martedì 3 marzo 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) ECCO IL VALORE DI UNA VITA SENZA VALORE - Michele Brambilla, Il Giornale, 3 marzo 2009
2) Quaresima 2009 – Parla la Madre di Dio 01.03.2009 - Antonio Socci - Da Libero, 26 febbraio 2009
3) Il sottosegretario: dubbi sul concetto di «accanimento terapeutico» - Mantovano prepara lo "strappo" pro-life - «Emendamenti al testo della maggioranza o sarà difficile votare sì» - Corriere della Sera, 27.2.2009
4) Patti lateranensi per l’Ue? - Mario Mauro - lunedì 2 marzo 2009 – ilsussidiario.net
5) VATICANO/ Dove sbaglia Küng nel parlare del popolo di Dio - José Luis Restan - lunedì 2 marzo 2009 – ilsussidiario.net
6) PMI/ Una tradizione di famiglia alla prova - Redazione - lunedì 2 marzo 2009 – ilsussidiario.net
7) Il capolavoro di Mino Reitano? - La famiglia, la canzone più bella della sua vita - di Renzo Allegri
8) Indebite ingerenze della Chiesa - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 2 marzo 2009 - Libertà religiosa
9) Possibile una riforma delle norme che regolano la partecipazione agli interventi abortivi - Negli Stati Uniti è a rischio il diritto di obiezione dei medici – L’Osservatore Romano, 3 marzo 2009
10) CRISI/ Per l’Ue la fine è sempre più vicina - Carlo Pelanda - martedì 3 marzo 2009 – ilsussidiario.net
11) CINA/ Le nuove Tian an Men: Tibet e allarme sociale - INT. Francesco Sisci - martedì 3 marzo 2009 – ilsussidiario.net
12) USA/ Gaggi: la strategia di Obama tra crisi e fiducia - INT. Massimo Gaggi - martedì 3 marzo 2009 – ilsussidiario.net
13) FILOSOFIA/ Da Tommaso Moro a Zamjatin, se la letteratura salva l’“io” dall’utopia - Sante Maletta - martedì 3 marzo 2009 – ilsussidiario.net
14) UDINE, IL SOVVERTIMENTO DELLA REALTÀ - IL NICHILISMO IN ARMI NON RISPARMIA LE SUORE - MARINA CORRADI – Avvenire, 3 marzo 2009


ECCO IL VALORE DI UNA VITA SENZA VALORE - Michele Brambilla, Il Giornale, 3 marzo 2009
È passata purtroppo inosservata la lettera che David Cameron, leader dei Conservatori inglesi, ha inviato via mail a tutti coloro che hanno espresso solidarietà a lui e a sua moglie Samantha dopo la morte del figlio Ivan, di sei anni. Ieri solo il Corriere della Sera l’ha riportata, a pagina 19. Peccato, perché quella lettera ha molte risposte da dare a quanti in queste settimane hanno avanzato dubbi sul valore della vita di persone gravemente handicappate, oppure in coma. «Ma è vita, quella?», si chiedono in molti, dando per scontata la risposta: no, non è vita. «Vivere così non ha senso», dicono.

Il piccolo Ivan era, dalla nascita, affetto da paralisi cerebrale ed epilessia. Era destinato a una morte certamente prematura, come infatti è avvenuto, e non ha potuto godere nulla delle gioie dell’infanzia: né giochi né corse, né parole né pensieri, almeno nel senso che intendiamo noi per pensieri. Ma quale «senso» abbia avuto la sua breve vita l’ha scritto suo padre, in quella mail, con parole commoventi: «Abbiamo sempre saputo - ha scritto - che Ivan non sarebbe vissuto per sempre, ma non ci aspettavamo di perderlo così giovane e così all’improvviso».



La sua morte, per i genitori, non è stata affatto quella «liberazione» invocata da altri genitori che hanno vissuto drammi simili. «Lascia un vuoto nella nostra vita - ha scritto ancora David Cameron - così grande che le parole non riescono a descriverlo. L’ora di andare a letto, l’ora di fare il bagno, l’ora di mangiare: niente sarà più uguale a prima».

Vado avanti: «Ci consoliamo sapendo che non soffrirà più, che la sua fine è stata veloce, e che è in un posto migliore. Ma, semplicemente, manca a noi tutti disperatamente. Quando ci fu detto per la prima volta quanto fosse grave la disabilità di Ivan, pensai che avremmo sofferto dovendoci prendere cura di luima almeno lui avrebbe tratto beneficio dalle nostre cure. Ora che mi guardo indietro vedo che è stato tutto il contrario. È stato sempre solo lui a soffrire davvero e siamo stati noi - Sam, io, Nancy ed Elwen(la moglie e gli altri figli,ndr) - a ricevere più di quanto io abbia mai creduto fosse possibile ricevere dall’amore per un ragazzo così meravigliosamente speciale e bellissimo».

«Ricevere»: in questo verbo semplice e straordinario c’è tutto il mistero della potenza di uno dei più grandi - forse il più grande - tabù del nostro tempo, la sofferenza. In queste settimane in cui mi sono dovuto occupare del caso di Eluana Englaro, ho ascoltato attentamente le argomentazioni di tutti, politici e filosofi e prelati, ma quella che mi ha convinto di più è contenuta nelle pochissime,scarne parole che mi ha detto, durante una chiacchierata sotto la sede del Giornale, un nostro collega, Felice Manti: «Eluana è stata eliminata perché era Cristo in croce. Era un segno visibile e tangibile dell’ineluttabilità, nella nostra vita, della sofferenza».

La sofferenza è lo scandalo supremo, e di fronte ad essa reagiamo cercando (invano) di espungerla dal nostro orizzonte. Ma David Cameron ci dice ora quello che molti altri hanno sperimentato: e cioè che la sofferenza (oserei dire: forse nulla più della sofferenza) può avere il potere di renderci migliori, più attenti al dolore degli altri; di scoprirci capaci di amare e di sentirci amati. Chi vive situazioni del genere fa spesso esperienza di una fraternità che mai, prima, avrebbe immaginato possibile. Ecco «a che cosa serve» una vita come quella di Ivan Cameron. Una vita lontana anni luce dai criteri di felicità e benessere del nostro tempo: eppure capace di produrre una catena di amore che chissà quando cesserà di dare frutti. Una vita breve.

Ma che cosa è breve e che cosa durevole? «Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo» (Seconda lettera di Pietro, 3,8). [...]

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Da il Corriere della Sera:

All'indomani della scomparsa del figlio Ivan, sei anni, affetto da paralisi cerebrale ed epilessia, il leader conservatore David Cameron ha inviato una e-mail per ringraziare i sostenitori del partito che hanno espresso solidarietà alla sua famiglia. Ecco il testo che David e la moglie Samantha hanno inviato al popolo Tory.

"Sam e io siamo stati sommersi da tutte le lettere, i biglietti, le e-mail e i fiori che abbiamo ricevuto per Ivan. Inviare una e-mail questa settimana ci offre l'opportunità di dire un grande «grazie». Significa molto sapere che altri pensano a noi e a lui. Abbiamo sempre saputo che Ivan non sarebbe vissuto per sempre, ma non ci aspettavamo di perderlo così giovane e così all'improvviso. Lascia un vuoto nella nostra vita così grande che le parole non riescono a descriverlo. L'ora di andare a letto, l'ora di fare il bagno, l'ora di mangiare — niente sarà più uguale a prima.

Ci consoliamo sapendo che non soffrirà più, che la sua fine è stata veloce, e che è in un posto migliore. Ma, semplicemente, manca a noi tutti disperatamente. Quando ci fu detto per la prima volta quanto fosse grave la disabilità di Ivan, pensai che avremmo sofferto dovendoci prendere cura di lui ma almeno lui avrebbe tratto beneficio dalle nostre cure. Ora che mi guardo indietro vedo che è stato tutto il contrario. È stato sempre solo lui a soffrire davvero e siamo stati noi — Sam, io, Nancy ed Elwen — a ricevere più di quanto io abbia mai creduto fosse possibile ricevere dall'amore per un ragazzo così meravigliosamente speciale e bellissimo".
David Cameron, 02 marzo 2009


Quaresima 2009 – Parla la Madre di Dio 01.03.2009 - Antonio Socci - Da Libero, 26 febbraio 2009
"Cari figli, in questo tempo di rinuncia, preghiera e penitenza vi invito di nuovo: andate a confessare i vostri peccati affinché la grazia possa aprire i vostri cuori e permettete che essa vi cambi. Convertitevi, figlioli, apritevi a Dio e al suo piano per ognuno di voi. Grazie per aver risposto alla mia chiamata."

(Messaggio da Medjugorje, 25 febbraio 2009) UNA SINISTRA DELL’ODIO CHE DEVE FAR PAGARE AI CRISTIANI PERFINO LA QUARESIMA…

In Italia circa l’80-90 per cento della popolazione si definisce cattolica, mentre il 5 per cento circa si dichiara atea. I giornali però ragionano e informano come se la proporzione fosse esattamente inversa. Ignorano così anche la tendenza rilevata dalle indagini sociologiche, pure fra i più giovani: per esempio i “non credenti” fra i 18 e i 30 anni sono passati dal 17,2 per cento del 1981, al 5,8 per cento del 2000. E la fiducia nella Chiesa da parte degli italiani è cresciuta dal 57 per cento del 1981 al 67 per cento di questi anni.

Ma i giornali sembrano rappresentare più il mondo delle redazioni che quello reale, il quale infatti poi si schiera agli antipodi dei media: vedi il referendum sulla legge 40 e le elezioni. I giornali sono totalmente disinteressati al cattolicesimo. Anzi, sono vistosamente ostili. I “cattolici” a cui danno voce sono solo quelli che picchiano sulla Chiesa e sul Papa: ieri, fra gli altri, c’era Hans Kung sulla “Stampa” che se n’è uscito con l’evocazione del “Concilio di Nizza del 325”. Temo si sia confuso col famoso Concilio di Nicea del 325, ma nei giornali non se ne accorge nessuno.

Nessuna parola si è letta ieri sul fatto che era il mercoledì della ceneri e l’inizio della Quaresima per la quale il Papa ha scritto un Messaggio stupendo. Capita di essere informati dai giornali dell’inizio del Ramadan (il periodo di digiuno islamico), ma non dell’inizio della Quaresima. L’unico articolo che ne parlava è uscito sulla Repubblica e mi pare un esempio di faziosità ideologica.

Dunque è accaduto che per le mense scolastiche del Comune di Roma, nel periodo di Quaresima, ovvero per sei venerdì, siano stati scambiati i menù fra il giovedì e il venerdì, cosicché il filetto di manzo va al giovedì e il pesce alla mugnaia va al venerdì.

Spalancati cielo. La Repubblica è insorta con un’intera pagina: “Scuole, è quaresima anche nel piatto, fino a Pasqua in mensa niente carne”. Già questo titolo è sbagliato e fuorviante, perché la carne è sostituita dal pesce solo al venerdì. Ma oltretutto è davvero pretestuoso perché l’alimentazione dei bambini non cambia: fra le pietanze stabilite dai dietologi c’è sia la carne che il pesce. Collocare il pesce al venerdì anziché al giovedì in questo periodo è, oltreché una nostra antica tradizione (perfino molto salutare), un semplice accorgimento pratico per evitare che tante famiglie cattoliche debbano fare la domanda di variazione nei diversi municipi. Non toglie niente a nessuno. Ma contro questa scelta di buon senso si è scatenata la solita “guerra di irreligione” del giornale di Ezio Mauro.

Con il contorno di politici, come Paolo Masini del Pd, che si lancia all’attacco dell’assessore capitolino Laura Marsilio: “Il suo è un pretesto pericoloso e irresponsabile” tuona Masini. “Imporre a tutti i bambini una scelta dettata da motivi religiosi rischia di acuire i problemi specie in una città come Roma, dove le difficoltà di integrazione sono ogni giorno più evidenti”.

A me pretestuosa sembra la faziosità della sinistra giacobina che puntualmente cerca di usare l’argomento musulmani per dare sfogo al suo pregiudizio anticristiano. Come ha fatto in Gran Bretagna, per fare un esempio, il comune di Oxford quando ha cancellato il Natale chiamando quella del 25 dicembre “Festività della luce invernale”. A protestare contro la ridicola decisione non sono stati solo cattolici e anglicani, ma anche ebrei e musulmani. “I fedeli islamici e di altre confessioni – ha affermato il Consiglio musulmano di Oxford – “aspettano con trepidazione il Natale”, una festa che “non può essere cancellata con un tratto di penna”.

Nel caso di Roma non risulta che abbiano protestato i musulmani. Ma la loro presenza viene usata come pretesto da altri in funzione anticattolica. Secondo una certa Sinistra, infatti l’integrazione non è solo il riconoscere e garantire gli usi e costumi delle minoranze, ma anche la cancellazione della millenaria tradizione della stragrande maggioranza degli italiani.

Coloro che si scatenano contro il Comune di Roma per il semplice scambio di menù del giovedì e del venerdì, non risulta che siano insorti quando un istituto scolastico piemontese ha addirittura sospeso le lezioni nel giorno di inizio del Ramadan e nel giorno di conclusione.

E neanche quando, nel 2006, il Comune di Milano ha preso una iniziativa ancor più esplicita e importante per il Ramadan islamico diffondendo nelle scuole una specie di decalogo dove si espongono i valori alla base di questa tradizione religiosa, aiutando gli insegnanti a valorizzare i ragazzi che desiderano avvicinarsi a questa pratica. Il Comune ha pure esortato gli insegnanti che hanno studenti musulmani a spiegare a tutta la classe il significato del Ramadan facendo un paragone con la Quaresima cristiana.

Una professoressa milanese ha riportato su internet (condividendoli) alcuni contenuti di una circolare (probabilmente è la stessa) sul Ramadan: “Le linee guida di questa circolare suggeriscono al punto 2: ‘Sono molti i valori positivi che stanno alla base di questo precetto (ramadan ndr). Esso è innanzitutto rispettato per uniformarsi alla volontà di Dio, educa a dominare i propri desideri, rende partecipe della sorte di chi è povero, allena alla pazienza…’. Tra i suggerimenti pratici leggiamo: ‘la rinuncia alla merenda o a dolci e caramelle durante il giorno (eventualmente partecipata da chi volesse, anche se non musulmano) andrebbe incoraggiata al posto della rinuncia al pasto’ ”.

Si può immaginare cosa sarebbe successo se ad essere così valorizzata dalle pubbliche autorità fosse stata la Quaresima dei cristiani. Allora sì che Repubblica e i “politici democratici” sarebbero insorti in difesa della “laicità della scuola” e contro quello che avrebbero definito vero e proprio indottrinamento confessionale. Ovviamente pericoloso e irresponsabile.

E’ infatti la stessa scuola italica dove ogni anno tanti insegnanti “progressisti” (e pure i libri di testo) inventano mille modi per trasformare la festa del Natale in festa dell’inverno e della neve e quella di Pasqua in festa della primavera o della “colomba della Pace”.

Intanto Repubblica si compiace che si venga incontro con sollecitudine alle necessità del Ramadan islamico perfino per i detenuti. Titolo del 4 luglio 2005: “Col ramadan dietro le sbarre cambia tutto per pasti e orari”. E perché allora dobbiamo cancellare la nostra millenaria tradizione?

La vera integrazione non è prodotta dalla cancellazione della nostra antica cultura popolare e cattolica, come vorrebbe questa sinistra, ma dalla sua conoscenza e dallo scambio sereno fra diverse culture e diverse fedi, anche nell’ambito della scuola.

Voglio raccontare un aneddoto significativo. Ho frequentato la facoltà di lettere e filosofia dell’università di Siena dove mi sono laureato e dove ho seguito per anni le lezioni di un grande professore di “critica letteraria”, il famoso Franco Fortini.

Le sue idee marxiste erano note (scriveva peraltro sul Corriere della sera). Lui era oltretutto di origini ebraiche, non certo cattoliche. Ebbene, un giorno di febbraio, inizio di Quaresima, arrivato in aula, cominciò a declamare (magistralmente) un poema. Solo alcuni di noi – ciellini - sapevano che era “Il mercoledì delle ceneri” di Thomas S. Eliot e seppero spiegare cosa significa questo giorno cristiano. L’altra parte degli studenti (di sinistra) lo ignorava. A loro Fortini si rivolse spiegando (energicamente) che non è ammissibile vivere in Italia e addirittura studiare letteratura, storia e arte italiane senza conoscere tutto del cattolicesimo. “Qualunque idea politica o convinzione si abbia” disse “dovete conoscere a menadito la tradizione cristiana”.

Antonio Socci - Da Libero, 26 febbraio 2009


Post scriptum

Una breve osservazione supplementare. Considerate quante volte sui quotidiani trovate un punto di vista cattolico, una delle tantissime storie del popolo cristiano, un articolo sulla Chiesa o la fede non pregiudizialmente ostile. A me pare che non accada quasi mai. Clamoroso fu quello che si verificò durante il referendum sulla legge 40: tutti, dico tutti, i media da una parte e la stragrande parte del popolo italiano dall’altra. Infatti guardate come quegli stessi media hanno poi totalmente rimosso quella vicenda. Non un solo editoriale autocritico. Mai un ricordo, una menzione. Com’è che quella ristretta minoranza (5 per cento) che si definisce atea impronta alla sua visione del mondo tutti i media? E tutto questo non somiglia a un soffocante regime ideologico monocolore?


Il sottosegretario: dubbi sul concetto di «accanimento terapeutico» - Mantovano prepara lo "strappo" pro-life - «Emendamenti al testo della maggioranza o sarà difficile votare sì» - Corriere della Sera, 27.2.2009
«Se non venissero accolti i nostri emendamenti e si arrivasse a un testo che contiene in modo inequivocabile il testamento biologico, la nostra coscienza confliggerebbe con un voto a favore». Alfredo Mantovano, sottosegretario all'Interno, è uno dei 53 firmatari del documento che chiedono una correzione di rotta, in senso pro-life, al disegno di legge Calabrò. Ieri i senatori Pdl che hanno firmato l'appello hanno negato che si tratti di un atto di «ostilità» nei confronti del testo della maggioranza. Ma Mantovano non è convinto di alcune parti e chiede di intervenire ancora sul disegno di legge. La cui utilità e urgenza non discute: «Una legge è necessaria: di fronte alla deriva giurisprudenziale è il caso di ribadire norme chiare sul fine vita. E il testo di Calabrò contiene molte affermazioni di principio condivisibili».
Dopo la necessaria premessa, aggiunge subito le riserve: «Fatte salve le intenzioni, gli esiti concreti del provvedimento non sempre appaiono coerenti. Si consentono margini di ambiguità che rischiano di lasciare l'ultima parola al giudice». Le parti che lasciano quantomeno perplesso Mantovano, e con lui Francesco Cossiga e diversi altri esponenti del Pdl, sono quelle che riguardano l'accanimento terapeutico e la Dat, la dichiarazione anticipata di trattamento. «Naturalmente sono contrario all'accanimento, nessuno può essere favorevole. Ma si tratta di capire di cosa stiamo parlando». Si fa presto a dire «accanimento ». Per questo Mantovano prende un punto di riferimento certo e autorevole: «Il 20 dicembre del 2006 il Consiglio superiore di Sanità, realtà laica e istituzionale, ha spiegato che il medico deve astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non proporzionati e non efficaci quando il paziente si trova "in condizioni di morte prevista come imminente"». Una definizione che non è esattamente sovrapponibile al testo Calabrò: "Soprattutto in condizioni di morte prevista come imminente". «La diversa formulazione — spiega Mantovano — quel "soprattutto" in più, apre la porta alla rinuncia alle cure per persone che non siano in queste condizioni». È il caso di Eluana. Ma c'è un'altra ambiguità, secondo il sottosegretario: «In quell'articolo si fa riferimento al "sostegno vitale". Che non è terapia ma idratazione e alimentazione. Utilizzando queste due parole c'è il rischio di includere nella nozione di accanimento terapeutico anche la somministrazione di cibo e di acqua».
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L'altro punto chiave è la dichiarazione anticipata: «C'è un limite di logica giuridica. Mentre il consenso informato si basa sull'attualità di una manifestazione di volontà, la Dat no. Se ho un tumore e mi si viene prospettata la chemioterapia, sono libero di decidere se essere curato o meno. Con la Dat rivolgo la mia volontà a un futuro incerto e indeterminato. Che non può avere un valore vincolante ». A nulla vale obiettare che si tratta di un limite talvolta necessario: il consenso è anticipato per i casi nei quali non può essere espresso: «Certo, nei casi di incoscienza: ma chi garantisce che a quel punto non sia cambiata la mia volontà e io non riesca a comunicarla?». La valutazione sulla Dat è complessivamente negativa: «Se passa il testamento, come faccio a escludere che non comprenda anche alimentazione e idratazione? Sarebbe una conseguenza diretta: quello che esce dalla porta rischia di rientrare dalla finestra». Voterebbe lo stesso il testo, nel caso in cui la Dat restasse? «È una domanda parallela all'effetto vincolante della dichiarazione anticipata. Il testo così com'è non va bene: ma confido in una correzione di rotta». Quanto al Pd, non ci sono margini di dialogo. A parte le cure palliative, sulle quali «le posizioni non sono molto lontane». Per il resto la distanza è siderale: «Nel Pd ci sono posizioni esplicite pro eutanasia. Non vorrei rivedere il film dell'altra legislatura, quando si volevano varare insieme testamento biologico, Dico, norme antiomofobia e norme contro la libertà di educazione. Siamo a uno snodo fondamentale: qui è in gioco qualcosa di superiore al merito del provvedimento, sia pure importante ».
Alessandro Trocino - 27 febbraio 2009


Patti lateranensi per l’Ue? - Mario Mauro - lunedì 2 marzo 2009 – ilsussidiario.net
I Patti lateranensi, ovvero gli accordi di mutuo riconoscimento tra il Regno d'Italia e lo Stato della Città del Vaticano, hanno compiuto 80 anni. Sottoscritti l'11 febbraio 1929, andavano a colmare gli aspetti lasciati in sospeso nel rapporto tra Stato e Chiesa che erano stati precedentemente disciplinati dalla cosiddetta “legge delle Guarentigie”, approvata dal Parlamento italiano il 13 maggio 1871 dopo la presa di Roma, ma che di fatto, non venne mai riconosciuta.
Se dovessimo sintetizzare in breve il contenuto di questi atti dovremmo rifarci alle parole di Pio XI il quale, durante lo storico discorso tenuto nel febbraio del 1929 di fronte ai docenti e studenti della Università Cattolica del Sacro Cuore, in questo modo esprimeva la propria posizione: «Ridare Dio all’Italia e l’Italia a Dio». Un’espressione che potremmo definire profetica, poiché i Patti lateranensi hanno assicurato un’armonica convivenza e un mutuo scambio tra Chiesa e Stato.
Il contenuto degli accordi era duplice: da una parte, il Trattato riconosceva l'indipendenza e la sovranità della Santa Sede e fondava lo Stato della Città del Vaticano, dall’altra il Concordato definiva le relazioni civili e religiose in Italia tra la Chiesa e il Governo. Al Concordato con l’Italia, quindi, era indissolubilmente collegato il Trattato lateranense che ha avuto il merito di risolvere la “Questione Romana” e ha riconosciuto la personalità internazionale della Santa Sede. Libertà della Chiesa e libertà dei cattolici erano le priorità di allora e restano punti cardine ancora oggi.
Sin dalla ratifica, il Concordato si pone come strumento valido per l’esercizio concreto della libertà della Chiesa e dei cattolici, da garantire sul piano internazionale. Per quanto riguarda la libertà dei cattolici, il ventaglio dei diritti è ampio: assistenza spirituale garantita ai militari cattolici nelle Forze armate; libertà matrimoniale, con il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio canonico e delle cause di nullità ecclesiastiche, venendo pertanto meno l’obbligo sino allora vigente della doppia celebrazione civile e religiosa; estensione dell’ora di religione cattolica a tutte le scuole di ogni ordine e grado; riconoscimento delle organizzazioni dipendenti dalla Chiesa per la diffusione e l’attuazione dei principi cattolici.
Già nel 1937 Pio XI aveva maturato la radicale rottura con i totalitarismi, con l’emanazione delle Encicliche contro il nazismo e contro il comunismo. L’anno successivo di fronte all’iniquità delle leggi razziali, in un brano recuperato nel diario inedito del cardinale Domenico Tardini, il Santo Padre, di cui quest’anno ricorrono i settant’anni dalla morte, esprime la propria preoccupazione giunta a noi nell’attendibile ricostruzione :che ne fa il prelato: «Ma questo è enorme! Ma io mi vergogno… mi vergogno di essere italiano. E lei padre lo dica pure a Mussolini! Io non come papa ma come italiano mi vergogno! […] Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza. Non avrò paura! Preferisco andare a chiedere l’elemosina. […] Anche se la piazza sarà piena di popolo, non avrò paura! Qui sono diventati come tanti Farinacci. Sono veramente amareggiato, come papa e come italiano».
A chi in passato ha invocato, soprattutto durante la contestazione sessantottina, e ancora oggi auspica l’abrogazione degli accordi tra Stato e Chiesa, ha già replicato con saggezza la politica italiana che in questi anni non ha mai rivisto il testo del 1929, ma si è limitata ad armonizzarlo ai nuovi principi di libertà che lo Stato democratico e la Chiesa conciliare hanno nel frattempo posto a fondamento dei rispettivi ordinamenti. La revisione si è conclusa, dopo vari passaggi parlamentari, il 18 febbraio 1984, quando il Cardinale Segretario di Stato Agostino Casaroli e il Presidente del Consiglio della Repubblica italiana Bettino Craxi firmarono l’Accordo di modificazioni al Concordato lateranense.
Non da ultimo, bisogna considerare che non può essere proposto un referendum per l'abolizione o la modifica del Trattato, del Concordato o delle leggi collegate a esso perché non sono ammessi, nel nostro ordinamento, referendum riguardanti i trattati internazionali. Non si può accettare neppure una proposta di annullamento poiché si andrebbe a contraddire l’articolo 80 della Costituzione in cui si legge che «la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado».
Il Concordato si rivela ancora oggi lo strumento appropriato per assicurare un fecondo rapporto tra Stato e Chiesa, ma soprattutto, per realizzare l’obiettivo che Pio XI si era prefissato di «ridare l’Italia a Dio e Dio all’Italia».
Va riconosciuto che questi accordi hanno garantito, infatti, la pace religiosa e regolato la condizione del credo cattolico in Italia. Questa tutela di significative libertà nel rispetto della tradizione del nostro Paese e di fedeltà alle sue radici, potrebbe essere un utile modello per le istituzioni europee, non di rado in affanno nel rapporto con la Chiesa cattolica e con le prerogative delle differenti comunità religiose.

VATICANO/ Dove sbaglia Küng nel parlare del popolo di Dio - José Luis Restan - lunedì 2 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Ricordo un dibattito radiofonico in cui un cattolico che si autodefiniva progressista respingeva la mia affermazione sul fatto che in Plaza de Colon, riunito intorno al papa Giovanni Paolo II, c’era il popolo cristiano. C’erano circa due milioni di persone, di ogni età e condizione, ma secondo il sapiente lì non c’era il popolo.
Quelle persone che portavano con loro le proprie speranze e debolezze, che forse non erano particolarmente brillanti in un campo piuttosto che in un altro, ma che mostravano la loro gioia di riconoscersi intorno al testimone di Pietro, non riunivano in sè le condizione dettate dal “cristiano adulto” per riconoscergli la caratteristiche di popolo.
Questo è ciò che succede al vecchio Hans Küng, vecchio non per la sua età ma per l’odore che emana dai suoi proclami rifatti. Su Le Monde, il tempio del progressismo europeo, il vecchio Küng ha detto che la Chiesa corre il rischio di trasformarsi in una setta e che milioni di cattolici non si aspettano più nulla da questo Papa.
È lo stesso Küng che, tra i principali intellettuali europei, alla fine degli anni ’70 ha lanciato un anatema contro il pontificato di Giovanni Paolo II, lo stesso che annunciava catastrofi durante il Conclave che ha eletto Benedetto XVI, lo stesso che da fin troppi anni ha abbandonato la casa del padre per rinchiudersi nei propri sogni. Certamente, lui sa molto di sette, dato che settario è chi fugge dall’insegnamento degli apostoli per costruire la sua propria immagine della fede. Il suo premio, triste e scarso, è l’applauso di coloro che eliminano la presenza storica del cristianesimo nella nostra società, qualche cosa che sembra farlo riflettere.
Ma il popolo di Dio, a volte brillante come un ampio fiume e altre volte consumato e ferito, come ha detto Paolo VI, è sempre vicino al suo pastore, e non dove vorrebbe metterlo il partito dei sapienti. La scorsa domenica, dopo l’Angelus, Benedetto XVI si è rivolto ai pellegrini tedeschi con queste significative parole: «Cristo ha scelto Pietro come roccia su cui costruire la sua Chiesa [...]. Chiediamo a San Pietro che, per sua intercessione, le confusioni e le tempeste non colpiscano la Chiesa, che permaniamo fedeli a una fede genuina, che ci manteniamo in unità e viviamo nell’amore reciproco».
Sono parole che esprimono la piena coscienza che ha il Papa di ciò che sta succedendo. Ma, al contrario di quel che alcuni dicono in buona fede, egli non ha perso la pazienza, ma mantiene con serenità il comando del timone. Come mi ha detto recentemente uno dei suoi collaboratori, egli sa, come un buon cristiano, che sebbene debba fare tutta la sua parte, in ultima istanza chi risolve i problemi della Chiesa è il Signore.
E mentre soffiano i venti, il Papa continua senza tregua la sua opera di inserire la novità introdotta dal Concilio Vaticano II nella continuità della tradizione. È questo che dà fastidio a persone come Küng, che avevano decretato la nascita di una nuova chiesa. A Pietro compete di sostenere le legittime particolarità nella Chiesa, e allo stesso tempo fare in mdo che queste non pregiudichino l’unità, ma che anzi cooperino a essa. Ed è vero che per realizzare questa missione può solamente esibire l’autorità ricevuta da Cristo, e non i pomposi titoli dei sapienti sullo stile di Küng.
Viene al pettine il severo avvertimento pronunciato da Benedetto XVI alcuni giorni fa: là dove la fede degenera in intellettualismo e l’umiltà è sostituita dall’arroganza di credersi migliori degli altri nasce una caricatura della Chiesa, che dovrebbe essere una sola anima e un solo corpo.


PMI/ Una tradizione di famiglia alla prova - Redazione - lunedì 2 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Un fatturato complessivo di 22 milioni di euro, due aziende, una che fa packaging e laminati e l’altra che commercializza prodotti per le co­munità, con in tutto circa un centinaio di dipendenti. Questi sono i nu­meri delle aziende di Nino Salerno, imprenditore siciliano che guida la Confindustria di Palermo. Aziende di famiglia, sia per quanto riguarda la direzione sia per coloro che ci lavorano, e che hanno trovato spazio col tempo, sia in Italia che nel bacino del Mediterraneo.
Come siete arrivati a svolgere le vostre attività? «L’azienda che pro­duce barattoli è nata nel 1903. L’ha fondata mio nonno. E mio padre ci ha lavorato insieme ai suoi fratelli».
Quindi siete arrivati alla terza generazione? «Certo, ma anche la quarta ha cominciato a prendersi delle responsabilità e a impegnarsi nella società».
Quanti discendenti del fondatore lavorano nella vostra impresa? «Siamo arrivati a essere otto».
Molti… «E non ci siamo tutti. Alcuni hanno deciso di dedicarsi ad altre professioni. In famiglia abbiamo medici, avvocati…».
Qual è il suo principale obiettivo come imprenditore? Di cosa si pre­occupa di più? Margini? Guadagni, quote di mercato? «Onestamente nulla di tutto ciò. Lavoriamo soprattutto per mantenere in vita una realtà che esiste da 105 anni. È una questione di orgoglio, di tradizione».
E il guadagno passa sempre in secondo piano? «Nella mia classifica personale non viene per primo e non è neanche in seconda posizio­ne». Nella quale invece c’è…? «Al secondo posto ci sono la crescita dell’impresa, l’apertura di nuovi mercati, la ricerca di nuovi clienti. An­che perché la famiglia aumenta e dobbiamo essere in grado di offrire un futuro a coloro che vogliono continuare questa attività. Per questo abbiamo aperto anche un’attività commerciale che affianca il nostro business storico».
E gli utili, i soldi? Non ci pensate proprio? «Naturalmente un’azien­da sana deve avere dei giusti profitti. Ma per ottenerli non sacrifichiamo gli obiettivi principali. È una questione di prospettiva».
In altre parole? «Meglio guadagnare meno, ma esserci anche doma­ni. E questo vuol dire, per esempio, avere meno utili, ma conquistare nuovi spazi per i nostri prodotti».
Esserci anche domani significa assicurare anche domani lavoro ai vostri dipendenti? «Certo. Anche perché la nostra azienda si trova nella zona industriale di Palermo, al Brancaccio e qui la realtà è un po’ par­ticolare».
In che senso? «Abbiamo molti dipendenti il cui nonno ha cominciato a lavorare con mio nonno e il cui padre è stato alle dipendenze di mio padre. Quando uno dei nostri lavoratori lascia l’azienda, magari dopo trent’anni di lavoro, lascia il proprio posto al figlio o lascia in azienda uno o più parenti che continuano a lavorare per noi».
Può sembrare puro nepotismo, o il passaggio generazionale di un privilegio… «E, invece, le assicuro che è una sorta di tradizione fami­gliare lavorare nella nostra azienda e ogni scelta del personale è fatta nel massimo rispetto delle norme e soprattutto di chi è meritevole, ha i numeri e le capacità che servono per lavorare per noi».
Qual è invece il vostro rapporto con la concorrenza? «Siamo in un settore in cui abbiamo a che fare sia con multinazionali sia con imprese simili alla nostra».
E quindi? «Ci poniamo in maniera differente a seconda del tipo di concorrente che abbiamo di fronte. Con la multinazionale cerchiamo di sfruttare i nostri punti di forza, come l’accesso immediato ai vertici della nostra azienda o il rapporto amicale con i clienti. Con gli altri cer­chiamo di avere dei rapporti corretti, trasparenti».
E frequenti? «In un ambito confindustriale. Faccio parte dell’Anfi­ma, l’associazione di categoria tra i produttori di imballi metallici».
Ed è utile? «Molto, altrimenti non lo farei. Anche perché porta via molto tempo. Nell’associazione e come presidente di Confindustria Pa­lermo cerco di mettere a frutto, anche nell’attività sindacale, le espe­rienze che ho maturato, specie nel campo dell’internazionalizzazione».
Nella vostra strategia rientra la conquista di quote di mercato? «Come in tutte le aziende».
Fino a eliminare i concorrenti per avere sempre maggiore potere nel mercato? «Non ci ho mai neanche pensato».
Le quote delle sue aziende sono tutte in mano alla vostra famiglia? «Sì e sono divise tra i discendenti del fondatore».
Quali sono i rapporti tra di voi? «Ottimi. Abbiamo ruoli direttivi e ci confrontiamo nel rispetto e con una finalità comune che è il bene dell’azienda».
Nessun attrito? «Ci possono essere e ci sono stati punti di vista di­versi, ma siamo sempre arrivati a un accordo perché tutti abbiamo lo stesso obiettivo».
Quanto conta il capitale umano nella vostra impresa? «Moltissimo. Ha un valore straordinario specie in un mercato come quello meridio­nale in cui ciò che conta sono i rapporti con le persone».
In che senso? «La nostra forza sta nel numero e nel fatto che in­sieme valiamo più della somma di quanto valiamo singolarmente».Sta parlando della sua famiglia? «Non solo. L’azienda è la mia grande famiglia. E l’unione di questa famiglia, insieme alle sue capacità, è la nostra arma vincente».
E i sindacati dei lavoratori cosa ne pensano? «La nostra è sempre sta­ta un’impresa sindacalizzata. In altre parole, ci sono dipendenti iscritti al sindacato e sindacalisti. Con cui abbiamo dei rapporti trasparenti, come in tutte le aziende. Ma questo non cambia la sostanza della nostra azienda».
Riuscite a valorizzare le capacità delle persone che lavorano per voi? «Non spetterebbe a me dirlo. Possiamo dire di averci sempre provato».
A giudicare dalla fedeltà dei dipendenti ci siete anche riusciti… «Una struttura come la nostra non sopravvive senza valorizzare le ca­ratteristiche migliori dei propri dipendenti. È uno dei punti di forza del­le aziende famigliari».
Per mantenere in vita un’azienda famigliare bisogna anche trasmet­tere i vostri valori alle nuove generazioni e a chi lavora con voi. Come ci riuscite? «Con l’esempio. Non c’è una scuola o un corso di forma­zione capace di farlo».
Ma avete un programma di corsi professionali? «Certo, ma possono solo migliorare le performance di impiegati, operai e dirigenti. Inten­diamoci, sono utili e necessari, ma servono ad altro».
Quali sono i vostri rapporti con i fornitori e con i clienti? «Abbiamo dei fornitori con cui facciamo affari da decenni e molti clienti che for­niamo dai tempi di mio nonno. E sono tanti sia in Italia che all’estero. Siamo cresciuti insieme, facendo strada insieme».
Ora con la crisi economica è cambiato qualcosa? «Devo ancora di­stinguere tra le grandi aziende multinazionali che forniamo o dalle quali compriamo e i piccoli e medi imprenditori con i quali abbiamo degli af­fari in comune. Cerchiamo di privilegiare questi ultimi perché i rapporti sono personali, più attenti, migliori».
E nel caso delle multinazionali? «Sta diventando sempre più difficile avere dei rapporti, perché la situazione si sta inasprendo. Hanno obietti­vi di guadagno che lasciano poco spazio agli altri. Non hanno la minima elasticità. Cercano di dettar legge più che collaborare».
In che senso? «Più di una volta da persone che conosco da anni mi è stato detto che non potevano fare nulla per risolvere un mio proble­ma, perché dall’alto o dall’altra parte del mondo avevano dettato delle regole che dovevano essere rispettate. Questo significa voler imporre la propria volontà, non fare business insieme».
E con le istituzioni? «Non forniamo enti pubblici». Ma avrà a che fare con loro? «Certo, ma ho dei rapporti nella mia veste di presidente di Confindustria Palermo, non per interessi personali. Per esempio, con l’associazione ci stiamo battendo per ridurre i lunghissimi tempi di pa­gamento delle istituzioni pubbliche».
E vi stanno ad ascoltare? «Dovrebbero, visto che le 500 aziende che rappresento sono il motore economico della zona».
Che ha problemi importanti di criminalità organizzata… «Lo sanno tutti, anche se posso dirle che le istituzioni stanno reagendo in modo efficace».
Quindi la situazione sta cambiando? «Sì. Oggi c’è un atteggiamen­to diverso nelle imprese, una maggiore tranquillità e tutta la società è coinvolta in questa lotta».


Il capolavoro di Mino Reitano? - La famiglia, la canzone più bella della sua vita - di Renzo Allegri
ROMA, martedì, 3 marzo 2009 (ZENIT.org).- Alla fine di gennaio, se ne è andato per sempre Mino Reitano, uno dei cantati più amati dalla gente. Aveva 64 anni. Gli ultimi due trascorsi nella morsa di una malattia dolorosa che ha affrontato con straordinario coraggio.
Ai funerali c’era una gran folla di gente e anche diversi colleghi. Pochi, per quanto Reitano meritava. Ma erano i suoi amici, quelli che lo conoscevano bene e, parlando di lui, ne hanno evidenziato la bontà, la signorilità, la vita esemplare.
Anche i giornali hanno dato evidenza a questa scomparsa. Ricordando soprattutto il modo sereno e composto, con il quale Mino ha “vissuto” la malattia.
Dopo la sua morte, tutti i media hanno riportato le dichiarazioni che il cantante aveva rilasciato in un’intervista pubblicata il primo giugno 2008 dal quotidiano cattolico online, “Petrus”. Ma proprio quelle citazioni evidenziavano un fatto triste. E cioè che Mino Reitano, personaggio popolarissimo, con una splendida carriera artistica durata una quarantina d’anni, era stato completamente dimenticato dai media.
Al punto che, alla sua morte, i grandi giornali, quelli che generalmente vivono sulla pelle degli artisti, sono stati costretti a “ripescare” dichiarazioni che il cantante aveva fatto otto mesi prima a un quotidiano “online”.
Quotidiano cattolico, benemerito, ma si sa che nel nostro Paese le pubblicazioni online non godono ancora di una grande visibilità pubblica.
Mino Reitano, cosciente della propria popolarità, certo di avere milioni di persone che lo ricordavano, avrebbe certamente desiderato fare quelle sue ultime confidenze a un grande pubblico, a giornali di vasta diffusione. Invece no, nessuno di quei giornali si è ricordato di lui, è andato a trovarlo, a parlargli mentre era ancora in vita.
Ma a voler essere precisi, si può affermare che Reitano non ha quasi mai goduto di un trattamento generoso e sincero da parte dei media. Giornali, radio, televisioni si sono interessati di lui sempre con una certa ironia, con una certa, sia pur pacata, ostilità e sufficienza. Non lo hanno mai sostenuto.
Non gli hanno mai dato pieno credito. Non potevano ignorarlo perché era l’idolo della gente, ma non ha mai goduto di quelle attenzioni mediatiche di stima e di apprezzamento, tanto utili anche per la vendita dei dischi, riservate invece a molti altri suoi colleghi, meno bravi e meno popolari di lui.
C’è stata, nei suoi confronti, quella strana, silenziosa ma reale, congiura che tocca certi artisti. Ne è dimostrazione il fatto che alla radio, nelle innumerevoli trasmissioni radiofoniche di decine di stazioni radio giornalmente impegnate a lanciare nell’etere migliaia di canzoni, non si sente mai la voce di Reitano. In televisione, negli ultimi vent’anni, questo cantante lo si è visto poco, anzi pochissimo.
Più volte aveva raccontato che sognava di poter condurre, anche lui, come altri suoi colleghi, una trasmissione tutta sua, raccontando la propria vita, che è stata piena di spunti avventurosi e straordinari.
Nato nel Sud d’Italia, a Fiumara, in Calabria, da famiglia povera, orfano fin da piccolo, è riuscito egualmente , affrontando comprensibili grandi sacrifici, a studiare musica al Conservatorio, imparando a suonare il pianoforte, il violino e la tromba.
A 14 anni iniziò a cantare nel complesso musicale dei suoi fratelli emigrando poi con loro in Germania, dove ebbe inizio il suo successo. In quel Paese ebbe modo di suonare nello stesso club dove suonavano anche i “The Quarrymen”, gruppo inglese, con i quali strinse amicizia. In seguito, quel gruppo divenne famoso con il nome dei Beatles.
Nel 1965 Mino cominciò a farsi notare anche in Italia, e poi arrivò il grande successo che lo ha portato ai vertici della popolarità. Un successo pieno, duraturo, costellato da tappe prestigiose, sia come interprete che come autore. Certe sue canzoni hanno superato la prova del tempo, come, per esempio, “Una ragione di più”, portata al successo da Ornella Vanoni, la quale, trent’anni dopo ha voluto inserirla anche nel suo ultimo CD.
Reitano aveva scritto un libro autobiografico sulle proprie vicende, aveva poi presentato in Rai varie proposte per trarne delle puntate televisive, ma non ebbe mai risposta. Perché? Se lo chiedeva sconsolato anche lui. E su tante altre vicende strane della sua carriera si interrogava senza trovare risposte.
In pratica, Reitano non aveva protettori politici, ideologici, corporativi. Faceva parte di quella categoria di persone con una esistenza normale, serena, senza scandali, una famiglia unita, tradizionale, una fede cristiana sentita e praticata apertamente. E, purtroppo, questi valori, per il nostro mondo pubblico attuale, sono un handicap insuperabile.
Ma il cantante calabrese non se ne è mai lamentato. E alla fine, quando la malattia lo attanagliava lasciandogli poche prospettive, era sereno. Al giornalista di “Petrus” ha potuto confidare: “Offro ogni sofferenza a Gesù e alla Madonna e ringrazio Dio per il dono della mia Famiglia”.
Sulla famiglia ha aggiunto: “Uno dei doni più belli che la vita mi ha dato è stato proprio quello della famiglia: una moglie splendida e due figlie che mi sono sempre vicine e non mi lasciano mai. Cos’altro avrei potuto pretendere di più?”.
Ha avuto, però, anche parole che si riferivano alle delusioni patite: “Perdono tutti. Non voglio lasciare nulla in sospeso con alcuno. Il cristianesimo è saper dimenticare, lasciarsi alle spalle rancori e risentimenti, abbandonarsi liberamente alla misericordia. Senza perdono la nostra fede sarebbe vuota. Io stesso chiedo perdono nel caso abbia danneggiato qualcuno, anche se, mi creda, nel limite delle mie possibilità, ho sempre cercato di aiutare e comprendere tutti. Se non ci sono riuscito, spero davvero vogliano scusarmi”.
Dichiarazioni veramente straordinarie che dimostrano che Reitano è stato sì un grande cantante, ma è stato soprattutto una brava, onesta persona, e la canzone più bella del suo repertorio è stata la sua vita.
Qualcuno potrebbe pensare che Mino Reitano abbia riscoperto questi valori spirituali di fronte alla malattia. Errato. Reitano li ha sempre vissuti questi valori. La fede cristiana era un patrimonio che aveva ricevuto da bambino e che, crescendo, aveva assimilato e arricchito.
Il suo concetto di famiglia era certamente frutto dell’educazione familiare, della cultura che si era dato, ma soprattutto conseguenza logica della sua fede cristiana. E’ vissuto in serena fedeltà a questi suoi principi, senza sbandierarli, senza ostentarli. Ma chiunque, avvicinandolo, ne sentiva la presenza vitale.
Li scoprii anch’io quando, per ragioni di lavoro, conobbi Reitano, all’inizio degli anni Settanta. Era già famoso. Anzi, all’apice della sua popolarità. Con il denaro guadagnato, aveva comperato un appezzamento di terra ad Agrate, periferia di Milano, inizio della verde Brianza e lì aveva, in poco tempo, riunificato la famiglia: aveva costruito villette per il padre, i fratelli, i cugini.
Una festosa comunità, alla quale aveva voluto dare il nome del paese calabro dove era nato: “Villaggio Fiumara”. C’era anche un campo di calcio e alla domenica arrivavano da Milano altri amici cantanti, tra essi Celentano, e giocavano, mentre il padre di Mino faceva il pane nel forno a legna.
Mino, allora, era continuamente sui giornali, dove gli venivano attribuiti flirt, fidanzate, matrimoni imminenti. Ma, entrando nella sua famiglia, si capiva subito che cose del genere non avevano niente a che fare con la vita reale del cantante. E tutti si meravigliarono quando, nel 1977, improvvisamente Reitano stesso annunciò in televisione, durante una puntata della trasmissione di Mike Bongiorno, “Scommettiamo”, che era fidanzato e si sarebbe sposato dopo un paio di settimane.
Giornali, settimanali, giornalisti, fotografi: tutti presi in contropiede. E non si trattava di un fidanzamento improvviso, nato da poco, frutto di un colpo di fulmine. No. Mino e la ragazza che stava per sposare si conoscevano da 10 anni, e nessuna notizia era mai trapelata, neppure in quegli ultimi mesi quando i due si frequentavano con assiduità proprio perché stavano organizzando le loro nozze.
Stupito al pari di tutti gli altri miei colleghi giornalisti, chiesi a Reitano come fosse riuscito a tenere segreto un fidanzamento. E mi rispose: “Non dimenticare che sono calabrese. Sulle cose importanti noi calabresi non ammettiamo indiscrezioni. Con le altre ragazze lasciavo correre voci e notizie, mi lasciavo fotografare perché erano situazioni che non sarebbero mai approdate a conclusioni concrete. Qui era diverso. Era una cosa seria, e non ne ha saputo niente nessuno, tranne, naturalmente, le nostre famiglie”.
Qualche giorno dopo mi fece conoscere la sua fidanzata, Patrizia. Una maestrina che aveva, allora, 25 anni e lavorava in una biblioteca a Bologna. Timida, riservatissima, credo non avesse mai parlato con un giornalista. Era quella la sua prima intervista.
Mi trovai di fronte una ragazza straordinaria, che mi colpì molto. Anche lei, come Mino, aveva una chiara, forte fede cristiana nel cuore. Non sbandierata, non proclamata, ma vissuta. Io credevo di conoscere bene Mino, ma, parlando con Patrizia capii che, in realtà, lo conoscevo solo superficialmente. Conoscevo il cantante popolare, simpatico, estroverso, che era disponibile per interviste, foto, che sorrideva sempre su tutto. Ma non conoscevo la persona.
Dopo la scomparsa di Mino, sono andato a rileggermi le cose che Patrizia mi disse in quella intervista. Parole alle quali forse allora non diedi tutta l’importanza che contenevano. Ma che ora, a distanza di 32 anni, fanno capire come Mino e Patrizia guardassero alla vita che insieme stavano per iniziare con una serietà e una fede cristiana veramente sorprendente in persone tanto giovani.
Patrizia mi raccontò che quando aveva conosciuto Mino, lei aveva 14 anni e mino 22. Mino non aveva ancora raggiunto il grande successo, che sarebbe arrivato l’anno successivo. Tra loro nacque un sentimento profondo e sincero. Ma il turbinio di impegni seguito al successo li divise. Mino era sempre in giro per il mondo. E lei, timida studentessa, pensava di essere stata dimenticata. Invece non fu così. Mino non l’aveva dimenticata e quando si rincontrarono, tutto riprese dal punto in cui la storia si era interrotta.
Patrizia, riferendomi di come era avvenuto il loro incontro decisivo, mi disse: “Il nostro amore si era chiarito in quella zona bellissima delle Marche che si stende dalla basilica di Loreto alla cattedrale di San Ciriaco in Ancona. Sono convinta che quei due luoghi hanno avuto una grande importanza nel nostro destino”.
“La prima volta che io e Mino abbiamo parlato apertamente dei nostri sentimenti eravamo in un luogo dominato dall'alto dalla basilica di Loreto. Poiché la nostra conversazione era molto importante e avrebbe impegnato la nostra vita futura, io pensavo continuamente alla Madonna e sono certa che ci ha illuminato. Nei giorni seguenti mi sono spostata ad Ancona. Erano i giorni in cui riflettevamo per prendere le decisioni definitive, e io sono andata molte volte nella cattedrale di San Ciriaco, a parlare dei miei problemi. Ecco perché ricordo con affetto quei due luoghi”
Patrizia e Mino hanno costruito la loro famiglia su convinzioni semplici e antiche, illuminate dalla loro fede. Sono vissuti insieme 32 anni. Ci saranno certamente stati anche per loro problemi e difficoltà. Come per tutti. Ma hanno sempre tenuto vivi i contatti con quelle persone “invisibili ma reali”, alle quali si erano rivolte per avere consigli e aiuto al momento di decidere della loro vita insieme.
E il cantante, facendo un bilancio della sua esistenza prima di andarsene per sempre da questo mondo, ha potuto dire al giornalista che lo intervistava: “Uno dei doni più belli che la vita mi ha dato è stato proprio quello della famiglia: una moglie splendida e due figlie che mi sono sempre vicine e non mi lasciano mai”. La famiglia, la canzone più bella che ha scritto.


Indebite ingerenze della Chiesa - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 2 marzo 2009 - Libertà religiosa
Ieri, 1 marzo, prima domenica di quaresima, il Santo Padre, nei saluti dopo la recita dell’Angelus ha detto: «Saluto i lavoratori dello stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco, venuti a manifestare la loro preoccupazione per il futuro di quella fabbrica e delle migliaia di persone che, direttamente o indirettamente, dipendono da essa per il loro lavoro. Penso anche ad altre situazioni ugualmente difficili, come quelle che stanno affliggendo i territori del Sulcis-Iglesiente, in Sardegna, di Prato in Toscana e di altri centri in Italia e altrove. (…) Desidero esprimere il mio incoraggiamento alle autorità sia politiche che civili, come anche agli imprenditori, affinché con il concorso di tutti si possa far fronte a questo delicato momento. C’è bisogno, infatti, di comune e forte impegno, ricordando che la priorità va data ai lavoratori e alle loro famiglie.»

Tre considerazioni credo siano spontanee: innanzitutto gratitudine per la carità consapevole, sensibile alle difficoltà dei fratelli che gli sono stati affidati, che il Papa ha dimostrato con affettuosa e semplice schiettezza, come sempre incurante delle conseguenze.

Immediatamente dopo la responsabilità e l’impegno che queste parole, del Papa e dei nostri Vescovi, comportano per ciascuno di noi, in particolare in questo periodo di Quaresima, che un mio amico prete ha definito luminoso, perché ci invita a guardare fisso alla grande Presenza, diritto alla sostanza delle cose, cioè con uno sguardo più vero, da uomo.

Periodo che il Santo Padre nel Suo messaggio ha illustrato così: «Nel consueto mio Messaggio quaresimale, vorrei soffermarmi quest’anno a riflettere in particolare sul valore e sul senso del digiuno (…) valorizzando il significato autentico e perenne di quest’antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all’amore di Dio e del prossimo (…) Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli. (…) Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr Enc. Veritatis splendor, 21).»

Ma una terza considerazione non può essere taciuta: il silenzio assordante della folla che è solita stracciarsi le vesti per le indebite ingerenze della Chiesa e del Papa nelle questioni che riguardano il nostro Paese, e per l’attentato alla laicità dello Stato. Se un Capo di stato straniero avesse detto le stesse cose, come minimo lo avremmo invitato a guardare in casa sua. Invece tutte le voci sguaiate che solitamente gracchiano rumorosamente hanno taciuto; anzi ad iniziare dai loro megafoni, il Corriere e Repubblica, tutti a riportare, ovviamente nelle pagine interne, le parole del Papa, e citarle compuntamene nei discorsi e nelle interviste.

Ma allora è evidente che la reazione alle parole del Papa e della Chiesa, di coloro che solitamente si stracciano le vesti, è strumentalizzazione in favore della propria posizione politica o ideologica, e quindi è una cosa squallida. Nessuno con un minimo di dignità, ed anche un minimo senso del ridicolo, potrà più ingrossare il crocchio arrogante di chi non condividerà interventi su altre questioni. Il crocchio di coloro che in nome della libertà vogliono togliere la libertà alla Chiesa e al Papa.

Diamo atto a “Il Corriere della sera” che sempre in una pagina interna, a corredo delle parole del Papa, scrive: «Le Diocesi mobilitate in tutta Italia – Le parrocchie anticrisi: prestiti a tasso zero e accordi con le banche.» Molti altri giornali, soprattutto di sinistra, se ne guardano bene.

Ma non posso ignorare chi solitamente alza di più la voce contro le ingerenze e in difesa della laicità: Emma Bonino e Marco Pannella che, ho letto su un giornale, è commosso per “il ritorno di Rutelli”. Perché tra molti cito loro? Per una notizia credo interessante e significativa che li riguarda, cioè per la loro attenzione ai temi connessi alla libertà religiosa, ed alla salvaguardia del ruolo delle religioni nelle società post moderne.

Sono tra le Personalità che indicono il World Congress for Freedom of Scientific research (Congresso Mondiale per la Libertà della ricerca scientifica) organizzato dal Partito radicale non violento, trasnazionale e traspartitico, dall’Associazione Luca Coscioni, dal Gruppo Liberale, dal Gruppo Socialista, ed altri. Il Convegno si svolgerà dal 5 al 7 marzo nell’aula del Parlamento in cui si tenevano le riunioni della Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing. Una sessione del convegno è dedicata ai “Criteri religiosi, bioetici e politici per la libertà della ricerca.” Vista la loro attenzione ai temi connessi alla libertà religiosa, hanno chiamato a parlarne gli Esperti che qui Vi elenco: Marco Pannella; Alex Mauron, Professore associato di bioetica, alla Facoltà di Medicina dell’Università di Ginevra, che parlerà sul tema: “relativismo epistemologico e dogma religioso: due alleati contro libertà della ricerca scientifica„; Pervez Hoodbhoy, Preside, della Facoltà di Fisica, dell’Università di Quaid-e-Azam, (Pakistan), che interverrà su “la battaglia per la scienza e il laicismo nel mondo islamico„. Completerà il pannel la signora Laurette Onkelinx, Vice Primo Ministro, Ministro degli Affari sociali e della sanità pubblica del Governo Belga, socialista, distintasi per la promozione dell’aborto, del matrimonio omosessuale e dell’eutanasia, il suo motto è “A 120 anni, il socialismo è ai suoi inizi.”

Come si vede la libertà religiosa ed il ruolo dell’etica in rapporto alla scienza ... sono in buone mani, possiamo stare tranquilli, anche perché le conclusioni del convegno saranno di Marco Pannella, Emma Bonino e Philippe Busquin, Belga, più volte Ministro e dal 1999 al 2004 Commissario europeo alla ricerca, autore del programma quadro cha finanziava la ricerca sugli embrioni, rigorosamente socialista.


Possibile una riforma delle norme che regolano la partecipazione agli interventi abortivi - Negli Stati Uniti è a rischio il diritto di obiezione dei medici – L’Osservatore Romano, 3 marzo 2009
Washington, 2. Rischiano di essere cancellate in un prossimo futuro le nuove norme che assicurano negli Stati Uniti una maggiore tutela da parte degli organismi federali a quegli operatori sanitari che, per motivi di coscienza, scelgono di non collaborare o partecipare a interventi di carattere abortivo. Riferisce Deidre McQuade, vice responsabile alle politiche sociali e alla comunicazione presso il segretariato dell'organismo Pro-life della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, che è stata appena avanzata una istanza per la revisione delle norme federali stabilite dal Dipartimento per la Salute e i Servizi sotto la presidenza Bush. Queste norme, entrate in vigore due giorni prima dell'insediamento del nuovo presidente Barack Obama, assicurano la protezione da parte degli organismi federali agli operatori sanitari che volessero esercitare il loro diritto di obiezione di coscienza. L'istanza di revisione dovrà essere pubblicata sul Federal Register per poter proseguire nell'iter procedurale che prevede un periodo di attesa di trenta giorni in cui potranno essere avanzate istanze pubbliche pro o contro il provvedimento. Secondo McQuade, bisogna approfittare del mese di pausa procedurale per presentare numerose istanze favorevoli al mantenimento delle norme federali. Le istanze devono ribadire i principii della sacralità della vita umana, della libertà di coscienza e del diritto di scelta etica per il personale che opera nell'ambito sanitario.
"Bisogna reagire con fermezza - sottolinea la vice responsabile presso il segretariato dell'organismo pro-vita - ai tentativi di annullare o indebolire le coscienze; tentativi contrari alla tradizione democratica della nostra nazione che invece assicura la libertà religiosa, il diritto e la tutela della vita. Risulta quindi sempre più evidente la necessità di procedere a una riforma di fondo del sistema assistenziale".
La Conferenza episcopale degli Stati Uniti aveva precedentemente espresso il proprio consenso verso le regole che aumentavano le garanzie e la protezione del governo federale agli operatori sanitari che si fossero dichiarati obbiettori per motivi religiosi ed etici ai riguardi dell'aborto. Queste norme erano state definite dai vescovi come lungamente attese e applicate con un forte ritardo. Nel corso della trascorsa campagna per le elezioni presidenziali, l'allora candidato Barack Obama aveva espresso delle riserve sulle regole stabilite dall'Amministrazione Bush in quanto l'obiezione di coscienza da parte degli operatori sanitari potrebbe essere esercitata, oltre che nei riguardi dell'aborto, anche per i programmi di controllo delle nascite, per i servizi di pianificazione familiare e anche nelle consulenze a riguardo dei vaccini e delle trasfusioni.
Il vice presidente del Family Research Council, Tom McClusky, ha ricordato invece che queste norme tendono principalmente ad evitare pressioni anche violente verso il personale sanitario che sceglie l'obiezione di coscienza ai riguardi degli interventi di tipo abortivo.
"Questo nuovo regolamento da tanto tempo atteso - ha dichiarato Tom McClusky - non può essere subito abrogato senza neppure vedere quali effetti è in grado di conseguire". Le norme stabiliscono anche che le istituzioni sanitarie con in corso richieste di finanziamenti federali per i loro programmi di sviluppo, debbano far certificare la loro conformità nell'applicazione delle norme per la protezione degli obbiettori per poter accedere ai fondi. Una fonte della Casa Bianca ha sottolineato che la richiesta di revisione è stata avanzata non per far polemica sulle decisioni della precedente Amministrazione ma per verificare se le nuove regole assicurano un effettivo rispetto delle coscienze e non ledano i diritti dei cittadini degli Stati Uniti.
(©L'Osservatore Romano - 2-3 marzo 2009)


CRISI/ Per l’Ue la fine è sempre più vicina - Carlo Pelanda - martedì 3 marzo 2009 – ilsussidiario.net
La richiesta ungherese, nel vertice europeo di Bruxelles tra 27 governi, di ottenere un aiuto reale e massiccio dall’Ue per i Paesi orientali disastrati è stato respinto con qualche buona ragione da quelli occidentali. Non possiamo rischiare di creare un ghetto, cifre esagerate (Merkel). L’aiuto verrà dato caso per caso, selettivamente. Ma tale risposta non è quella che ci aspetta da un’Europa in via di integrazione. Cosa è diventata la Ue?
Resta più di un’alleanza, ma è ormai molto meno di un’unione. È in bilico tra modello di Europa della nazioni e confederale, sempre più orientata verso il primo, pertanto in fase di disintegrazione. Per questo molti analisti temono che non possa resistere allo stress dato dalla crisi.
La zona euro, 17 Paesi su 27, appare più coordinata e solida per gli obblighi coordinativi per la stabilità monetaria. Ma all’euro manca il “capitale politico”, cioè un governo unico europeo che possa bilanciare le asimmetrie locali generate dalla politica monetaria unica e aiutare le singole nazioni con la potenza di un bilancio statale unico europeo.
Non solo. Il mantenimento della sovranità nazionale sui debiti li rende diversi per affidabilità, fatto dirompente nell’ambito della stessa moneta. Soprattutto, la mancanza di un governo unico costringe la Bce a esercitare una politica monetaria molto restrittiva che mette in difficoltà i Paesi a economia debole.
Grecia e Portogallo per motivi strutturali di debolezza economica, L’Irlanda a causa dello sconquasso della crisi, l’Italia economia forte, ma con debito mostruoso che la indebolisce, fanno fatica a restare nell’euro. Così la Spagna, meno indebitata, ma con un’economia devastata dalla recessione. La Polonia, i Paesi baltici, l’Islanda - solo associata indirettamente alla Ue -, l’Ungheria e altri orientali vorrebbero accelerare l’entrata dell’euro perché la crisi ha affossato le loro monete facendone precipitare il cambio in relazione all’euro, pur questo non fortissimo. Ma, in relazione a quelle, è immensamente più forte e come tale scambiato.
Il problema è che gli attori di mercato nei Paesi orientali hanno assunto debiti in euro da ripagare con monete che se restano svalutate li manderanno in bancarotta. Comprese le banche creditrici, tra cui le più esposte sono le italiane e le austriache, parecchie anche le tedesche.
L’aggancio all’euro è quindi vitale per i cugini orientali. Ma la Bce lo vieterà per non indebolire ancor più la moneta. La Germania non ha intenzione di passare al modello confederale da quello di alleanza per evitare, in quanto più ricca, di pagare di più per gli altri e di avere meno per i tedeschi. Per questo, in sostanza, si è preferito attivare aiuti selettivi per i Paesi inguaiati piuttosto che cambiare architettura europea.
Potrà reggere tale scelta? Forse sì perché nessuno ha intenzione di sciogliere l’Europa pur diluita. Inoltre la Germania deve finanziare la stabilità a oriente per non pagarne il prezzo in casa. Qualcosa darà. Ma gli interventi ad hoc costeranno un’enormità, saranno poco efficaci e lasceranno amarezze (geo) politiche disintegratrici.
Mi chiedo che senso abbia. Ma la risposta è che gli elettori, particolarmente in Francia e Germania, se ne infischiano dell’Europa e sentono solo l’interesse nazional-protezionista. Pertanto l’idea che gli Stati principali facciano il grande passo di unire sul serio il continente, dandogli un governo unico e una moneta più amichevole è puro irrealismo. Per questo dobbiamo accontentarci dell’Europa così come è. Ma così come è, alla fine, si dissolverà. Attenzione.
(www.carlopelanda.com)


CINA/ Le nuove Tian an Men: Tibet e allarme sociale - INT. Francesco Sisci - martedì 3 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Si torna a parlare di diritti umani in Cina: da una parte l’episodio dei tre uomini che si sono dati fuoco nei pressi di Piazza Tian an Men; dall’altra la visita del segretario di Stato Usa Hillary Clinton, criticata dalla stampa americana per la sua posizione troppo dolce verso la Cina. Come però spiega Francesco Sisci, corrispondente in Cina per La Stampa, è necessario comprendere bene, e da vicino, i fatti per evitare di dare giudizi sommari.
Il recente episodio di protesta in Piazza Tian an Men ha riaperto sui mezzi di stampa occidentali l’attenzione sul problema dei diritti umani in Cina…
Chiariamo subito un fatto, che può ridimensionare la cronaca: episodi di questo genere sono una costante della storia della Cina. In Cina, quando qualcuno subisce un torto e pensa di non avere modo di far valere le proprie ragioni, può realizzare forme di protesta che possono sfociare nel suicidio dandosi fuoco. Anche quest’ultimo episodio rientra in questa categoria (e si aggiunga che in questo caso non è nemmeno chiaro se sia stato un suicidio o un incidente). Tali episodi capitano sempre a ridosso dell’assemblea plenaria del popolo, che è il 5 marzo: si arriva da tutte le parti della Cina e spesso, purtroppo, si decide di dare vita a queste forme eclatanti di protesta. Ma si tratta comunque di episodi che non hanno a che fare con il problema dei diritti umani, bensì con l’amministrazione della giustizia e con un antico retaggio culturale.
Veniamo allora a questioni in cui certamente il problema dei diritti umani è centrale. La visita del neosegretario di Stato americano Hillary Clinton ha suscitato polemiche: si è parlato di “scambio politico”, e cioè più collaborazione economico-strategica e meno attenzione ai diritti umani. È così?
Questo è un problema reale, che però può essere compreso a pieno solo facendo un passo indietro dal punto di vista storico. Questa sorta di scambio tra America e Cina, infatti, non è una novità: c’è stato a partire dal 1972, con il viaggio di Nixon in Cina, fino al 1989, anno del crollo del Muro di Berlino e delle proteste di Piazza Tian an Men. In quel periodo, per vari motivi strategici, l’America aveva deciso di mettere in secondo piano la questione dei diritti umani; e il primo di questi motivi era evidentemente il fatto che la priorità era allora la sconfitta dell’URSS, in cui la Cina poteva giocare un ruolo importante.
E dopo l’89 com’è cambiata la situazione?
I due episodi centrali di quell’anno hanno generato due effetti diversi: il crollo del Muro è coinciso con la fine della minaccia sovietica e quindi, contestualmente, con la fine dell’importanza strategica del rapporto fra Cina e Usa; dall’altra parte fu posto chiaramente sotto gli occhi del mondo intero che la Cina, come emerse nell’episodio di Piazza Tian an Men, poteva essere di una crudeltà terribile. Questi due fattori hanno portato sempre più alla ribalta la questione dei diritti umani.
Veniamo all’oggi: come si colloca in questo contesto la posizione assunta dagli Usa in occasione del primo viaggio della Clinton in Cina (seppure poi in un certo senso “corretta” con la pubblicazione, la settimana successiva, del Rapporto sui diritti umani nel mondo)?
Ora ci sono due fattori importanti: da una parte la necessità di una collaborazione tra Usa e Cina che vada al di là e al di sopra di quella che c’era negli anni Settanta e Ottanta. Allora era solo una collaborazione strategica; adesso è anche strategica, perché serve in varie situazioni, soprattutto per i rapporti con la Nord Corea e in Iran; ma soprattutto diventa importante la collaborazione economica. Un aspetto che naturalmente non si poneva allorquando la Cina era un nano dal punto di vista economico, ma che diventa centrale ora che è un gigante e che lo sarà sempre di più. Quindi la Cina può contribuire sia alla ripresa economica americana, sia a quella globale. Infine bisogna anche considerare che in questi anni la situazione dei diritti umani in Cina è cambiata; certamente non è ideale, però è migliorata, e va man mano migliorando. Non è una situazione statica o in peggioramento. Questo è il motivo per cui, per i cinesi, insistere e mettere al primo posto i diritti umani sarebbe specioso.
Questo però non toglie che i problemi siano moltissimi, e che non possano essere certo ignorati.
Bisogna però considerare un fatto fondamentale: si ottiene qualche risultato dalla Cina urlando e pestando col bastone, o cercando di prendere i cinesi con le buone? In realtà vale di più, per mille motivi, il fatto di prenderli con le buone. Assumere un atteggiamento duro nei loro confronti sarebbe del tutto inutile, e non farebbe altro che generare una reazione contraria. La nuova taratura della politica americana nei confronti della Cina è dunque non solo necessaria dal punto di vista strategico e economico, ma anche utile per ottenere risultati proprio dal punto di vista di un maggior rispetto dei diritti umani.
Vediamo la situazione politica interna alla Cina: si avvicina la ricorrenza del 10 marzo, 50° anniversario della fallita rivolta anticinese in Tibet, che portò alla fuga in esilio del Dalai Lama. Che cosa potrebbe accadere in questa occasione?
Si tratta certamente di un momento importante, perché tutte le varie opposizioni al governo cinese cercheranno di dimostrare la loro forza. È dunque un’occasione, sia per gli oppositori sia per il governo, di misurare la loro forza relativa. Nessuno può trascurarlo: una protesta il 10 marzo conta 100, mentre in un altro momento conterebbe 1. Al tempo stesso, proprio la prevedibilità delle proteste mette il governo in una posizione di forza, visto che ha modo di prepararsi all’eventualità.
Arrivano però anche notizie di un crescente allarme sociale, dovuto alla crisi economica. Qual è la situazione, e come il governo pensa di farvi fronte?
C’è un forte problema sociale: sono circa 20 milioni le persone che hanno perso o stanno per perdere il posto di lavoro. Questi milioni di persone non sono concentrati in alcune grandi città, ma sono sparpagliati in una miriade di centri, e sono stati rimandati o verranno rimandati nei loro villaggi di campagna, sparpagliandosi ancora di più. Lì il costo della vita sarà molto ridotto, e quindi i loro risparmi potranno essere di qualche aiuto; inoltre avranno il loro campicello da coltivare che li potrà aiutare a mantenersi. Però anche questi due aspetti potrebbero essere compromessi: nel primo caso può accadere che il padrone della fabbrica, soprattutto se straniero, ha preso i soldi ed è scappato. Dal momento che buona parte del salario viene dato una volta all’anno, i dipendenti si troverebbero senza lavoro e senza risparmi. Nel secondo caso, il campicello potrebbe non esserci più, magari perché sottratto dall’autorità locale per fare spazio ad altre opere. In entrambi i casi , però, si possono generare allarme e proteste sociali, o contro i proprietari delle aziende, o contro i capi dei villaggi.
Quindi anche in questo caso il governo non viene toccato?
Diciamo che paradossalmente queste proteste sociali potrebbe essere una forza di sostegno al governo centrale, e non di indebolimento. In entrambi i casi, infatti, il governo non solo non è la causa del malessere, ma può essere un elemento di aiuto nei confronti delle persone in difficoltà.


USA/ Gaggi: la strategia di Obama tra crisi e fiducia - INT. Massimo Gaggi - martedì 3 marzo 2009 – ilsussidiario.net
La crisi economica non dà tregua agli Stati Uniti. Obama annuncia guerra alle lobby, dichiara di voler attuare la riforma della sanità e di voler tassare i redditi più alti. Così, dopo aver varato il maxipiano economico, il neo presidente risponde alla crisi. «L’America tornerà più forte di prima» ha dichiarato settimana scorsa. «Obama è stretto tra due esigenze» spiega a ilsussidiario.net Massimo Gaggi, inviato del Corriere della Sera e autore de “La valanga. Dalla crisi americana alla recessione globale”. «Far capire all’America e al parlamento quanto la situazione è effettivamente difficile - ha parlato anche di “rischio di catastrofe” e di “avvitamento della crisi” - e al contempo non deprimere la fiducia».
Obama, di fronte ad una crisi che si aggrava e a prospettive che appaiono sempre più incerte, ha confermato di voler intraprendere con decisione la via delle riforme qualificanti del suo programma elettorale. Una prova di forza, insomma.
Obama sta cercando un equilibrio tra il pessimismo di un Carter e l’ottimismo senza fondamento di un Hoover, che durante la Grande depressione diceva: la ripresa è dietro l’angolo. E ha lanciato un messaggio reaganiano non nella sostanza politica ma nei toni. Reagan arrivò nel mezzo della recessione e puntò tutto sulla fiducia e sugli sgravi fiscali. Obama è stretto tra due esigenze: far capire all’America e al parlamento quanto la situazione è effettivamente difficile - ha parlato anche di “rischio di catastrofe” e di “avvitamento della crisi” - e al contempo non deprimere la fiducia. Ecco perché davanti al Congresso ha cambiato i toni.
“L’America tornerà più forte di prima” ha detto, attirandosi non poche critiche da parte di chi vuole risposte pronte alla crisi anziché promesse di riforme.
Ma ha basato la sua intera campagna elettorale sul tema della speranza americana. La scommessa è riuscire a cambiare lo stato d’animo degli americani nel bel mezzo di una situazione nella quale i dati negativi continuano ad affluire tutti i giorni. Le analisi della Fed portano a ritenere che la disoccupazione continuerà a crescere per tutto il 2009. Le previsioni sono fino a due milioni di posti di lavoro in meno. Nonostante questo con la sua manovra, ha detto, “salverà” 3,5 milioni di posti, portando più soldi agli Stati e alle città, dove molti sindaci darebbero il via a migliaia di licenziamenti, cominciando da poliziotti, pompieri e insegnanti di scuole pubbliche. È un messaggio per la gente, non per Wall Street.
All’inizio della crisi americana, l’Europa è sembrata preoccupata delle conseguenze, ma dall’altro lato ha mostrato una sorta di soddisfatto revanchismo: “il nostro modello era migliore, ne abbiamo la dimostrazione”. Come giudica questa reazione?
L’Europa ha motivo di dire che ha seguito un modello finanziario meno aggressivo, è vero. E le banche italiane sono di fatto meno esposte. Ma la Gran Bretagna è in una situazione uguale o peggiore a quella americana, in Germania non c’è la bolla immobiliare ma le banche si sono rivelate altrettanto esposte; la Svizzera, a sentire William Gale, vice presidente della Brookings Institution, rischia la bancarotta perché ha una sola banca, Ubs, con un patrimonio superiore al Pil dell’intero paese. E la Spagna ha una bolla immobiliare altrettanto grave.
La salute dell’Europa non autorizza ad essere troppo ottimisti, dunque.
Senza dare un giudizio di merito - se cioè questo è accaduto per prudenza o per arretratezza sul tema dell’innovazione finanziaria - non c’è molto da festeggiare. Sì, dal punto di vista teorico l’Europa non ha commesso certi errori che ora paga anche a causa degli Usa, però le sue debolezze ci sono tutte e le possibilità di ripresa sono tutte da verificare.
L’Italia, si dice, ha subito una crisi della quale ha poche o nulle responsabilità. Non le resta che attendere la ripresa della domanda mondiale?
L’Italia non può limitarsi ad aspettare che riparta la domanda mondiale dei suoi prodotti. Ha inefficienze di sistema spaventose e deve lavorare per recuperare competitività su tutti i fronti. L’America ha tanti difetti ma si sta preparando molto bene al periodo che ci attende, perché sta facendo di tutto per ridurre i costi ed essere competitiva, se non verso l’Asia, almeno verso le altre economie del centro e sud America. Per gli italiani, invece, che vogliono esportare negli Usa sta diventando sempre più importante produrre in loco, perché i costi di produzione italiani sono troppo elevati.
Due precedenti suoi libri si intitolavano: “La fine del ceto medio e la nascita della società low cost” e “Piena disoccupazione. Vivere e competere nella società del quaternario”. Cosa è cambiato nell’attuale situazione rispetto a quando li ha scritti?
Già allora si parlava di un cambiamento delle regole del gioco, ma non si immaginava una crisi così profonda, legata alla finanziarizzazione dell’economia e al suo tracollo. Questo cambia molte cose, per esempio nel mercato del lavoro. In “Piena occupazione” parlavo di una serie di servizi ad alto valore aggiunto che si sono sviluppati negli Stati Uniti, ma “ritagliati” su un’economia ricca. Ora la crisi sta riportando quell’evoluzione verso soluzioni più tradizionali, compresa una tendenza a rivalutare la manifattura a scapito delle produzioni a basso costo. Ma la forte terziarizzazione dell’economia rimane.
E l’Europa?
L’Europa rimane per gli Stati Uniti un punto di riferimento storico e culturale fondamentale, e anche politico per quanto riguarda l’equilibrio internazionale. Ma sul piano economico la partita principale si gioca attraverso il Pacifico: gli Usa hanno chiesto alla Cina di continuare a comprare i titoli del Tesoro americano. I diritti umani sono importanti, sembra esser stato il senso del viaggio in Cina di Hillary Clinton, ma il dialogo strategico tra i nostri paesi va rilanciato. Anche se, devo dire, siamo in presenza di una situazione di fatto anomala.
Teme il prodursi di nuovo squilibri?
L’ “aiuto” della Cina è necessario agli Stati Uniti perché il piano di sostegno comporta una dilatazione della spesa, ma è anomala perché abbiamo un paese in larga misura povero che utilizza il suo surplus per finanziare il debito del paese più ricco del mondo. Sì, questo potrebbe generare nuovo squilibri. La Cina deve poter utilizzare parte del surplus per sostenere gli Usa ma parte lo deve reinvestire all’interno per creare protezione sociale e sviluppo. Anche i cinesi devono poter alimentare il circolo dei consumi. Che si sono ridotti.
Perché ha scritto “La valanga”?
Il 2008 resterà l’anno che ha cambiato profondamente il capitalismo contemporaneo. Non dico che lo rimetterà in discussione, perché i meccanismi del mercato sono insiti nella natura umana, ma porterà ad una sua profonda revisione. Gli Usa sono impegnati in una “guerra” che non è stata dichiarata, non è stata combattuta e non ha lasciato rovine fumanti in giro, ma rimane come la più vasta distruzione di ricchezza mai sperimentata dal genere umano. Essa avrà un impatto sociale e industriale molto forte. Ci sarà meno attenzione per il lusso e i consumi individuali, e un rilancio dell’economia delle reti, a cominciare dall’energia, sui temi del risparmio energetico e delle energie alternative.


FILOSOFIA/ Da Tommaso Moro a Zamjatin, se la letteratura salva l’“io” dall’utopia - Sante Maletta - martedì 3 marzo 2009 – ilsussidiario.net
«Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva?». Così si interrogava Nikolaj Berdjaev dopo essere stato espulso nel 1922 dall’Unione Sovietica, formulando una questione che segna un carattere peculiare dell’uomo contemporaneo. L’epoca moderna, infatti, è stata accompagnata dal fiorire del pensiero utopico, del discorso intorno a quel “luogo buono” (eu-topos) che ancora “non c’è” (ou-topos). Ma nel Novecento sembra prevalere un diverso atteggiamento, veicolato da opere saggistiche e soprattutto narrative di carattere anti-utopico o distopico. Un genere, quello distopico, che ha trovato grande sviluppo anche nelle espressioni artistiche più popolari, come i film “catastrofisti” e i fumetti di taglio “apocalittico”. Disagio, sospetto, se non paura e angoscia: ecco i caratteri della disposizione spirituale contemporanea verso il futuro.
Sarebbe però erroneo contrapporre la distopia all’utopia. Innanzitutto non si tratta di generi letterari omogenei. L’utopia è un genere letterario spurio, che sta a metà strada – pensiamo a Tommaso Moro o a Campanella – tra il trattato politico e l’opera narrativa. Le distopie come quelle di Zamjatin e Orwell, invece, sono romanzi a tutti gli effetti. Come ha notato Vittorio Strada, «l’utopia racconta la perfezione, mentre la narrazione (e il romanzo in particolare) riguarda l’imperfezione, ossia il movimento, il contrasto, la varietà». Non è un caso che i personaggi utopistici siano inverosimili e psicologicamente inconsistenti, meri portavoci di posizioni dottrinali. Al contrario, i romanzi distopici presentano una vicenda drammatica in cui i protagonisti acquistano uno spessore psicologico sempre più marcato: sono personaggi umani a tutto tondo. Già solo per tale circostanza, essi di collocano ai margini della società utopica in cui vivono, potenzialmente avversi a un mondo nel quale il possesso di una personalità distinta dagli altri è segno di volontà sovversiva. Le vicende dei protagonisti delle distopie descrivono la traiettoria del passaggio dallo stato di individuo-massa a quello di persona umana nella lotta contro un potere totalitario che cerca di impedire questa evoluzione.
Un secondo motivo per cui utopia e distopia non si possono contrapporre è che sono entrambi esercizi di pensiero critico nei confronti della società coeva. La differenza sta nel fatto che l’utopia produce intellettualmente un punto di vista esterno (quello della buona società che ancora non c’è) a partire dal quale effettuare la critica, mentre la distopia trova questo punto di vista in sacche di resistenza presenti nella società coeva stessa, la quale procede speditamente verso uno sviluppo disumano.
Ma c’è un terzo e più profondo motivo che impedisce di contrapporre utopia e distopia: la loro comune appartenenza all’orizzonte culturale moderno. La resistenza alla repressione totalitaria del desiderio passa in Zamjatin e Orwell attraverso l’esaltazione del valore liberatorio dell’istinto. Nella prospettiva anarcoide tipica di questi autori istinto, desiderio, energia e libertà sono tutti sinonimi che individuano la dimensione positiva dell’esistenza umana, cui si contrappone quella negativa dell’ordine, dell’entropia, della felicità pianificata e della razionalità. Come ha acutamente notato padre Francesco Ricci, l’unica via d’uscita che questi autori sembrano proporre è irrazionalistica: un nascondiglio dove possa aver luogo la libera espressione della propria istintualità e sentimentalità, avente come cifra il rapporto erotico. La distopia condivide con l’utopia la visione della libertà come autonomia, ma non riesce più a credere nella capacità emancipativa della ragione umana, la quale, anzi, essendo legge a se stessa, evidenzia la propria essenza repressiva. L’unica “legge” non alienante è l’istinto. In ciò la distopia fa emergere il filone irrazionalista e nichilista della filosofia moderna, secondario sino a fine Ottocento rispetto a quello razionalista e utopista. Una conseguenza di ciò è l’incapacità, da parte degli autori distopisti, di cogliere l’intimo legame tra massificazione sociale e individualismo: per loro la più alta forma di alternativa culturale all’utopia totalitaria è quella di un’ideologia libertaria avente come fulcro la difesa dell’individuo nei confronti dell’oppressione statale.
L’orizzonte comune cui utopia e distopia appartengono è quello del razionalismo moderno, il quale riconduce tutte le forme di razionalità a quelle tipiche delle scienze esatte. Applicare tali forme di razionalità alla realtà umana individuale e sociale (come fanno le utopie) ha un esito inevitabilmente repressivo, in quanto nega l’imprevedibilità della libertà umana. La conseguenza che il pensiero distopico trae è allora quella di condannare come repressiva la ragione in generale e di esaltare gli aspetti non razionali dell’essere umano. L’esito è disperante.
Ma i romanzi distopici contengono una risorsa spesso non tematizzata dai critici superficiali: i protagonisti, nella loro lotta di resistenza, hanno in comune una strategia apparentemente strana, la pratica della scrittura. Essi scrivono, anche se non sono sicuri che un giorno saranno letti da qualcuno. E leggono tutto ciò che riesce a sopravvivere alla furia distruttiva della censura. La pratica della scrittura e della lettura indica la scoperta di una forma di razionalità alternativa a quella scientifica, una razionalità narrativa che accompagna la costituzione del soggetto come un “io” allo stesso tempo unico e capace di empatia con gli altri “io”. Una pratica necessaria per ricercare il senso delle cose, per collegare passato presente e futuro in un nesso significativo, per riflettere e giudicare. La scrittura e la lettura come pratica generano lo spazio interiore di un’anima.
È forse questo il messaggio più profondo e originale dei romanzi distopici: non abdicare alla ricerca del senso, a quell’esercizio di pensiero che va di pari passo con la costituzione di un’interiorità capace di condivisione. È solo questo “io” che è capace di una resistenza non disperata a quella “atroce afasia”, a quella “brutale assenza di capacità critiche”, a quella “faziosa passività” che Pasolini denunciava sin dalla prima metà degli anni Settanta come caratteri di quella nuova forma di potere proto-totalitario che caratterizza le società contemporanee.


UDINE, IL SOVVERTIMENTO DELLA REALTÀ - IL NICHILISMO IN ARMI NON RISPARMIA LE SUORE - MARINA CORRADI – Avvenire, 3 marzo 2009
Da Repubblica, intervista a Maria Marion, una delle infermiere ac­canto a Eluana negli ultimi giorni. Il giornalista: «Qualcuno pensa che lei ab­bia concorso a un’eutanasia » . La Ma­rion: « Un termine che rifiuto, anzi per me nei confronti di questa ragazza c’è stato un accanimento terapeutico » .
Dunque le suore che per tanti anni han­no dato a Eluana nutrimento e acqua, che l’hanno lavata e mille e mille volte voltata nel letto a evitare il decubito, si sono accanite su quel corpo. Si sono ac­canite, anche, ad aiutare Eluana a libe­rarsi dalla saliva che le ostacolava il re­spiro. Per quindici anni a Lecco c’è sta­to un pervicace, cocciuto accanimen­to: a una malata assente hanno dato nientemeno che da bere, e mangiare. Le han liberato la gola dalle secrezioni, cosa del tutto normale in pazienti im­mobili e incoscienti. Da una intervista della stessa Marion al Corriere emerge che quando Eluana è arrivata a Udine, nessuno sapeva a che servissero quelle pile di bavaglini mandati da Lecco. E sì che una che fa l’infermiera da 35 anni certe cose dovrebbe averle viste. Stu­pore invece: a che serviranno mai i ba­vaglini? La saliva fa tossire Eluana, la tosse espelle il sondino. Quando Avve­nire
scrisse di quei colpi di tosse, alcu­ni scrissero: favole. E invece la verità delle ultime ore della Englaro dice di volontari colti di sorpresa dalla donna che stenta a respirare. Penosissima ve­rità: Eluana ha passato i suoi ultimi gior­ni nell’abbandono di quelle mani che conosceva e la amavano, che sapevano mantenerne limpido il respiro. Quan­do la disidratazione ha fatto il suo la­voro – « Chiazze rosse sulla pelle, tem­peratura alta » – l’équipe è rimasta a os­servare il precipitoso decorso di una morte « naturale » .
Ma non basta ancora. Non è eutanasia, si afferma, quel tagliare acqua e cibo, ma è « accanimento » , invece, l’averlo per anni dispensato. Al partito della morte non basta di avere sepolto Elua­na; l’obiettivo è più ambizioso, è il ro­vesciamento, la sovversione anzi, della realtà. Dare acqua e cibo e lavare un ma­lato inerte, si chiama « accanimento » .
Non è una questione linguistica. È im­portante, il nome che si dà alle cose. Hannah Arendt nella Banalità del ma­le
spiega come il nazismo abbia evita­to accuratamente di usare la parola « sterminio » circa la eliminazione degli ebrei. L’ordine era di parlare di « solu­zione finale » . Suonava meglio, e qual­cuno poteva fare finta anche di non a­ver capito. Le parole, sono importanti. Attribuire alle suore di Lecco un « acca­nimento terapeutico» – ma il padre, per­ché tanto a lungo ha lasciato loro la fi­glia? – è sovvertire la realtà di ciò che è stato. Dire che a Udine « non è stata eu­tanasia » è altrettanto mendace – se non per il fatto che eutanasia è soppressio­ne del consenziente, e Eluana non ha mai espresso un positivo consenso alla sua morte.
A Udine la morte è stata data attiva­mente, sopprimendo ciò che è vitale al­l’uomo. Giuliano Ferrara ha scritto che allora un’iniezione sarebbe stata un ge­sto più franco. Già, ma un’iniezione sa­rebbe stato aperto omicidio, e questo oltre a essere illegale avrebbe mostrato a tutti come la fine di Eluana « natura­le » non fosse per niente. E invece « na­turalmente » doveva morire: di fame e sete, naturalissima morte. Manca la per­fezione dell’opera: convincerci che ac­canimento è stato quello delle mani di tre suore, per quindici anni, a lavare e vestire e carezzare. Ogni giorno, ogni o­ra, ogni minuto. Il darsi più totale e gratuito si vuol chia­mare « accanimento terapeutico » , in questa Italia a forza liberata. Ma perché il rivoltarsi contro chi ha solamente da­to? Si direbbe che il pensiero unico ni­chilista non tollera il bene gratuito. Pro­prio non lo sopporta. Forse perché lo avverte, della sua ansia di nulla, radi­calmente nemico.