gesuita Marc Leclerc, professore di filosofia della natura alla Gregoriana, ha così sintetizzato le due opposte derive ideologiche:
"La novità del paradigma ha spinto parecchi seguaci di Darwin ad oltrepassare i confini della scienza per erigere qualche elemento della sua teoria, o della sintesi moderna realizzata nel corso del XX secolo, a 'Philosophia universalis', secondo la giusta espressione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, a chiave d’interpretazione universale di una realtà in perpetuo divenire.
"Ma lungo questa scia si sono diretti troppo spesso anche gli avversari del darwinismo, confondendo la teoria scientifica dell’evoluzione con l’ideologia onnicomprensiva che la snaturava, per rigettarlo del tutto in quanto totalmente incompatibile con una visione religiosa della realtà. Tale situazione potrebbe spiegare il ritorno odierno di concezioni 'creazioniste' o di ciò che si presenta a volte come una teoria alternativa, il così detto 'intelligent design'. A questo livello siamo lontani dalle discussioni scientifiche".
In effetti nessun relatore, al convegno, ha difeso l'una o l'altra di queste costruzioni ideologiche. Tutte sono state discusse e valutate criticamente. L'intento comune era di esercitare le singole discipline – scientifiche, filosofiche, teologiche – con le specificità e le ricchezze di ciascuna, a beneficio di tutte.
Dopo cinque giorni intensissimi, con trentacinque relazioni tenute da altrettanti specialisti, si può dire che l'obiettivo sia stato raggiunto. La pace tra creazione ed evoluzione appare oggi più solida.
Una prova luminosa di come le due visioni del mondo possano convivere e integrarsi è nel saggio che segue, pubblicato alla vigilia del convegno da "La Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il preventivo controllo della segreteria di stato vaticana.
L'autore insegna nella Pontificia Università Gregoriana, la stessa che ha ospitato il convegno su Darwin. Nel suo saggio egli mostra come il racconto biblico della creazione non solo non è incompatibile con la razionalità moderna, ma ha segnato "una emancipazione del sapere scientifico", consegnando il creato alla responsabilità dell'uomo.
Del saggio, uscito sul numero 3807 della "Civiltà Cattolica" con la data del 7 febbraio 2009, è qui riprodotto un estratto:
"L'origine delle specie". Genesi 1 e la vocazione scientifica dell'uomo
di Jean-Pierre Sonnet
Quando si parla delle origini, per i cristiani del nostro tempo la sfida è vivere una doppia cittadinanza: una fedeltà intelligente all’insegnamento di Genesi 1 e un’apertura attenta alle proposte della ricerca scientifica. [...] Oggi tuttavia essi devono affinare tale duplice lealtà, in un tempo in cui alcuni si divertono a porre l’una contro l’altra le nozioni di creazione e di evoluzione, sotto forma di ideologie – creazionismo ed evoluzionismo – reciprocamente esclusive.
Per i sostenitori dell’evoluzionismo, rifarsi al poema iniziale della Genesi significa regredire in una forma di oscurantismo incompatibile con la razionalità dell’età moderna. In questo saggio cercheremo di dimostrare che il riferimento ai primi capitoli della Genesi non implica affatto una resa dell’intelligenza. [...] Una razionalità luminosa attraversa questi testi, capaci di parlare a ogni uomo ragionevole, e in particolare all’uomo di scienza contemporaneo. [...]
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Genesi 1 potrebbe avere come sottotitolo "Process and Reality": l’atto creatore vi è distribuito in momenti successivi, nella sequenza di una settimana. [...] Lungi dall’essere un’esplosione di potenza cieca, la creazione – secondo il poema narrativo di Genesi 1 – è un’azione che si svolge progressivamente, in una sequenza ordinata, in cui si enuncia un disegno.
La progressione – come ha mostrato Paul Beauchamp nel saggio "Création et séparation" – è anzitutto quella di separazioni successive, espresse dapprima mediante la radice verbale "badal": "E Dio separò la luce dalle tenebre" (1,4; cfr. anche 1,6.7.14.18). A partire dal terzo giorno, una volta costituiti i macroelementi del cosmo, non compare più il verbo della separazione (tranne in 1,14.18, a proposito delle "grandi luci"), sostituito da un’altra espressione: "secondo la propria specie". Tale formula, ripetuta dieci volte, si riferisce prima alle specie vegetali (1,11-12) e poi a quelle animali (1,21.24-25). Fin dall’origine, Dio salva dall’informe e dall’indeterminato, costituendo progressivamente un mondo differenziato.
Nella loro sequenza, i giorni della creazione amplificano la successione già legata alla parola. Fin dal primo giorno gli atti divini, per quanto immediati, si manifestano in modo discorsivo. [...] La successione è senza dubbio una legge del linguaggio e, in particolare, del discorso narrativo, che può dire le cose soltanto l’una dopo l’altra. In un riflesso di "realismo" teologico, il racconto di Genesi 1 si preoccupa di far risalire tale successione alla stessa libertà divina. [...]
Seguendo passo dopo passo le iniziative divine, il narratore si preoccupa di accentuare ciò che il disegno divino ha di costruito e di finalizzato. L’atto creatore, nella sua sequenza, non è un processo aleatorio o una stravagante dispersione di energia. Il gesto divino – afferma il narratore – si dispiega tra "principio" (1,1) e "compimento" (vedi il verbo "portare a compimento" in 2,1), e in una serie ("primo giorno", "secondo giorno" ecc.) che appare progressivamente nella sua compiutezza, quella dei sei giorni più uno. Infine, al termine del racconto scopriamo che Dio porta a compimento proprio ciò che aveva iniziato a creare all’origine, "il cielo e la terra" (2,1; cfr. 1,1). In altri termini, il processo si inserisce nell’intelligenza di un disegno, che presiede a ciascuno dei suoi momenti.
Il dominio divino in Genesi 1 ha paradossalmente la sua più bella dimostrazione nelle pause che ritmano la sequenza creatrice. Infatti Dio unisce alle sue iniziative creatrici un cenno di pausa e di meraviglia: "Dio vide che la luce era cosa buona" (1,4). [...] In ognuna di queste pause Dio rivela che non è affatto schiavo della propria potenza; questa invece è, fino in fondo, l’espressione della sua libertà, come si scopre il settimo giorno, quando Dio "cessa da ogni suo lavoro" ("wayysbot", dalla radice "sabat") e consacra un giorno intero a questa sosta (2,2). Anziché occupare il settimo giorno della serie a "esaurire" la propria potenza creatrice e a riempire il tutto del mondo, il Dio biblico è colui che pone un limite al gesto creatore, "dominando il suo dominio", per parlare come Salomone: "Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza" (Sapienza 12,18). In questa sosta Dio fissa il suo rifiuto di riempire tutto e, correlativamente, la sua volontà di aprire uno spazio di autonomia all’universo, in particolare all’umanità. [...]
Infine questo processo, con la sua disposizione, rivela la finalizzazione che lo sottende: gli elementi progressivamente costituiti disegnano una curva, che va dal "buono" del v. 4 al "molto buono" del v. 31. L’asse della parola è quello che meglio rivela tale curva dello spazio creato. Se fin dalla creazione della luce Dio parla, e se parla di tutti gli elementi che crea – "Sia la luce... Si raccolgano le acque… Ci siano luci nel firmamento…" –, egli parla in seconda persona soltanto ai viventi, a partire dal quinto giorno: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari…" (v. 22). Fino ad allora le creature non erano interpellate, ma erano al massimo destinatarie di ordini in terza persona. Da questo momento Dio parla a creature viventi, capaci di capirlo.
Ma è nel sesto giorno, con la creazione dell’uomo, che la persona grammaticale mancante – la prima persona – fa la sua apparizione sulla bocca di Dio. Prima al plurale: "Facciamo l’uomo " (v. 26), poi al singolare: "Io vi dò ogni pianta come vostro cibo " (v. 29). Ed è con l’apparizione della coppia umana che la parola divina si dà un interlocutore esplicito: "Dio disse loro" (v. 28). Dio si rivolge – e in prima persona – all’essere che sarà lui pure essere di linguaggio, "l’essere a immagine", destinato al dominio dolce della parola.
La sequenza era dunque, in ogni sua parte, ordinata al proprio fine. E la forma narrativa, in particolare nel suo modo di rappresentare le variazioni nella parola divina, è stata il veicolo efficace di tale finalizzazione.
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Genesi 1 potrebbe avere anche come sottotitolo "L’origine delle specie", tanto il disegno divino è legato alla diversità delle specie. Certamente, qui non si tratta del processo di evoluzione delle specie. Se Genesi 1 evoca un processo, questo si deve cercare nella sequenza dei giorni, nel corso dei quali Dio fa sorgere le specie vegetali, le specie animali dell’acqua e dell’aria e quelle della terraferma. I diversi biotipi sono rispettati (acqua, firmamento, terra), però l’intervento divino non è rivolto a "classi" di animali, ma va dritto alle specie particolari: i vegetali e gli animali appaiono tutti "secondo la propria specie" (vv. 11-12, 21.24-25). E queste specie appaiono "tali quali", cioè nello stato in cui le incontra dal v. 28 lo sguardo dell’uomo. La flora e la fauna consacrate da Dio nella loro bontà sono quelle che accompagnano la famiglia umana nel suo destino. [...]
Se le specie sono portate ognuna all’esistenza con un intervento immediato di Dio, sono pure create nella loro autonomia. Le specie vegetali sorgono provviste del loro principio di riproduzione: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie" (1,11). Quanto ai rappresentanti delle specie animali, questi si sentono dire: "Siate fecondi e moltiplicatevi" (1,22). Se l’eteronomia è presente in ogni istante del poema narrativo di Genesi 1 – poiché le creature hanno il loro segreto in questo Altro che le fa sorgere –, l’autonomia delle specie nella durata vi è pure manifesta: Dio crea i viventi affidandoli alla loro autonomia riproduttiva, a ciò che li renderà "uguali" di età in età.
C'è un altro testo del Pentateuco, il capitolo 11 del Levitico, in cui diventa pienamente evidente l’argomento del "discorso sulle specie" di Genesi 1. [...] Il trattato sugli animali mondi e immondi che si legge in Levitico 11 costituisce infatti una messa in atto sofisticata dei dati e delle distinzioni introdotti in Genesi 1. Una nuova luce è stata portata su Levitico 11 con i lavori di Mary Douglas, antropologa inglese, che ha pubblicato nel 1966 "Purity and Danger". Già nel 1962 Claude Lévi-Strauss nel suo "La Pensée sauvage" aveva [...] dimostrato attraverso l’analisi di vari miti e della loro struttura che il pensiero primitivo detto "selvaggio" era invece guidato da una logica rigorosa, classificatrice. In "Purity and Danger" Douglas dimostra che Levitico 11 illustra perfettamente tale logica. [...] Di tutte le creature animali, inclusi i mostri marini, Dio ha dichiarato la bontà, consacrando la loro divisione per specie (Genesi 1,21- 25). Perché allora Levitico 11 introduce distinzioni supplementari tra animali mondi e immondi? Le differenze introdotte in Levitico 11 valgono unicamente per il popolo che è stato "distinto": sono di ordine pratico e si riferiscono al regime alimentare degli israeliti e alla loro pratica sacrificale; riguardano un popolo chiamato a entrare nella santità di Dio – e dunque nella sua "differenza" – entrando in un mondo più ricco di differenze. Un passaggio del Levitico riassume tale vocazione singolare: "Io, vostro Dio, vi ho separati dagli altri popoli. Farete dunque separazione tra animali mondi e immondi, fra uccelli immondi e mondi, e non vi renderete abominevoli mangiando animali, uccelli o esseri che strisciano sulla terra e che io vi ho fatto separare come immondi. Sarete santi per me, perché io, vostro Dio, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei" (20,24-26). [...] Unita alle altre distinzioni introdotte dal Levitico, la distinzione degli animali mondi e immondi è tra quelle che pongono i figli di Israele dal lato di [...] un rispetto più attento, negli altri e in se stessi, del primo dono di Dio che è questa vita. Ancora una volta, la visione biblica non sostiene affatto una religiosità irrazionale, ma si rivela legata a una saggia articolazione del mondo, rispettosa delle distinzioni interne al reale e della finalità da esse indicate.
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Genesi 1 potrebbe infine avere il sottotitolo dato da Karl Popper alla sua ultima opera: "Questioni intorno alla conoscenza della natura". Adamo prolunga l’opera creatrice della separazione delle specie. Così facendo, esercita, a immagine di Dio, il "dominio dolce" del mondo che gli è affidato (1,28).
Un testo del libro dei Re afferma inoltre che egli esercita in questo una funzione reale e, per così dire, "scientifica". L’elogio della sapienza di Salomone termina con questi versetti: "La sapienza di Salomone superò quella di tutti gli orientali e tutta la sapienza dell’Egitto. [...] Pronunziò tremila proverbi; i suoi canti furono millecinque. Parlò di piante, dal cedro del Libano all’issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci" (1 Re 5,10-13). Nello stato-giardino che sono Giuda e Israele (cfr. 1 Re 5,5), Salomone, ripieno della saggezza che ha ricevuto, prolunga il gesto di Adamo che "impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche" (Genesi 2,20) e avvia anche il governo del mondo con il linguaggio.
Dopo Herder e Heidegger, non sono mancate le interpretazioni che hanno visto nei nomi dati da Adamo agli animali la nascita della vocazione poetica dell’uomo, quella di "abitare poeticamente questa terra" (Hölderlin). A dire il vero, il sottofondo culturale della doppia scena (in Genesi 2 e in 1 Re 5) invita a vedere Adamo e Salomone rappresentati sia come poeti sia come uomini di scienza. La saggezza enciclopedica di Salomone nel citato ritratto di 1 Re 5,12-13 è vicina infatti al sapere classificatore e alla "scienza delle liste" degli abitanti della Mesopotamia, da cui derivano pure gli inventari del libro dei Proverbi e dei codici di leggi bibliche. Di tale "scienza delle liste" elaborata fra il Tigri e l’Eufrate, René Labat scrive: "Anche se non era rivolta all’universalità, essa si trova in pratica estesa a tutti gli ordini della conoscenza: scienze della natura nelle liste di minerali, di piante e di animali; scienza delle tecniche nelle liste di utensili, di vesti, di costruzioni, di cibi e bevande; scienza dell’universo nelle liste degli dei, di stelle, di paesi o contrade, di fiumi e di montagne; infine scienze dell’uomo nelle liste dei particolari fisici, delle parti del corpo, dei mestieri e delle classi sociali".
Tale classificazione dei fenomeni del reale si organizza in particolare a partire dai loro nomi. Nella Bibbia c’è un’eco dell’attività creatrice di Dio che crea le cose dando loro un nome. "La cerchia delle conoscenze di Salomone, zoologica e botanica, è un altro giardino di Adamo", scrive Paul Beauchamp. Adamo e Salomone attestano entrambi – uno alle origini e l’altro nella "modernità" della storia – la vocazione dell’uomo ad abitare "scientificamente" la terra che Dio ha loro affidato.
Labat nella sua nomenclatura menziona l’elaborazione delle "liste degli dei". Ma questo è un compito che non spetta più all’uomo biblico, il cui Dio unico si rivela irriducibile ai fenomeni del mondo. Bisogna infatti rilevare come il monoteismo biblico ha trasformato il rapporto del "sapere" dell’uomo con il mondo che lo circonda: nel mondo biblico la "scienza delle liste" ha un nuovo senso. I politeismi dell’antico Vicino Oriente, egiziani, mesopotamici e cananei [...] erano strettamente legati ad ambienti cosmici: il cielo, la pioggia, le costellazioni, l’aria, il vento, le acque dolci. Questo non è più pensabile nel contesto biblico: se Dio penetra con il suo sguardo e la sua cura il mondo che ha creato, fin nei punti più inaccessibili (cfr. Giobbe 38-39), è però "separato" nella sua assoluta trascendenza (cfr. Isaia 40,25; 46,5; 66,1-2).
Le società religiose dell’antico Vicino Oriente si caratterizzano inoltre per un fondo oscuro in cui regnano dèmoni e forze malefiche. Il pensiero biblico ha notevolmente riorientato questo dato. [...] Liberata dalle immanenze divine e demoniache, la terra dell’uomo biblico gli è interamente consegnata: "I cieli sono i cieli di Dio, ma egli ha dato la terra ai figli dell’uomo" (Salmo 115,16). Essa gli è affidata in tutta la sua estensione, cielo, mare e terra, come canta il Salmo 8, con il dovere di ricerca che ne segue: "È gloria dei re investigare le cose" (Proverbi 25,2). Tale compito reale dell’uomo biblico riceve la forma più "moderna", quasi secolarizzata, nella ricerca di Salomone, come è presentata nel libro del Qoelet: "Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo" (1,13). Certamente tale impresa è distante dalle scienze moderne: per diventare operative, queste dovranno varcare altre soglie di razionalità, a cominciare da quella della concettualità greca. È vero tuttavia che il pensiero biblico della consegna del creato al sapere e al potere dell’uomo costituisce una delle condizioni dell’emancipazione del sapere scientifico.
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Genesi 1 è dunque, a modo suo, un manifesto dell’intelligibilità del mondo. [...] Questo capitolo e quelli che seguono nella Genesi non affermano affatto una forma di concorrenza tra la scienza divina e quella dell’uomo. L’accesso dell’uomo al sapere del linguaggio non è una prerogativa sottratta alla divinità, come un fuoco prometeico, nonostante le false promesse del serpente in Genesi 3,1-5. La vocazione "scientifica" dell’uomo è invece enunciata nei momenti di presenza di Dio all’uomo, sia che si tratti di un discorso rivolto da Dio ad Adamo in Genesi 1, o della vicinanza di Dio all’uomo nel giardino in Genesi 2, o dell’esperienza mistica in 1 Re 3, dove Salomone chiede a Dio la saggezza, che in particolare prenderà la forma del suo governo del mondo attraverso la parola. Questo sapere non è al riparo da deviazioni, ma procede anzitutto dall’"essere a immagine", come il compito reale affidato da Dio a Adamo. Il Salmo 8 pone le cose nella giusta prospettiva, quando celebra la signoria di Dio celebrando quella dell’uomo: "Tu l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato; gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi".
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La rivista su cui è uscito il saggio:
> La Civiltà Cattolica
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Il sito web del convegno, in italiano e in inglese:
> Biological Evolution: Facts and Theories
10/03/2009 10:17 - CINA – TIBET - Pechino vuole distruggere il Dalai Lama, ma senza di lui non ci sarà pace in Tibet - di Bernardo Cervellera
A 50 anni dalla rivolta soffocata nel sangue, Pechino ripropone la legge marziale per controllare la regione e accusa il Dalai Lama di voler sbriciolare la nazione. La campagna per distruggere il leader tibetano trova segreti adepti anche nella comunità internazionale. Ma il Dalai Lama è l’unico che potrebbe fermare la violenza.
Roma (AsiaNews) - Carri armati, internet oscurato, frontiere chiuse, posti di blocco, 100 mila militari che controllano strade e monasteri: con una situazione da legge marziale il Tibet celebra quella che la Cina chiama i 50 anni dalla liberazione dello schiavismo e che i tibetani definiscono invece l’inizio del genocidio culturale del loro popolo, con milioni di morti, prigionieri, esecuzioni sommarie, emarginazione economica e sociale.
Il Tibet, con cultura, lingua, religione specifiche, per secoli ha avuto un rapporto di vassallaggio con l’impero cinese. Ma solo con Mao Zedong, e con un’invasione militare nel 1950 esso è stato definito parte integrante della Cina. Nel marzo del ’59, una rivolta contro l’occupazione militare viene soffocata nel sangue e il Dalai Lama fugge in India, diventando il profugo più illustre del mondo.
Per Pechino il Dalai Lama è un lupo vestito da agnello, un demonio sotto vesti di angelo; un capo politico e non il capo religioso di una minoranza; uno che gira il mondo per convincere le diplomazie alla secessione e l’indipendenza del Tibet. In realtà, da molti anni, il Dalai Lama chiede di continuo che venga salvata solo l’autonomia culturale e religiosa del Tibet, lasciando alla Cina tutto il potere e il territorio. Ma Pechino non si accontenta: vieta le foto del Dalai Lama e i canti in suo onore; controlla i monaci e le reincarnazioni, e appena scatta una manifestazione, scatena la repressione violenta, come l’anno scorso prima delle Olimpiadi, quando sono state uccise 200 persone.
L’interesse della Cina per il Tibet è anzitutto economico: la regione himalayana, oltre che per il turismo, è ricchissima di minerali di rame, alluminio, uranio. Ma è anche nazionalistico: il timore del Partito è che se il Tibet guadagna l’autonomia, altre regioni della Cina potranno chiederla, sbriciolando l’unità della nazione e il potere del Partito. Lo stesso presidente Hu Jintao ha affermato ieri che è urgente “costruire una Grande Muraglia nella nostra lotta contro il separatismo e salvaguardare l’unità della madrepatria”. Egli stesso, nell’89capo del Partito in Tibet, ha decretato la legge marziale, sopprimendo con le armi le manifestazioni tibetane
Nell’attuare la legge marziale in questi giorni, il ministro degli esteri Yang Jiechi ha messo in guardia anche i Paesi del mondo perché non ospitino più il Dalai Lama, nemmeno come capo religioso. Data la sua importanza per l'economia mondiale, sempre più Stati ubbidiscono alla Cina. Fra questi l’India, il Nepal, la Corea del Sud e si vede già qualche segnale fra i Paesi europei e gli Stati Uniti.
Il problema è che, soprattutto fra i giovani tibetani, la disperazione e l’impazienza sta spingendo alla lotta violenta. E soltanto il Dalai Lama potrebbe ricondurli a un dialogo pacifico. Senza di lui, e con le pretese totalitarie di Pechino, ci si può aspettare solo nuovo sangue e nuova violenza.
10/03/2009 08:50 - CINA – TIBET - Dalai Lama: La Cina ha trasformato il Tibet in un inferno
In un discorso per i 50 anni dalla rivolta soffocata dall’esercito cinese, il leader tibetano accusa Pechino di aver ucciso centinaia di migliaia di tibetani e di usare lo sviluppo economico come un modo per cancellare la cultura e la religione del Tibet. Egli riafferma la richiesta di una giusta autonomia, pur sotto la sovranità cinese. Ma i leader di Pechino vedono in questo delle mosse “separatiste”.
Dharamsala (AsiaNews/Agenzie) – Il Dalai Lama ha accusato la Cina di aver ucciso “centinaia di migliaia di tibetani” e aver trasformato la regione himalayana in un “inferno sulla terra”. In un discorso tenuto a memoria dei 50 anni dalla fallita rivolta contro l’occupazione cinese, il leader spirituale buddista ha ripetuto la sua richiesta di una “legittima e significativa autonomia” per il Tibet, pur lasciando a Pechino la sovranità.
Il 10 marzo 1959 a nove anni dall’invasione militare cinese, voluta da Mao Zedong, la ribellione della popolazione è stata soppressa nel sangue e il Dalai Lama è stato costretto a fuggire in India.
Parlando davanti a una folla di migliaia di fedeli, nella città sede del suo governo in esilio, il Dalai Lama ha ricordato la “serie di campagna repressive e violente” lanciate da Pechino. “Queste – ha aggiunto – hanno gettato i tibetani in abissi di sofferenze e durezze, da fare loro sperimentare l’inferno sulla terra. Il primo risultato di queste campagne è stata la morte di centinaia di migliaia di tibetani”
“Ancora oggi - ha aggiunto - i tibetani in Tibet vivono nel continuo terrore… La loro religione, cultura, linguaggio, identità sono vicini all’estinzione. Il popolo tibetano è bollato come criminale, che merita solo di essere messo a morte”.
La Cina considera l’occupazione del Tibet una “liberazione dalla schiavitù” e dall’oppressione feudale di signori e monaci e afferma di aver lavorato in modo incessante per lo sviluppo della regione, non ultimo con una ferrovia superveloce che unisce Pechino a Lhasa.
Il Dalai Lama ha detto che “molte infrastrutture e sviluppi…che sembrano aver portato progresso ai tibetani, sono in realtà fatti con l’obbiettivo politico di cinesizzare il Tibet”.
Il leader spirituale ha ricordato pure i fallimenti dei dialoghi fra il governo tibetano in esilio e Pechino e ha fatto memoria degli uccisi nello scorso anno, quando alcune manifestazioni non violente di tibetani si sono trasformate in scontri con la popolazione Han e con i militari cinesi portando alla morte di circa 200 persone e all’arresto di migliaia.
Da alcuni settori del suo governo vi sono pressioni per radicalizzare la lotta contro la Cina. Il Dalai Lama, rifiutando questa svolta violenta, afferma che i tibetani “cercano una legittima e significativa autonomia, un accordo che permetta ai tibetani di vivere all’interno della Repubblica popolare della Cina”. Pechino continua ad accusare il leader tibetano di volere l’indipendenza della regione. In questi giorni molti leader del Partito hanno approvato il pugno di ferro del governo contro quello che Pechino definisce “il separatismo” del Tibet. Lo stesso presidente Hu Jintao ha affermato: “Dobbiamo costruire una Grande Muraglia nella nostra lotta contro il separatismo e salvaguardare l’unità della madrepatria, portando la stabilità del Tibet verso una stabilità a lungo termine”.
La centralità del Crocifisso nella celebrazione liturgica - «Guarderanno a Colui che hanno trafitto» - di Mauro Gagliardi - Consultore dell'Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice – L’Osservatore Romano, 9-10 marzo 2009
In questo tempo di quaresima, non si può non pensare al grande mistero del triduo santo che, al termine di questi quaranta giorni, ci farà rimeditare e rivivere nell'oggi della liturgia la passione, morte e risurrezione di Gesù. Un aiuto a questo percorso di conversione proviene dalla meditazione sulla centralità della Croce nel culto e, di conseguenza, nella vita del cristiano. Le letture bibliche della messa dell'Esaltazione della santa croce (14 settembre) presentano, tra gli altri, il tema del guardare a. Gli israeliti devono guardare al serpente di bronzo innalzato sull'asta, per essere guariti dal veleno dei serpenti (cfr. Numeri, 21, 4b-9). Gesù, nella pagina evangelica di quella festa liturgica, dice che egli deve essere innalzato da terra come il serpente mosaico, perché chi crede in lui non vada perduto, ma ottenga la vita eterna (cfr. Giovanni, 3, 13-17). Gli israeliti guardavano al serpente di bronzo, ma dovevano compiere un atto di fede nel Dio che guarisce; per i discepoli di Gesù, invece, vi è perfetta convergenza tra "guardare a" e credere: per ottenere salvezza, si deve credere a colui al quale si guarda: il crocifisso risorto, e vivere in maniera coerente a questo sguardo fondamentale. Questa è l'intuizione fondamentale dell'uso liturgico tradizionale, in accordo al quale ministro e fedeli sono insieme rivolti verso il crocifisso. Al tempo in cui la prassi di celebrare verso il popolo entrò in uso, sorse il problema della posizione del sacerdote all'altare, perché ora egli dava le spalle al tabernacolo e al crocifisso. Inizialmente, fu in diversi luoghi ripristinato il tabernacolo a cassetta, posto sopra l'altare separato dalla parete: il tabernacolo veniva così a trovarsi tra il sacerdote e i fedeli, in modo che, pur trovandosi l'uno di fronte agli altri, ministro e fedeli potevano tutti guardare verso il Signore durante la liturgia eucaristica. Questo espediente fu però presto superato, soprattutto in base alla convinzione che simile sistemazione del tabernacolo generasse un conflitto di presenze: non si potrebbe custodire il Santissimo Sacramento sull'altare della celebrazione, perché ciò metterebbe in contrasto le diverse forme di presenza di Cristo nella liturgia. Alla fine, si risolse per lo spostamento del tabernacolo in una cappella laterale. Restava ancora il crocifisso, cui il celebrante continuava a dare le spalle, dato che di norma esso rimaneva ancora al centro. Si risolse ancor più agevolmente, stabilendo che esso poteva ora essere collocato anche al lato dell'altare. In questo modo, certo, il ministro non gli dava più le spalle, ma la raffigurazione del Signore crocifisso perdeva la sua centralità e, comunque, non si risolveva il problema consistente nel fatto che il sacerdote continuava a non poter "guardare al Crocifisso" durante la liturgia.
Le norme liturgiche, stabilite per l'attuale forma ordinaria del rito romano, permettono di collocare crocifisso e tabernacolo in posizioni defilate, tuttavia ciò non impedisce che si continui a discutere sulla maggiore opportunità che essi siano collocati al centro, come dev'essere per l'altare. Questo vale soprattutto per la raffigurazione del crocifisso. L'Istruzione Eucharisticum mysterium, infatti, afferma che "in ragione del segno" (ratione signi, n. 55), conviene maggiormente che sull'altare su cui si celebra la Messa non venga collocato il tabernacolo perché la presenza reale del Signore è il frutto della consacrazione e come tale deve apparire. Questo non esclude che il tabernacolo possa di norma rimanere al centro dell'edificio liturgico, soprattutto dove vi sia la presenza di un altare più antico, che si trova ora dietro il nuovo altare (si veda il n. 54, che tra l'altro afferma essere lecita la collocazione del tabernacolo sull'altare rivolto al popolo). Sebbene si tratti di questione complessa e che richiederebbe approfondimenti, si può probabilmente riconoscere che lo spostamento del tabernacolo dall'altare della celebrazione versus populum (o nuovo altare) ha qualche argomento in più in suo favore, visto che si basa non solo sull'argomento del conflitto di presenze, ma anche su quello della verità dei segni liturgici. Però non si può dire lo stesso a riguardo del crocifisso. Eliminata la centralità del crocifisso, la comprensione comune del senso della liturgia rischia di risultarne stravolta.
È ovvio che il guardare a non può essere ridotto a puro gesto esteriore, operato con il semplice orientamento degli occhi. Si tratta invece principalmente di un atteggiamento del cuore, che può e deve essere mantenuto qualunque sia l'orientamento assunto dal corpo dell'orante e la direzione data allo sguardo durante la preghiera. Tuttavia, nel Canone romano, anche nel messale di Paolo VI, vi è la rubrica che prescrive al sacerdote di elevare gli occhi al cielo poco prima di pronunciare le parole consacratorie sul pane. L'orientamento dello spirito è più importante, ma l'espressione corporea accompagna e sostiene il movimento interiore. Se è vero, dunque, che guardare al crocifisso è un atto dello spirito, un atto di fede e di adorazione, resta pur vero che guardare all'immagine del crocifisso durante la liturgia aiuta e sostiene moltissimo il movimento del cuore. Abbiamo bisogno di segni e gesti sacri, che, senza sostituirsi a esso, sorreggano il movimento del cuore che anela alla santificazione: anche questo significa agire liturgicamente ratione signi. Sacralità del gesto e santificazione dell'orante non sono elementi contrari, ma aspetti di un'unica realtà.
Se, dunque, l'uso di celebrare versus populum ha degli aspetti positivi, bisogna nondimeno riconoscere anche i suoi limiti: in particolare il rischio che si crei un circolo chiuso tra ministro e fedeli, che metta in secondo piano proprio colui al quale tutti devono guardare con fede durante il culto liturgico. È possibile ovviare a simili rischi restituendo alla preghiera liturgica il suo orientamento, in particolare per quello che riguarda la liturgia eucaristica. Mentre la liturgia della Parola ha il suo svolgimento più adeguato se il sacerdote è rivolto verso il popolo, sembra teologicamente e pastoralmente più opportuno applicare la possibilità - riconosciuta dal messale di Paolo VI nelle sue varie edizioni - di continuare a celebrare l'Eucaristia verso il crocifisso; il che può realizzarsi concretamente in diversi modi, anche collocando la raffigurazione del crocifisso al centro dell'altare della celebrazione versus populum, in modo tale che tutti, sacerdote e fedeli, possano guardare al Signore durante la celebrazione del suo santo sacrificio. Nella prefazione al primo volume delle sue Gesammelte Schriften, Benedetto XVI si è detto felice del fatto che si stia facendo sempre più strada una proposta che egli aveva avanzato nella sua Introduzione allo spirito della liturgia. Questa, come ha scritto il Papa, consisteva nel suggerimento di "non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell'altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo".
(©L'Osservatore Romano - 9-10 marzo 2009)
La pace che è abbandono a Dio nel canto di Piccarda Donati - Il segreto luminoso del cielo lunare - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 9-10 marzo 2009
Col terzo canto del Paradiso incominciano ad apparire a Dante le anime beate: egli sta salendo "di soglia in soglia" (verso 82) verso l'Empireo, dove, nell'estasi, si compirà la sua visione del mistero di Dio.
In questo primo cielo, quello lunare - che diffonde pacatamente intorno a sé una luce perlacea e traslucida, che si riflette tutt'intorno sulle sembianze degli spiriti - il poeta incontra coloro il cui voto di consacrazione religiosa, sia pure incolpevolmente, è venuto meno.
Dante fa il nome di due spiriti presenti in questo cielo "per manco di voto" (verso 30): quello di Piccarda Donati e quello di Costanza di Svevia. Le vicissitudini dell'una e dell'altra, rievocate con finissima delicatezza di tratti, sono disposte in un'alta e chiara visione teologica, secondo il carattere che contrassegna la cantica del Paradiso e che lo fa definire: una teologia che diventa luminosa e che si fa poesia.
È, questo terzo, del Paradiso, il canto dell'abbandono alla volontà divina, della gioia e della pace che scaturiscono e si propagano dalla consonanza a quello che è gradito a Dio; ed è come dire una diffusa carità, senza insoddisfazioni o inquietudini o rimpianti.
Ma prima di illustrare questa pace, soffermerei l'attenzione su un'espressione che apre il canto. Il poeta dichiara che Beatrice, rispondendo a una sua domanda, gli ha scoperto "di bella verità il dolce aspetto" (versi 2-3). La verità è chiamata "bella", mentre è detto "dolce" il suo volto: ad affermare l'intima unione e quasi il reciproco risolversi tra il verum, il pulchrum e il bonum.
È il profilo della nostra lettura del Paradiso, dove il sapere teologico si trova trasfigurato nella bellezza poetica e dove gli è riconosciuta la prerogativa di essere fonte di dolcezza.
I volti dei beati si delineano in questo canto come fossero "specchiati sembianti" (verso 20), o immagini riflesse "per vetri trasparenti o per acque nitide e tranquille" (versi 10-11): il loro aspetto si delinea e giunge alla vista lentamente, come "perla in bianca fronte" (verso 14) - e sugli stessi versi sereni e tersi sembra diffuso il tenue nitore del cielo lunare. Viene, allora, d'istinto al poeta di volgersi alle persone fisiche che crede riverberate in quelle onde.
A richiamare Dante alla realtà e invitarlo a porre delle domande è ancora una volta la "dolce guida", che è tutta un lume, brillante negli "occhi santi" (versi 23-24), e un sorriso: è l'aspetto abituale di Beatrice, fatto di gioia luminosa e ardente, e di santità, che sono poi i caratteri che distinguono la condizione del paradiso, luogo della "verace luce" (verso 32). Così appare subito Piccarda: "con occhi ridenti" (verso 42). È la grazia, anzi già la gloria dei beati, che si trasforma in un sorriso di luce.
L'"ombra" che il poeta interroga è quella di Piccarda Donati, alla quale chiede di rivelare il proprio nome e di parlare della sorte degli spiriti del cielo della Luna.
Il tenore della domanda è denso di teologia: "O ben creato spirito, che a'rai / di vita etterna la dolcezza senti / che, non gustata, non s'intende mai, / grazïoso mi fia se mi contenti / del nome tuo e de la vostra sorte" (versi 37-41).
Piccarda è chiamata spirito "ben creato" - ossia riuscito o che ha raggiunto il suo fine - che prova una dolcezza che può conoscere solo chi la sperimenta.
È la dottrina insegnata dai dottori mistici, noti a Dante: la gioia amorosa e quindi il gusto di Dio attinti nell'estasi mistica non sono assaporati né possono essere compresi da chi non li condivida: il poeta, del resto, trasferisce sul piano soprannaturale quanto già avviene in questo mondo: unicamente colui che ama può veramente sapere che cosa sia l'amore.
Ed è, in fondo, la ragione per la quale Dante andrà ripetendo che il contenuto del paradiso non è dicibile, e che esso rimane precluso a chi sia estraneo alla condizione del poeta, diventata, in virtù della sua laboriosa purificazione, connaturale al paradiso, così da far sorgere la persuasione che per l'Alighieri stesso la composizione del Paradiso fu ben più che un'opera di proporzioni e di fantasia letteraria.
Lo spirito al quale Dante si è rivolto rivela il proprio nome, osservando che il suo rispondere manifesta la carità che contrassegna gli abitanti del paradiso, ed è conforme alla stessa carità di Dio, aperta a ogni giusto desiderio: "I'son Piccarda" (verso 49).
Il poeta l'ha conosciuta nel mondo, dove fu "vergine sorella", e ora la può riconoscere, pur nel suo "esser più bella" - rispetto alla bellezza che già l'aveva avvolta sulla terra - anche se nella sfera più lenta, perché più lontana dal Primo Mobile, il cielo più veloce. Ma questo non intacca o non àltera la sua gioia: essa scaturisce tutta dalla conformità dei suoi affetti al volere dello Spirito Santo che arde in lei, ed è quindi pienamente gustata nel grado di beatitudine da lui assegnato a quanti non hanno portato a compimento i voti: "Li nostri affetti, che solo infiammati / son nel piacere de lo Spirito Santo, / letizian del suo ordine formati. / E questa sorte che par giù cotanto, / però n'è data, perché fuor negletti / li nostri voti, e vòti in alcun canto" (versi 52-56).
Dopo quelle parole di Piccarda, Dante - in un primo tempo confuso dal "non so che di divino" (verso 59), che risplende nei "mirabili aspetti" (verso 58) di quei beati e li trasmuta - ora dichiara di riconoscerla, e prosegue a interrogarla: egli vuol sapere se non sia vivo in loro il desiderio di un "più alto loco" (verso 65), per una visione divina più penetrante e una maggiore comunione di amore.
Piccarda, dopo un breve sorriso - "sorrise un poco" (verso 67) - risponde pervasa di letizia e ardente dell'amore dello Spirito - il "primo foco" (verso 69) che le infiamma il volto. La carità posseduta dai beati - spiega Piccarda articolando e prolungando la sua risposta "teologica", concettualmente argomentata - li acquieta nel possesso gioioso e tranquillo della beatitudine loro destinata - "la nostra volontà quïeta/ virtù di carità" -, e non lascia spazio ad altro desiderio - "d'altro non ci asseta" (versi 70-72).
Non è pensabile nei beati una discordanza dal volere di Dio, poiché essere nelle sfere celesti significa "essere in carità", ed è nella natura della carità la perfetta consonanza alla volontà divina, che variamente elargisce la felicità celeste.
È proprio della beatitudine questa consonanza: "è formale ad esto beato esse / tenersi dentro alla divina voglia, / per ch'una fansi nostre voglie stesse" (versi 79-81).
Ai beati, disposti "di soglia in soglia" nel regno dei cieli, piace quanto piace a Dio, e l'accordo con lui avvolge tutti. È facile avvertire nel parlare di Piccarda il modo di esprimersi caratteristico della "scolastica", tutto intessuto di concetti di procedimenti logici: "Un esempio del parlare teologico del Paradiso che innalza il linguaggio a dir cose fino allora del tutto ignote al volgare" (Anna Maria Chiavacci Leonardi).
Ed ecco il mirabile verso conclusivo, in cui Dante raggiunge uno dei vertici sublimi della sua teologia: "Èn la sua volontade è nostra pace" (verso 85). L'uomo trova la sua inalterata quiete - dopo l'inquietudine della sua storia nel mondo - nel completo affidamento alla volontà divina: volontà che il poeta, ricorrendo ora al linguaggio dell'immagine, paragona a "quel mare al qual tutto si move" (verso 86).
"Il ritmo solenne e largo della terzina, l'immagine grandiosa del mare, origine e fine di tutte le acque - osservano Umberto Bosco e Giovanni Reggio - conclude in tono altamente lirico il discorso di Piccarda".
L'intero universo che si compie nel suo sfociare in Dio, dal quale è dipartito, nel suo aderire al disegno secondo il quale fu divinamente progettato, fa venire in mente il grande piano della Somma teologica di Tommaso d'Aquino, che progetta e vede tutta la realtà come un'emanazione - un exitus, da Dio, e un ritorno - un reditus, a lui: il sommo Bene che - lo scrive lo stesso san Tommaso - acquieta il desiderio, genera la beatitudine e infonde la felicità (Summa Theologiae, i-ii, 4, 1).
Dopo quelle luminose parole, Dante si rende conto che, pur essendo disuguale la porzione di beatitudine goduta dai beati, tutti fruiscono soddisfatti della gioia del paradiso: "ogne dove/ in cielo è paradiso, etsi la grazia/ del sommo ben d'un modo non vi piove" (versi 88-90).
Ma ha ancora una curiosità da soddisfare: egli vuol sapere da Piccarda quale sia stato il voto rimasto inadempiuto, o, secondo l'immagine familiare per un fiorentino, quale fu la tela che non fu tessuta fino in fondo: "qual fu la tela/onde non trasse infino a co la spuola" (versi 95-96).
Piccarda - viene a sapere Dante - aveva fatto la scelta claustrale secondo la regola di santa Chiara - dove si vive, fino alla morte, in intima e ininterrotta comunione d'amore con Cristo sposo. Il poeta mostra, così, di aver colto perfettamente il senso della consacrazione verginale come dedizione fondata e mossa dalla carità: con tale consacrazione - egli scrive - "si veste e vela, / perché fino al morir si vegghi [si vegli] e dorma / con quello sposo ch'ogne voto accetta / che caritate a suo piacer conforma" (versi 99-102).
Ma dal chiostro e dalla sequela di santa Chiara - che "perfetta vita e alto merto inciela / (...) più sù" - Piccarda fu sottratta a forza.
Con doloroso e struggente ricordo, che sembra riaprire ancora la ferita pur nella beatitudine celeste, essa così richiama quello strappo brutale: "Dal mondo, per seguirla, giovinetta / fuggi'mi, e nel suo abito mi chiusi / e promisi la via della sua setta. / Uomini poi, a mal più ch'a bene usi, / fuor mi rapiron de la dolce chiostra: / Iddio si sa qual poi mia vita fusi" (versi 103-108).
"La delicatissima rievocazione della vita claustrale - commentano Bosco e Reggio - e la mestizia del ricordo della violenza subita, (...) avvicinano Piccarda ad altre figure femminili del poema".
In particolare l'ultimo verso, con la sua velata ed eloquente allusività che non descrive nulla, poiché si tratta di un segreto e di una pena noti soltanto a Dio, è tra i più potenti e commoventi di tutta la Commedia.
Ma alla destra di Piccarda si trova, risplendente di tutta la luce di quel cielo, uno spirito beato che ebbe a subire la sua stessa sorte, e la stessa Piccarda lo presenta: "Quest'è la luce de la gran Costanza" (verso 118).
"Contra suo grado e contra buona usanza" (verso 116) - anche a lei "fu tolta/ di capo l'ombra de le sacre bende" (versi 113-114), pur permanendo sempre velata nell'intimo del cuore.
Costanza fu sposa dell'imperatore Enrico vi di Svevia - figlio di Federico Barbarossa - e madre di Federico ii, e Dante crede alle voci che prima sarebbe stata monaca, poi "al mondo fu rivolta" (verso 115).
Così, il poeta "circonda la sua figura di nobile luce, quasi compensandola delle voci di discredito gettate su di lei e riconoscendole (...) un'alta virtù e una lunga sofferenza sopportata con interna fedeltà" (Chiavacci Leonardi).
Dopo la presentazione di Costanza, Piccarda, intonata l'Ave Maria, si allontana e scompare: "Così parlommi, e poi cominciò "Ave, / Maria" cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave" (versi 121-123).
È un momento dolcissimo, reso ancor più soave da quel lento canto, che si spegne a poco a poco: vi si sente traspirare tutt'intorno la serenità e la pace, che Piccarda ha personificato in sé e ha insegnato al poeta come esito del desiderio appagato nell'accoglienza della volontà divina.
Dante ha trasfigurato nella forma incantevole della poesia una dottrina teologica e soprattutto la celebre affermazione di Agostino: "Tu, o Dio, ci hai creati per te, e il nostro cuore resta nell'inquietudine fin che non trovi pace in te" (Confessioni, i, 8).
(©L'Osservatore Romano - 9-10 marzo 2009)
CRISI/ Ecco cosa farà l’Europa per uscirne - Mario Mauro - martedì 10 marzo 2009 – ilsussidiario.net
I capi di Stato e di Governo europei hanno concluso pochi giorni fa un vertice informale indetto dalla presidenza ceca sulla crisi dell’economia. In preparazione del G20 dell’aprile prossimo, i leader, alla presenza del presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e del governatore della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, hanno posto sul tavolo, ufficialmente, i temi del rilancio, la supervisione dei mercati finanziari, ma anche la questione del settore dell’auto.
La situazione è complessa: se, da una parte, la Repubblica ceca, Romania, Bulgaria, Lituania, Lettonia, Estonia, Polonia, Slovacchia e Ungheria, cioè i Paesi della Nuova Europa che hanno visto una vivace crescita economica e che a causa della crisi si è interrotta bruscamente, lamentano di non ricevere un aiuto sufficiente da parte dell’Unione europea, dall’altra il presidente francese Nicolas Sarkozy ha sottolineato che il suo piano di aiuti all’industria dell’auto sarà condizionato dalla proibizione per le attività di qualunque delocalizzazione.
Di questi giorni è, invece, la notizia che tra gli Stati Membri l’Italia è tra i Paese meno colpiti dal rallentamento finanziario. Questo è un segnale forte che deve indurci a riflettere. Se l’Ue, come già sta facendo, metterà tutta la sua energia nella lotta alla crisi anche il nostro Paese potrà superarla meglio di altri.
È pur vero che se da una parte si segnala una recessione che potrebbe causare altri 6 milioni di disoccupati entro il 2010, con conseguenze sociali per le famiglie, dall’altro le borse registrano preoccupanti ribassi. Nelle ultime stime Ue si era parlato della perdita di 3,5 milioni di posti di lavoro solo per il 2009 e di un tasso di disoccupazione per la zona euro pari al 9,25%.
In tempi di crisi come questi è importante che la politica trovi delle strategie per superare l’empasse. È indispensabile ristabilire un impegno credibile a favore degli obiettivi di bilancio già a partire dal medio termine. Per fare questo in tempi brevi, si possono mettere in campo nuove soluzioni, come misure di difesa che consistono nell’adottare provvedimenti straordinari che, per fronteggiare la crisi, che non comportino oneri considerevoli per le finanze pubbliche perché, qualora non venissero riassorbiti a tempo debito, potrebbero pesare in modo particolarmente negativo sulle generazioni future.
Durante il prossimo Consiglio dei ministri europeo, di fronte alla crisi più grave dagli anni ‘30, è importante che l’Europa si mostri compatta esortando i governi a stare all’interno di regole prestabilite.
L’appello è dunque quello di mantenere il mercato aperto, respingendo le tentazioni rappresentate da un nuovo protezionismo. Soltanto l’Europa - e con essa anche il nostro Paese - potrà superare la crisi e uscirne più forte, in un'economia globale che, come sottolineava il nostro premier, sta mostrando di avvicinarsi alla ripresa.
STORIA/ Ma quale Averroé? I monaci di Mont Saint-Michel diffusero la filosofia occidentale - Redazione - martedì 10 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Sylvain Gouguenheim, medievista all’École Normale Supérieure di Lione, ha recentemente pubblicato un libro (Aristotele contro Averroè. Come Cristianesimo e Islam salvarono il pensiero greco) che ha scatenato un’accesa polemica sia in patria che in Italia.
In buona sostanza, le posizioni dello storico francese invitano a considerare con maggiore ponderatezza il debito dell’Europa medievale nei confronti della vicina cultura araba. Partendo da una serie di riflessioni ed evidenze storiche, Gougenheim ha ritenuto possibile impugnare e confutare l’ipotesi che l’Europa debba esclusivamente al mondo islamico la conoscenza di Aristotele e dunque la nascita del proprio pensiero filosofico.
Non si tratta, è chiaro, di un problema secondario. Come ricorda l’autore, dietro alla teoria del “debito dell’Europa” sta la convinzione che l’Occidente medievale sia uscito dalla barbarie e dalla rozzezza culturale solo grazie all’apporto benefico degli arabi. «Tutto l’Occidente nel suo insieme è stato edificato sull’innegabile apporto dell’islam […]. È grazie ai pensatori arabi che l’Europa ha conosciuto il razionalismo» (Zeinab Abdel Aziz).
Al centro del dibattito è dunque il cuore dell’identità culturale europea. L’odierna interpretazione afferma che i pensatori medievali siano riusciti ad impossessarsi delle principali opere di Aristotele solo quando – a seguito della conquista cristiana della Spagna – cominciarono a circolarne le traduzioni dall’arabo. La risposta di Gouguenheim si articola sostanzialmente su tre argomentazioni: la ricerca del sapere greco autonomamente promossa dagli europei, il ruolo di Mont-Saint-Michel nella diffusione delle opere aristoteliche prima degli esiti della Reconquista, il rapporto tra islam e filosofia.
Procediamo con ordine. Non è vero, sostiene lo storico, che le vie attraverso le quali Aristotele giunse in Europa siano passate necessariamente dall’Islam. Gli Europei non smisero mai di interrogarsi sul pensiero greco, né avrebbero potuto farlo: l’apporto greco al pensiero cristiano ed il perdurare della tradizione greca all’interno del mondo bizantino (sempre in fecondo contatto con la civiltà medievale europea) costringevano l’Occidente ad un serrato confronto. Dall’attivissimo cantiere intellettuale di Antiochia, ad esempio, giungevano continuamente opere di pensatori e filosofi greci. L’Europa ha dunque cercato consapevolmente i testi greci, senza dover aspettare che gli arrivassero fatalmente in dono dagli arabi. Tra questi testi, vi furono certamente gli scritti di Aristotele.
Lo provano, tra gli altri, i manoscritti prodotti a Mont-Saint-Michel (non a caso il titolo originale del libro è Aristote au Mont-Saint-Michel). Nello scriptorium dell’antica abbazia, verso la prima metà del XII secolo, le opere del grande filosofo furono infatti tradotte direttamente dal greco ad opera dei monaci copisti. Non conosciamo il loro nome, ad eccezione dell’italiano – ma educato a Costantinopoli e perciò grecofono – Giacomo Veneto. A lui dobbiamo la trascrizione della Fisica, della Metafisica e degli Analitici secondi, allora sconosciuti in Europa. Il nodo del dibattito accademico suscitato da Gougenheim ruota soprattutto intorno all’attività di Giacomo, avviata molto prima che da Toledo giungessero le trascrizioni dall’arabo. È una semplice questione di date, sottolinea Gouguenheim: Giacomo ha cominciato le traduzioni prima del 1127 e le ha proseguite fino alla morte (1145-1150); Gerardo da Cremona – colui che per primo tradusse Aristotele dall’arabo - ha iniziato le sue dopo il 1165 (traduce la Fisica nel 1187, esattamente quarant’anni dopo il monaco italiano dell’abbazia normanna). Il punto è fondamentale, poiché Giacomo Veneto ed i suoi compagni benedettini - e non più gli arabi - diventano così «l’anello mancante nella storia del passaggio della filosofia aristotelica dal mondo greco al mondo latino». Le traduzioni del Mont-Saint-Michel ebbero fin da subito una diffusione vastissima: se ne trovano copie a Bologna, a Chartres, ad Oxford. Grazie ad esse le maggiori figure del mondo occidentale hanno avuto accesso ai testi di Aristotele. E con quale immenso profitto, rispetto ai tentativi messi in atto dagli arabi.
Qui giace infatti il terzo fattore considerato dallo storico: gli arabi - egli dice - presero dai greci solo quello che ritenevano utile, senza tuttavia assimilarne lo spirito. La filosofia, per l’Islam, fu quindi semplicemente una “somma di conoscenze”, senza mai diventare un “problema”. In Occidente il confronto fu del tutto diverso. Davanti ad Aristotele, i teologi medievali - avvezzi ad una cultura che si riconosceva radicata nel pensiero greco - seppero interloquire con efficacia, arrivando a modificare e rinnovare la propria concezione del mondo e dello spirito. Perciò, secondo la teoria di Gouguenheim, non solo l’Europa guadagnò Aristotele in assoluta autonomia rispetto all’islam, ma seppe anche appropriarsene con una profondità radicale altresì impossibile alla sensibilità coranica.
(Andrea Bennegi)
RICERCA SULLE STAMINALI E MOTIVI DELLA SINISTRA - Le embrionali per i ricchi Le «rigenerate» per tutti - MICHELE ARAMINI – Avvenire, 10 marzo 2009
E ra da tempo nell’aria, ieri è giunto l’annuncio ufficiale: il neo- presidente americano Obama ha firmato il ripristino del finanziamento federale alle ricerche sulle cellule staminali embrionali. Il suo predecessore Bush aveva limitato per giusti motivi morali le erogazioni di denaro pubblico richieste a gran voce dal cartello delle aziende biotech ( i cui titoli – guarda caso – ieri sera schizzavano in alto a Wall Street), senza peraltro impedire la ricerca con fondi privati e con il contributo di alcuni Stati dell’unione, come la California. Dopo le dichiarazioni a favore di un allargamento delle maglie nella legislazione che autorizza l’aborto, questo nuovo fatto mostra con chiarezza che il giovane presidente americano appartiene a coloro che ritengono la vita nascente non meritevole di tutela. Il messaggio è inequivoco: se alcuni cittadini – nel caso dell’aborto – e talune aziende – con la sperimentazione – hanno interesse a usare e sopprimere la piccola vita di embrioni e di feti, che si proceda dunque senza troppe remore morali. I vescovi cattolici americani avevano invitato caldamente Obama ad astenersi da questo passo, ma evidentemente altri interessi, ben più forti, hanno bussato alla porta della studio ovale.
Dal punto di vista scientifico e da quello etico la decisione del presidente Usa appare tanto più anacronistica in quanto le recenti e sempre più confermate scoperte dello scienziato giapponese Shinya Yamanaka e del suo collega americano James Thomson hanno reso da più di un anno sostanzialmente sorpassati gli studi sulle cellule staminali embrionali. Dopo Ian Wilmut, il ' padre' della pecora clonata Dolly, che aveva rinunciato a lavorare con gli embrioni, perfino i media più legati alle multinazionali farmaceutiche, dopo un silenzio imbarazzato, hanno dovuto annunciare a denti stretti i successi ottenuti nella riprogrammazione delle cellule adulte per farle diventare ' pluripotenti' e, perciò, assai simili a quelle embrionali. Queste cellule ' ringiovanite' possono essere facilmente studiate, evitando di distruggere gli embrioni e senza bloccare in alcun modo la ricerca di terapie che, come ampiamente noto, sono venute sinora solo da cellule staminali adulte. Ci si può domandare dove stia allora il business, e perché si assista a tanta determinazione nel voler riprendere la ricerca sulle cellule embrionali umane alimentata da fondi federali. Il progetto delle aziende biotech al cospetto di un campo promettentissimo come quello della medicina rigenerativa è di usare i soldi pubblici per studiare gli embrioni, ingegnerizzare e brevettare le loro cellule, moltiplicarle e farne medicine di altissima tecnologia e costo proporzionale. Ovviamente si useranno i soldi dello Stato per fare la ricerca e poi, in caso di successo, si brevetterà il risultato a proprio esclusivo vantaggio. Viceversa, le staminali adulte con le quali farsi curare – anche quelle ' ringiovanite' – appartengono a ciascuno di noi, non dobbiamo pagare per averle. Ci sarà certamente un costo delle procedure mediche, ma non si deve comprare la materia prima. Possiamo dire che le staminali adulte, oltre all’importantissima qualità di non provocare alcun rigetto, sono e saranno sempre più disponibili per tutti, anche per chi è meno abbiente. Le eventuali cellule provenienti dagli embrioni andranno invece pagate a carissimo prezzo. Un po’ come avviene per i farmaci anti- Hiv, che producono enormi profitti e non sono disponibili per i popoli più poveri. Anche le staminali biotech tratte da embrioni, se mai ci saranno, saranno disponibili esclusivamente per la porzione ricca del mondo. Se questo aspetto morale di giustizia planetaria non importa ai ' difensori dei poveri' – dall’America a casa nostra – che considerano l’embrione niente più che un grumo di cellule, perché dovrebbe importare a Obama?
Almeno lui esibisce ragioni utilitaristiche: combattere con ogni mezzo la crisi dell’economia americana e riaffermare un ' sano' espansionismo biotecnologico. Ma per favore, non ci parlino di ' motivi umanitari' o di ' libertà di ricerca'...
Il biologo Angelo Vescovi: ormai è possibile produrre staminali senza distruggere gli embrioni E si possono anche clonare - «Decisione sconcertante e anacronistica» - «Inattendibili i test con le embrionali su lesioni spinali acute, perché talora regrediscono da sole» - DI ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 10 marzo 2009
«Decisione sconcertante e anacronistica. Proprio ora che esistono vie per produrre cellule staminali embrionali senza distruggere embrioni». Angelo Vescovi, direttore del Centro «Brain Repair» di Terni, docente di Biologia all’Università di Milano-Bicocca e direttore scientifico Stem Gen spa, è critico verso l’apertura di Obama alla ricerca sugli embrioni umani. Ed è cauto anche verso la validità terapeutica della sperimentazione sulle lesioni spinali con staminali embrionali.
Professore, Obama ha deciso di finanziare con fondi federali la ricerca sulle staminali embrionali. Cosa ne pensa?
La decisione del presidente Obama è sconcertante e anacronistica, perché ormai da tre anni è possibile produrre cellule staminali embrionali senza distruggere embrioni. È addirittura possibile clonarle con un’altissima efficienza, qualcosa che con gli embrioni non è possibile. La scelta di Obama non è stata dettata dagli interessi per la ricerca o per i pazienti. Ma è a favore di quelle lobby che probabilmente ne hanno supportato l’elezione.
Dagli Stati Uniti giunge anche la notizia di un primo esperimento con staminali embrionali umane per le lesioni spinali. È un esempio della nuova linea-Obama?
Di per sé il fatto di giungere a una sperimentazione clinica, di fase 1, è un segnale positivo. Ma in questo caso, il via libera concesso dalla «Food and Drug Administration » viene dopo un lungo divieto che aveva ragioni morali molto forti. Infatti la comunità scientifica è molto restia a sperimentare sulle lesioni acute spinali, perché è molto difficile valutare quale sarà l’esito dell’infortunio. Ci sono numerosi casi in cui i pazienti recuperano spontaneamente, ma ciò non è prevedibile al momento in cui il danno è recente.
Addirittura l’intervento di manipolazione su un paziente potrebbe peggiorare le sue possibilità di recupero spontaneo. Il difficile invece è migliorare le condizioni dei pazienti che hanno una lesione ormai consolidata che li costringe a stare in carrozzella.
Intende dire che l’esperimento è quasi inutile?
I test di fase 1 servono a verificare la non tossicità delle cellule: però nell’analizzare i risultati è esperienza comune che il ricercatore cerchi di estrapolare dati sull’efficacia clinica dell’esperimento, per costruire la sperimentazione di fase 2. E proprio in questo sta la presumibile inattendibilità del trial: è facile che su lesioni di non più di due settimane (come sono quelle dei pazienti che verranno arruolati), qualcuna sarebbe regredita spontaneamente, ma potrebbe essere interpretata come effetto della terapia cellulare. Di certo lo faranno i pazienti che sono davvero e comprensibilmente disperati. Non è stato infatti spiegato perché non siano stati previsti pazienti con lesioni croniche.
Ci sono solo motivi ideologici dietro l’entusiasmo per il trial con le embrionali?
Non credo. Ci sono anche ben concreti interessi economici. Del resto la Geron, l’azienda che condurrà la sperimentazione, ha speso finora oltre 40 milioni di dollari, ed è probabile che si vogliano dare i crismi dell’unicità. E quindi l’amministratore delegato dichiara che questi studi con gli oligodendrociti (un tipo di cellula nervosa) non si possono fare altro che con le staminali embrionali che useranno loro. In realtà per avere oligodendrociti umani poteva venire nel nostro laboratorio e ne avrebbe avuti a volontà. In cambio prendo volentieri alcuni milioni di dollari e avvio i trial clinici in Italia... In più il danno al midollo, negli stadi precoci, non viene riparato solo dalla presenza di oligodendrociti, ma anche da diverse e svariate cellule.
Quanto pesa nella ricerca sulle staminali la scoperta delle cellule riprogrammate (Ips) di Yamanaka?
Le Ips rappresentano la svolta degli ultimi anni, la novità che sta sparigliando il campo della ricerca sulle staminali. Uno dei loro maggiori vantaggi è che si possono clonare e fare autotrapianti. Ma c’è ottimismo anche per il fatto che nel mondo stanno avviandosi altre sperimentazioni. Tra tutte, cito un trial all’Università del Winsconsin contro la sclerosi laterale amiotrofica (Sla) molto simile a quella cui stiamo lavorando noi in Italia. Tanto che abbiamo avuto un proficuo scambio di esperienze con un chirurgo di Madison.
A che punto è la vostra sperimentazione?
Siamo ancora in fase autorizzativa: stiamo completando le procedure per richiedere all’Aifa l’ok alla preparazione delle cellule, che è legato al protocollo clinico. Quando l’avremo ottenuto, potremo partire per questo trial di fase 1, pensiamo entro il 2009, ma dipende dai soldi, che ci hanno causato ritardi notevoli. Si noti che la validazione Gmp (Good manifacturing practise) delle nostre cellule ci permetterà di usarle più facilmente e rapidamente anche per altri trial, su cui stiamo già lavorando con i neurologi dell’università di Padova. Quello che manca sempre sono i finanziamenti: li avessimo avuti noi i 40 milioni della Geron. In realtà dobbiamo cavarcela con assai meno di 2 milioni, raccolti a fatica e, mi scusi, tra i continui attacchi degli scettici di turno (e di parte). Nel progetto di questo trial sono coinvolti l’ospedale di Terni, il gruppo della dottoressa Letizia Mazzini all’Università di Novara (Piemonte Orientale) e l’Università di Milano- Bicocca.