mercoledì 11 marzo 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) L'importanza di Dio – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
2) Firenze divisa sulla nomina onoraria di Beppino Englaro - Monsignor Betori parla di “atto nefasto e offensivo”
3) Tre sacerdoti cattolici uccisi nelle ultime settimane in Africa
4) La Misericordia, eccesso dell’Amore redentore - COLLEVALENZA, martedì, 10 marzo 2009 (ZENIT.org).- Nel pomeriggio del 7 febbraio al Convegno su “La Misericordia tra giustizia e speranza”, che si è svolto al Santuario dell’Amore Misericordioso di di Collevalenza, sono intervenuti il prof. Angelo Capecci e il prof. Emmanuel Gabellieri.
5) 10/03/2009 13:24 - TIBET – CINA - Premier tibetano in esilio: 50 anni di persecuzione hanno rinforzato la nostra volontà di Samdhong Rinpoche - Samdhong Rinpoche parla di 50 anni di repressione cinese e di come sia in atto un tentativo di genocidio culturale. Alla persecuzione vogliono rispondere con la non violenza. Pechino si sente minacciata persino dalla fede buddista dei tibetani.
6) La via fondamentale dell'uomo che si rivela all'uomo - "A 30 anni dalla "Redemptor hominis". Memoria e profezia" è il convegno che si svolge il 10 e l'11 marzo presso la Pontificia Università Lateranense. Il convegno è organizzato dallo stesso ateneo e dal Pontificio Istituto Pastorale Redemptor Hominis. Il cardinale patriarca di Venezia ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" il suo intervento. Sotto pubblichiamo uno stralcio di un'altra delle relazioni. - di Angelo Scola – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
7) Quando gli accertamenti prenatali di massa diventano un dovere sociale - Donne sotto pressione: chi non fa il test è biasimata di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
8) Riflessioni sulla «Dignitas personae» - La grammatica della vita umana e quella della democrazia - di Adriano Pessina - Direttore del Centro di Bioetica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
9) Cristiani e buddisti contrari alle norme anti conversione in Sri Lanka – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
10) OBAMA/ Staminali, la rinuncia dei cattolici - Lorenzo Albacete - mercoledì 11 marzo 2009 – ilsussidiario.net
11) NATURA UMANA/ I motivi per cui il potere detesta la parola “persona” - Massimo Serretti - mercoledì 11 marzo 2009 – ilsussidiario.net
12) DA BEPPINO ENGLARO A CESARE LIA - UN’ONORIFICENZA PER CHI È PADRE NEL SILENZIO - MARINA CORRADI – Avvenire, 11 marzo 2009
13) OBAMA E LE CELLULE STAMINALI EMBRIONALI - Quando il Presidente si appropria della pietà - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 11 marzo 2008


L'importanza di Dio – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
Riconoscere l'importanza di Dio anche nella storia presente del mondo non è senza conseguenze. Può suscitare qualche stupore l'insistenza di Benedetto XVI sulla centralità di Dio nella vita dei credenti. E si pensa che la proposta rivolta anche ai non credenti a vivere come se Dio ci fosse resti una formula sterile e vuota. Ma non è così. A partire da una coscienza di sé che ciascuno sviluppa trovandosi a operare in una prospettiva di Dio presente anziché assente dall'esistenza degli uomini.
Comunemente si pensa o si teme che la presenza di Dio possa ridimensionare la libertà e la creatività umane. Ma coloro che predicano un Dio che avrebbe paura della libertà umana, predicano un idolo estraneo al Dio biblico proposto da Ratzinger come degno di fede. Egli ha sempre parlato finora di un Dio che è amore. E allora il suo ragionare sulla vita facendo posto a Dio ha come conseguenza che la vita vissuta e proposta dai cristiani è una vita caratterizzata dall'amore.
Può dunque accadere, e accade, che la predicazione del Papa chieda anzitutto alla Chiesa un grande esame di coscienza. I non credenti trovano ragionevole e perfino amabile la fede cristiana solamente se vedono cristiani contenti della loro fede e coerenti con il comandamento dell'amore. Un altro Papa intellettuale, Paolo VI, ripeteva convinto che la nostra età ha bisogno di testimoni piuttosto che di maestri. E i testimoni non si pongono anzitutto come giudici degli altri. Pensano di pagare di persona anche quando subiscono violenza perché non rendono male per male. La Chiesa è credibile alla sola condizione di far rivivere nella sua vita l'insegnamento di Gesù. Anche sui punti delicati del vivere e del morire che di frequente creano frizione tra chi crede e chi non crede, più che la disputa vale l'esempio.
Può accadere che presentando i discepoli di Gesù come il popolo della vita, lo si faccia con intenti polemici nei confronti di ogni altra posizione sul fine della vita o sul valore della vita considerata meno degna. I cristiani sono certamente il popolo della vita, ma in una forma particolare. Essi condividono ugualmente con tutti il sudore della fronte e il dolore che accompagna l'esistenza di ogni donna e ogni uomo. Come Benedetto XVI insegna, bisogna indirizzare la ricerca sul vero bene dell'uomo e nel confronto testimoniare quale sia questo bene.
La visione cristiana sulla vita ha una prospettiva ampia, che va oltre la morte. I cristiani credono infatti nella risurrezione a opera di Dio. Questa è una conseguenza della fede che non deriva da pura capacità umana. E allora il loro parlare del vivere e del morire si amplia avendo gli occhi fissati alla vita oltre questa vita terrena. Conviene così ragionare dei grandi temi della vita e della morte senza arroganza e senza animosità. Alla Chiesa, a motivo della sua fede, è richiesto di dare ragione della propria fede e non dei pensieri puramente umani dei cristiani.
Pensare il vivere e il morire da una prospettiva di risurrezione, può anche non interessare quanti non credono, ma essi potranno convenire che una tale prospettiva aiuta e non impedisce di considerare ancor più fortemente la dignità di ogni persona umana, e questa dignità deve restare a fondamento del diritto e dell'etica.
L'uomo come misura di tutte le cose è un'attenzione con la quale il cristiano può consentire, anzi nella difesa dell'uomo i cristiani non sono secondi ad alcuno perché sono chiamati a farsi prossimo con tutti. Ci sono però delle cose reali che non si possono misurare e qui si apre la questione di Dio e della sua importanza.
Benedetto XVI più volte ha suggerito anche un metodo per il parlarsi e l'ascoltarsi tra fede e ragione: l'umiltà e la speranza. La capacità di ragionare con umiltà comporta la considerazione vera e sincera delle ragioni degli altri. Quello che i cristiani propongono in più non è un frutto della loro mente di cui andare orgogliosi, ma dono divino offerto per la salvezza di tutti.
La speranza spinge a guardare il nostro presente alla luce del futuro che Dio ha preparato per ogni uomo e ogni donna che vive nella giustizia e nell'amore. Il Papa, accanto all'espressione "popolo della vita", ama mettere anche quella che definisce la Chiesa "popolo della speranza". Il quale anzi riuscirà a essere popolo della vita che unisce nella misura in cui sarà popolo della speranza, aperto cioè al futuro di Dio nel quale si perviene nella libertà.
La vita senza speranza può bloccarsi. Per l'uomo senza speranza anche Dio è superfluo. La speranza richiede coscienze formate che sanno scegliere nella libertà. Dio è amico della libertà. Infatti ha creato l'uomo libero. E gli ha dato una sola legge e una sola misura, quella di amare. La Chiesa ha il compito immenso di essere segno di gente che ama.
Benedetto XVI invita laici e cattolici a fare un percorso ragionevole sapendosi valorizzare a vicenda invece che annientarsi a vicenda. Ed è un compagno di viaggio più che un ostacolo per la modernità oggi scossa dalla bufera della crisi.
c. d. c.
(©L'Osservatore Romano - 11 marzo 2009)



Firenze divisa sulla nomina onoraria di Beppino Englaro - Monsignor Betori parla di “atto nefasto e offensivo”
FIRENZE, martedì, 10 marzo 2009 (ZENIT.org).- Ha suscitato enorme scalpore la decisione del Comune di Firenze di nominare cittadino onorario Beppino Englaro, il papà di Eluana, la cui morte per disidratazione solleva ancora polemiche.

La proposta che chiedeva di conferire la cittadinanza onoraria di Firenze al padre di Eluana Englaro, morta un mese fa dopo 17 anni di stato vegetativo in una clinica di Udine, era stata presentata dal capogruppo del Partito Socialista, Alessandro Falciani e dalla consigliera comunale di Unaltracittà-Unaltromondo, Ornella De Zordo.

Dopo una intensa e lunga discussione, lunedì 9 marzo il Consiglio comunale ha votato a favore della proposta con 22 voti favorevoli, 16 contrari e 3 astenuti.

Il Partito democratico si è spaccato in tre, cinque consiglieri contrari, nove favorevoli e tre astenuti. A favore della proposta hanno votato anche i consiglieri delle sinistre e dei Verdi. Sedici i consiglieri contrari tra cui l’intero blocco del Partito delle libertà e l’Unione democratica di Centro.

Indignato il commento dell’Arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori, il quale in una nota diffusa il 9 marzo ha affermato che la concessione della cittadinanza onoraria di Firenze a Beppino Englaro è un “atto nefasto, pretestuoso, offensivo e distruttivo”.

Secondo l’Arcivescovo una “maggioranza, peraltro sfilacciata” ha tentato di dare un “tono di protagonismo a un finale di legislatura perlomeno problematico”.

La nota firmata dal presule spiega che “opporsi a questa improvvida decisione non vuole dire opporsi alla persona del signor Englaro o voler mancare di rispetto alla sua dolorosa vicenda familiare. Ma dopo aver assicurato rispetto e comprensione, si ritiene doveroso affermare con nettezza che l’atto che una parte del Consiglio comunale ha voluto imporre a tutta la città appare pretestuoso, offensivo e distruttivo''.

La nota precisa che il gesto è “offensivo” in particolare “nei confronti di quella non trascurabile parte della città che nel corso della vicenda Englaro ha manifestato orientamenti ben diversi da quelli di cui il signor Giuseppe Englaro e il gruppo che lo ha sostenuto erano portatori”.

Secondo monsignor Betori, “l'offesa più grande è stata fatta verso i genitori, fratelli, amici e gruppi di volontari che si stringono attorno ai loro oltre 2500 cari che vivono in situazioni similari a quelle da cui e' stata strappata a forza Eluana Englaro”.

“Costoro – continua la nota - nel momento in cui il signor Englaro viene accolto con onore in questa città, ne sono stati, per così dire, cacciati fuori, non forse con atteggiamento di repulsione, ma senz'altro con atteggiamento di noncuranza e di abbandono”.

Il comunicato dell’Arcidiocesi rileva che si tratta di un “atto di disprezzo verso la minoranza dei rappresentanti del popolo e verso una presunta minoranza di cittadini” e conclude ribadendo che la Chiesa di Firenze assicura che “non farà mai un passo indietro e denuncerà con forza ogni sopruso, perchè tale è l'atto nefasto appena deciso”.

Chiaro anche il commento del Movimento per la Vita (MpV) di Firenze il cui Presidente, il prof. Angelo Passaleva, ha espresso “sdegno e sorpresa per il conferimento della cittadinanza onoraria al signor Beppino Englaro”.

“La scelta – ha scritto il prof. Passaleva – ha un chiaro significato ideologico, politico e propagandistico. Ci sono ben altri cittadini che hanno speso e che spendono la loro vita per assistere persone che si trovano in gravissime difficoltà. Quante altre persone di grande rilievo per il loro impegno culturale e umanitario meriterebbero la cittadinanza onoraria di Firenze”.

Secondo il Presidente del Mpv di Firenze si tratta di “un atto che offende questi cittadini e tutti gli abitanti della nostra città che non la pensano come chi ha votato a favore di una delibera di chiara matrice radicale e fortemente provocatoria”.

Dopo aver commentato che “non si può certo esprimere gioia per essere nominati cittadini onorari con una risicata e discussa maggioranza di voti”, il prof. Passaleva ha spiegato che: “Beppino Englaro, per il quale non si mette in discussione la buona fede ed il dolore di fronte al quale, come lui stesso aveva chiesto, sarebbe meglio tacere, dovrebbe sapere che sarà concittadino soltanto di una parte, probabilmente minoritaria, dei fiorentini”.

“Mi aspettavo, per dignità, un suo rifiuto”, ha commentato.


Tre sacerdoti cattolici uccisi nelle ultime settimane in Africa
Due in Sudafrica e uno in Burundi

CITTA' DEL VATICANO, martedì, 10 marzo 2009 (ZENIT.org).- Nelle ultime due settimane, la Chiesa cattolica ha pagato un alto tributo di sangue a causa dell'uccisione di due sacerdoti in Sudafrica e di un presbitero in Burundi.
Gli omicidi, spiega l'agenzia Fides, sono avvenuti durante dei tentativi di rapina.
Padre Lionel Sham, parroco a Mohlakeng, nell'Arcidiocesi sudafricana di Johannesburg, è stato rapito e ucciso sabato 7 marzo, secondo quanto comunicato a Fides da padre Chris Townsend, portavoce della Conferenza dei Vescovi Cattolici del Sudafrica (SACBC), che riunisce i presuli di Botswana, Sud Africa e Swaziland.
Il 27 febbraio, sempre in Sud Africa, era stato ucciso padre Daniel Matsela Mahula, della Diocesi di Klerksdorp, bloccato da quattro banditi mentre era alla guida della sua auto.
In Burundi, don Révocat Gahimbare, parroco a Karuzi, è stato ucciso domenica 8 marzo mentre cercava di opporsi a quattro malviventi che avevano rapinato un convento di suore.


La Misericordia, eccesso dell’Amore redentore - COLLEVALENZA, martedì, 10 marzo 2009 (ZENIT.org).- Nel pomeriggio del 7 febbraio al Convegno su “La Misericordia tra giustizia e speranza”, che si è svolto al Santuario dell’Amore Misericordioso di di Collevalenza, sono intervenuti il prof. Angelo Capecci e il prof. Emmanuel Gabellieri.
Il prof. Capecci, docente di Storia della Filosofia e preside del Corso di laurea in Filosofia presso l'Università di Perugia, ha svolto il tema: "La Misericordia nella filosofia. Significati e accezioni di un’idea in momenti del pensiero occidentale".
La filosofia occidentale si è interrogata – ha detto il prof. Capecci – in diversi luoghi e da diverse prospettive sulla Misericordia, anche se questo termine ha assunto uno specifico e precipuo valore nel linguaggio religioso.Una prima forma o via di una indagine filosofica sulla Misericordia procede da una esperienza che sembra universale, quella di una emozione particolare che si verifica in casi limite di fronte ad altrui sofferenze, e si chiede il suo valore pratico cioè quali siano le sue implicazioni agli effetti dell’azione.
La domanda sorge perché quel sentimento o emozione (che è definibile con termini come eleos, misericordia, pietà, compassione) possono produrre azioni nobili e meritorie, ed anche condurre ad una superiore consapevolezza del destino umano, ma possono anche determinare incertezza, inganno, debolezza nelle decisioni e nei comportamenti (Erodoto, Fedone).
Capecci, dopo aver parlato della Misericordia secondo Aristotele, ha quindi trattato della Misericordia come com-passione e come categoria antropologica.
Il prof. Gabellieri, filosofo, Preside della Facoltà di filosofia dell’Università Cattolica di Lione, con la sua relazione ha posto in risalto come rispetto alla filosofia antica e a quella moderna, che giudicano irriducibile la distanza tra Dio e l’uomo, la Rivelazione cristiana sia la "rivelazione" di una capacità e di una volontà di Dio di "scendere" verso l’uomo perché la perfezione ontologica più alta non è l’autosufficienza ma il dono.
Il cristianesimo, così - ha detto Gabellieri - obbliga a pensare in modo nuovo il problema ontologico. "Ciò che si può pensare di più grande" non è l’idea dell’Essere immutabile ma la Croce. Se il primo compito della teologia del XXI° secolo è "l'intelligenza della kenosi di Dio" (Fides et ratio n°93), il primo compito di una filosofia che risponda alle "esigenze filosofiche del cristianesimo" (Blondel), potrebbe essere quello di pensare infine Dio come Dio, vale a dire come Amore il più grande possibile, "Amore soprannaturale" (S. Weil).
La Misericordia - ha concluso Gabellieri - come eccesso dell’Amore redentore, sarà allora il Nome più divino.


10/03/2009 13:24 - TIBET – CINA - Premier tibetano in esilio: 50 anni di persecuzione hanno rinforzato la nostra volontà di Samdhong Rinpoche - Samdhong Rinpoche parla di 50 anni di repressione cinese e di come sia in atto un tentativo di genocidio culturale. Alla persecuzione vogliono rispondere con la non violenza. Pechino si sente minacciata persino dalla fede buddista dei tibetani.
Dharamshala (AsiaNews) – Oggi, 50° anniversario della rivolta contro l’occupazione cinese, a Dharamsala i tibetani in esilio e i loro sostenitori hanno commemorato l’evento con marce e veglie di preghiera. Samdhong Rinpoche, primo ministro del governo tibetano in esilio, racconta ad AsiaNews questi 50 anni di feroce occupazione cinese in Tibet, le speranze per il futuro, la volontà di non cedere alla repressione.
“Dal giorno dell’invasione [del Tibet], i cinesi hanno fatto tutto il possibile per spazzar via l’identità, la cultura e la religione tibetane, ma non hanno ottenuto nulla. Al contrario, negli ultimi 50 anni siamo diventati più forti e uniti nella battaglia e nella determinazione di preservare la nostra identità, le tradizioni culturali, la religione, sia dentro il Tibet che in esilio”.
“Questi 50 anni, sebbene segnati da processi e sofferenze, hanno rinforzato la convinzione dei tibetani sparsi nel mondo e hanno consolidato la nostra solidarietà con chi vive in Tibet. La politica cinese mira a eliminare la questione tibetana mutando l’autentica identità del Tibet e della sua popolazione: a questo fine favorisce l’immigrazione di gente di etnia cinese, vuole ridurre i tibetani a una minoranza priva di potere nel loro stesso Paese. Le conseguenze di questa colonizzazione cinese sono enormi e già minacciano seriamente la nostra cultura e identità. Qui i cinesi hanno avuto grande successo nei centri economici, politici, culturali e spirituali e li hanno trasformati [dando loro] caratteristiche cinesi, mentre i tibetani sono stati emarginati. Ma non pensiamo che questa politica avrà successo, nonostante ci colpisca e indebolisca”.
“Anche la politica della lingua-unica, nel settore dell’istruzione, è usata per colpire la nostra cultura e identità… Le scuole costringono i nostri bambini a imparare il cinese mandarino e nella vita ufficiale non è ammessa la lingua tibetana. La prevalenza del cinese nella vita pubblica dà poi un vantaggio agli immigrati cinesi. Il semplice tentativo di ogni tibetano di mantenere i propri linguaggio, cultura e tradizioni, è sentita dai leader comunisti cinesi come una minaccia. Si sentono minacciati anche dal buddismo tibetano”.
“Come monaci buddisti, non abbiamo un grande attaccamento [alle cose del mondo]. Il mondo vuole acquistare cose materiali e questo è causa di miseria. Come monaci buddisti non abbiamo grandi interessi personali, ma… siamo fermi nell’opposizione all’ingiustizia e nella difesa dei nostri diritti. Ma l’esito non dipende da noi. In questi 50 anni abbiamo fatto quanto possibile e non abbiamo rimpianti. Il Dalai Lama ripete sempre che siamo nati in Tibet, i nostri corpi sono stati allevati e nutriti dal suolo, l’acqua e l’aria del Tibet. Per cui abbiamo una responsabilità di ben amministrare e governare la gente tibetana, e lavoriamo per questo… Vogliamo impegnarci insieme alla Cina per trovare una soluzione e confermare una via non-violenta”.
“Ora la situazione in Tibet è davvero tesa e il Dalai Lama è molto preoccupato e ripete e chiede alla nostra gente di stare calma e non reagire. Io vorrei chiedere alla comunità internazionale di opporsi all’ingiustizia, non solo per il Tibet… E’ interesse dell’intera umanità rispettare la dignità e l’eguaglianza di tutti. Mi chiedo come possa l’intero mondo tacere, quando contro qualcuno sono compiute ingiustizie e il popolo tibetano soffre inesprimibili abusi e umiliazioni contro i diritti umani”.


A trent'anni dalla «Redemptor hominis»

La via fondamentale dell'uomo che si rivela all'uomo - "A 30 anni dalla "Redemptor hominis". Memoria e profezia" è il convegno che si svolge il 10 e l'11 marzo presso la Pontificia Università Lateranense. Il convegno è organizzato dallo stesso ateneo e dal Pontificio Istituto Pastorale Redemptor Hominis. Il cardinale patriarca di Venezia ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" il suo intervento. Sotto pubblichiamo uno stralcio di un'altra delle relazioni. - di Angelo Scola
Per riflettere sulla Redemptor hominis, trovo opportuno richiamare la celebre provocazione di Thomas S. Eliot: "È la Chiesa che ha abbandonato l'umanità o l'umanità che ha abbandonato la Chiesa?". Lo scavo della questione antropologica condotto da Giovanni Paolo II - sappiamo bene che Karol Wojtyla aveva già ampiamente affrontato il tema prima del suo pontificato (cfr. Persona e atto) - non lascerebbe dubbi circa la risposta: "La Chiesa non può abbandonare l'uomo, la cui "sorte", cioè la salvezza o la perdizione, sono in modo così stretto e indissolubile unite al Cristo" (Redemptor hominis, 14). Il vincolo che lega la Chiesa all'uomo e l'uomo alla Chiesa è indissolubile in quanto radicato nel mistero dell'incarnazione e redenzione del Figlio, indagato da Redemptor hominis nell'orizzonte di un "cristocentrismo obiettivo". La Chiesa, quindi, per sua natura, non dovrebbe mai abbandonare l'uomo. Ma, a trent'anni dall'enciclica, tanta immediata fiducia in tale semplice convinzione è realistica o non suona, piuttosto, come un'acritica pretesa? Il cammino compiuto dall'uomo occidentale nell'articolato percorso che va dalla modernità alla post-modernità sembra infatti documentare il suo progressivo allontanamento da ogni sorta di legame e appartenenza ecclesiale.
L'esito di questo processo è suggestivamente evocato dal grido con cui Friedrich W. Nietzsche, confutando alla radice le pretese dell'universalismo kantiano, rivendica l'ingresso dell'uomo in una nuova dimensione svincolata da qualsiasi riferimento veritativo: "Noi (...) vogliamo diventare quello che siamo: i nuovi, gli irripetibili, gli inconfrontabili, i legislatori di se-stessi, quelli che si danno da sé la legge, che si creano da sé".
A questo proposito è importante sottolineare che il pensiero post-moderno - di cui Nietzsche può a pieno titolo essere considerato il profeta - nel giusto tentativo di superare le aporie della ragione illuminista, ha però anche finito col demolire l'uomo come "universale concreto". Tema cui la Redemptor hominis, fortemente ancorata in Gaudium et spes, fa continuo riferimento. In questa prospettiva non si potrebbe più parlare né della singola persona intesa come soggetto integrale, frantumato nei singoli atti della sua volontà, né della sua "sorte" - per usare la bella espressione di Redemptoris hominis 14 - totalmente affidata alle possibilità offerte dal connubio tra scienza e tecnologia, di volta in volta valutate unicamente in termini di scelte soggettive e utilità strumentale. Il soggetto non sarebbe più l'uomo "nella sua irripetibile realtà dell'essere e dell'agire, dell'intelletto e della coscienza e del cuore" (RH, 14), ma soltanto un'entità tecnocratica e collettiva di cui il singolo uomo rappresenterebbe una mera funzione.
Ma se davvero parlare di uomo come persona-soggetto di diritti e doveri è il risultato di un arbitrio - di "un'interpretazione", direbbe il pensiero post-moderno - allora la Chiesa, quand'anche riuscisse a proporsi all'altezza del "nobile Redentore", non avrebbe più, propriamente parlando, il suo interlocutore - l'uomo concreto. Di conseguenza la sua missione risulterebbe priva di significato o tutt'al più, come da più parti le si rimprovera, soltanto "un decisivo nodo di potere".
"Eppure - scriveva l'allora arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla - esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell'uomo" (Persona e atto, 35). Nell'inesauribile convinzione che l'esperienza elementare dell'uomo, nella sua "sostanziale semplicità" supera qualunque "incommensurabilità" e qualunque "complessità", questa avversativa iniziale continua ad avere una presa assai realistica. Lascia intendere che la travagliata situazione dell'uomo contemporaneo non può essere aggirata neppure dalla tecnoscienza. Va percorsa fino in fondo, perché lo esige la domanda suprema di significato - "Chi alla fine mi assicura?" - inestirpabile dall'esperienza costitutiva (integrale/trascendentale e categoriale/elementare).
In quanto costitutiva questa esperienza è, in un certo senso, autoevidente poiché se "l'atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela" (Persona e atto, 53), allora nella misura in cui cresce il bisogno di comprendere chi sia la "persona" che sempre vive in azione "la categoria di esperienza acquista il suo pieno significato" (Persona e atto, 50). Pertanto anche quest'uomo - cioè ciascuno di noi oggi - è "via della Chiesa" come dice l'enciclica. E non in modo astratto, ma facendosi carico di tutte le sue determinazioni storiche che, anche nelle forme più radicali, "caratterizzano la sua situazione" (RH, 19). Quella che Giovanni Paolo II - ma anche von Balthasar - chiamava un'"antropologia adeguata" conserva tutto il suo valore. Perché? Perché tiene conto del fatto che quando l'uomo giunge a riflettere su di sé, non può formulare il discorso prima di cominciare a essere uomo, ma è "obbligato" a farlo sorprendendosi in azione. Si trova già dentro un "esserci" e, dall'interno di questo esserci, riflette su chi egli sia. Non v'è spazio per un'ipotetica riflessione aprioristica di carattere teorico sulla natura dell'uomo da cui dedurre una conoscenza da applicare successivamente alla vita.
Pertanto il linguaggio della persona rivela che l'uomo è sempre storicamente situato. È nella storia che si gioca il dramma della sua libertà finita in cerca della libertà infinita di Dio. Di conseguenza le molteplici oggettivazioni e determinazioni cui il soggetto tecnocratico oggi lo sottopone debbono legittimamente fare il loro ingresso e far sentire tutto il loro peso all'interno di una antropologia drammatica (l'unica adeguata), ma senza che per questo possano far tacere il suo agostiniano inquietum cor.
L'uomo di oggi non è pertanto meno desideroso di infinito di quello di ogni tempo. Il Redemptor hominis irrompe all'interno di questa sua costitutiva esperienza. Anche quest'uomo "è stato redento da Cristo, perché con l'uomo - ciascun uomo senza eccezione alcuna - Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell'uomo non è di ciò consapevole" (RH, 14). Il profondo e delicato passaggio di Gaudium et spes 22, diventa la chiave per affrontare l'"enigma uomo", al riparo da ogni sterile dualismo tra eterno e tempo, necessario e contingente, dogma e storia. Infatti la redenzione non va intesa solo in chiave escatologica, come se l'azione di Cristo fosse esclusivamente finalizzata alla speranza di un riscatto in un astratto aldilà. La redenzione è all'opera nella stessa possibilità donata all'uomo di dedicarsi incessantemente all'affascinante compito di svelamento dell'enigma del suo "esserci".
L'uomo "è prima e fondamentale via della Chiesa". E lo è proprio in virtù della "via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'Incarnazione e della Redenzione" (RH, 14). Ovviamente il riferimento a Cristo, in quanto immagine perfetta del Padre, è determinante per comprendere tutta la portata dell'affermazione di Giovanni Paolo II. E questo spiega il desiderio dell'enciclica che, come asserisce con forza in apertura il Vaticano ii, "ardentemente desidera con la luce [di Cristo] splendente sul volto della Chiesa, illuminare tutti gli uomini" (LG, 1).
"Ci occuperemo della Chiesa solo nella misura in cui esso può e vuole essere una mediazione della forma (Gestalt) della Rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Dicendo questo abbiamo probabilmente posto la questione decisiva. E forse, nei riguardi della Chiesa non c'è più alcuna domanda da porre oltre a questa" scrive Hans Urs von Balthasar. Ogni uomo può essere incorporato a Gesù Cristo mediante la Chiesa, da Lui amata di un amore sponsale (cfr. Lettera agli Efesini, 5). Egli partecipa in questo modo della figliolanza divina del Redentore che è l'inverarsi, in pienezza di umanità, della totale comunione intratrinitaria. Il percorso fatto mostra tutta la pregnanza dell'affermazione di Redemptor hominis 14, che "l'uomo è la prima e fondamentale via della Chiesa".
(©L'Osservatore Romano - 11 marzo 2009)


Quando gli accertamenti prenatali di massa diventano un dovere sociale - Donne sotto pressione: chi non fa il test è biasimata di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
Il dibattito sul diritto alla salute e in particolare sulla salute riproduttiva viene spesso ricondotto a un problema di scelte personali, supponendo che queste siano costantemente consapevoli e dunque libere. In realtà le cose appaiono diverse, secondo recenti ricerche sulla diagnosi prenatale delle malattie genetiche, diversa dalla diagnosi prenatale fatta a scopi immediatamente curativi per il bambino.
La diagnosi prenatale infatti può servire a curare gravi patologie della madre e del bambino e in questo è un grande successo; ma oggi al suo interno si fa largo la tendenza a uno screening di massa con ecografie mirate e analisi del sangue per le malattie genetiche fetali, verso le quali al momento non esiste terapia. Questo desta molte perplessità, sia per le conseguenze eugenetiche che se ne possono trarre, sia perché vari studiosi si domandano se l'accesso a questo esame genetico a tappeto sia realmente libero o frutto di un certo clima culturale. A lanciare l'allarme sono stati nel 2008 alcuni studiosi francesi sulla rivista "Fetal Diagnosis and Therapy", giungendo a risultati sconfortanti: "È difficile per le pazienti esercitare la loro scelta autonoma" riguardo i test suddetti, e "troppe di loro (82 per cento) considerano questi test un obbligo". Fa eco a questo un altro studio, questa volta greco (di Kleanthi Gourounti nel 2008) in cui si conclude che "molte donne mancano di informazione, soprattutto sugli scopi e i limiti diagnostici dello screening ecografico di translucenza nucale", esame fatto per individuare la sindrome Down. L'informazione sullo screening è carente anche per una rassegna della letteratura scientifica fatta da Katja Dahl nel 2006: "Il 29-65 per cento delle donne non conosce l'esistenza di falsi negativi e il 30-43 per cento dei falsi positivi. L'11-53 per cento ignora il rischio d'aborto in seguito all'amniocentesi". A riprova che l'approccio di massa in certi Paesi possa essere discutibile, uno studio olandese pubblicato su "Prenatal Diagnosis" del 2005, invece mostra che, dopo una accurata informazione, solo il 46 per cento delle donne accetta uno screening prenatale per la sindrome Down. Gli autori spiegano che "accettare lo screening non è routine per le donne olandesi", ma solo in parte per motivi di rifiuto di un eventuale ricorso all'aborto. "Nel nostro studio le donne hanno ricevuto un'informazione equilibrata sui pro e i contro del test, mentre questo potrebbe non essere così in Paesi dove lo screening prenatale è routine. Dunque, le donne del nostro studio potrebbero essere più consapevoli che il test in sé non dà rassicurazione, ma solo la stima di un livello di rischio". Bisogna allora domandarsi nella coscienza che non si tratta di un banale esame, ma di un delicato test genetico con implicazioni psicologiche e affettive profonde: l'esame a tappeto delle caratteristiche genetiche del figlio è davvero una consapevole richiesta delle donne? Oppure, come riporta lo studio della Dahl, "per evitare alle donne di partecipare passivamente agli esami prenatali, un dibattito pubblico deve assicurare le condizioni per accettare o rifiutare i test offerti"? Anche perché, aggiunge lo studio, "il basso livello di conoscenza che abbiamo trovato in questa ricerca può essere spiegato da un'informazione che non aiuta un consenso informato nella diagnostica prenatale".
Quelle ora proposte non sono domande cui si può oggi rispondere semplicisticamente dicendo: "La scienza ci dà gli strumenti, perché non usarli?", dal momento che entrare nella privacy genetica di un individuo non è cosa da poco, considerando anche che non è detto che per tutti sia automatico voler accertare la "normalità" come primo passo per accettare il figlio.
Infatti non tutti sono d'accordo sull'eticità di uno screening di massa: un recente studio fatto su quaranta centri laici di bioetica in Inghilterra ha mostrato che solo il 44 per cento dei bioeticisti intervistati reputa etico lo screening ("Journal of Clinical Pathology", 2003), e su "Human Reproduction" del 2003 Julian Savulescu spiegava che non si devono dare informazioni prenatali se queste non sono esplicitamente richieste.
C'è chi solleva dubbi sul fatto che la richiesta dello screening della popolazione venga direttamente dalle donne. Carine Vassy su "Social Science e Medicine" del 2006 analizzò come sia avvenuta la diffusione dello screening prenatale per la sindrome Down in Francia e le conclusioni del suo studio sono allarmanti: "Le donne incinte e la popolazione non sono stati consultati sull'introduzione di queste innovazioni nel sistema sanitario. Solo alcune associazioni di genitori di disabili lo sono state di recente. Le donne incinte hanno fatto quello che i promotori si aspettavano: test e poi screening in numero crescente. Parte della clientela era interessata dalla possibilità di evitare di avere un bimbo Down. Altri possono aver usato i test con indifferenza o ignoranza, o per assecondare il parere dei dottori. L'aumento di numero dei test fatti ha permesso ai loro promotori di dire che ce n'era richiesta da parte della società".
Certo che molte donne hanno accolto favorevolmente lo screening prenatale, che in casi selezionati può far superare stati d'ansia. Ma ci inquieta pensare che altre donne siano prese loro malgrado in un meccanismo culturale che quasi obbliga a mettere al mondo un figlio "conforme": "La medicina riproduttiva (...) è sia una scelta del consumatore che una forma di controllo sociale, forgia la cultura ed è un prodotto della cultura" (Casper, 1998, citato in Clare Williams, "Social Science and Medicine", 2005). D'altronde, riporta Diane Beenson su "Medical Ethics" del 2000, "le donne trovano difficile rifiutare i test genetici perché accettarli sembra l'unica opzione scientifica. Secondo certe ricerche, le donne che rifiutano il test sono a rischio di essere biasimate se poi hanno fatto nascere un figlio malato. Le donne che scelgono la diagnosi genetica e l'aborto selettivo rispondono a un contesto sociale in cui i disabili non sono valutati al massimo" e "con il 97,5 per cento di donne che accettano l'offerta di screening, il contesto è diventato quello di uno screening di routine" (Clare Williams, citato).
Recentemente, il presidente del Comitato di Bioetica francese, Didier Sicard, così si esprimeva: "In Francia la generalizzazione dello screening è certamente basata sull'essere solo una proposta, ma in pratica esso è diventato quasi obbligatorio" ("Le Monde", 3 febbraio 2007). Certo, nessuno pensa minimamente di negare il diritto a conoscere; semplicemente si vorrebbe che non diventasse automatico "accertare" la normalità come preambolo all'"accettare" il figlio, mentre è proprio questo il rischio che si corre. Soppiantare quest'automatismo renderebbe anche la cura della gravidanza meno "direttiva" e "paternalista": le donne chiedono più "supporto sociale" che "controllo sociale" verso la loro maternità, e la pressione sociale per un "figlio perfetto" rischia di offuscare questo loro diritto.
(©L'Osservatore Romano - 11 marzo 2009)

Riflessioni sulla «Dignitas personae» - La grammatica della vita umana e quella della democrazia - di Adriano Pessina - Direttore del Centro di Bioetica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche nei campi della biologia e della genetica ha permesso una nuova analisi della struttura corporea umana e della sua evoluzione, fino al punto, per così dire, di individuarne la grammatica. E se l'uomo contemporaneo è diventato un esperto della grammatica della vita umana, al punto che può pensare di riscriverne le regole, non si può dire che ne abbia, di pari passo, approfondito la semantica, cioè il significato e il valore. Se vogliamo continuare a interpretare il libro della vita umana non dobbiamo separare e stravolgere il rapporto intimo che lega la grammatica con la semantica, la biologia con l'antropologia. Paradossalmente, la maggior conoscenza del nostro corpo e del suo funzionamento, fin nelle sue fasi iniziali, ha coinciso con l'affermazione di una sorta di estraneità e di presa di distanza dal corpo stesso, sempre più pensato come qualcosa che appartiene alla persona e non come il modo concreto con cui esiste la persona umana. La difficoltà di pensare al corpo umano, fin nelle sue iniziali fasi di organismo monocellulare, come corpo personale è all'origine di molte questioni bioetiche. Ed è per questo che oggi risulta decisivo porre al centro la cosiddetta questione embrionale come questione non soltanto scientifica, ma antropologica. Di fatto la vita embrionale è oggi sempre più esposta alla possibilità della selezione, della manipolazione, della sperimentazione e della distruzione. Di fronte ai nuovi problemi che interrogano la coscienza morale di credenti e non credenti, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha ritenuto necessario fornire non soltanto delle risposte, ma dei criteri per orientare la prassi, attraverso l'istruzione Dignitas personae su alcune questioni di bioetica.
La questione antropologica
La prima parte dell'istruzione conferma il "criterio etico fondamentale" già espresso dalla precedente istruzione Donum vitae, e cioè che "il frutto della generazione umana dal primo momento della sua esistenza, e cioè a partire dal costituirsi dello zigote, esige il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità corporale e spirituale. L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento". La presenza di nozioni prettamente scientifiche - zigote, embrione - e di concetti propriamente filosofici ed etici - persona e dignità personale - richiede un'attenta considerazione, sia per non confondere i piani dell'argomentazione, sia per comprendere che si sta parlando della medesima realtà con prospettive metodologiche differenti. Il linguaggio della biologia ci permette di descrivere lo sviluppo dell'essere umano; il linguaggio della filosofia e della teologia ci permette di comprendere il significato e il valore di ciò di cui stiamo parlando. Se, infatti, sappiamo che cosa è l'embrione umano riusciamo anche a comprendere chi è. C'è un nesso intrinseco tra il fatto che le nozioni di zigote, embrione, e via dicendo, descrivono le fasi di sviluppo dell'essere umano - rispondendo alla domanda che cosa è? - e il fatto che la nozione di persona attribuita all'essere umano ci permette di rispondere alla domanda chi è? Questo passaggio, dal che cosa al chi, è teoricamente decisivo, perché ci riporta al dibattito filosofico contemporaneo e alle due tesi che si stanno sempre più diffondendo: la prima riguarda l'unanime riconoscimento del valore della persona; la seconda, che mina questa importante acquisizione, separa irrimediabilmente il concetto di essere umano da quello di persona, negando che tutti gli esseri umani siano persone. Oggi si tende ad attribuire valore all'essere umano in quanto persona, quasi non bastasse più, per usare l'espressione della filosofa Hannah Arendt, la nuda qualità dell'essere umano per essere riconosciuti come degni di rispetto e di tutela. Da qui la necessità di dimostrare che ogni essere umano, in qualunque stadio della sua esistenza e in qualunque condizione di salute, sia persona umana a pieno titolo. A partire dall'epoca moderna, la nozione di persona - così cara alla tradizione cristiana, che nel suo uso analogo l'ha assunta per esprimere la fede nel Dio trinitario - ha cessato di essere attribuita all'uomo in modo univoco. Infatti, il concetto di persona è stato, ed è spesso usato per indicare l'uomo in quanto agente morale, cioè in quanto è in grado di decidere e di volere, oppure per designare l'uomo come soggettività psichica, espressa dall'esercizio della coscienza di sé. In questo modo è stato progressivamente offuscato il significato che fa da sfondo a queste due accezioni, cioè il concetto di persona umana come termine univoco in grado di esprimere la soggettività ontologica che caratterizza l'essere umano e che costituisce e qualifica la stessa corporeità umana, fin dal suo sorgere. La presente istruzione chiarisce perché "l'istruzione Donum vitae non ha definito che l'embrione è persona" e cioè "per non impegnarsi espressamente su un'affermazione d'indole filosofica" che, aggiungiamo, avrebbe potuto prestarsi a equivoci in questo contesto culturale. Ma questa attenzione prudenziale non è una rinuncia teorica: infatti, l'attuale istruzione ribadisce che "esiste un nesso intrinseco tra la dimensione ontologica e il valore specifico di ogni essere umano" (Dignitas personae, n. 5). Ed è in forza di questo nesso che si può affermare che "l'embrione umano, quindi, ha fin dall'inizio la dignità propria della persona" (ibidem). Quest'affermazione accoglie le nuove conoscenze scientifiche e conferma la tesi per cui la dignità riguarda quella nuda qualità dell'essere umano che si palesa con la formazione dell'organismo umano che siamo.
E Tommaso d'Aquino fornisce una definizione particolarmente chiara della persona umana evidenziando che la corporeità umana è costitutiva dell'individualità umana e della sua dignità. E infatti scrive: "La persona, in qualsiasi natura indica ciò che è distinto in quella natura: cioè nella natura umana significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono principio di individuazione per l'uomo; le quali cose, pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana" (Summa Theologiae, i, q. 29, a. 24). Il modo di essere persona dell'uomo - il suo essere persona umana - è dato dalla sua corporeità. La sua peculiare identità e soggettività deriva dall'unione sostanziale di un'anima spirituale - creata da Dio - con una materia ereditata dal processo della generazione umana: questa unità è il singolo uomo, la persona umana che esiste come identità corporea. L'uomo non è né il suo corpo, né il suo spirito, ma quel concreto essere vivente che diviene nel tempo e che è capace di pensare proprio perché è un certo tipo di vivente. E non è necessario comprendere o condividere la metafisica di Tommaso per comprendere l'unità dell'uomo: basta la fenomenologia del vissuto umano per farci comprendere come mente e corpo, spirito e materia, siano intimamente intrecciati nella nostra concreta esistenza. Noi siamo soliti considerare la soggettività psichica o psicologica, quella che chiamiamo autocoscienza, ma tendiamo a dimenticare che l'uomo non è la sua coscienza, perché l'essere uomo precede e accompagna la stessa coscienza di sé - come avviene nella quotidiana esperienza del sonno e della veglia, quando la coscienza di noi stessi cessa senza che il nostro io cessi di esistere. Sviluppandoci impariamo a riconoscerci come quel soggetto che ha alle sue spalle una storia di cui non si aveva coscienza. Ogni uomo è unico e insostituibile perché già nel suo semplice esistere è un chi. Questa soggettività ontologica, espressa dalla nozione di persona umana, è la condizione perché si dia la persona come agente morale o la persona come soggetto psichico. Per questo il riconoscimento della dignità personale - della soggettività - deve essere esteso a tutte le fasi dell'esistenza dell'essere umano. Su questa maturità del pensiero si fonda una reale democrazia, capace di riconoscere l'uguaglianza di tutti gli uomini e d'impedire ogni ingiusta discriminazione basata sul loro sviluppo o sulla loro condizione di salute.
L'essere umano come figlio
Proprio perché l'essere umano allo stadio embrionale è soggetto non nel significato psichico, ma nel significato ontologico, è degno, fin dal suo apparire, d'essere chiamato per nome. E anche il senso comune ha percepito questa verità: coloro che aspettano un figlio non soltanto parlano di lui, nell'apprensione, nella gioia, nella speranza, ma poco alla volta iniziano a parlare con lui. Perché nel rispondere al che cosa è l'uomo si è manifestato il chi è. Le ragioni della fede e le ragioni della filosofia si incontrano a livello antropologico. L'istruzione Dignitas personae sottolinea con chiarezza questa relazione che ha il suo fulcro proprio nell'Incarnazione, nel Figlio di Dio che non ha disdegnato di farsi carne e di diventare così anche figlio dell'uomo. "Divenendo uno di noi, il Figlio fa sì che possiamo diventare "figli di Dio" (Giovanni, 1, 12), "partecipi della natura divina" (Seconda Lettera di Pietro, 1, 4). Questa nuova dimensione non contrasta con la dignità della creatura riconoscibile con la ragione da parte di tutti gli uomini, ma la eleva ad un ulteriore orizzonte di vita, che è quella propria di Dio e consente di riflettere più adeguatamente sulla vita umana e sugli atti che la pongono in essere" (Dignitas personae, n. 7). La fede cristiana si presenta come il luogo nel quale si salda l'affermazione della dignità e quella della sacralità della vita umana. L'io dell'uomo trova infatti in Dio non soltanto il suo creatore, ma il suo assoluto interlocutore, non un padrone della vita, ma un padre della vita, un fratello presente nella storia dell'uomo.
(©L'Osservatore Romano - 11 marzo 2009)



Cristiani e buddisti contrari alle norme anti conversione in Sri Lanka – L’Osservatore Romano, 11 marzo 2009
Anuradhapura, 10. Profonda preoccupazione è stata espressa dai capi religiosi buddisti e cristiani in Sri Lanka per la legge anti conversione che sarà presto discussa e votata in Parlamento. La legge impedirà ai cristiani di svolgere opera di servizio sociale tra i membri di una popolazione a maggioranza buddista.
Secondo i media locali, la legge prevede fino a sette anni di carcere e una multa di 500.000 rupie (oltre quattromila dollari statunitensi) a chi fa un dono o un'offerta di denaro contante o altro tipo di incentivo per convertire una persona.
Attualmente, un comitato consultivo del Parlamento dello Sri Lanka sta esaminando il disegno di legge per verificare se ha ripercussioni negative sulle attività religiose o se vìola la costituzione. A presentare la bozza di legge è stato un partito di ispirazione buddista, lo Jathika Hela Urumaya.
Nei giorni scorsi, il vescovo di Anuradhapura, monsignor Norbert Marshall Andradi, ha indetto un incontro, presso la sede del rappresentante del governo a livello distrettuale, con tutti i sacerdoti e i laici della diocesi, nonché i rappresentanti laici dei movimenti buddisti, i responsabili di organizzazioni non governative e funzionari di governo, per discutere del disegno di legge. L'incontro si è svolto ad Anuradhapura, città sacra ai buddisti.
"Quando aiutiamo un mendicante - ha spiegato il pastore della Chiesa metodista, Tulin Colombage - non gli chiediamo a quale religione o credo appartiene adesso con questa legge aiutare qualcuno potrebbe diventare reato. Siamo profondamente preoccupati e ci opponiamo con veemenza a questa legge perché fare la carità potrebbe essere interpretato come un modo per convertire le persone".
Dello stesso avviso anche il vescovo di Anuradhapura, che ha sottolineato come "carità e solidarietà costituiscano la parte essenziale del cristianesimo e uno dei principali precetti amare il nostro prossimo come noi stessi".
I rappresentanti laici dei movimenti buddisti sono fermamente contrari al disegno di legge e hanno apprezzato le opere di carità e di solidarietà della Chiesa cattolica.
"Già il nostro Paese - ha dichiarato Koholanwala Karunapala, leader dell'associazione buddista Rajarata - è gravato dai conflitti in corso tra la maggioranza cingalese e la minoranza dei gruppo tamil, adesso si aggiunge un ulteriore inasprimento nei confronti di cristiani e buddisti. In questo modo rischiamo di mettere benzina sul fuoco. Quello di cui abbiamo bisogno oggi è il dialogo e la cooperazione di tutte le componenti religiose ed etniche del Paese". Il disegno di legge anti conversione era già stato presentato in Parlamento nel 2005 provocando le ferme reazioni da parte della Chiesa cattolica e di quella evangelica.
(©L'Osservatore Romano - 11 marzo 2009)


OBAMA/ Staminali, la rinuncia dei cattolici - Lorenzo Albacete - mercoledì 11 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Adempiendo alla sua promessa in campagna elettorale, il Presidente Barack Obama ha revocato l’ordine del Presidente George W. Bush che proibiva il finanziamento federale alla ricerca sulle cellule staminali da embrioni. Da un punto di vista politico, per chi è contrario a tale ricerca non si tratta veramente di una sconfitta imprevista, dato che anche il candidato repubblicano alla presidenza, il senatore John McCain, aveva promesso di eliminare il divieto all’uso dei fondi pubblici per sostenere la distruzione di embrioni umani.
Quando ha annullato la legge che escludeva dai fondi federali le organizzazioni private per la pianificazione familiare che promuovono l’aborto a livello internazionale, il Presidente Obama ha firmato il suo “ordine esecutivo” in privato, lontano dalle telecamere. Questa volta, tuttavia, la firma dell’ordine esecutivo per i finanziamenti alla ricerca sulle cellule staminali embrionali è stata fatta durante una cerimonia pubblica, organizzata politicamente per mostrare all’ala sinistra del partito la sua fedeltà alle promesse elettorali, nonostante sembrasse che per certi aspetti (come la guerra in Iraq) avesse spostato la sua posizione politica a destra. Anzi, il motivo quasi puramente politico di questo gesto è così chiaro che dovrebbe preoccupare chi aderisca a qualsiasi ideologia, sia di destra che di sinistra. Il Presidente ha affermato di voler andare oltre le categorie liberali e conservatrici, prendendo decisioni che confondono entrambe le parti, e questo non per una sintesi filosofica trascendentale, quanto piuttosto per un mero pragmatismo perseguito tenacemente. È un chiaro esempio di persona la cui visione della realtà, e quindi di ciò che è giusto e vero, non è ciò esiste veramente (“Verum est ens.”), che non può essere realmente compreso dalla ragione umana come intesa oggi. E non sembra neanche seguire il punto di vista di coloro che pensano che il vero sia ciò che abbiamo fatto noi stessi (“Verum quia factum.”), con tutte le ideologie nate da questa visione della storia come unica fonte accettabile della vera conoscenza. Il pragmatismo del Presidente vuole sì cercare di trascendere le ideologie liberali e conservatrici, ma lo fa non rifuggendo dall’ideologia, bensì ricadendo in una nuova: il vero e il buono sono quello che riusciamo a fare. La verità è la fattibilità. La verità è ciò che la tecnologia, non il pensiero, ci permette di fare. “Verum quia faciendum.” Come disse il Cardinal Ratzinger ancora nel 1968: “Il prevalere della storia viene sostituito da quello della techne (vedi “Introduzione al cristianesimo).”
La verità è che questo si avvicina molto al cosiddetto pragmatismo americano, che ha permesso la sopravvivenza degli Stati Uniti come una società in costante trasformazione e culturalmente e religiosamente diversa. Veramente, le altre due visioni della realtà sopravvivono e di tanto in tanto diventano politicamente significative, la guerra culturale-ideologica è ancora in corso, ma alla fine prevale l’ideologia ( perché di ciò si tratta) del pragmatismo. La difesa del Presidente della propria decisione di sostenere la distruzione di embrioni umani in nome di una “scienza ideologicamente libera” coincide con il pragmatismo che poi anima le sue decisioni in altri campi, come le proposte per il superamento dell’attuale crisi finanziaria e per la guerra al terrorismo. Questo punto di vista è confacente alla convinzione americana che tutto sia possibile e che tutti i problemi abbiano una soluzione, il che ci rende possibile sfuggire alla storia e allo stesso pensiero speculativo. Questo punto di vista ha decisamente vinto alle ultime elezioni e, a meno che succeda qualcosa in cui la Realtà asserisca se stessa, sarà la nostra cultura dominante almeno per i prossimi quattro anni.
Il Presidente Obama è fedele alla sua personale storia, formazione ed esperienza, e non conosce altri modi per sfuggire a lotte ideologiche paralizzanti. Ciò che è realmente triste è che i molti cattolici nell’attuale governo non siano in grado di mostrare a lui e alla nazione come invece si possa riconoscere realmente e razionalmente la Verità che ci rende liberi.


NATURA UMANA/ I motivi per cui il potere detesta la parola “persona” - Massimo Serretti - mercoledì 11 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Oggi è a tutti evidente che la negazione del fatto che l’uomo abbia una natura e la negazione del fatto che l’uomo sia comunque una persona sono intrecciate tra loro e si sostengono reciprocamente. Meno evidente è come si sia giunti ad una tale cecità viziosa e come si sia potuta produrre una simile velenosa menzogna. La comprensione dell’itinerario plurisecolare che ha portato ad un tale risultato è, in questo frangente, di importanza capitale. La scomposizione e la negazione possono essere infatti rettamente intese solo a partire dall’unità e dall’affermazione positiva di cui costituiscono il semplice prodotto di disaggregazione.
Ripercorriamo sinteticamente le quattro fasi fondamentali che contrassegnano questo cammino nel corso del secondo millennio dell’era cristiana per arrivare a quello che C.S. Lewis ha chiamato “l’ultimo passo”.
1. Dopo il XIII secolo assistiamo ad una progressiva distanziazione tra la “sacra dottrina” (teologia) e le scienze umane (storia, filologia, lettere). Ciò comporta una duplice riduzione: da un lato il termine ‘persona’ viene usato raramente in riferimento all’uomo e dall’altro il termine “natura” viene sempre più ad assumere un significato prevalentemente cosmico-mondano più che non teologico e antropologico. L’accezione intra-cosmica prende il sopravvento.
2. In una seconda fase, che copre per intero i secoli XVI, XVII e XVIII, assistiamo ad una affermazione unilaterale della natura in quanto natura umana, ad una sparizione della nozione di “persona” in contesti antropologici e ad una sua iniziale critica della sua stessa legittimità.
Martin Lutero la chiamerà “parolaccia” (Wörtlein), Baruch Spinoza affermerà che gli sfugge (me fugit) che cosa con questo termine si voglia dire; David Hume, nel suo Trattato sulla natura umana porta a termine l’operazione della riduzione sistematica dell’essere personale dell’uomo al suo essere di natura. Per lui l’identità personale si riduce all’Io, alla memoria, alla coscienza. Per John Locke «senza coscienza non c’è persona» e l’identità che viene chiamata ‘identità personale’ in realtà è «identità della coscienza». Ma già Hume aveva dichiarato che «la maggior parte dei filosofi sembra propensa a pensare che l’identità personale nasce dalla coscienza, e la coscienza non è altro che una riflessione del pensiero, una percezione riflessa». In questa fase anche chi, come J.-J. Rousseau, riafferma la natura, lo fa contro la natura dell’uomo e completamente prescindere dal suo essere persona. L’uomo è «un animale corrotto». Natura e ragione vengono contrapposti affermando una natura che non può più, di principio, essere razionale.
Un primo ribaltamento qui è già consumato: la realtà personale dell’uomo viene tentativamente spiegata a partire dalla natura dell’uomo, cioè, dall’insieme delle facoltà e degli attributi che sono comuni a tutti gli uomini e che, proprio per il fatto di essere comuni a tutti devono essere posseduti dalla persona, non sono la persona stessa. Una delle caratteristiche dell’essere personale è infatti proprio quella di possedere la natura.
3. Dopo aver puntato tutto, nel lungo periodo menzionato, sulla natura dell’uomo, sull’uomo come natura contro il suo essere persona, il XIX secolo vede una fioritura di sistemi di pensiero che preconizzano la fine dell’uomo come semplice essere di natura e, per sollecitare il salto, intraprendono una lotta feroce e radicale alla natura stessa in quanto natura umana.
Questo fenomeno multiforme si presenta sia come esplosione di “pezzi” di natura che erano stati incollati in vario modo e in varie fogge e che ora vengono fatti valere isolatamente, non più uno accanto all’altro, ma anche l’uno contro l’altro; oppure vengono squalificati nel loro insieme, nelle loro apparenze di dati solo pseudo-naturali. Così, per Schopenauer «la persona è mera apparenza» e solo il volere è la vera «cosa in sé». Per Karl Marx l’uomo dimostra se stesso nel produrre la base stessa del suo consistere. Per Max Stirner, autore oggi tornato in voga, «si tratta di considerare infranta ogni forza naturale» e valutare quindi «l’umanità come un pregiudizio» per giungere, finalmente, al «non-uomo». Per Nietzsche «il superamento dell’uomo» è il fine supremo cui tendere.
Sartre compie nel ‘900 questa parabola di negazione della natura dell’uomo non più contro il suo essere persona, ma come annullamento della natura stessa, quando nella famosa conferenza tenuta nel dopoguerra, dal titolo L’esistenzialismo è un umanesimo, sostiene che l’uomo è l’unico essere a non avere una natura predeterminata e ciò, non più nel senso in cui lo aveva detto Pico della Mirandola nella celebre orazione Sulla dignità dell’uomo, alludendo con ciò al suo essere personale, ma in senso ormai emancipato e quindi prometeico-nichilistico.
4. «L’ultimo passo», la quarta fase, è sotto i nostri occhi e prevede, nel suo macabro programma, l’atto di chi suppone un possesso totale sulla natura, non distinguendo più tra natura cosmica e natura umana, e quindi considera legittima la totalità della manipolazione. La negazione della Creazione e, conseguentemente, l’assunzione del ruolo di “nuovo creatore” da parte dell’uomo, aprono l’accesso al nuovo totalitarismo del soggetto autofondato.
Dato il percorso attraverso il quale l’occidente cristiano è arrivato ad essa, staccando in principio la natura umana dall’essere persona, il ribadire oggi che l’uomo ha una natura sarebbe troppo poco e, lasciata a se stessa, tale riaffermazione non riuscirebbe, perché si dimenticherebbe l’origine da cui tutto il processo ha preso le mosse: l’oblio e la censura di “chi è” colui che “ha una natura”. Rischieremmo in questo modo di reduplicare l’errore di coloro che, nel secolo scorso, si sono tanto attardati sul “senso” e sull’ “interpretazione del senso” dell’esistenza umana, dimenticando “chi è” l’uomo stesso, il soggetto del senso e dell’esistere. E l’uomo, ci ricordano Wojtyla e Ratzinger all’unisono, è persona. È necessario dunque intrecciare di nuovo virtuosamente i due fili inseparabili della natura e della persona per riaffermare la verità sull’uomo e per poter riuscire nella distinzione diversamente impossibile tra natura del cosmo e natura dell’uomo


DA BEPPINO ENGLARO A CESARE LIA - UN’ONORIFICENZA PER CHI È PADRE NEL SILENZIO - MARINA CORRADI – Avvenire, 11 marzo 2009
N ello stesso giorno in cui il Comu­ne di Firenze ha deciso di confe­rire la cittadinanza onoraria a Beppi­no Englaro, il signor Cesare Lia di Tri­case, in Puglia, ha ricevuto una lettera dall’Inps. La raccomandata chiedeva, col consueto stile anonimo degli uffi­ci pubblici, notizie urgenti sul reddito della figlia di Cesare, Emanuela Lia, 37 anni; altrimenti, si minacciava, le sa­rebbe stata sospesa la pensione di in­validità. Ma Emanuela Lia è dal 1993 in stato vegetativo dopo un incidente. Un’altra Eluana, solo che la sua fami­glia non chiede che possa morire, ma da sedici anni combatte perché viva.
La contemporaneità dei due episodi ­la cittadinanza di Firenze sortita dal voto di una maggioranza risicata e con una spaccatura all’interno del Pd, e la distrattamente spietata lettera dell’In­ps - fa pensare. Al padre che ha com­battuto perché la figlia in stato vegeta­tivo morisse, un’onorificenza. A quel­lo che con la sua famiglia ogni giorno legge brani di libri a Emanuela, e non la lascia mai sola, l’intimazione di un ente burosaurico, viene da dire, tanto cieca e goffa appare quella raccoman­data che pretende il reddito di una donna in coma da 16 anni.
Non è un caso, questa doppia misura. L’incensamento di Englaro, l’onorifi­cenza, sono l’altra faccia della solitu­dine e spesso dell’abbandono in cui vengono lasciate in Italia migliaia di fa­miglie con un malato o handicappato grave in casa. Perché oggi chi vuole 'staccare spine' è funzionale a un cer­to atteggiamento, e allora va in tv; chi invece con coraggio, e spesso con e­roismo, si tiene in casa quel figlio, quel­la madre, non fa notizia. E per di più è lasciato solo ad affrontare Inps, Asl, Co­muni: che scrivono un sacco di racco­mandate, tutti gli anni, come ignoran­do che una donna in stato vegetativo al girare dell’anno non cambia il pro­prio stato. E allora questa differenza di trattamento suona affronto, per citare un termine usato ieri dall’arcivescovo di Firenze, Betori. Affronto magari bi­slaccamente distratto, di certo ideolo­gico, a tutti quelli che il loro caro se lo tengono, se lo curano, sacrificando vi­ta e lavoro, semplicemente perché lo a­mano così, malato com’è.
Il signor Englaro ha detto di sua figlia in un’intervista: 'Ogni volta che la guardavo, avrei spaccato il mondo per la rabbia. (...) La mia creatura era vitti­ma di violenza inaudita, anche se a toc­carla erano le mani delle suore'. E ha condotto fino in fondo la sua batta­glia, nel segno della ribellione al de­stino toccato a sua figlia, e a lui. Ha vinto, a suo modo, ed è diventato un alfiere della libertà - nel senso in cui si intende oggi questa parola. A Firenze l’hanno detto chiaro: Beppe Englaro, in sostanza, è un eroe, o almeno un modello.
E poi ci sono mille Cesare Lia. Le loro storie restano oscure. Che notizia c’è in una malata immobile nel suo letto e a­morevolmente accudita? La notizia ta­ciuta è l’infinita fatica e dedizione, e a­more, che mille e mille italiani dedica­no ai loro cari. Non riceveranno, dalle loro città, alcuna cittadinanza onora­ria. Invece, tanta posta: richieste di cer­tificati, grane, ingiunzioni - la macchi­na della burocrazia che si inceppa e si accanisce.
Con l’onoreficenza di Firenze Englaro è un modello, un maestro. E’, quella pergamena, cosa ben diversa dal mo­strare solidarietà umana o pietà per la sua drammatica storia. Firenze mate­rializza in una sorta di medaglia al va­lore il sentire di una parte del Paese: minoranza forse, però rumorosa. Gli altri, i Lia e quelli come lui, militi ignoti di una paziente oscura guerra, che con­tinuino a combattere, perfino con l’In­ps, senza riconoscimenti. Quella fati­ca, quel dolore che non diventa rab­bia, non piacciono. L’ordine è: stacca­re la spina. E questo tempo si sceglie dunque i suoi eroi.


OBAMA E LE CELLULE STAMINALI EMBRIONALI - Quando il Presidente si appropria della pietà - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 11 marzo 2008
L a politica, si sa, è fatta anche di colpi di teatro. Però se si sta ben attenti, del teatro si vedono anche i trucchi. Quello della firma di ieri apposta dal Presidente Obama al via libera ai finanziamenti pubblici alla ricerca sulle cellule staminali embrionali era un colpo annunciato e preparato da tempo. E ieri si è realizzato con dispiegamento di simboli ed enfasi retorica. Anche se, a ben guardare, è un atto che non inaugura né rivoluziona nella sostanza granché, e solo permette che si usino soldi pubblici per finanziare ricerche su cui grava un problema etico irrisolto.
Le vere rivoluzioni in quel campo le stanno facendo, senza batter la grancassa e senza però trovare ascolto presso i media più influenti, coloro che invece stanno mostrando la possibilità di realizzare tali ricerche senza sacrificare un impressionante numero di esseri umani che, lasciati là nei laboratori o nei congelatori, chiamiamo 'embrioni' e che se invece fossero nella pancia delle nostre donne chiameremmo 'figli'. Ma il Presidente Obama, alle prese con i gravi problemi dell’economia e con l’impossibilità di grandi riforme, ha voluto caricare questo gesto di solennità e, non curandosi troppo delle nuove direzioni della ricerca e forse pressato da potenti lobby, ha tirato fuori la frase a effetto: l’esser uomo di fede lo spinge a far di tutto per alleviare le sofferenze. La frase a effetto, però, non solo non riesce a coprire il durissimo silenzio dei piccoli non nati, ma produce, nell’osservatore attento, anche un contro-effetto ironico. Sì, come capita spesso alle 'trombonate' che lì per lì sembrano persuasive e poi mostrano la loro vacuità. In questo caso, con sincerità – e su questa non ho dubbi – il Presidente motiva con la propria fede la pietà umana. Come dire che se non la si pensa come lui o non si ha fede o non si ha pietà. Un poco pesante, come apprezzamento per chi non ha la sua stessa granitica certezza sulla strada intrapresa dalle grandi industrie Usa. Gli americani, a differenza di noi, sono abituati a presidenti che citano Dio molto spesso. Però chiamare Dio a motivo di scelte discusse su campi in cui la scienza stessa è divisa, è almeno inopportuno. Si affronti piuttosto un dibattito razionale sulla congruità e sulla necessità ed efficacia di tali ricerche. È un po’ la stessa cosa di cui si accusava la Chiesa a proposito di Galileo: la pretesa di indirizzare la scienza in nome di una fede o di una ideologia. Ma a Obama-Bellarmino stranamente nessuno muove rilievi, neppure considerando il non trascurabile fatto che il Presidente vive oggi e il Cardinale nel 1500. Mi sarei aspettato una specie di insurrezione da parte di pensatori e media di cultura laicista di casa nostra. Ma come, un Presidente in carica motiva un atto politico con la sua fede ? E che c’entra, forse chi non ha fede, chi è laico prova meno pietà o meno tensione ad alleviare le sofferenze ?
Invece no, i nuovi vessilliferi dello scientismo (orfani di un -ismo, si abbarbicano subito al più forte sulla piazza) sorvolano, e applaudono, con carinissime copertine dedicate alla 'legge di Superman' come se finalmente si avverasse un sogno di uomo bionico. E plaudono senza mezzi termini, pur se persino l’Unità non può tacere il fatto che sì, la firma teatrale è andata bene, però la partita vera è un’altra, cioè la rottura di ogni limite alla ricerca. Se non che la ricerca che 'sfrutta' gli embrioni trova la dimostrazione dei propri limiti non da Presidenti-Bellarmino, che in nome della fede danno il via o no; bensì da nuove vie di ricerca, più efficaci e meno violente. Il che rende l’enfasi italiana sulla scelta di Obama-Bellarmino un poco posticcia, a favore di una di quelle scene che un tempo sarebbe stata chiamata 'un’americanata'.
Forse gli amici scientisti non se ne sono accorti, o forse sì e per questo plaudono, in nome della scienza ma indipendentemente dallo stato del dibattito sulle cellule staminali: nell’affermazione e nella scelta di Obama non c’è forse una scelta a riguardo della scienza, ma a riguardo di Dio e dell’uso del suo nome. Come se il Dio che sono disposti ad accettare, persino intromesso in leggi e disposizioni politiche, non fosse il creatore dell’uomo, ma la presenza che ha inquietato e creato tragedie silenziose nel secolo delle ideologie: il creatore del Superuomo (traduzione di Superman, no ?).