Nella rassegna stampa di oggi:
1) 01/03/2009 12.13.18 – Radio Vaticana – Il Papa all’Angelus lancia un appello in favore degli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, presenti in Piazza San Pietro, e di tutti i lavoratori colpiti dall’attuale crisi economica, tra cui cita quelli del Sulcis-Iglesiente e di Prato. Quindi, ricordando il Vangelo della prima Domenica di Quaresima - che ci presenta Gesù nel deserto tentato da satana e servito dagli angeli - ha esortato a rompere con il peccato, combattendo contro ogni forma di tentazione e riponendo la fiducia nella misericordia divina. In questa lotta – ha precisato – invochiamo l’aiuto degli angeli. Ecco il testo integrale dell’Angelus con i saluti nelle varie lingue
2) Siamo tutti C.T. - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
3) Si riaccendono gli scontri armati anche nel Sud Sudan - Ogni giorno nel Darfur muoiono settantacinque bambini – L’Osservatore Romano, 28 febbraio 2009
4) EUGENETICA/ Mounier, l’esempio di una sfida all’ideologia con l’eroismo quotidiano - Fabio Ferrucci - sabato 28 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
5) LIBRI - filosofia - Il rapporto di vita e di pensiero tra i due tedeschi immersi nel dramma della loro patria: il maestro illuso dal nazismo e ripiegato sull’essere, l’allieva ebrea che invece vuol reagire alla banalità del male Arendt e Heidegger, duello sul ’900 - DI FRANCESCO TOMATIS – Avvenire, 28 febbraio 2009
6) Storie di conversione: Costantino - Una visione e un sogno nel cammino dell'uomo - L'improvvisa scomparsa - venerdì 27 febbraio a Roma - di Marilena Amerise è una grave perdita per gli studi sul cristianesimo antico, per il Pontificio Consiglio della Cultura, per il nostro giornale, al quale collaborava con fedele e gioiosa generosità. Marilena era nata a Corigliano Calabro solo trentaquattro anni fa. Completati e perfezionati i suoi studi nelle università di Perugia, Bonn e Bamberg, ha studiato soprattutto il primo imperatore cristiano ed Eusebio di Cesarea, pubblicando Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Stuttgart, Franz Steiner Varlag, 2005, pagine 177, euro 37, 40 (Hermes Einzelscriften, 95) e curando la traduzione di due importanti discorsi tenuti dal grande filologo cristiano: Eusebio di Cesarea, Elogio di Costantino. Discorso per il trentennale. Discorso regale, Introduzione, traduzione e note di Marilena Amerise, Milano, Paoline, 2005, pagine 269, euro 24 (Letture cristiane del primo millennio, 38). Pubblichiamo due articoli che ci aveva inviato nelle scorse settimane. - di Marilena Amerise – L’Osservatore Romano, 1 Marzo 2009
7) La teologia politica di Eusebio di Cesarea - Esercizio del potere e pratica della virtù – L’Osservatore Romano, 1 Marzo 2009
8) Tempi 27-2-2009 - Il caso Wajda. Il maestro censurato - di Roberto Persico,Annalia Guglielmi - «Sono in molti ad avere interesse a che il mio film non sia proiettato, ad acquistarne i diritti per non farlo vedere». Le scomode verità del grande regista di “Katyn” – Varsavia
01/03/2009 12.13.18 – Radio Vaticana – Il Papa all’Angelus lancia un appello in favore degli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, presenti in Piazza San Pietro, e di tutti i lavoratori colpiti dall’attuale crisi economica, tra cui cita quelli del Sulcis-Iglesiente e di Prato. Quindi, ricordando il Vangelo della prima Domenica di Quaresima - che ci presenta Gesù nel deserto tentato da satana e servito dagli angeli - ha esortato a rompere con il peccato, combattendo contro ogni forma di tentazione e riponendo la fiducia nella misericordia divina. In questa lotta – ha precisato – invochiamo l’aiuto degli angeli. Ecco il testo integrale dell’Angelus con i saluti nelle varie lingue:
Cari fratelli e sorelle!
Oggi è la prima domenica di Quaresima, e il Vangelo, con lo stile sobrio e conciso di san Marco, ci introduce nel clima di questo tempo liturgico: “Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1,12). In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio. Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr Fil 2,6-7). Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.
Quasi di sfuggita, nella brevità del racconto, di fronte a questa figura oscura e tenebrosa che osa tentare il Signore, appaiono gli angeli, figure luminose e misteriose. Gli angeli, dice il Vangelo, “servivano” Gesù (Mc 1,13); essi sono il contrappunto di Satana. “Angelo” vuol dire “inviato”. In tutto l’Antico Testamento troviamo queste figure, che nel nome di Dio aiutano e guidano gli uomini. Basta ricordare il Libro di Tobia, in cui compare la figura dell’angelo Raffaele, che assiste il protagonista in tante vicissitudini. La presenza rassicurante dell’angelo del Signore accompagna il popolo d’Israele in tutte le sue vicende buone e cattive. Alle soglie del Nuovo Testamento, Gabriele è inviato ad annunciare a Zaccaria e a Maria i lieti eventi che sono all’inizio della nostra salvezza; e un angelo, del quale non si dice il nome, avverte Giuseppe, orientandolo in quel momento di incertezza. Un coro di angeli reca ai pastori la buona notizia della nascita del Salvatore; come pure saranno degli angeli ad annunciare alle donne la notizia gioiosa della sua risurrezione. Alla fine dei tempi, gli angeli accompagneranno Gesù nella sua venuta nella gloria (cfr Mt 25,31). Gli angeli servono Gesù, che è certamente superiore ad essi, e questa sua dignità viene qui, nel Vangelo, proclamata in modo chiaro, seppure discreto. Infatti anche nella situazione di estrema povertà e umiltà, quando è tentato da Satana, Egli rimane il Figlio di Dio, il Messia, il Signore.
Cari fratelli e sorelle, toglieremmo una parte notevole del Vangelo, se lasciassimo da parte questi esseri inviati da Dio, i quali annunciano la sua presenza fra di noi e ne sono un segno. Invochiamoli spesso, perché ci sostengano nell’impegno di seguire Gesù fino a identificarci con Lui. Domandiamo loro, in particolare quest’oggi, di vegliare su di me e sui collaboratori della Curia Romana che questo pomeriggio, come ogni anno, inizieremo la settimana di Esercizi spirituali. Maria, Regina degli Angeli, prega per noi!
Dopo Angelus
Je suis heureux de vous saluer, chers frères et sœurs francophones, et particulièrement d’accueillir les pèlerins du diocèse d’Arras. En ce premier dimanche de Carême, Jésus nous invite à convertir notre cœur et à croire à la Bonne Nouvelle. Sachons répondre à cet appel du Seigneur par la prière, le jeûne et l’aumône. Ouvrons-nous à la grâce et à la nouveauté de l’Évangile ! Que ce temps du Carême nous donne de faire l’expérience de la miséricorde divine et nous aide à changer radicalement de vie ! Avec ma Bénédiction apostolique.
I am happy to greet all the English-speaking visitors present at today’s Angelus prayer. On this First Sunday of Lent, the Gospel of Saint Mark speaks of Jesus being lead into the desert by the Holy Spirit, tempted by Satan and assisted by the angels. Let us pray that our Lenten journey will strengthen us in the struggle against all forms of temptation. Upon all of you I invoke God’s abundant blessings, and I wish you a pleasant Sunday and a happy stay in Rome!
An diesem ersten Fastensonntag grüße ich gerne alle Brüder und Schwestern aus den Ländern deutscher Sprache. Die vierzig Tage der Fastenzeit erinnern an die vierzig Tage Jesu in der Wüste wie auch an die vierzig Jahre der Wanderung des Volkes Israel durch die Wüste in das verheißene Land. Die Entbehrungen der Wüste öffnen den Blick für das Wesentliche. Was zählt und unser Leben trägt, ist die Bindung an Gott. Die Umkehr, die Hinwendung zu Gott und der Glaube sind Geschenk seiner Gnade und zugleich Aufgabe. Gerade in dieser heiligen Zeit wollen wir unser Leben neu im Herrn festmachen. Dabei stärke und helfe euch der Heilige Geist.
Saludo con afecto a los fieles de lengua española, en particular a los peregrinos de la Parroquia de la Inmaculada de La Carlota, Córdoba, de la Parroquia de Santa Cruz de Ibiza, y de las Parroquias de San José y de San Antón de Murcia. En el mensaje de Cuaresma de este año he querido resaltar el valor y el sentido del ayuno. La privación voluntaria de algo que de por sí es lícito nos ayuda a un mayor dominio de nosotros mismos, a combatir el pecado, a amar más al prójimo, en definitiva, a cumplir con mayor prontitud la voluntad de Dios. Que la Santísima Virgen nos alcance la gracia de vivir con provecho este tiempo de preparación para la Pascua. Feliz domingo.
„Czas się wypełnił i bliskie jest królestwo Boże” (Mk 1, 15). Tak powiedział Pan Jezus do ludzi po zwycięstwie nad szatanem na pustyni. Dzisiaj, w Pierwszą Niedzielę Wielkiego Postu, kieruje te słowa również do nas. Czas zerwać z grzechem, pokonać pokusy, uwierzyć i zaufać Bogu: „Nawracajcie się i wierzcie w Ewangelię!” (Mk 1, 15). Dzieląc się tą refleksją serdecznie pozdrawiam Polaków.
[“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). Così disse Gesù alla gente dopo la sconfitta di Satana nel deserto. Oggi, nella Prima Domenica di Quaresima, rivolge queste parole anche a noi. È il tempo di rompere con il peccato, vincere le tentazioni e porre la fiducia in Dio: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Nel partecipare questa riflessione, saluto cordialmente i Polacchi.]
Saluto i lavoratori dello stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco, venuti a manifestare la loro preoccupazione per il futuro di quella fabbrica e delle migliaia di persone che, direttamente o indirettamente, dipendono da essa per il loro lavoro. Penso anche ad altre situazioni ugualmente difficili, come quelle che stanno affliggendo i territori del Sulcis-Iglesiente, in Sardegna, di Prato in Toscana e di altri centri in Italia e altrove. Mi associo ai Vescovi e alle rispettive Chiese locali nell’esprimere vicinanza alle famiglie interessate dal problema, e le affido nella preghiera alla protezione di Maria Santissima e di San Giuseppe, patrono dei lavoratori. Desidero esprimere il mio incoraggiamento alle autorità sia politiche che civili, come anche agli imprenditori, affinché con il concorso di tutti si possa far fronte a questo delicato momento. C’è bisogno, infatti, di comune e forte impegno, ricordando che la priorità va data ai lavoratori e alle loro famiglie.
Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Salorno, Rubiera, Paestum, San Giovanni a Piro e Fino del Monte, i ragazzi dell’Oratorio “Giovanni Paolo II” di Rozzano e l’Associazione Sportiva “Aniene” di Roma. A tutti auguro una buona domenica e una Quaresima ricca di frutti spirituali.
Siamo tutti C.T. - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 26 febbraio 2009
Devo essere sincero, tutto il gran parlare da parte dei vari mezzi di comunicazione non mi appassiona poi più di tanto: aveva ragione il Papa quando diceva che spesso, più che raccontare la realtà come è, la dicono come la vorrebbero. E in questo sono tutti C.T.: sembra di assistere al campionato del mondo di calcio, dove ciascuno afferma che, se si desse ascolto a lui, certo la vittoria sarebbe già nelle nostre mani. Peccato però che la realtà, che è testarda, vada da un’altra parte.
Ho appena letto due articoli, diversi per argomento, ma simili nella loro logica: Küng e Veronesi, la Chiesa come dovrebbe essere, e la pace come la si deve fare. Come ogni buon C.T. hanno già la soluzione: senza questo papa la Chiesa rinascerà più viva e forte, con noi medici e scienziati, sarà assicurata la pace perpetua.
Peccato però che in tutto questo il popolo, quello fatto di uomini in carne ed ossa, quello che si riconosce nella fede, quello che lotta e che soffre quotidianamente, peccato che non c’entri.
La battaglia di oggi è tutta qui: un popolo che ha il criterio del bene e del vero, che sa riconoscere i propri maestri, e tutti i C.T. che vogliono cambiargli la mente, la testa, il cuore, la speranza…
Se vincessero i C.T. (e di mezzi ne hanno, di soldi e di strumenti sono zeppi) certo sarebbe una sventura: la fede ridotta a cultura, per pochi eletti (i cui maestri sarebbero i teologi o e gli esegeti); la vita in mano ai tecno-scienziati, dai pochi scrupoli; l’educazione come “formazione”, in mano a chi “sa” veramente quello che l’uomo desidera; la pace, quella sì, lontana mille miglia (come dicevano i romani “hanno fatto il deserto, l’hanno chiamato pace”). Non dico questo per pessimismo o per sfiducia nella ragione: la storia è ricca di queste forme di orgoglio, che, se pur rivestite di sentimenti “umanitari”, poi si sono rivelate sventura per i poveri, per la gente semplice, per la civiltà.
La Torre di Babele, con la sua pretesa di un unico linguaggio, ora e allora, è un monito sempre attuale.
Qualche esempio?
Penso al rinascere della eugenetica, con proclami non lontani né diversi da quelli di Hitler.
Penso alla pretesa di definire la vita e la morte come qualcosa che sia in potere dell’uomo, contro la coscienza, che ha il popolo, della “indisponibilità della vita”.
Penso al cinismo con cui una vicenda drammatica come quella di Eluana e prima di Welby, siano state usate come grimaldello per modificare od ottenere leggi secondo il proprio parere (ricordiamo, tra l’altro, che Kant suggeriva di considerare sempre l’uomo come fine e mai come mezzo).
Penso all’accanimento con cui si vuole tenere lontano dalla scuola (in nome di un principio di esasperata laicità) ogni riferimento religioso (a meno che sia “culturale”, cioè privato della sua vera identità).
Poveri C.T.: come sarebbe più semplice per tutti ritornare umilmente alle radici cristiane della nostra civiltà, guardare con simpatia la fede dei semplici, quella che sa riconoscere nel successore di Pietro (quello vero, in carne ed ossa, non quello che vive nelle loro teste) una guida e un pastore, come sarebbe più semplice e intelligente riconoscere che “ci sono più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia”.
A costo di sembrare sorpassati, noi di CulturaCattolica.it vogliamo seguire e comunicare, servire con tutto noi stessi quel pastore Benedetto che ci può portare alla vittoria, quella vera.
Si riaccendono gli scontri armati anche nel Sud Sudan - Ogni giorno nel Darfur muoiono settantacinque bambini – L’Osservatore Romano, 28 febbraio 2009
Roma, 27. Ogni giorno, settantacinque bambini muoiono di fame o di malattia nel Darfur, la regione occidentale sudanese dove si protrae da sei anni un conflitto civile che ha provocato tra i 200.000 e i 400.000 morti e 2.800.000 profughi. L'aspettativa di vita per le popolazioni è di 35 anni per gli adulti e di sei per i bambini. Tali dati, sostanzialmente in linea con quelli delle Nazioni Unite, sono contenuti in un rapporto presentato ieri a Roma dall'organizzazione non governativa (ong) Italians for Darfur. Il presidente della ong, Antonella Napoli, ha sottolineato i ritardi nel dispiegamento dell'Unamid, la missione congiunta dell'Onu e dell'Unione africana avviata a fine 2007 e prevista come la più grande operazione di peacekeeping mai autorizzata, con una forza fino a 26.000 uomini. Di fatto, finora ne sono arrivati la metà e, soprattutto, mancano i mezzi, in particolare gli elicotteri, la cui fornitura è stata più volte inutilmente sollecitata dal Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon. Di conseguenza, l'Unamid è ancora ben lontana dal garantire la sicurezza della popolazione e anzi lo scorso anno la situazione è ulteriormente peggiorata. Nel 2008, secondo il rapporto di Italians for Darfur, circa 300.000 persone hanno lasciato i propri villaggi per chiedere assistenza nei campi profughi ed è stato registrato un peggioramento della qualità della vita nei centri di accoglienza.
Nel frattempo, sembra riaccendersi anche la crisi in Sud Sudan, dove nell'ultima settimana - secondo fonti dell'Onu citate dalle agenzie di stampa internazionali - ci sarebbero stati cinquanta morti e un centinaio di feriti in scontri armati nella città di Malakal. I combattimenti vedono contrapposti gli ex ribelli dell'Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla), oggi trasformato in movimento e al Governo in Sud Sudan, e sostenitori di Gabriel Tang, ex capo delle milizie nordiste durante la guerra civile e oggi generale dell'esercito sudanese.
(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio 2009)
EUGENETICA/ Mounier, l’esempio di una sfida all’ideologia con l’eroismo quotidiano - Fabio Ferrucci - sabato 28 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Oggi, le scelte eutanasiche sono la ragionevole conseguenza di quelle eugenetiche. Pochi amano ricordare che pratiche eugenetiche analoghe a quelle attuate dai nazisti nei confronti delle persone disabili furono adottate in paesi di specchiata tradizione democratica. Tanto per fare un esempio, in Svezia, tra il 1935 e il 1975, medici di tendenza liberale e umanista diedero attuazione ad un programma nazionale di sterilizzazione che coinvolse 62.000 persone, con interventi non sempre volontari. Sono analogie urticanti, non a caso praticate nei confronti degli stessi soggetti: le persone disabili. Un esponente di Amnesty International, quasi vent’anni fa ebbe a dire che se la società riconosceva la Sindrome di Down come una ragione accettabile per abortire un feto, ciò avrebbe reso più difficile preservare l’uguale dignità anche per coloro che erano già nati ed erano affetti da questa malattia. Si potrebbe argomentare – concludeva l’attivista – che la loro dignità umana, se non i loro diritti umani, sono ridotti. Per questo motivo le organizzazioni delle persone disabili guardano con preoccupazione a certe sentenze emesse dai tribunali italiani.
Ma come la mettiamo quando il giudizio sulle condizioni che rendono degna la vita viene dalla coscienza dalla libera autodeterminazione dell’individuo, chiedendo che la sua volontà si trasformi in un diritto? Non è vero, obietta la filosofa De Monticelli, che la vita è l’unica cosa sacra che c’è; perché, argomenta, la si può sacrificare in nome di un ideale o per il bene di un’altra persona.
Ma proprio su questo punto si palesa, a mio avviso, un problema. Molti studi sociologici dimostrano che un atteggiamento favorevole nei confronti dell’eutanasia non coincide necessariamente con il desiderio di morire. Quando i pazienti intervistati si esprimono a favore dell’eutanasia lo fanno immaginando una ipotetica situazione futura, in genere associata con il timore per la sofferenza futura e non per quella attuale.
Inoltre, una ricerca realizzata intervistando malati terminali oncologici ha messo in evidenza che l’espressione suprema della libertà individuale (il diritto di morire) fornisce una rappresentazione molto semplificata della scelta individuale. La decisione di porre termine alla propria esistenza (in gergo tecnico definita Do not resuscitate), è condizionata da un complesso insieme di relazioni: di tipo familiare, sociale e strutturale. La persona umana, quella che vive, soffre e pensa, si forma all’interno di questo contesto di relazioni. Negarlo conduce ad una visione dell’uomo dotato di una libertà ontologicamente onnipotente (di qui il tragico parallelo con il nazismo).
Con ciò non si vuol negare che l’uomo è strutturalmente definito dalla sua libertà e perciò che egli può sempre trascendere il contesto sociale con suo gesto di libertà orientato al valore che ritiene buono per sé. Ma qual è il bene di un embrione su cui è stata diagnosticata la sindrome di Down oppure di una persona in “stato vegetativo”? La risposta è affidata alla nostra libertà, alla nostra disponibilità a instaurare o mantenere con essa delle relazioni. Accettando che queste relazioni siano prodotte e riprodotte, “umanizzando” un bambino con sindrome Down o accudendo una persona gravemente disabile, ci scopriamo noi stessi più umani.
Lo sterminio dei disabili prima ancora che nel chiuso dei cenacoli scientifici, oppure nelle stanze del potere, inizia nel chiaroscuro della nostra coscienza, quando decidiamo se il limite che segna l’esistenza della persona disabile sia anche il nostro stesso limite. La società ha iniziato ad essere più umana rinunciando alla soppressione delle persone con disabilità, quando ha saputo scorgere nel limite non soltanto un ostacolo ma una sollecitazione ad accorgersi di un’alterità preziosa. Come documenta l’esperienza di Mounier, uno dei più grandi pensatori francesi del XX secolo, nella casa del quale la figlia Françoise, gravemente cerebrolesa, occupava il posto d’onore a tavola quando ricevevano le visite dei più influenti intellettuali dell’epoca. Un’esperienza che è meno eroica e più comune di quanto, per convenienza, saremmo portati a credere. Se c’è un’evidenza che accomuna i normodotati e le persone con disabilità, è che, ora, in entrambi i casi, il nostro essere ci è dato. Per questo la nostra libertà può accettarlo o rifiutarlo: perché c’è.
LIBRI - filosofia - Il rapporto di vita e di pensiero tra i due tedeschi immersi nel dramma della loro patria: il maestro illuso dal nazismo e ripiegato sull’essere, l’allieva ebrea che invece vuol reagire alla banalità del male Arendt e Heidegger, duello sul ’900 - DI FRANCESCO TOMATIS – Avvenire, 28 febbraio 2009
G li 11 mesi di rettorato dell’università di Freiburg, dal 27 maggio 1933 al 27 aprile 1934, vengono periodicamente rinfacciati a Martin Heidegger, il maggior pensatore del XX secolo, maestro di Hannah Arendt e Karl Löwith, Hans Jonas ed Herbert Marcuse, Hans-Georg Gadamer e Max Müller, Emmanuel Levinas e Max Horkheimer, Günther Anders e Leo Strauss, senza il cui pensiero non potremmo comprendere Rudolf Bultmann e Bernhard Welte, Jacques Derrida e Luigi Pareyson. Non fu soltanto una breve parentesi amministrativa; certamente c’era anche la convinzione di poter far convergere il proprio pensiero con la situazione storicopolitica avviatasi il 30 gennaio 1933, con l’affidamento a Hitler dell’incarico di formazione di un nuovo governo tedesco. Non che Heidegger fosse nazionalsocialista, né antisemita. Tuttavia ritenne almeno di poter guidare con il proprio pensiero rivoluzionario un rinnovamento dell’università. Ciò sino al Natale 1933, quando rivide le proprie posizioni. Un recente lavoro biografico sui rapporti intercorsi fra Martin Heidegger e Hannah Arendt, dal loro primo incontro all’università di Marburg nel semestre invernale 1924-25 sino alla morte, rispettivamente nel dicembre 1975 e nel maggio 1976, dà occasione di ripensamento della vicenda, soprattutto in merito alla rilevanza che assunse nella vita e nel pensiero dei due. Antonia Grunenberg si distingue per la viva e accurata capacità di ricostruire gli ambienti culturali in cui vissero nelle diverse fasi della vita Heidegger e la Arendt, riuscendo anche a mostrare l’intreccio del pensiero e lo sconvolgente effetto che fece su entrambi l’avvento del nazismo: giovane studentessa ebrea lei e pensatore tedesco lui all’apice della carriera accademica.
Questo malgrado – va detto – un insufficiente approfondimento dell’opera heideggeriana in particolare, alla quale occorrerebbe invece riallacciarsi per comprendere appieno la svolta che tale situazione comportò anche nel pensiero. L’ottica del rapporto fra Arendt e Heidegger, tuttavia, resta davvero esemplare per molti aspetti. L’amore che li legò tutta la vita, anche durante anni di silenzio e nonostante la costante separazione, se si escludono i pochi mesi marburghesi e poi, nel dopoguerra, incontri annuali dal 1950 al 1975, permette di comprendere in profondità le motivazioni e gli sconvolgimenti delle scelte di entrambi.
Delicato e incisivo assieme è l’epistolario intercorso fra i due: Lettere 1925-1975 (Einaudi). È sufficiente rileggersi le pagine dedicate a Heidegger del volume postumo della Arendt,
La vita della mente (Il Mulino), nelle quali ella colloca la svolta nel pensiero heideggeriano proprio nei corsi friburghesi dedicati a Nietzsche immediatamente dopo la disillusione del rettorato. In particolare la Arendt coglie bene come non solo qui sia accaduto un passaggio, rispetto a Essere e tempo del 1927, da un’analisi dell’esistenza al prevalere dell’essere, ma anche la critica della volontà di potenza intesa come dominio soggettivistico, imposizione politica e tecnologica ben incarnata dal nazismo.
Qui anche il divergere della condotta esistenziale e del pensiero della Arendt rispetto al maestro. Heidegger interpretò la propria colpa di essersi illuso sulle possibilità emancipative intuite nella rivoluzione nazionalsocialista come eccesso di priorità conferito all’uomo nel suo pensiero stesso, malgrado il superamento del soggettivismo e del trascendentalismo. Da qui un affidarsi all’evento dell’essere: soltanto ascoltabile da parte di un pensiero ringraziante che è il massimo dell’azione concessa all’uomo, cioè il non-volere, l’abbandonarsi all’essere stesso. Persino nella forma dell’oblioso darsi dell’essere, sottraentesi alla storicità, dedita all’erramento, come ben colse la Arendt commentando il saggio heideggeriano Il detto di Anassimandro.
La pensatrice ebrea, impressionata non tanto dall’antisemitismo nazista quanto dall’accondiscendenza generalizzata e dalla banalità del male, reagì invece alla tempesta tedesca e al personale sconvolgimento nel rapporto amoroso con Heidegger attraverso l’elaborazione di un pensiero che cercasse nuove forme di azione, nonviolente e personali, capaci di aprire a un vero pluralismo, al di là di ogni totalitarismo o inazione.
A Heidegger che attendeva un nuovo inizio offerto dall’essere a chi sapesse ascoltarne l’imprevedibile evento in un contegno umile, Arendt rispose con sant’Agostino, concludendo non solo La vita delle mente
ma anche il più celebre Le origini del totalitarismo: «Initium... ut esset, creatus est homo», affinché vi fosse un inizio fu creato l’uomo.
Storie di conversione: Costantino - Una visione e un sogno nel cammino dell'uomo - L'improvvisa scomparsa - venerdì 27 febbraio a Roma - di Marilena Amerise è una grave perdita per gli studi sul cristianesimo antico, per il Pontificio Consiglio della Cultura, per il nostro giornale, al quale collaborava con fedele e gioiosa generosità. Marilena era nata a Corigliano Calabro solo trentaquattro anni fa. Completati e perfezionati i suoi studi nelle università di Perugia, Bonn e Bamberg, ha studiato soprattutto il primo imperatore cristiano ed Eusebio di Cesarea, pubblicando Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Stuttgart, Franz Steiner Varlag, 2005, pagine 177, euro 37, 40 (Hermes Einzelscriften, 95) e curando la traduzione di due importanti discorsi tenuti dal grande filologo cristiano: Eusebio di Cesarea, Elogio di Costantino. Discorso per il trentennale. Discorso regale, Introduzione, traduzione e note di Marilena Amerise, Milano, Paoline, 2005, pagine 269, euro 24 (Letture cristiane del primo millennio, 38). Pubblichiamo due articoli che ci aveva inviato nelle scorse settimane. - di Marilena Amerise
Nella ricorrenza della battaglia di Ponte Milvio, con la quale Costantino sconfisse Massenzio, il Pontificio Comitato di Scienze Storiche ha avviato la preparazione di un convegno in occasione dell'anniversario di tale evento storico e dell'Editto di Costantino (312-2012). Costantino regnò dal 306 al 337, passando alla storia come il primo imperatore cristiano. Ancora oggi, la sua figura è un enigma, una sorta di sfinge della storia. Molto è stato scritto sulla sua conversione e diversi sono i pareri degli storici, alcuni addirittura opposti tra loro. Secondo la tesi di Jacob Burckhardt (1818-1897), la decisione di Costantino sarebbe stata motivata da opportunismo politico. L'imperatore - scrive lo studioso in Die Zeit Constantins des Grossen (1880) - è un uomo a cui "l'ambizione e la smania di dominio non concedono un momento di requie" e per il quale "non è il caso di parlare di cristianesimo o paganesimo" in quanto un uomo simile "è sostanzialmente areligioso". Burchkardt conia la formula di Christianismus politicus applicandola alla conversione di Costantino. Diversi studiosi hanno seguito questa interpretazione, sostenendo che in sostanza l'imperatore avrebbe operato solo uno "scambio di patronato divino", realizzando in definitiva una Chiesa non solo non cristiana, ma addirittura anticristiana. Questa valutazione è stata ridimensionata dalla successiva elaborazione storiografica, ma il sospetto di un'ipocrisia religiosa dell'imperatore è rimasto. Di contro, c'è chi ritiene che Costantino fosse nato cristiano e quindi non avesse avuto alcun bisogno di convertirsi. Tra questi Thomas George Elliot, che in diversi studi elaborati tra il 1987 e il 1992 elabora una tesi che però non trova riscontro nelle fonti. Al di là delle numerose ipotesi, è certo che il nuovo orientamento religioso dell'imperatore, la cosiddetta konstantinische Wende, ha avuto massicce conseguenze storiche: dopo Costantino il cammino della storia del mondo e della Chiesa non è stato più lo stesso. Eusebio, vescovo di Cesarea (270 circa - 339 circa), è il primo a sentire l'esigenza di trasmettere alla posterità la storia della conversione dell'imperatore. Nel 337, dopo la sua morte, scrive la Vita Constantini, della cui autenticità a lungo si è dubitato prima che venisse confermata da studi approfonditi. Lo scenario della conversione dell'imperatore è quello della battaglia di Ponte Milvio. Costantino, nominato Cesare nel 306 in seguito alla morte del padre Costanzo Cloro, è impegnato nel confronto contro l'usurpatore Massenzio, figlio di Massimiano, che tiranneggia Roma. Con il suo esercito Costantino consegue alcune vittorie e si avvicina alla capitale. Prima della battaglia decisiva, la più importante della sua vita, l'imperatore è inquieto e riflette su quale debba essere il suo theòs boethòs, il "dio protettore". Impegnato in queste riflessioni, Costantino ha una visione: a mezzogiorno nel cielo si forma una croce di stelle accompagnata da una frase: "Con questo segno, vincerai". L'imperatore non comprende a pieno l'avvenimento, ma di notte, in sogno, Cristo gli spiega il significato del segno. Al mattino, convoca i cristiani che militano nelle file del suo esercito e chiede delucidazioni sulla loro fede. Poi fa la sua scelta: il monogramma di Cristo avrebbe protetto il suo esercito e il cristianesimo sarebbe stato la sua religione. Il 29 ottobre 312, Costantino riporta la vittoria definitiva a Ponte Milvio ed entra trionfante a Roma. L'anno successivo, nel 313, assieme a Licinio, promulga un editto nel quale il cristianesimo riceve lo status di religione che si può professare senza timore di essere perseguitati. Questa la versione cristiana della conversione di Costantino.
Anche i pagani elaborarono un tesi per spiegare la decisione dell'imperatore. Giuliano, nipote di Costantino, sostiene che la conversione e il battesimo sono stati cercati per ottenere la purificazione da "crimini inespiabili" nella tradizione pagana. La versione più completa di questa tesi è fornita da Zosimo e risale alla metà del iv secolo. L'ultimo storico pagano sostiene che dopo l'esecuzione del figlio Crispo e l'uccisione della moglie Fausta, sospettati di avere una relazione, l'imperatore avrebbe chiesto la purificazione ai sacerdoti pagani che gliela negarono. In soccorso di Costantino, secondo Zosimo, sarebbe giunto un "egiziano dell'Iberia", identificato con il vescovo Ossio di Cordova, che gli avrebbe garantito l'espiazione dalle colpe attraverso i riti della religione cristiana. Questo avrebbe convinto Costantino a convertirsi.
Due versioni diametralmente opposte: quale è quella autentica? Quella cristiana che pone la svolta al 312 oppure quella pagana che individua il 326 come anno decisivo? In primo luogo sia la versione cristiana sia quella pagana confutano alcune ipotesi moderne secondo cui la conversione non sarebbe rinvenibile nelle fonti; in secondo luogo dimostrano che, in positivo e in negativo, era stato avvertito nella società dell'epoca un cambiamento nell'orientamento religioso dell'imperatore.
In realtà, il processo di conversione inizia nel 312. La visione narrata da Eusebio è l'avvenimento con cui presentare in termini propagandistici, secondo la mentalità dell'epoca, il mutato orientamento dell'imperatore. Bisognava narrare in modo apodittico e impressionante la scelta religiosa del sovrano e far capire che era la decisione giusta, la sola che garantiva stabilità e pace all'impero. Eusebio si fa interprete di queste esigenze e le traduce nel racconto della visione, che diventa il "momento della svolta" in maniera evidente, semplice ed efficace. Questa svolta tuttavia diventa visibile, storicamente, in diversi momenti. Il mancato sacrificio a Giove Ottimo Massimo potrebbe rappresentare uno di questi momenti, come ha sottolineato Klaus M. Girardet (Die konstantinische Wende, Darmstadt 2006). Dopo una vittoria, infatti, i trionfatori si recavano sul Campidoglio e sacrificavano a questa divinità. Costantino, dopo aver sconfitto Massenzio, entra a Roma, ma non si reca a celebrare il consueto sacrificio. Nel panegirico pagano del 313, l'autore imbarazzato parla di inconsueta "fretta" dell'imperatore, adombrando così la mancata ascesa al Campidoglio. L'orientamento religioso di Costantino si palesa ancora di più nella prima lettera scritta sulla questione donatista, come ha sostenuto Hartwin Brandt (Konstantin der Grosse. Der erste christliche Kaiser, München 2006). La legislazione raccolta nel XVI libro del Codice teodosiano, particolarmente intensa tra il 319 e il 321, rappresenta un altro momento dal quale si evince questa svolta. Dalle fonti emerge dunque che il cambiamento in Costantino non si evidenzia in un momento preciso, ma si configura come un processo continuo culminato con il battesimo alla fine della vita; una conversione graduale, come del resto aveva già fatto intendere Eusebio di Cesarea. A ben leggere la Vita Constantini, infatti, il processo di conversione dell'imperatore ha un inizio e una fine: l'inizio coincide con la visione celeste del 312 ed è ancorato a una rivelazione divina considerata fondamento della vittoria. La conclusione del processo è sancita dal battesimo, ricevuto sul letto di morte il 22 maggio del 337, con il quale Costantino entra di fatto nella comunità cristiana. La conversione di Costantino è strettamente legata a quella dell'Europa. Ancora oggi risuona attuale la domanda con la quale lo storico Arnold Hugh Martin Jones, chiude il suo libro del 1948 Constantine and the Conversion of Europe: "Se Costantino non si fosse convertito, l'Europa sarebbe stata cristiana?". A questa domanda si può rispondere che, probabilmente il cristianesimo avrebbe proseguito a diffondersi nell'impero romano, ma la "svolta" costantiniana ebbe sicuramente una portata epocale.
(©L'Osservatore Romano - 1 marzo 2009)
La teologia politica di Eusebio di Cesarea - Esercizio del potere e pratica della virtù – L’Osservatore Romano, 1 Marzo 2009
Dedicando nel 2007 una catechesi a Eusebio di Cesarea, Benedetto XVI ha reso finalmente giustizia a un vescovo oggetto di molti pregiudizi. Su di lui gravano le accuse di essere stato un ariano, un cortigiano, un uomo dal debole carattere, un imbonitore. Il Papa ha invece spostato l'attenzione sullo studioso infaticabile, che con la sua opera storica, la prima del cristianesimo, ha salvato dall'oblio molti avvenimenti della Chiesa antica; sul filologo che ha curato la preziosa biblioteca di Cesarea; sul protagonista del concilio di Nicea, di cui "sottoscrisse il Credo e l'affermazione della piena divinità del Figlio di Dio"; sul sincero ammiratore di Costantino, che aveva dato la pace alla Chiesa. Il Pontefice ha messo in evidenza la prospettiva fondamentale della storiografia eusebiana, una "storia "cristocentrica", nella quale si svela progressivamente il mistero dell'amore di Dio per gli uomini (...). L'analisi storica non è mai fine a se stessa; non è fatta solo per conoscere il passato; piuttosto, essa punta decisamente alla conversione e a una autentica testimonianza di vita cristiana da parte dei fedeli". Benedetto XVI ha restituito la figura del vescovo di Cesarea alla verità della storia. Una visione ben lontana dalle tesi sulla presunta accondiscendenza nei confronti di Costantino, derivata da una erronea interpretazione della cosiddetta teologia politica dello studioso presentata nel 336 nel Discorso per il trentennale. In questo testo - che celebra i trenta anni di regno dell'imperatore - Eusebio presenta Costantino come immagine di Dio e mimesi del Lògos. Questa formula, secondo alcuni, sarebbe alla base non solo del cesaropapismo bizantino, ma anche di ogni forma di assolutismo teocratico. Ma in che misura Eusebio ideò una concezione politica che asservì la Chiesa al potere temporale?
Per rispondere a questa domanda, occorre prima chiarire due punti: cosa intende Eusebio quando parla del sovrano come immagine-imitazione di Dio e come è stata recepita nella storia la sua formulazione. Per il vescovo di Cesarea l'imperatore rappresenta l'immagine-imitazione della divinità non per partecipazione ontologica, come volevano i trattati ellenistici, ma grazie alle sue virtù: imitando il Lògos l'imperatore può riprodurre l'immagine del regno del Padre. L'imperatore rappresenta Dio solo se imita il Lògos, perfetta immagine del Padre, e solo in questa imitazione egli può diventare immagine di Dio. Solo colui che riesce a riprodurre in sé l'immagine del Padre attraverso l'imitazione del Lògos, può essere definito veramente imperatore. Il fatto che il soggetto dell'imitazione sia il Lògos, che media il rapporto tra Dio e l'imperatore, e rende possibile che quest'ultimo possa essere immagine di Dio attraverso la sua imitazione, è l'elemento di novità apportato da Eusebio. L'imitazione di Dio acquisisce una nuova sfumatura rispetto alla tradizione che muoveva dal Timeo platonico, presente anche nel pensiero stoico, neopitagorico, medio e neoplatonico.
Per Eusebio l'esercizio del potere è quindi strettamente collegato con la pratica delle virtù e il modello per eccellenza per chi esercita il potere è Cristo: ciò garantisce l'assenza di abusi e illeciti. Il vescovo di Cesarea elabora accuratamente la sua dottrina teologico-politica in quanto, dopo la "svolta costantiniana", aveva la necessità di presentare il nuovo impero cristiano come una realtà concreta e presente.
Sostenendo la necessità di una teologia non strumentalizzabile politicamente, nel suo Il monoteismo come problema politico (1935) il teologo Erik Peterson indica in Eusebio colui che ha dato dimensione teologica alla monarchia divina, creando un nesso tra monoteismo religioso e monarchia universale romana. Pur rimanendo imprescindibile la riflessione di Peterson sui rischi di una identificazione tra religione e politica, che porterebbe a pericolosi fondamentalismi, bisogna ricordare che nel rapporto tra monoteismo e monarchia - o analoghe forme politiche - il concetto di monoteismo non esprime più una fede religiosa, ma un costrutto politico.
Nel lessico di Eusebio di Cesarea, uomo del iv secolo, i termini monoteismo e monarchia non hanno gli stessi significati che acquisiranno nel corso dei secoli. Per Eusebio, la Chiesa non è "una comunità sacramentale separata, ed eventualmente contrapposta, alla comunità politica, giacché nell'una e nell'altra opera la stessa ragione divina, e perciò entrambe devono essere la stessa società, la società dei cristiani, uniti dall'imperatore e in cammino verso il Padre sotto la guida del Verbo", come ha ben evidenziato Merio Scattola, in Teologia politica (Bologna, Il Mulino, 2007). Il cesaropapismo bizantino o l'assolutismo di Giacomo iv di Scozia (1587-1625) recepiscono e portano alle estreme conseguenze la teoria eusebiana, snaturandone il genuino significato. Dal xv secolo in poi, l'"imitazione di Dio" è richiamata nel titolo ottomano del sultano "ombra di Dio sulla terra", che esprime in tal modo l'idea della maestà di origine divina. In realtà Eusebio non auspica una identificazione tra i vertici del regno e della Chiesa, non teorizza una religio regis tipica delle monarchie assolute, né afferma che il sovrano esercita un potere divino, ma desidera un monarca che governi avendo come modello non solo il Padre, ma anche Cristo. Alla luce di questa prospettiva cristocentrica, implicita nel concetto eusebiano del sovrano come immagine-imitazione, sembra difficile fare di Eusebio un teorico dell'assolutismo o un vescovo prezzolato al servizio del potere, senza per questo disconoscere le derive sorte dalla sua formulazione, che resta la prima teologia politica della storia cristiana. (marilena amerise)
(©L'Osservatore Romano - 1 marzo 2009)
Tempi 27-2-2009 - Il caso Wajda. Il maestro censurato - di Roberto Persico,Annalia Guglielmi - «Sono in molti ad avere interesse a che il mio film non sia proiettato, ad acquistarne i diritti per non farlo vedere». Le scomode verità del grande regista di “Katyn” – Varsavia
È appena tornato da Berlino, dove il suo Tatarak ha vinto il premio speciale della giuria per un’opera che «apre all’arte cinematografica nuove prospettive». «Pensi – dice sorridendo all’inviato di Tempi nei suoi studi a Varsavia – che il riconoscimento lo hanno dato ex-aequo a me e a un regista argentino poco più che trentenne al suo primo film». Lui, Andrzej Wajda, di anni ne ha ottantatré, e di regie alle spalle ne conta oltre tre dozzine. Ma ha ancora l’entusiasmo di un giovanotto e il gusto di usare la macchina da presa per continuare a raccontare le gioie e i dolori della vita, oggi come trent’anni fa, quando opere come L’uomo di marmo, L’uomo di ferro e Danton filtravano attraverso la cappa di piombo del socialismo reale e facevano sentire anche in Occidente la voce di un uomo libero, che non ha mai rinunciato a guardare la realtà coi suoi occhi rifiutando le lenti deformanti dell’ideologia. L’arrivo nelle sale italiane, dopo lunghe peripezie, di Katyn, il film sull’eccidio degli ufficiali polacchi perpetrato dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale e a lungo attribuito ai nazisti tedeschi, è l’occasione per incontrare Wajda e parlare con lui di cinema. E di molto altro.
Andrzej Wajda, cominciamo dalla pellicola che sta riproponendo il suo nome in Italia. Da dove nasce l’idea di fare un film sul massacro di Katyn?
Un film su Katyn fino al 1989 sarebbe stato impossibile, perché secondo la versione ufficiale imposta dai sovietici il massacro di ventiduemila ufficiali dell’esercito polacco compiuto nel 1940 nei boschi di Katyn era stato opera dei tedeschi. In realtà in Polonia tutti sapevano che i colpevoli erano i russi, e nessuno era disposto a fare un film intriso di menzogna; così Katyn nella nostra storia rimaneva una ferita aperta. Perché allora non lo abbiamo fatto subito dopo il 1989? Perché sulla vicenda c’era stato come un blocco: mentre tutti gli altri episodi drammatici della Seconda guerra mondiale avevano trovato qualcuno che ne facesse materia di qualche racconto, su Katyn non c’era nulla. Così, realizzare una sceneggiatura è stato un lavoro lungo e difficile. Io ho continuato a leggere tutta la documentazione disponibile, soprattuto i diari delle donne che, come mia madre, avevano perso il marito nella strage. Oggi tutto quel che si vede nel film è rigorosamente basato sui documenti che io ho letto nel corso di anni di ricerche.
Che cosa ha voluto dire allora per lei girare un film come questo?
Ho sempre avuto in mente che un film su Katyn avrei potuto e dovuto farlo io: farlo ha voluto dire saldare un debito con mio padre e mia madre, far conoscere a tutti l’eccidio compiuto sugli uomini e la menzogna perpetrata nei confronti delle loro donne.
Ci risulta, però, che l’opera abbia avuto qualche “problema di circolazione”. È vero?
Guardi, in Polonia ha avuto oltre tre milioni di spettatori, posso dire di essere soddisfatto. Del resto era un’opera che la gente aspettava da sessant’anni. Il problema è che i diritti per la distribuzione all’estero sono stati assegnati alla televisione di Stato polacca, che non ha fatto nulla perché il film avesse una circolazione dignitosa: lo ritengono un film scomodo e non hanno voluto spingerlo. Pensi che nel rapporto della Televisione Polacca sulla società New Media Di-stribution, l’azienda che deve distribuire il film contemporaneamente sia in Russia sia negli Stati Uniti, ho visto una nota a margine scritta a mano che informa che «l’iniziativa potrà fallire per ragioni politiche». Tanti infatti hanno interesse a che il film non venga proiettato, e in molti paesi ci sono distributori che lo hanno acquistato per non farlo vedere. Viene mostrato solo in circuiti ristretti, nei cinema d’essai o in rassegne per un pubblico selezionato. Così si fa in modo che non incida, che non abbia un vero rilievo nella mentalità comune. Il caso più clamoroso, comunque, è quello della Russia.
Per quali ragioni?
Perché in Russia, ancora oggi, Stalin è amato. Compare ancora in cima alle classifiche dei personaggi più popolari. Si sa che ha ucciso decine di milioni di persone, eppure molti russi ritengono ancora che lo abbia fatto per il bene del suo paese. Il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, invece, è un crimine senza giustificazioni, che ha infranto tutte le convenzioni di guerra, e quindi qualcuno non vuole che venga ricordato. Pensi che gli organizzatori della Settimana del cinema polacco, in Ucraina, a Kiev e Charków (mi stava a cuore soprattutto questa proiezione, perché proprio in quella città fu ucciso mio padre nella primavera del 1940 e là è sepolto), si sono visti recapitare una una lettera della Televisione Polacca di questo tenore: «Telewizja Polska – l’unico e solo titolare dei diritti di distribuzione del film – non è a conoscenza di NESSUNA proiezione di Katyn in programma per la Settimana del cinema polacco in Ucraina. Per favore, abbiate la cortesia di ritirare il titolo dalle vostre programmazioni, e di comunicarci nome e contatti della persona o dell’organizzazione che vi ha fornito i diritti per la proiezione». Un tono piuttosto minaccioso, non le pare?
Chi si oppone alla circolazione di Katyn? Gli stessi che hanno pilotato il processo che ha portato alla scandalosa assoluzione degli assassini di Anna Politkowskaya?
Non ho ancora fatto in tempo a valutare fino in fondo la notizia a cui ha accennato. Però certo mi fa impressione che in un paese che pretende di essere democratico ritornino gli assassinii politici, come ai tempi della dittatura. È un fatto che non può non preoccupare vivamente.
In Italia qualcuno dice che Katyn sarà un flop perché non interessa, è una storia datata. Perché riproporla adesso che il comunismo è finito da vent’anni?
In Polonia il perché è chiarissimo: perché non potranno esserci rapporti normali fra la Polonia e l’ex Unione Sovietica fino a che non sarà detta la verità su questo crimine. I tedeschi hanno compiuto crimini peggiori, ma i loro governanti lo hanno riconosciuto, e ora i nostri rapporti con la Germania non sono più avvelenati dal rancore. Non ci può essere amicizia fra due popoli se non si riconoscono i torti commessi.
Le sue opere sono state armi importanti per la lotta dei polacchi contro il regime. Come giudica il mondo che da quella lotta è nato, la Polonia e l’Europa di oggi?
Non solo i miei film, ma tutto il cinema polacco ha sempre fatto di tutto per costruire un ponte con l’Occidente. La Polonia è parte dell’Europa, i polacchi si sono sempre sentiti occidentali. Dov’è il confine dell’Europa occidentale? Io dico che l’Europa finisce là dove arrivano le chiese gotiche. Dove c’è una chiesa gotica vuol dire che è arrivata non solo la religione cattolica, ma la civiltà mediterranea. Noi polacchi, pur con tutti gli ostacoli, le difficoltà che abbiamo incontrato nella storia, apparteniamo pienamente a questa cultura, a questa civiltà.
Ma la Polonia di oggi è quella che immaginavate vent’anni fa?
Guardi, io non sono preoccupato perché la Polonia non ha sviluppato quella bella forma che noi speravamo. La democrazia è un sistema difficile, si assimila solo lentamente. La cosa davvero importante è che la società adesso può parlare di se stessa, che le persone possono mettere a tema quel che sta loro a cuore: è questo, in fondo, che ci interessava. La gente prima ha dato fiducia a Solidarnosc, poi ha ridato una possibilità alla sinistra, poi ha preso altre strade. L’importante è che le persone hanno cominciato a scegliere. Poi fa parte del gioco della democrazia che alcune scelte siano felici, altre meno. Personalmente, ho apprezzato molto le decisioni del primo governo, quello di Mazowiecki, la scelta di puntare subito su una forte integrazione con l’Europa: ha rivitalizzato la nostra economia, ci ha dato una moneta forte. L’integrazione con l’Europa ormai è un fatto irreversibile, i tentativi nazionalistici sono puramente folkloristici.
Ma in Europa ci si imbatte anche in una nuova ideologia, più sottile ma non meno penetrante, un’ideologia nichilista che afferma che nulla ha valore, una “dittatura del desiderio” secondo cui l’unico valore è soddisfare i desideri immediati di ciascuno. Cosa pensa a questo proposito?
Non ho paura di questo. In Polonia la situazione è diversa, la Chiesa ha ancora un ruolo importante. A me non spaventa che la gente, dopo quarant’anni in cui ogni iniziativa era inibita, riprenda a muoversi secondo i propri desideri, che cerchi la propria soddisfazione in tutti gli ambiti della vita. La gente ha ripreso in mano la responsabilità per il proprio destino: non mi sembra che sia nichilismo. L’importante è che la Chiesa continui a essere quella che è. La Chiesa nella storia polacca ha avuto un ruolo fondamentale. I preti erano contro il nazismo, i preti erano contro il comunismo, si sapeva bene la Chiesa da che parte stava. In Polonia oggi ci sono settori della Chiesa che si intromettono troppo nella politica spicciola, che pretendono di stabilire chi debba essere quello o quell’altro ministro (il riferimento è a un gruppo di sacerdoti che da qualche tempo svolge in Polonia una chiassosa campagna politica in chiave fortemente nazionalista, da cui peraltro i vescovi hanno nettamente preso le distanze, ndr). Non è il suo compito. Il compito della Chiesa è quello di sempre, difendere la persona dal potere dell’ideologia. Vorrei che non si scostasse da questo, che è il suo ministero di sempre.
Un compito che è ben rappresentato dall’opera di Giovanni Paolo II. Lei lo ha conosciuto bene. Che cosa ce ne può raccontare?
Forse è meglio dire, come fece una volta Zanussi (Krzysztof Zanussi, altro grande regista polacco, ndr), a cui era stata rivolta la stessa domanda: «È lui che conosce me». Ma visto che insiste, le racconterò un episodio che per me è stato particolarmente commovente. Una volta in Vaticano era stata organizzata una proiezione alla sua presenza del mio film Pan Tadeusz, che porta sullo schermo il più classico dei testi della letteratura polacca: anche il giovane Wojtyla lo aveva interpretato quando recitava nel “Teatro rapsodico”. Ebbene, a un certo punto il Papa ha chiuso gli occhi, e si vedeva che stava assaporando quelle parole, che tante volte anche lui aveva recitato. Poi li ha riaperti, ha seguito il film fino al termine e alla fine mi ha detto: «L’autore ne sarebbe soddisfatto». È stata la più importante recensione che ho ricevuto.
È questo che la spinge a continuare, a realizzare a ottant’anni suonati opere che vengono premiate perché «aprono all’arte cinematografica nuove prospettive»?
Chissà (Wajda sorride, ndr). Certo che non mi aspettavo proprio questo riconoscimento. Oggi va di moda realizzare film mescolando invenzione e realtà, così ci ho provato anch’io. Avevo cominciato a girare un film su questa novella di uno scrittore polacco, Jaroslaw Iwaszkiewicz, che si intitola Tatarak (è il nome di una canna selvatica che cresce lungo i fiumi, dal profumo inebriante). La storia ha come protagonista una donna il cui compagno è gravemente malato, però a un certo punto il marito dell’attrice che impersonava la protagonista, Krzystyna Janda, si è ammalato per davvero, e lei ha dovuto prendersene cura. Pensavo che non se ne sarebbe fatto più niente, invece, dopo la morte del marito Krzystyna è venuta da me e mi ha detto che era disposta a proseguire il lavoro, inserendo però anche il racconto di che cosa aveva significato per lei seguire la malattia del marito. Così è venuto fuori questo film, in cui realtà e finzione si incontrano per mettere a tema il nostro atteggiamento nei confronti della malattia e della morte, un dramma che riguarda tutti.
Insomma, questo significa che è ancora possibile fare del cinema che non sia di evasione, ma che aiuti a guardare più profondamente le cose.
Assolutamente sì. La differenza è che anni fa i temi prevalenti erano la politica e la società, oggi è l’uomo, i suoi drammi, i suoi desideri. E la morte, che ci aspetta dietro l’angolo, che non possiamo evitare.
1) 01/03/2009 12.13.18 – Radio Vaticana – Il Papa all’Angelus lancia un appello in favore degli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, presenti in Piazza San Pietro, e di tutti i lavoratori colpiti dall’attuale crisi economica, tra cui cita quelli del Sulcis-Iglesiente e di Prato. Quindi, ricordando il Vangelo della prima Domenica di Quaresima - che ci presenta Gesù nel deserto tentato da satana e servito dagli angeli - ha esortato a rompere con il peccato, combattendo contro ogni forma di tentazione e riponendo la fiducia nella misericordia divina. In questa lotta – ha precisato – invochiamo l’aiuto degli angeli. Ecco il testo integrale dell’Angelus con i saluti nelle varie lingue
2) Siamo tutti C.T. - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
3) Si riaccendono gli scontri armati anche nel Sud Sudan - Ogni giorno nel Darfur muoiono settantacinque bambini – L’Osservatore Romano, 28 febbraio 2009
4) EUGENETICA/ Mounier, l’esempio di una sfida all’ideologia con l’eroismo quotidiano - Fabio Ferrucci - sabato 28 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
5) LIBRI - filosofia - Il rapporto di vita e di pensiero tra i due tedeschi immersi nel dramma della loro patria: il maestro illuso dal nazismo e ripiegato sull’essere, l’allieva ebrea che invece vuol reagire alla banalità del male Arendt e Heidegger, duello sul ’900 - DI FRANCESCO TOMATIS – Avvenire, 28 febbraio 2009
6) Storie di conversione: Costantino - Una visione e un sogno nel cammino dell'uomo - L'improvvisa scomparsa - venerdì 27 febbraio a Roma - di Marilena Amerise è una grave perdita per gli studi sul cristianesimo antico, per il Pontificio Consiglio della Cultura, per il nostro giornale, al quale collaborava con fedele e gioiosa generosità. Marilena era nata a Corigliano Calabro solo trentaquattro anni fa. Completati e perfezionati i suoi studi nelle università di Perugia, Bonn e Bamberg, ha studiato soprattutto il primo imperatore cristiano ed Eusebio di Cesarea, pubblicando Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Stuttgart, Franz Steiner Varlag, 2005, pagine 177, euro 37, 40 (Hermes Einzelscriften, 95) e curando la traduzione di due importanti discorsi tenuti dal grande filologo cristiano: Eusebio di Cesarea, Elogio di Costantino. Discorso per il trentennale. Discorso regale, Introduzione, traduzione e note di Marilena Amerise, Milano, Paoline, 2005, pagine 269, euro 24 (Letture cristiane del primo millennio, 38). Pubblichiamo due articoli che ci aveva inviato nelle scorse settimane. - di Marilena Amerise – L’Osservatore Romano, 1 Marzo 2009
7) La teologia politica di Eusebio di Cesarea - Esercizio del potere e pratica della virtù – L’Osservatore Romano, 1 Marzo 2009
8) Tempi 27-2-2009 - Il caso Wajda. Il maestro censurato - di Roberto Persico,Annalia Guglielmi - «Sono in molti ad avere interesse a che il mio film non sia proiettato, ad acquistarne i diritti per non farlo vedere». Le scomode verità del grande regista di “Katyn” – Varsavia
01/03/2009 12.13.18 – Radio Vaticana – Il Papa all’Angelus lancia un appello in favore degli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, presenti in Piazza San Pietro, e di tutti i lavoratori colpiti dall’attuale crisi economica, tra cui cita quelli del Sulcis-Iglesiente e di Prato. Quindi, ricordando il Vangelo della prima Domenica di Quaresima - che ci presenta Gesù nel deserto tentato da satana e servito dagli angeli - ha esortato a rompere con il peccato, combattendo contro ogni forma di tentazione e riponendo la fiducia nella misericordia divina. In questa lotta – ha precisato – invochiamo l’aiuto degli angeli. Ecco il testo integrale dell’Angelus con i saluti nelle varie lingue:
Cari fratelli e sorelle!
Oggi è la prima domenica di Quaresima, e il Vangelo, con lo stile sobrio e conciso di san Marco, ci introduce nel clima di questo tempo liturgico: “Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1,12). In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio. Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr Fil 2,6-7). Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.
Quasi di sfuggita, nella brevità del racconto, di fronte a questa figura oscura e tenebrosa che osa tentare il Signore, appaiono gli angeli, figure luminose e misteriose. Gli angeli, dice il Vangelo, “servivano” Gesù (Mc 1,13); essi sono il contrappunto di Satana. “Angelo” vuol dire “inviato”. In tutto l’Antico Testamento troviamo queste figure, che nel nome di Dio aiutano e guidano gli uomini. Basta ricordare il Libro di Tobia, in cui compare la figura dell’angelo Raffaele, che assiste il protagonista in tante vicissitudini. La presenza rassicurante dell’angelo del Signore accompagna il popolo d’Israele in tutte le sue vicende buone e cattive. Alle soglie del Nuovo Testamento, Gabriele è inviato ad annunciare a Zaccaria e a Maria i lieti eventi che sono all’inizio della nostra salvezza; e un angelo, del quale non si dice il nome, avverte Giuseppe, orientandolo in quel momento di incertezza. Un coro di angeli reca ai pastori la buona notizia della nascita del Salvatore; come pure saranno degli angeli ad annunciare alle donne la notizia gioiosa della sua risurrezione. Alla fine dei tempi, gli angeli accompagneranno Gesù nella sua venuta nella gloria (cfr Mt 25,31). Gli angeli servono Gesù, che è certamente superiore ad essi, e questa sua dignità viene qui, nel Vangelo, proclamata in modo chiaro, seppure discreto. Infatti anche nella situazione di estrema povertà e umiltà, quando è tentato da Satana, Egli rimane il Figlio di Dio, il Messia, il Signore.
Cari fratelli e sorelle, toglieremmo una parte notevole del Vangelo, se lasciassimo da parte questi esseri inviati da Dio, i quali annunciano la sua presenza fra di noi e ne sono un segno. Invochiamoli spesso, perché ci sostengano nell’impegno di seguire Gesù fino a identificarci con Lui. Domandiamo loro, in particolare quest’oggi, di vegliare su di me e sui collaboratori della Curia Romana che questo pomeriggio, come ogni anno, inizieremo la settimana di Esercizi spirituali. Maria, Regina degli Angeli, prega per noi!
Dopo Angelus
Je suis heureux de vous saluer, chers frères et sœurs francophones, et particulièrement d’accueillir les pèlerins du diocèse d’Arras. En ce premier dimanche de Carême, Jésus nous invite à convertir notre cœur et à croire à la Bonne Nouvelle. Sachons répondre à cet appel du Seigneur par la prière, le jeûne et l’aumône. Ouvrons-nous à la grâce et à la nouveauté de l’Évangile ! Que ce temps du Carême nous donne de faire l’expérience de la miséricorde divine et nous aide à changer radicalement de vie ! Avec ma Bénédiction apostolique.
I am happy to greet all the English-speaking visitors present at today’s Angelus prayer. On this First Sunday of Lent, the Gospel of Saint Mark speaks of Jesus being lead into the desert by the Holy Spirit, tempted by Satan and assisted by the angels. Let us pray that our Lenten journey will strengthen us in the struggle against all forms of temptation. Upon all of you I invoke God’s abundant blessings, and I wish you a pleasant Sunday and a happy stay in Rome!
An diesem ersten Fastensonntag grüße ich gerne alle Brüder und Schwestern aus den Ländern deutscher Sprache. Die vierzig Tage der Fastenzeit erinnern an die vierzig Tage Jesu in der Wüste wie auch an die vierzig Jahre der Wanderung des Volkes Israel durch die Wüste in das verheißene Land. Die Entbehrungen der Wüste öffnen den Blick für das Wesentliche. Was zählt und unser Leben trägt, ist die Bindung an Gott. Die Umkehr, die Hinwendung zu Gott und der Glaube sind Geschenk seiner Gnade und zugleich Aufgabe. Gerade in dieser heiligen Zeit wollen wir unser Leben neu im Herrn festmachen. Dabei stärke und helfe euch der Heilige Geist.
Saludo con afecto a los fieles de lengua española, en particular a los peregrinos de la Parroquia de la Inmaculada de La Carlota, Córdoba, de la Parroquia de Santa Cruz de Ibiza, y de las Parroquias de San José y de San Antón de Murcia. En el mensaje de Cuaresma de este año he querido resaltar el valor y el sentido del ayuno. La privación voluntaria de algo que de por sí es lícito nos ayuda a un mayor dominio de nosotros mismos, a combatir el pecado, a amar más al prójimo, en definitiva, a cumplir con mayor prontitud la voluntad de Dios. Que la Santísima Virgen nos alcance la gracia de vivir con provecho este tiempo de preparación para la Pascua. Feliz domingo.
„Czas się wypełnił i bliskie jest królestwo Boże” (Mk 1, 15). Tak powiedział Pan Jezus do ludzi po zwycięstwie nad szatanem na pustyni. Dzisiaj, w Pierwszą Niedzielę Wielkiego Postu, kieruje te słowa również do nas. Czas zerwać z grzechem, pokonać pokusy, uwierzyć i zaufać Bogu: „Nawracajcie się i wierzcie w Ewangelię!” (Mk 1, 15). Dzieląc się tą refleksją serdecznie pozdrawiam Polaków.
[“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). Così disse Gesù alla gente dopo la sconfitta di Satana nel deserto. Oggi, nella Prima Domenica di Quaresima, rivolge queste parole anche a noi. È il tempo di rompere con il peccato, vincere le tentazioni e porre la fiducia in Dio: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Nel partecipare questa riflessione, saluto cordialmente i Polacchi.]
Saluto i lavoratori dello stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco, venuti a manifestare la loro preoccupazione per il futuro di quella fabbrica e delle migliaia di persone che, direttamente o indirettamente, dipendono da essa per il loro lavoro. Penso anche ad altre situazioni ugualmente difficili, come quelle che stanno affliggendo i territori del Sulcis-Iglesiente, in Sardegna, di Prato in Toscana e di altri centri in Italia e altrove. Mi associo ai Vescovi e alle rispettive Chiese locali nell’esprimere vicinanza alle famiglie interessate dal problema, e le affido nella preghiera alla protezione di Maria Santissima e di San Giuseppe, patrono dei lavoratori. Desidero esprimere il mio incoraggiamento alle autorità sia politiche che civili, come anche agli imprenditori, affinché con il concorso di tutti si possa far fronte a questo delicato momento. C’è bisogno, infatti, di comune e forte impegno, ricordando che la priorità va data ai lavoratori e alle loro famiglie.
Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Salorno, Rubiera, Paestum, San Giovanni a Piro e Fino del Monte, i ragazzi dell’Oratorio “Giovanni Paolo II” di Rozzano e l’Associazione Sportiva “Aniene” di Roma. A tutti auguro una buona domenica e una Quaresima ricca di frutti spirituali.
Siamo tutti C.T. - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 26 febbraio 2009
Devo essere sincero, tutto il gran parlare da parte dei vari mezzi di comunicazione non mi appassiona poi più di tanto: aveva ragione il Papa quando diceva che spesso, più che raccontare la realtà come è, la dicono come la vorrebbero. E in questo sono tutti C.T.: sembra di assistere al campionato del mondo di calcio, dove ciascuno afferma che, se si desse ascolto a lui, certo la vittoria sarebbe già nelle nostre mani. Peccato però che la realtà, che è testarda, vada da un’altra parte.
Ho appena letto due articoli, diversi per argomento, ma simili nella loro logica: Küng e Veronesi, la Chiesa come dovrebbe essere, e la pace come la si deve fare. Come ogni buon C.T. hanno già la soluzione: senza questo papa la Chiesa rinascerà più viva e forte, con noi medici e scienziati, sarà assicurata la pace perpetua.
Peccato però che in tutto questo il popolo, quello fatto di uomini in carne ed ossa, quello che si riconosce nella fede, quello che lotta e che soffre quotidianamente, peccato che non c’entri.
La battaglia di oggi è tutta qui: un popolo che ha il criterio del bene e del vero, che sa riconoscere i propri maestri, e tutti i C.T. che vogliono cambiargli la mente, la testa, il cuore, la speranza…
Se vincessero i C.T. (e di mezzi ne hanno, di soldi e di strumenti sono zeppi) certo sarebbe una sventura: la fede ridotta a cultura, per pochi eletti (i cui maestri sarebbero i teologi o e gli esegeti); la vita in mano ai tecno-scienziati, dai pochi scrupoli; l’educazione come “formazione”, in mano a chi “sa” veramente quello che l’uomo desidera; la pace, quella sì, lontana mille miglia (come dicevano i romani “hanno fatto il deserto, l’hanno chiamato pace”). Non dico questo per pessimismo o per sfiducia nella ragione: la storia è ricca di queste forme di orgoglio, che, se pur rivestite di sentimenti “umanitari”, poi si sono rivelate sventura per i poveri, per la gente semplice, per la civiltà.
La Torre di Babele, con la sua pretesa di un unico linguaggio, ora e allora, è un monito sempre attuale.
Qualche esempio?
Penso al rinascere della eugenetica, con proclami non lontani né diversi da quelli di Hitler.
Penso alla pretesa di definire la vita e la morte come qualcosa che sia in potere dell’uomo, contro la coscienza, che ha il popolo, della “indisponibilità della vita”.
Penso al cinismo con cui una vicenda drammatica come quella di Eluana e prima di Welby, siano state usate come grimaldello per modificare od ottenere leggi secondo il proprio parere (ricordiamo, tra l’altro, che Kant suggeriva di considerare sempre l’uomo come fine e mai come mezzo).
Penso all’accanimento con cui si vuole tenere lontano dalla scuola (in nome di un principio di esasperata laicità) ogni riferimento religioso (a meno che sia “culturale”, cioè privato della sua vera identità).
Poveri C.T.: come sarebbe più semplice per tutti ritornare umilmente alle radici cristiane della nostra civiltà, guardare con simpatia la fede dei semplici, quella che sa riconoscere nel successore di Pietro (quello vero, in carne ed ossa, non quello che vive nelle loro teste) una guida e un pastore, come sarebbe più semplice e intelligente riconoscere che “ci sono più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia”.
A costo di sembrare sorpassati, noi di CulturaCattolica.it vogliamo seguire e comunicare, servire con tutto noi stessi quel pastore Benedetto che ci può portare alla vittoria, quella vera.
Si riaccendono gli scontri armati anche nel Sud Sudan - Ogni giorno nel Darfur muoiono settantacinque bambini – L’Osservatore Romano, 28 febbraio 2009
Roma, 27. Ogni giorno, settantacinque bambini muoiono di fame o di malattia nel Darfur, la regione occidentale sudanese dove si protrae da sei anni un conflitto civile che ha provocato tra i 200.000 e i 400.000 morti e 2.800.000 profughi. L'aspettativa di vita per le popolazioni è di 35 anni per gli adulti e di sei per i bambini. Tali dati, sostanzialmente in linea con quelli delle Nazioni Unite, sono contenuti in un rapporto presentato ieri a Roma dall'organizzazione non governativa (ong) Italians for Darfur. Il presidente della ong, Antonella Napoli, ha sottolineato i ritardi nel dispiegamento dell'Unamid, la missione congiunta dell'Onu e dell'Unione africana avviata a fine 2007 e prevista come la più grande operazione di peacekeeping mai autorizzata, con una forza fino a 26.000 uomini. Di fatto, finora ne sono arrivati la metà e, soprattutto, mancano i mezzi, in particolare gli elicotteri, la cui fornitura è stata più volte inutilmente sollecitata dal Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon. Di conseguenza, l'Unamid è ancora ben lontana dal garantire la sicurezza della popolazione e anzi lo scorso anno la situazione è ulteriormente peggiorata. Nel 2008, secondo il rapporto di Italians for Darfur, circa 300.000 persone hanno lasciato i propri villaggi per chiedere assistenza nei campi profughi ed è stato registrato un peggioramento della qualità della vita nei centri di accoglienza.
Nel frattempo, sembra riaccendersi anche la crisi in Sud Sudan, dove nell'ultima settimana - secondo fonti dell'Onu citate dalle agenzie di stampa internazionali - ci sarebbero stati cinquanta morti e un centinaio di feriti in scontri armati nella città di Malakal. I combattimenti vedono contrapposti gli ex ribelli dell'Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla), oggi trasformato in movimento e al Governo in Sud Sudan, e sostenitori di Gabriel Tang, ex capo delle milizie nordiste durante la guerra civile e oggi generale dell'esercito sudanese.
(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio 2009)
EUGENETICA/ Mounier, l’esempio di una sfida all’ideologia con l’eroismo quotidiano - Fabio Ferrucci - sabato 28 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Oggi, le scelte eutanasiche sono la ragionevole conseguenza di quelle eugenetiche. Pochi amano ricordare che pratiche eugenetiche analoghe a quelle attuate dai nazisti nei confronti delle persone disabili furono adottate in paesi di specchiata tradizione democratica. Tanto per fare un esempio, in Svezia, tra il 1935 e il 1975, medici di tendenza liberale e umanista diedero attuazione ad un programma nazionale di sterilizzazione che coinvolse 62.000 persone, con interventi non sempre volontari. Sono analogie urticanti, non a caso praticate nei confronti degli stessi soggetti: le persone disabili. Un esponente di Amnesty International, quasi vent’anni fa ebbe a dire che se la società riconosceva la Sindrome di Down come una ragione accettabile per abortire un feto, ciò avrebbe reso più difficile preservare l’uguale dignità anche per coloro che erano già nati ed erano affetti da questa malattia. Si potrebbe argomentare – concludeva l’attivista – che la loro dignità umana, se non i loro diritti umani, sono ridotti. Per questo motivo le organizzazioni delle persone disabili guardano con preoccupazione a certe sentenze emesse dai tribunali italiani.
Ma come la mettiamo quando il giudizio sulle condizioni che rendono degna la vita viene dalla coscienza dalla libera autodeterminazione dell’individuo, chiedendo che la sua volontà si trasformi in un diritto? Non è vero, obietta la filosofa De Monticelli, che la vita è l’unica cosa sacra che c’è; perché, argomenta, la si può sacrificare in nome di un ideale o per il bene di un’altra persona.
Ma proprio su questo punto si palesa, a mio avviso, un problema. Molti studi sociologici dimostrano che un atteggiamento favorevole nei confronti dell’eutanasia non coincide necessariamente con il desiderio di morire. Quando i pazienti intervistati si esprimono a favore dell’eutanasia lo fanno immaginando una ipotetica situazione futura, in genere associata con il timore per la sofferenza futura e non per quella attuale.
Inoltre, una ricerca realizzata intervistando malati terminali oncologici ha messo in evidenza che l’espressione suprema della libertà individuale (il diritto di morire) fornisce una rappresentazione molto semplificata della scelta individuale. La decisione di porre termine alla propria esistenza (in gergo tecnico definita Do not resuscitate), è condizionata da un complesso insieme di relazioni: di tipo familiare, sociale e strutturale. La persona umana, quella che vive, soffre e pensa, si forma all’interno di questo contesto di relazioni. Negarlo conduce ad una visione dell’uomo dotato di una libertà ontologicamente onnipotente (di qui il tragico parallelo con il nazismo).
Con ciò non si vuol negare che l’uomo è strutturalmente definito dalla sua libertà e perciò che egli può sempre trascendere il contesto sociale con suo gesto di libertà orientato al valore che ritiene buono per sé. Ma qual è il bene di un embrione su cui è stata diagnosticata la sindrome di Down oppure di una persona in “stato vegetativo”? La risposta è affidata alla nostra libertà, alla nostra disponibilità a instaurare o mantenere con essa delle relazioni. Accettando che queste relazioni siano prodotte e riprodotte, “umanizzando” un bambino con sindrome Down o accudendo una persona gravemente disabile, ci scopriamo noi stessi più umani.
Lo sterminio dei disabili prima ancora che nel chiuso dei cenacoli scientifici, oppure nelle stanze del potere, inizia nel chiaroscuro della nostra coscienza, quando decidiamo se il limite che segna l’esistenza della persona disabile sia anche il nostro stesso limite. La società ha iniziato ad essere più umana rinunciando alla soppressione delle persone con disabilità, quando ha saputo scorgere nel limite non soltanto un ostacolo ma una sollecitazione ad accorgersi di un’alterità preziosa. Come documenta l’esperienza di Mounier, uno dei più grandi pensatori francesi del XX secolo, nella casa del quale la figlia Françoise, gravemente cerebrolesa, occupava il posto d’onore a tavola quando ricevevano le visite dei più influenti intellettuali dell’epoca. Un’esperienza che è meno eroica e più comune di quanto, per convenienza, saremmo portati a credere. Se c’è un’evidenza che accomuna i normodotati e le persone con disabilità, è che, ora, in entrambi i casi, il nostro essere ci è dato. Per questo la nostra libertà può accettarlo o rifiutarlo: perché c’è.
LIBRI - filosofia - Il rapporto di vita e di pensiero tra i due tedeschi immersi nel dramma della loro patria: il maestro illuso dal nazismo e ripiegato sull’essere, l’allieva ebrea che invece vuol reagire alla banalità del male Arendt e Heidegger, duello sul ’900 - DI FRANCESCO TOMATIS – Avvenire, 28 febbraio 2009
G li 11 mesi di rettorato dell’università di Freiburg, dal 27 maggio 1933 al 27 aprile 1934, vengono periodicamente rinfacciati a Martin Heidegger, il maggior pensatore del XX secolo, maestro di Hannah Arendt e Karl Löwith, Hans Jonas ed Herbert Marcuse, Hans-Georg Gadamer e Max Müller, Emmanuel Levinas e Max Horkheimer, Günther Anders e Leo Strauss, senza il cui pensiero non potremmo comprendere Rudolf Bultmann e Bernhard Welte, Jacques Derrida e Luigi Pareyson. Non fu soltanto una breve parentesi amministrativa; certamente c’era anche la convinzione di poter far convergere il proprio pensiero con la situazione storicopolitica avviatasi il 30 gennaio 1933, con l’affidamento a Hitler dell’incarico di formazione di un nuovo governo tedesco. Non che Heidegger fosse nazionalsocialista, né antisemita. Tuttavia ritenne almeno di poter guidare con il proprio pensiero rivoluzionario un rinnovamento dell’università. Ciò sino al Natale 1933, quando rivide le proprie posizioni. Un recente lavoro biografico sui rapporti intercorsi fra Martin Heidegger e Hannah Arendt, dal loro primo incontro all’università di Marburg nel semestre invernale 1924-25 sino alla morte, rispettivamente nel dicembre 1975 e nel maggio 1976, dà occasione di ripensamento della vicenda, soprattutto in merito alla rilevanza che assunse nella vita e nel pensiero dei due. Antonia Grunenberg si distingue per la viva e accurata capacità di ricostruire gli ambienti culturali in cui vissero nelle diverse fasi della vita Heidegger e la Arendt, riuscendo anche a mostrare l’intreccio del pensiero e lo sconvolgente effetto che fece su entrambi l’avvento del nazismo: giovane studentessa ebrea lei e pensatore tedesco lui all’apice della carriera accademica.
Questo malgrado – va detto – un insufficiente approfondimento dell’opera heideggeriana in particolare, alla quale occorrerebbe invece riallacciarsi per comprendere appieno la svolta che tale situazione comportò anche nel pensiero. L’ottica del rapporto fra Arendt e Heidegger, tuttavia, resta davvero esemplare per molti aspetti. L’amore che li legò tutta la vita, anche durante anni di silenzio e nonostante la costante separazione, se si escludono i pochi mesi marburghesi e poi, nel dopoguerra, incontri annuali dal 1950 al 1975, permette di comprendere in profondità le motivazioni e gli sconvolgimenti delle scelte di entrambi.
Delicato e incisivo assieme è l’epistolario intercorso fra i due: Lettere 1925-1975 (Einaudi). È sufficiente rileggersi le pagine dedicate a Heidegger del volume postumo della Arendt,
La vita della mente (Il Mulino), nelle quali ella colloca la svolta nel pensiero heideggeriano proprio nei corsi friburghesi dedicati a Nietzsche immediatamente dopo la disillusione del rettorato. In particolare la Arendt coglie bene come non solo qui sia accaduto un passaggio, rispetto a Essere e tempo del 1927, da un’analisi dell’esistenza al prevalere dell’essere, ma anche la critica della volontà di potenza intesa come dominio soggettivistico, imposizione politica e tecnologica ben incarnata dal nazismo.
Qui anche il divergere della condotta esistenziale e del pensiero della Arendt rispetto al maestro. Heidegger interpretò la propria colpa di essersi illuso sulle possibilità emancipative intuite nella rivoluzione nazionalsocialista come eccesso di priorità conferito all’uomo nel suo pensiero stesso, malgrado il superamento del soggettivismo e del trascendentalismo. Da qui un affidarsi all’evento dell’essere: soltanto ascoltabile da parte di un pensiero ringraziante che è il massimo dell’azione concessa all’uomo, cioè il non-volere, l’abbandonarsi all’essere stesso. Persino nella forma dell’oblioso darsi dell’essere, sottraentesi alla storicità, dedita all’erramento, come ben colse la Arendt commentando il saggio heideggeriano Il detto di Anassimandro.
La pensatrice ebrea, impressionata non tanto dall’antisemitismo nazista quanto dall’accondiscendenza generalizzata e dalla banalità del male, reagì invece alla tempesta tedesca e al personale sconvolgimento nel rapporto amoroso con Heidegger attraverso l’elaborazione di un pensiero che cercasse nuove forme di azione, nonviolente e personali, capaci di aprire a un vero pluralismo, al di là di ogni totalitarismo o inazione.
A Heidegger che attendeva un nuovo inizio offerto dall’essere a chi sapesse ascoltarne l’imprevedibile evento in un contegno umile, Arendt rispose con sant’Agostino, concludendo non solo La vita delle mente
ma anche il più celebre Le origini del totalitarismo: «Initium... ut esset, creatus est homo», affinché vi fosse un inizio fu creato l’uomo.
Storie di conversione: Costantino - Una visione e un sogno nel cammino dell'uomo - L'improvvisa scomparsa - venerdì 27 febbraio a Roma - di Marilena Amerise è una grave perdita per gli studi sul cristianesimo antico, per il Pontificio Consiglio della Cultura, per il nostro giornale, al quale collaborava con fedele e gioiosa generosità. Marilena era nata a Corigliano Calabro solo trentaquattro anni fa. Completati e perfezionati i suoi studi nelle università di Perugia, Bonn e Bamberg, ha studiato soprattutto il primo imperatore cristiano ed Eusebio di Cesarea, pubblicando Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Stuttgart, Franz Steiner Varlag, 2005, pagine 177, euro 37, 40 (Hermes Einzelscriften, 95) e curando la traduzione di due importanti discorsi tenuti dal grande filologo cristiano: Eusebio di Cesarea, Elogio di Costantino. Discorso per il trentennale. Discorso regale, Introduzione, traduzione e note di Marilena Amerise, Milano, Paoline, 2005, pagine 269, euro 24 (Letture cristiane del primo millennio, 38). Pubblichiamo due articoli che ci aveva inviato nelle scorse settimane. - di Marilena Amerise
Nella ricorrenza della battaglia di Ponte Milvio, con la quale Costantino sconfisse Massenzio, il Pontificio Comitato di Scienze Storiche ha avviato la preparazione di un convegno in occasione dell'anniversario di tale evento storico e dell'Editto di Costantino (312-2012). Costantino regnò dal 306 al 337, passando alla storia come il primo imperatore cristiano. Ancora oggi, la sua figura è un enigma, una sorta di sfinge della storia. Molto è stato scritto sulla sua conversione e diversi sono i pareri degli storici, alcuni addirittura opposti tra loro. Secondo la tesi di Jacob Burckhardt (1818-1897), la decisione di Costantino sarebbe stata motivata da opportunismo politico. L'imperatore - scrive lo studioso in Die Zeit Constantins des Grossen (1880) - è un uomo a cui "l'ambizione e la smania di dominio non concedono un momento di requie" e per il quale "non è il caso di parlare di cristianesimo o paganesimo" in quanto un uomo simile "è sostanzialmente areligioso". Burchkardt conia la formula di Christianismus politicus applicandola alla conversione di Costantino. Diversi studiosi hanno seguito questa interpretazione, sostenendo che in sostanza l'imperatore avrebbe operato solo uno "scambio di patronato divino", realizzando in definitiva una Chiesa non solo non cristiana, ma addirittura anticristiana. Questa valutazione è stata ridimensionata dalla successiva elaborazione storiografica, ma il sospetto di un'ipocrisia religiosa dell'imperatore è rimasto. Di contro, c'è chi ritiene che Costantino fosse nato cristiano e quindi non avesse avuto alcun bisogno di convertirsi. Tra questi Thomas George Elliot, che in diversi studi elaborati tra il 1987 e il 1992 elabora una tesi che però non trova riscontro nelle fonti. Al di là delle numerose ipotesi, è certo che il nuovo orientamento religioso dell'imperatore, la cosiddetta konstantinische Wende, ha avuto massicce conseguenze storiche: dopo Costantino il cammino della storia del mondo e della Chiesa non è stato più lo stesso. Eusebio, vescovo di Cesarea (270 circa - 339 circa), è il primo a sentire l'esigenza di trasmettere alla posterità la storia della conversione dell'imperatore. Nel 337, dopo la sua morte, scrive la Vita Constantini, della cui autenticità a lungo si è dubitato prima che venisse confermata da studi approfonditi. Lo scenario della conversione dell'imperatore è quello della battaglia di Ponte Milvio. Costantino, nominato Cesare nel 306 in seguito alla morte del padre Costanzo Cloro, è impegnato nel confronto contro l'usurpatore Massenzio, figlio di Massimiano, che tiranneggia Roma. Con il suo esercito Costantino consegue alcune vittorie e si avvicina alla capitale. Prima della battaglia decisiva, la più importante della sua vita, l'imperatore è inquieto e riflette su quale debba essere il suo theòs boethòs, il "dio protettore". Impegnato in queste riflessioni, Costantino ha una visione: a mezzogiorno nel cielo si forma una croce di stelle accompagnata da una frase: "Con questo segno, vincerai". L'imperatore non comprende a pieno l'avvenimento, ma di notte, in sogno, Cristo gli spiega il significato del segno. Al mattino, convoca i cristiani che militano nelle file del suo esercito e chiede delucidazioni sulla loro fede. Poi fa la sua scelta: il monogramma di Cristo avrebbe protetto il suo esercito e il cristianesimo sarebbe stato la sua religione. Il 29 ottobre 312, Costantino riporta la vittoria definitiva a Ponte Milvio ed entra trionfante a Roma. L'anno successivo, nel 313, assieme a Licinio, promulga un editto nel quale il cristianesimo riceve lo status di religione che si può professare senza timore di essere perseguitati. Questa la versione cristiana della conversione di Costantino.
Anche i pagani elaborarono un tesi per spiegare la decisione dell'imperatore. Giuliano, nipote di Costantino, sostiene che la conversione e il battesimo sono stati cercati per ottenere la purificazione da "crimini inespiabili" nella tradizione pagana. La versione più completa di questa tesi è fornita da Zosimo e risale alla metà del iv secolo. L'ultimo storico pagano sostiene che dopo l'esecuzione del figlio Crispo e l'uccisione della moglie Fausta, sospettati di avere una relazione, l'imperatore avrebbe chiesto la purificazione ai sacerdoti pagani che gliela negarono. In soccorso di Costantino, secondo Zosimo, sarebbe giunto un "egiziano dell'Iberia", identificato con il vescovo Ossio di Cordova, che gli avrebbe garantito l'espiazione dalle colpe attraverso i riti della religione cristiana. Questo avrebbe convinto Costantino a convertirsi.
Due versioni diametralmente opposte: quale è quella autentica? Quella cristiana che pone la svolta al 312 oppure quella pagana che individua il 326 come anno decisivo? In primo luogo sia la versione cristiana sia quella pagana confutano alcune ipotesi moderne secondo cui la conversione non sarebbe rinvenibile nelle fonti; in secondo luogo dimostrano che, in positivo e in negativo, era stato avvertito nella società dell'epoca un cambiamento nell'orientamento religioso dell'imperatore.
In realtà, il processo di conversione inizia nel 312. La visione narrata da Eusebio è l'avvenimento con cui presentare in termini propagandistici, secondo la mentalità dell'epoca, il mutato orientamento dell'imperatore. Bisognava narrare in modo apodittico e impressionante la scelta religiosa del sovrano e far capire che era la decisione giusta, la sola che garantiva stabilità e pace all'impero. Eusebio si fa interprete di queste esigenze e le traduce nel racconto della visione, che diventa il "momento della svolta" in maniera evidente, semplice ed efficace. Questa svolta tuttavia diventa visibile, storicamente, in diversi momenti. Il mancato sacrificio a Giove Ottimo Massimo potrebbe rappresentare uno di questi momenti, come ha sottolineato Klaus M. Girardet (Die konstantinische Wende, Darmstadt 2006). Dopo una vittoria, infatti, i trionfatori si recavano sul Campidoglio e sacrificavano a questa divinità. Costantino, dopo aver sconfitto Massenzio, entra a Roma, ma non si reca a celebrare il consueto sacrificio. Nel panegirico pagano del 313, l'autore imbarazzato parla di inconsueta "fretta" dell'imperatore, adombrando così la mancata ascesa al Campidoglio. L'orientamento religioso di Costantino si palesa ancora di più nella prima lettera scritta sulla questione donatista, come ha sostenuto Hartwin Brandt (Konstantin der Grosse. Der erste christliche Kaiser, München 2006). La legislazione raccolta nel XVI libro del Codice teodosiano, particolarmente intensa tra il 319 e il 321, rappresenta un altro momento dal quale si evince questa svolta. Dalle fonti emerge dunque che il cambiamento in Costantino non si evidenzia in un momento preciso, ma si configura come un processo continuo culminato con il battesimo alla fine della vita; una conversione graduale, come del resto aveva già fatto intendere Eusebio di Cesarea. A ben leggere la Vita Constantini, infatti, il processo di conversione dell'imperatore ha un inizio e una fine: l'inizio coincide con la visione celeste del 312 ed è ancorato a una rivelazione divina considerata fondamento della vittoria. La conclusione del processo è sancita dal battesimo, ricevuto sul letto di morte il 22 maggio del 337, con il quale Costantino entra di fatto nella comunità cristiana. La conversione di Costantino è strettamente legata a quella dell'Europa. Ancora oggi risuona attuale la domanda con la quale lo storico Arnold Hugh Martin Jones, chiude il suo libro del 1948 Constantine and the Conversion of Europe: "Se Costantino non si fosse convertito, l'Europa sarebbe stata cristiana?". A questa domanda si può rispondere che, probabilmente il cristianesimo avrebbe proseguito a diffondersi nell'impero romano, ma la "svolta" costantiniana ebbe sicuramente una portata epocale.
(©L'Osservatore Romano - 1 marzo 2009)
La teologia politica di Eusebio di Cesarea - Esercizio del potere e pratica della virtù – L’Osservatore Romano, 1 Marzo 2009
Dedicando nel 2007 una catechesi a Eusebio di Cesarea, Benedetto XVI ha reso finalmente giustizia a un vescovo oggetto di molti pregiudizi. Su di lui gravano le accuse di essere stato un ariano, un cortigiano, un uomo dal debole carattere, un imbonitore. Il Papa ha invece spostato l'attenzione sullo studioso infaticabile, che con la sua opera storica, la prima del cristianesimo, ha salvato dall'oblio molti avvenimenti della Chiesa antica; sul filologo che ha curato la preziosa biblioteca di Cesarea; sul protagonista del concilio di Nicea, di cui "sottoscrisse il Credo e l'affermazione della piena divinità del Figlio di Dio"; sul sincero ammiratore di Costantino, che aveva dato la pace alla Chiesa. Il Pontefice ha messo in evidenza la prospettiva fondamentale della storiografia eusebiana, una "storia "cristocentrica", nella quale si svela progressivamente il mistero dell'amore di Dio per gli uomini (...). L'analisi storica non è mai fine a se stessa; non è fatta solo per conoscere il passato; piuttosto, essa punta decisamente alla conversione e a una autentica testimonianza di vita cristiana da parte dei fedeli". Benedetto XVI ha restituito la figura del vescovo di Cesarea alla verità della storia. Una visione ben lontana dalle tesi sulla presunta accondiscendenza nei confronti di Costantino, derivata da una erronea interpretazione della cosiddetta teologia politica dello studioso presentata nel 336 nel Discorso per il trentennale. In questo testo - che celebra i trenta anni di regno dell'imperatore - Eusebio presenta Costantino come immagine di Dio e mimesi del Lògos. Questa formula, secondo alcuni, sarebbe alla base non solo del cesaropapismo bizantino, ma anche di ogni forma di assolutismo teocratico. Ma in che misura Eusebio ideò una concezione politica che asservì la Chiesa al potere temporale?
Per rispondere a questa domanda, occorre prima chiarire due punti: cosa intende Eusebio quando parla del sovrano come immagine-imitazione di Dio e come è stata recepita nella storia la sua formulazione. Per il vescovo di Cesarea l'imperatore rappresenta l'immagine-imitazione della divinità non per partecipazione ontologica, come volevano i trattati ellenistici, ma grazie alle sue virtù: imitando il Lògos l'imperatore può riprodurre l'immagine del regno del Padre. L'imperatore rappresenta Dio solo se imita il Lògos, perfetta immagine del Padre, e solo in questa imitazione egli può diventare immagine di Dio. Solo colui che riesce a riprodurre in sé l'immagine del Padre attraverso l'imitazione del Lògos, può essere definito veramente imperatore. Il fatto che il soggetto dell'imitazione sia il Lògos, che media il rapporto tra Dio e l'imperatore, e rende possibile che quest'ultimo possa essere immagine di Dio attraverso la sua imitazione, è l'elemento di novità apportato da Eusebio. L'imitazione di Dio acquisisce una nuova sfumatura rispetto alla tradizione che muoveva dal Timeo platonico, presente anche nel pensiero stoico, neopitagorico, medio e neoplatonico.
Per Eusebio l'esercizio del potere è quindi strettamente collegato con la pratica delle virtù e il modello per eccellenza per chi esercita il potere è Cristo: ciò garantisce l'assenza di abusi e illeciti. Il vescovo di Cesarea elabora accuratamente la sua dottrina teologico-politica in quanto, dopo la "svolta costantiniana", aveva la necessità di presentare il nuovo impero cristiano come una realtà concreta e presente.
Sostenendo la necessità di una teologia non strumentalizzabile politicamente, nel suo Il monoteismo come problema politico (1935) il teologo Erik Peterson indica in Eusebio colui che ha dato dimensione teologica alla monarchia divina, creando un nesso tra monoteismo religioso e monarchia universale romana. Pur rimanendo imprescindibile la riflessione di Peterson sui rischi di una identificazione tra religione e politica, che porterebbe a pericolosi fondamentalismi, bisogna ricordare che nel rapporto tra monoteismo e monarchia - o analoghe forme politiche - il concetto di monoteismo non esprime più una fede religiosa, ma un costrutto politico.
Nel lessico di Eusebio di Cesarea, uomo del iv secolo, i termini monoteismo e monarchia non hanno gli stessi significati che acquisiranno nel corso dei secoli. Per Eusebio, la Chiesa non è "una comunità sacramentale separata, ed eventualmente contrapposta, alla comunità politica, giacché nell'una e nell'altra opera la stessa ragione divina, e perciò entrambe devono essere la stessa società, la società dei cristiani, uniti dall'imperatore e in cammino verso il Padre sotto la guida del Verbo", come ha ben evidenziato Merio Scattola, in Teologia politica (Bologna, Il Mulino, 2007). Il cesaropapismo bizantino o l'assolutismo di Giacomo iv di Scozia (1587-1625) recepiscono e portano alle estreme conseguenze la teoria eusebiana, snaturandone il genuino significato. Dal xv secolo in poi, l'"imitazione di Dio" è richiamata nel titolo ottomano del sultano "ombra di Dio sulla terra", che esprime in tal modo l'idea della maestà di origine divina. In realtà Eusebio non auspica una identificazione tra i vertici del regno e della Chiesa, non teorizza una religio regis tipica delle monarchie assolute, né afferma che il sovrano esercita un potere divino, ma desidera un monarca che governi avendo come modello non solo il Padre, ma anche Cristo. Alla luce di questa prospettiva cristocentrica, implicita nel concetto eusebiano del sovrano come immagine-imitazione, sembra difficile fare di Eusebio un teorico dell'assolutismo o un vescovo prezzolato al servizio del potere, senza per questo disconoscere le derive sorte dalla sua formulazione, che resta la prima teologia politica della storia cristiana. (marilena amerise)
(©L'Osservatore Romano - 1 marzo 2009)
Tempi 27-2-2009 - Il caso Wajda. Il maestro censurato - di Roberto Persico,Annalia Guglielmi - «Sono in molti ad avere interesse a che il mio film non sia proiettato, ad acquistarne i diritti per non farlo vedere». Le scomode verità del grande regista di “Katyn” – Varsavia
È appena tornato da Berlino, dove il suo Tatarak ha vinto il premio speciale della giuria per un’opera che «apre all’arte cinematografica nuove prospettive». «Pensi – dice sorridendo all’inviato di Tempi nei suoi studi a Varsavia – che il riconoscimento lo hanno dato ex-aequo a me e a un regista argentino poco più che trentenne al suo primo film». Lui, Andrzej Wajda, di anni ne ha ottantatré, e di regie alle spalle ne conta oltre tre dozzine. Ma ha ancora l’entusiasmo di un giovanotto e il gusto di usare la macchina da presa per continuare a raccontare le gioie e i dolori della vita, oggi come trent’anni fa, quando opere come L’uomo di marmo, L’uomo di ferro e Danton filtravano attraverso la cappa di piombo del socialismo reale e facevano sentire anche in Occidente la voce di un uomo libero, che non ha mai rinunciato a guardare la realtà coi suoi occhi rifiutando le lenti deformanti dell’ideologia. L’arrivo nelle sale italiane, dopo lunghe peripezie, di Katyn, il film sull’eccidio degli ufficiali polacchi perpetrato dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale e a lungo attribuito ai nazisti tedeschi, è l’occasione per incontrare Wajda e parlare con lui di cinema. E di molto altro.
Andrzej Wajda, cominciamo dalla pellicola che sta riproponendo il suo nome in Italia. Da dove nasce l’idea di fare un film sul massacro di Katyn?
Un film su Katyn fino al 1989 sarebbe stato impossibile, perché secondo la versione ufficiale imposta dai sovietici il massacro di ventiduemila ufficiali dell’esercito polacco compiuto nel 1940 nei boschi di Katyn era stato opera dei tedeschi. In realtà in Polonia tutti sapevano che i colpevoli erano i russi, e nessuno era disposto a fare un film intriso di menzogna; così Katyn nella nostra storia rimaneva una ferita aperta. Perché allora non lo abbiamo fatto subito dopo il 1989? Perché sulla vicenda c’era stato come un blocco: mentre tutti gli altri episodi drammatici della Seconda guerra mondiale avevano trovato qualcuno che ne facesse materia di qualche racconto, su Katyn non c’era nulla. Così, realizzare una sceneggiatura è stato un lavoro lungo e difficile. Io ho continuato a leggere tutta la documentazione disponibile, soprattuto i diari delle donne che, come mia madre, avevano perso il marito nella strage. Oggi tutto quel che si vede nel film è rigorosamente basato sui documenti che io ho letto nel corso di anni di ricerche.
Che cosa ha voluto dire allora per lei girare un film come questo?
Ho sempre avuto in mente che un film su Katyn avrei potuto e dovuto farlo io: farlo ha voluto dire saldare un debito con mio padre e mia madre, far conoscere a tutti l’eccidio compiuto sugli uomini e la menzogna perpetrata nei confronti delle loro donne.
Ci risulta, però, che l’opera abbia avuto qualche “problema di circolazione”. È vero?
Guardi, in Polonia ha avuto oltre tre milioni di spettatori, posso dire di essere soddisfatto. Del resto era un’opera che la gente aspettava da sessant’anni. Il problema è che i diritti per la distribuzione all’estero sono stati assegnati alla televisione di Stato polacca, che non ha fatto nulla perché il film avesse una circolazione dignitosa: lo ritengono un film scomodo e non hanno voluto spingerlo. Pensi che nel rapporto della Televisione Polacca sulla società New Media Di-stribution, l’azienda che deve distribuire il film contemporaneamente sia in Russia sia negli Stati Uniti, ho visto una nota a margine scritta a mano che informa che «l’iniziativa potrà fallire per ragioni politiche». Tanti infatti hanno interesse a che il film non venga proiettato, e in molti paesi ci sono distributori che lo hanno acquistato per non farlo vedere. Viene mostrato solo in circuiti ristretti, nei cinema d’essai o in rassegne per un pubblico selezionato. Così si fa in modo che non incida, che non abbia un vero rilievo nella mentalità comune. Il caso più clamoroso, comunque, è quello della Russia.
Per quali ragioni?
Perché in Russia, ancora oggi, Stalin è amato. Compare ancora in cima alle classifiche dei personaggi più popolari. Si sa che ha ucciso decine di milioni di persone, eppure molti russi ritengono ancora che lo abbia fatto per il bene del suo paese. Il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, invece, è un crimine senza giustificazioni, che ha infranto tutte le convenzioni di guerra, e quindi qualcuno non vuole che venga ricordato. Pensi che gli organizzatori della Settimana del cinema polacco, in Ucraina, a Kiev e Charków (mi stava a cuore soprattutto questa proiezione, perché proprio in quella città fu ucciso mio padre nella primavera del 1940 e là è sepolto), si sono visti recapitare una una lettera della Televisione Polacca di questo tenore: «Telewizja Polska – l’unico e solo titolare dei diritti di distribuzione del film – non è a conoscenza di NESSUNA proiezione di Katyn in programma per la Settimana del cinema polacco in Ucraina. Per favore, abbiate la cortesia di ritirare il titolo dalle vostre programmazioni, e di comunicarci nome e contatti della persona o dell’organizzazione che vi ha fornito i diritti per la proiezione». Un tono piuttosto minaccioso, non le pare?
Chi si oppone alla circolazione di Katyn? Gli stessi che hanno pilotato il processo che ha portato alla scandalosa assoluzione degli assassini di Anna Politkowskaya?
Non ho ancora fatto in tempo a valutare fino in fondo la notizia a cui ha accennato. Però certo mi fa impressione che in un paese che pretende di essere democratico ritornino gli assassinii politici, come ai tempi della dittatura. È un fatto che non può non preoccupare vivamente.
In Italia qualcuno dice che Katyn sarà un flop perché non interessa, è una storia datata. Perché riproporla adesso che il comunismo è finito da vent’anni?
In Polonia il perché è chiarissimo: perché non potranno esserci rapporti normali fra la Polonia e l’ex Unione Sovietica fino a che non sarà detta la verità su questo crimine. I tedeschi hanno compiuto crimini peggiori, ma i loro governanti lo hanno riconosciuto, e ora i nostri rapporti con la Germania non sono più avvelenati dal rancore. Non ci può essere amicizia fra due popoli se non si riconoscono i torti commessi.
Le sue opere sono state armi importanti per la lotta dei polacchi contro il regime. Come giudica il mondo che da quella lotta è nato, la Polonia e l’Europa di oggi?
Non solo i miei film, ma tutto il cinema polacco ha sempre fatto di tutto per costruire un ponte con l’Occidente. La Polonia è parte dell’Europa, i polacchi si sono sempre sentiti occidentali. Dov’è il confine dell’Europa occidentale? Io dico che l’Europa finisce là dove arrivano le chiese gotiche. Dove c’è una chiesa gotica vuol dire che è arrivata non solo la religione cattolica, ma la civiltà mediterranea. Noi polacchi, pur con tutti gli ostacoli, le difficoltà che abbiamo incontrato nella storia, apparteniamo pienamente a questa cultura, a questa civiltà.
Ma la Polonia di oggi è quella che immaginavate vent’anni fa?
Guardi, io non sono preoccupato perché la Polonia non ha sviluppato quella bella forma che noi speravamo. La democrazia è un sistema difficile, si assimila solo lentamente. La cosa davvero importante è che la società adesso può parlare di se stessa, che le persone possono mettere a tema quel che sta loro a cuore: è questo, in fondo, che ci interessava. La gente prima ha dato fiducia a Solidarnosc, poi ha ridato una possibilità alla sinistra, poi ha preso altre strade. L’importante è che le persone hanno cominciato a scegliere. Poi fa parte del gioco della democrazia che alcune scelte siano felici, altre meno. Personalmente, ho apprezzato molto le decisioni del primo governo, quello di Mazowiecki, la scelta di puntare subito su una forte integrazione con l’Europa: ha rivitalizzato la nostra economia, ci ha dato una moneta forte. L’integrazione con l’Europa ormai è un fatto irreversibile, i tentativi nazionalistici sono puramente folkloristici.
Ma in Europa ci si imbatte anche in una nuova ideologia, più sottile ma non meno penetrante, un’ideologia nichilista che afferma che nulla ha valore, una “dittatura del desiderio” secondo cui l’unico valore è soddisfare i desideri immediati di ciascuno. Cosa pensa a questo proposito?
Non ho paura di questo. In Polonia la situazione è diversa, la Chiesa ha ancora un ruolo importante. A me non spaventa che la gente, dopo quarant’anni in cui ogni iniziativa era inibita, riprenda a muoversi secondo i propri desideri, che cerchi la propria soddisfazione in tutti gli ambiti della vita. La gente ha ripreso in mano la responsabilità per il proprio destino: non mi sembra che sia nichilismo. L’importante è che la Chiesa continui a essere quella che è. La Chiesa nella storia polacca ha avuto un ruolo fondamentale. I preti erano contro il nazismo, i preti erano contro il comunismo, si sapeva bene la Chiesa da che parte stava. In Polonia oggi ci sono settori della Chiesa che si intromettono troppo nella politica spicciola, che pretendono di stabilire chi debba essere quello o quell’altro ministro (il riferimento è a un gruppo di sacerdoti che da qualche tempo svolge in Polonia una chiassosa campagna politica in chiave fortemente nazionalista, da cui peraltro i vescovi hanno nettamente preso le distanze, ndr). Non è il suo compito. Il compito della Chiesa è quello di sempre, difendere la persona dal potere dell’ideologia. Vorrei che non si scostasse da questo, che è il suo ministero di sempre.
Un compito che è ben rappresentato dall’opera di Giovanni Paolo II. Lei lo ha conosciuto bene. Che cosa ce ne può raccontare?
Forse è meglio dire, come fece una volta Zanussi (Krzysztof Zanussi, altro grande regista polacco, ndr), a cui era stata rivolta la stessa domanda: «È lui che conosce me». Ma visto che insiste, le racconterò un episodio che per me è stato particolarmente commovente. Una volta in Vaticano era stata organizzata una proiezione alla sua presenza del mio film Pan Tadeusz, che porta sullo schermo il più classico dei testi della letteratura polacca: anche il giovane Wojtyla lo aveva interpretato quando recitava nel “Teatro rapsodico”. Ebbene, a un certo punto il Papa ha chiuso gli occhi, e si vedeva che stava assaporando quelle parole, che tante volte anche lui aveva recitato. Poi li ha riaperti, ha seguito il film fino al termine e alla fine mi ha detto: «L’autore ne sarebbe soddisfatto». È stata la più importante recensione che ho ricevuto.
È questo che la spinge a continuare, a realizzare a ottant’anni suonati opere che vengono premiate perché «aprono all’arte cinematografica nuove prospettive»?
Chissà (Wajda sorride, ndr). Certo che non mi aspettavo proprio questo riconoscimento. Oggi va di moda realizzare film mescolando invenzione e realtà, così ci ho provato anch’io. Avevo cominciato a girare un film su questa novella di uno scrittore polacco, Jaroslaw Iwaszkiewicz, che si intitola Tatarak (è il nome di una canna selvatica che cresce lungo i fiumi, dal profumo inebriante). La storia ha come protagonista una donna il cui compagno è gravemente malato, però a un certo punto il marito dell’attrice che impersonava la protagonista, Krzystyna Janda, si è ammalato per davvero, e lei ha dovuto prendersene cura. Pensavo che non se ne sarebbe fatto più niente, invece, dopo la morte del marito Krzystyna è venuta da me e mi ha detto che era disposta a proseguire il lavoro, inserendo però anche il racconto di che cosa aveva significato per lei seguire la malattia del marito. Così è venuto fuori questo film, in cui realtà e finzione si incontrano per mettere a tema il nostro atteggiamento nei confronti della malattia e della morte, un dramma che riguarda tutti.
Insomma, questo significa che è ancora possibile fare del cinema che non sia di evasione, ma che aiuti a guardare più profondamente le cose.
Assolutamente sì. La differenza è che anni fa i temi prevalenti erano la politica e la società, oggi è l’uomo, i suoi drammi, i suoi desideri. E la morte, che ci aspetta dietro l’angolo, che non possiamo evitare.