domenica 29 marzo 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 29/03/2009 12.08.47 - "Non è più l'ora delle parole, è giunta l'ora di Gesù": così il Papa all'Angelus. Il grazie di Benedetto XVI agli africani in Piazza San Pietro – Radio Vaticana
2) L’intolleranza nelle Istituzioni europee e l’autentico bene comune - di Giorgio Salina*
3) Newman e i Padri della Chiesa: un incontro decisivo - Gli amici del quarto secolo che fanno bella ogni stagione - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 28 Marzo 2009
4) La Lettera di san Paolo ai Romani e la storia della salvezza - Il futuro? Conta il presente Quanto deve accadere è già accaduto - "San Paolo: Apocalisse e Rivelazione" è il tema del convegno internazionale di studi che si tiene a Roma il 27 e il 28 marzo promosso dalla Accademia di Francia e dal Centro culturale San Luigi dei Francesi con il sostegno dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni. - di Romano Penna – L’Osservatore Romano, 28 Marzo 2009
5) Teologia e spiritualità nei diari del mistico toscano - Divo Barsotti maestro di volo estremo - di Andrea Fagioli – L’Osservatore Romano 28 Marzo 2009
6) Antropologia cristiana contro nichilismo e derive tecno-scientiste - Il Cardinale Camillo Ruini spiega i fondamenti dell’educazione cristiana - di Antonio Gaspari
7) Rapporto sulla fecondazione assistita - Ma guarda, la legge «crudele» funziona – Avvenire, 28 marzo 2009
8) I DATI MOSTRANO CHE FUNZIONA? I GIORNALI NON NE PARLANO - L’informazione nascosta sul successo della legge 40 - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 29 marzo 2009


29/03/2009 12.08.47 - "Non è più l'ora delle parole, è giunta l'ora di Gesù": così il Papa all'Angelus. Il grazie di Benedetto XVI agli africani in Piazza San Pietro – Radio Vaticana
“Non è più l’ora delle parole e dei discorsi; è giunta l’ora decisiva” in cui il Figlio di Dio dà la vita per l’umanità. E’ quanto ha detto oggi il Papa durante l’Angelus ai tantissimi fedeli accorsi in Piazza San Pietro nonostante la giornata piovosa. Presenti numerosi africani che hanno voluto esprimere la propria gratitudine al Pontefice per il suo sostegno al continente nel recente viaggio in Camerun e Angola. E Benedetto XVI ha parlato con gioia della “significativa esperienza” della sua visita pastorale in Africa. Il servizio di Sergio Centofanti.http://62.77.60.84/audio/ra/00155695.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00155695.RM

Il Papa ha sottolineato “l’emozione profonda” che ha provato “incontrando le comunità cattoliche e le popolazioni del Camerun e dell’Angola”. In particolare lo hanno impressionato due aspetti importanti:


“Il primo è la gioia visibile nei volti della gente, la gioia di sentirsi parte dell’unica famiglia di Dio, e ringrazio il Signore per aver potuto condividere con le moltitudini di questi nostri fratelli e sorelle momenti di festa semplice, corale e piena di fede. Il secondo aspetto è proprio il forte senso del sacro che si respirava nelle celebrazioni liturgiche, caratteristica questa comune a tutti i popoli africani ed emersa, potrei dire, in ogni momento della mia permanenza tra quelle care popolazioni. La visita mi ha permesso di vedere e comprendere meglio la realtà della Chiesa in Africa nella varietà delle sue esperienze e delle sfide che si trova ad affrontare in questo tempo”.

E pensando alle sfide della Chiesa in Africa e nel mondo il Papa rileva l’attualità delle parole di Gesù nel Vangelo odierno: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”:


“Ormai non è più l’ora delle parole e dei discorsi; è giunta l’ora decisiva, per la quale il Figlio di Dio è venuto nel mondo, e malgrado la sua anima sia turbata, Egli si rende disponibile a compiere fino in fondo la volontà del Padre. E questa è la volontà di Dio: dare la vita eterna a noi che l’abbiamo perduta”.


Solo grazie alla morte di Gesù può “germogliare e crescere una nuova umanità, libera dal dominio del peccato e capace di vivere in fraternità, come figli e figlie dell’unico Padre che è nei cieli”:


“Nella grande festa della fede vissuta insieme in Africa, abbiamo sperimentato che questa nuova umanità è viva, pur con i suoi limiti umani. Là dove i missionari, come Gesù, hanno dato e continuano a spendere la vita per il Vangelo, si raccolgono frutti abbondanti. A loro desidero rivolgere un particolare pensiero di gratitudine per il bene che fanno. Si tratta di religiose, religiosi, laici e laiche. E’ stato bello per me vedere il frutto del loro amore a Cristo e constatare e la profonda riconoscenza che i cristiani hanno per essi. Rendiamone grazie a Dio, e preghiamo Maria Santissima perché nel mondo intero si diffonda il messaggio della speranza e dell’amore di Cristo”.


Dopo la preghiera dell’Angelus Benedetto XVI ha invitato i giovani a partecipare giovedì prossimo, alle18.00 in San Pietro alla Messa da lui presieduta nel quarto anniversario della morte di Giovanni Paolo II, in preparazione alla Giornata Mondiale della Gioventù, che sarà celebrata a livello diocesano nella Domenica delle Palme. Ha quindi ricordato che il 2 aprile si celebrerà la Giornata Mondiale dell’Autismo. E infine ha salutato “con grande affetto” i numerosi africani che vivono a Roma, tra cui molti studenti, presenti in Piazza San Pietro, accompagnati da mons. Robert Sarah, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli:


“Carissimi, avete voluto venire a manifestare gioia e riconoscenza per il mio viaggio apostolico in Africa. Vi ringrazio di cuore. Prego per voi, per le vostre famiglie e per i vostri Paesi di origine. Grazie!”
(applausi)


L’intolleranza nelle Istituzioni europee e l’autentico bene comune - di Giorgio Salina*
BRUXELLES, venerdì, 27 marzo 2009 (ZENIT.org) - Nelle settimane precedenti, in questa stessa rubrica abbiamo dato conto dei gravi episodi d’intolleranza che i cosiddetti tolleranti riservano alla Chiesa, al Santo Padre e, in sintesi, alla visione dell’uomo e della società della tradizione cattolica, consegnataci dalla Dottrina sociale.
Gli episodi di intolleranza hanno avuto una nuova conferma, se ce ne fosse stato ancora bisogno, dalle inconsulte e “stizzite reazioni alle parole del Papa dei Governi di Francia, Germania, Belgio, Spagna, della Commissione Europea, di dirigenti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e del Fondo Monetario Internazionale”, come ha scritto Sandro Magister.
Dobbiamo notare che l’esperienza insegna davvero poco a questi intolleranti: dal discorso tenuto nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, il 12 settembre 2006, le scomposte ed enfatiche reazioni immediate alle parole del Papa, si sono sempre rivelate un boomerang. Una maggiore riflessione e “comprensione” del pensiero di Benedetto XVI ha sempre dimostrato l’infondatezza delle prime considerazioni istintive, superficiali e succubi del politically correct, che si crede faccia acquisire consenso. Studiosi, “laici e liberal”, come loro stessi si definiscono, che mai sarebbero intervenuti in questo dibattito, hanno dichiarato pubblicamente: «Il Papa ha ragione!».
Possiamo immaginare personaggi pubblici che dichiarino a giornali e televisioni «non se ne può più di questa Merkel, o di questo Gordon Brown, oppure di questo Sarkozy»? Quanto rimarrebbero al loro posto? Invece se lo dicono del Santo Padre, non solo restano al loro posto, ma in un primo momento possono anche aumentare la loro popolarità. In Europa soprattutto è uno sport molto praticato, con comportamenti davvero squallidi, perché, come rilevò sprezzante Stalin alla conferenza di Yalta, il Papa non ha divisioni al Suo comando.
In questo clima relativista delle Istituzioni europee, che nega “la verità”, che considera equivalenti tutte le opinioni, dove, come si è ulteriormente constatato, si manifesta la più assoluta intolleranza di coloro che si autodefiniscono tollerranti, si rivela tutta l’urgenza di una sana ed autentica laicità. Ma sia chiaro, non per garantire uno spazio alla cultura cattolica, alla visione cattolica dell’uomo e della società, questa sarà una conseguenza necessaria, ma per consentire l’autentica ricerca del “bene comune” scopo di tutte le Istituzioni politiche.
Come ha affermato recentemente il Cardinale Angelo Scola: «Nell’enciclica Deus Caritas Est, al numero 28, Benedetto XVI sostiene come la Chiesa non può e non deve prendere in mano la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. (…), affrontare l’azione politica come tale non è compito dei Pastori della Chiesa. Il compito immediato di operare per un giusto ordine della società è proprio dei fedeli laici». “Giusto ordine”, bene comune: unico scopo dell’azione politica, forma esigente di carità, come la definì Paolo VI, sono responsabilità dei fedeli laici, ma anche di tutti coloro, di qualsiasi cultura, che abbracciano questa modalità di servizio ai propri simili.
«Punto di partenza per questo nuovo impegno dei cristiani è una necessaria rivalutazione del concetto di laicità: “vi è l’urgenza di pensare una nuova laicità che garantisca l’espressione delle più profonde credenze di tutti. Per questo va individuato uno spazio in cui tutti i soggetti possano raccontare le loro esperienze di vita in vista di un riconoscimento”. Ai fedeli laici deve essere quindi permesso di rendere ragione della fecondità pubblica e sociale della loro fede. Testimoniare in ogni ambito le proprie convinzioni non lede i diritti di nessuno: ognuno proponga la sua visione, altrimenti è togliere qualcosa al bene comune». Contenuti di questa laicità sono i beni spirituali e materiali che ogni uomo interpreta e vive secondo la propria esperienza, raccontandoli perché siano riconosciuti.
Ed ecco qui di seguito il passaggio fondamentale che vogliamo sottoporre all’attenzione di tutti, non solo dei cattolici, perchè rappresenta una precondizione per un utile confronto, altrimenti improponibile: «Si mette così in moto la ricerca del “compromesso nobile”, da perseguire avendo sempre la coscienza che la convivenza civile è raggiungibile solo a mezzo di sacrifici. L’azione politica si situa così nell’orizzonte proposto dall’allora cardinale Ratzinger: “essere sobri, attuare ciò che è possibile e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile”. La verità è invece che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità, dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale, quindi, il moralismo dell’avventura, lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo».
Senza un serio e rispettoso confronto di tutte le posizioni non è possibile il “compromesso nobile” necessario alla nostra società, non ai cristiani, a tutta la società! L’intolleranza presente nelle Istituzioni europee ed internazionali rende impossibile esattamente questo: il compromesso nobile, cioè la ricerca dell’autentico bene comune.
Solo un autentico spazio in cui tutti i soggetti possano raccontare le loro esperienze di vita in vista di un riconoscimento, garantisce la libertà e la democrazia, cioè quel terreno di coltura in cui la politica dà il meglio di sè. Questo è un’altro argomento sul quale confrontarsi e giudicare i Candidati di ogni schieramento.
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* Giorgio Salina è Presidente dell’Associazione Fondazione Europa


Newman e i Padri della Chiesa: un incontro decisivo - Gli amici del quarto secolo che fanno bella ogni stagione - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 28 Marzo 2009
Il 13 marzo 1864, domenica di Passione, alle sette del mattino, nel Testamento scritto in attesa della morte, Newman dichiarava: "Affido l'anima mia e il mio corpo alla Santissima Trinità e ai meriti e alla grazia di nostro Signore Gesù, il Dio Incarnato; all'intercessione e alla compassione della nostra cara madre Maria; a san Giuseppe; a san Filippo, mio padre, padre di un figlio indegno; a san Giovanni evangelista; a san Giovanni Battista; a sant'Enrico; a sant'Atanasio, a san Gregorio di Nazianzo; a san Giovanni Crisostomo e a sant'Ambrogio. L'affido altresì a san Pietro, a san Gregorio i, a san Leone e al grande apostolo san Paolo". Non sorprende che nell'attesa della morte - che sarebbe sopravvenuta più di un quarto di secolo dopo, nel 1890 - Newman si affidasse alla Santissima Trinità, a Gesù Cristo, a Maria e a Giuseppe, a san Filippo Neri, fondatore degli oratoriani - ai quali apparteneva, e del quale era devotissimo - a san Giovanni Battista e agli apostoli Giovanni, Pietro e Paolo, e a sant'Enrico, del quale, con quello di Giovanni, portava il nome. Non è però neppure sorprendente - ma molto significativo - che, dopo aver "passato la sua vita nell'intimità dei Padri" (Henri Brémond), Newman si affidasse in morte a quei padri e dottori che rappresentavano ai suoi occhi la gloriosa Chiesa antica: dopo la frequentazione durante tutta la sua vita, a partire dall'adolescenza, non poteva, certo, dimenticarli in morte. Essi erano stati "le sorgenti della sua conversione e della sua vita interiore" (Denis Gorce); li aveva cantati nelle sue più belle liriche; li aveva raccolti con premurosa devozione, in edizioni raffinate, nella sua biblioteca, per stare con loro; li aveva studiati a lungo e con entusiasmo: non poteva dubitare che si sarebbero presentati ad accoglierlo sulla soglia dell'eternità. L'incontro di Newman con i Padri, con "queste prime luci della Chiesa", come egli li chiama, fu un incontro precoce. Era il 1816, quando questo "sublime inquieto" (Gorce) sperimentò - lo scrive nell'Apologia pro vita sua - "un grande rivolgimento di pensieri", incominciando "a subire l'ascendente di un credo ben definito" e ad accogliere "nella mente certe impressioni sul dogma che, per la grazia di Dio, non sono mai più scomparse né sbiadite". La storia dei Padri diviene allora, in certa misura, la storia di Newman. E il pensiero va a quello che per lui aveva significato lo studio degli "amici del secolo iv", "il secolo di elezione di Newman", nel quale egli "si trova tutt'intiero" e che è "il suo luogo intellettuale (...) il paesaggio dell'anima che porta nel proprio intimo e trasfigura le sue giornate" (Gorce) - e va al Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, che si concluderà con la scelta dolorosa e doverosa, e insieme gioiosa e liberante, della conversione alla Chiesa cattolica, quando, proprio alla scuola dei padri, sentì sciogliersi l'ostacolo che lo teneva lontano da essa.
Dal dicembre 1832 al giugno 1833 Newman avrebbe compiuto il celebre viaggio nel Mediteranno da cui resterà incantato. Quelle acque, scriverà alla madre il 19 dicembre 1832, gli ricordavano Atanasio, che le aveva attraversate - "Qui il grande Atanasio viaggiò verso Roma" - e lo avvicinavano alle terre dei padri greci, e particolarmente dei "suoi Cappadoci". Il loro ricordo si trasfigura allora in poesia: la poesia che, d'altronde, anima tutta l'opera di Newman. A bordo della Hermes, tra Zante e Patrasso, Newman canta i Padri greci, "la pagina variegata, tutta splendore di Clemente", "e Dionigi, guida saggia nel giorno del dubbio e della pena", "e Origene dall'occhio d'aquila", e, dopo Basilio, - col suo "alto proposito di colpire l'eresia imperiale" - "la grazia divinamente insegnata del Nazianzeno", e "Atanasio dal cuore regale", che altrove definirà "instancabile Atanasio"; mentre un'intera poesia sarà dedicata a Gregorio di Nazianzo. Né meno poeticamente ispirato è un brano di prosa del saggio sul Crisostomo, dove quattro dottori della Chiesa sono paragonati alle quattro stagioni: "(Basilio) somigliava a una calma, mite, composta giornata d'autunno; san Giovanni Crisostomo era invece una giornata di primavera, luminosa e piovosa, splendida fra sprazzi di pioggia. Gregorio era l'estate piena, con un lungo intervallo di dolce quiete; la sua monotonia era interrotta da lampi e tuoni. E sant'Atanasio ci dà l'immagine dell'inverno rigido e accanito, con i suoi venti violenti, i terreni incolti, il sonno della grande madre, e in cielo le stelle luminose".
"I Padri mi fecero cattolico": Newman stesso lo dichiara a Edward B. Pusey. Questi aveva criticato il culto cattolico a Maria, ritenendolo uno sviluppo anomalo della pietà cristiana e un grave ostacolo per l'intesa degli anglicani coi cattolici, e Newman nella nota lettera a Pusey risponderà: "Non mi vergogno di basarmi sui Padri, e non penso minimamente di allontanarmene. La storia dei loro tempi non è ancora per me un vecchio almanacco. I Padri mi fecero cattolico (The Fathers made me a Catholic), ed io non intendo buttare a terra la scala con la quale sono salito per entrare nella Chiesa".
E, dopo aver terminato The Church of the Fathers, scriverà: "La mia Chiesa dei Padri è ora terminata. È il libro più bello - the prettiest book - che io abbia scritto. E non c'è da sorprendersi, dal momento che si compone tutto di parole e di opere dei Padri".
È lui stesso a riferire quanto si diceva: "Intorno a noi da ogni parte si alzavano voci, a gridare che i Tracts e gli scritti dei Padri ci avrebbero portato al cattolicesimo prima che ci avvedessimo" e a ricordare il suo prosternarsi "con amore e venerazione ai piedi di coloro - sta parlando dei padri calcedonesi - la cui immagine ebbi sempre davanti agli occhi e le cui armoniose parole risuonarono sempre al mio orecchio e sulle mie labbra". Si viene drammaticamente accorgendo che l'antica ortodossia patristica e conciliare continuava nella Chiesa di Roma, e la sua coscienza gli imponeva di prendere la decisione coerente: "Se sant'Ambrogio e sant'Atanasio tornassero all'improvviso in vita - scrive nello Sviluppo della dottrina cristiana - non vi ha dubbio quale confessione riconoscerebbero come la loro". Commenta con finezza il Gorce: "Newman non ha che da cantare il Nunc dimittis (...) Dopo essere stati gli strumenti della sua agonia, i Padri sono diventati finalmente gli artefici della sua risurrezione".
Newman stesso nell'Apologia pro vita sua ricorderà come nella stesura de Gli ariani del iv secolo i Padri abbiano via via influito su di lui. Così, scrive: "La vasta filosofia di Clemente e Origene mi entusiasmò (...) Certe parti del loro insegnamento, di per sé magnifiche, mi giungevano come una musica nell'orecchio della mia anima, quasi fossero la risposta a idee che, con ben poco incoraggiamento all'esterno, io accarezzavo da tanto tempo".
Fatto quindi cattolico, Newman affermerà che la lettura dei Padri era per lui fonte di "delizia"; egli li sentiva e li considerava come suoi familiari. Alcuni di essi erano i suoi "vecchi amici del secolo iv". Gli scritti dei padri erano i suoi "archivi di famiglia".
"Mi ricordo bene - scrive Newman - come, entrato finalmente nella comunione cattolica, baciavo i volumi di sant'Atanasio e di san Basilio con delizia, con la percezione che in essi ritrovavo molto di più di quello che avevo perduto, e come dicevo a queste pagine inanimate, quasi parlando direttamente ai gloriosi santi che le hanno lasciate in eredità alla Chiesa: "Ora, senza possibilità alcuna di errore, voi siete miei, e io sono vostro"".
I Padri - è l'osservazione del geniale Brémond - sono rievocati da Newman non come figure definitivamente perdute nel passato, ma come suoi veri contemporanei: "Poeta, veggente, la Chiesa dei Padri gli è presente e familiare quanto i suoi amici di Oxford e di Birmingham", così come "Ciro, in cui Teodoreto vive in esilio, "uggiosa, banale, con la sua popolazione insignificante", è Birmingham. Antiochia, l'elegante e la raffinata, ora che Alessandria ha perso il suo Atanasio, Antiochia è Oxford".
"Sempre il ricordo dei Padri - annota il Gorce - dorme in fondo alla sua anima, pronto a rivivere e a manifestarsi. Passando a Milano, nel recarsi a Roma, (...) egli si sentirà perfettamente at home nella grande città patristica". Newman aveva scritto: "Questo è il luogo più meraviglioso (...) Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu sant'Ambrogio, sant'Agostino, santa Monica, sant'Atanasio".
D'altronde, Newman non accostava i padri in modo astratto, unicamente interessato, da storico e da teologo, allo studio della loro dottrina, ma al fine - sono le sue parole - di penetrare nella loro "vita reale, nascosta, ma umana o, come si dice, l'"interno" di queste gloriose creature di Dio".
(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2009)


La Lettera di san Paolo ai Romani e la storia della salvezza - Il futuro? Conta il presente Quanto deve accadere è già accaduto - "San Paolo: Apocalisse e Rivelazione" è il tema del convegno internazionale di studi che si tiene a Roma il 27 e il 28 marzo promosso dalla Accademia di Francia e dal Centro culturale San Luigi dei Francesi con il sostegno dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni. - di Romano Penna – L’Osservatore Romano, 28 Marzo 2009
Nella Lettera ai Romani Paolo impiega quattro volte lo specifico lessico di rivelazione, e lo fa di volta in volta con tutti e tre i verbi tipici di questo campo semantico: apokalýpto/"disvelo" (impiegato due volte), faneròo/"manifesto", en-deìknymi/"mostro".
In 1, 17 si legge che nell'evangelo "si rivela", apokalýptetai, la giustizia di Dio. Successivamente, in 3, 21, Paolo scrive che questa stessa giustizia di Dio "si è manifestata", pefanèrotai, nel sangue di Cristo (cfr. 3, 25). Più avanti in 8, 18 leggiamo che nel futuro escatologico si rivelerà (apokalyfthènai) la gloria dei figli di Dio (cfr. 8, 23) assieme al rinnovamento del cosmo. Infine in 9, 17, utilizzando un riporto da Esodo 9, 16 LXX, è scritto che Dio aveva suscitato il Faraone con lo scopo di "mostrare" (endeìxomai) in lui la propria potenza perché venisse annunciato il suo nome in tutta la terra. Come si vede, la cadenza cronologica considerata sul piano grammaticale consiste nell'uso, innanzitutto, di un verbo al presente, poi di un verbo al perfetto, di un infinito aoristo passivo, e infine di un congiuntivo aoristo attivo, sicché nel primo caso si richiama un fatto continuamente posto in essere, nel secondo si rimanda a un evento del passato che perdura tuttora nei suoi effetti, nel terzo si allude a un avvenimento futuro, e nel quarto si formula una intenzionalità di principio posta all'origine di un progetto divino.
È ben chiaro che questa successione e variazione lessicale tocca quattro momenti storico-salvifici diversi. In effetti, Paolo parte dal presente dell'annuncio evangelico, passa per l'evento della morte di Cristo, prospetta una consumazione finale, e infine risale indietro fino alla elezione di Israele connessa con l'esodo. Secondo la logica temporale, però, bisognerebbe risistemare e in buona parte addirittura invertire la successione dei momenti, e partire dalle antiche circostanze dell'esodo per arrivare alla morte di Cristo ("nel kairòs presente": 3, 26) e sfociare infine nell'attuale impegno evangelizzatore proprio della Chiesa, per culminare poi nell'orizzonte escatologico. Tuttavia, l'impostazione argomentativa di Paolo è assai originale e sintomatica, poiché non è di tipo trattatistico-didascalico ma storico-esistenziale. E qui vogliamo onorarla per se stessa, esaminandone le componenti strutturali. Paolo in Romani 1, 17 formula quella che in retorica è qualificabile come propositio, cioè enunciazione tematica, dell'intera lettera. Egli parte dal fatto che c'è una prima rivelazione divina, a cui l'uomo è subito confrontato. Essa non appartiene a un passato che sfugge alla nostra percezione immediata e soprattutto non a un passato consegnato solo alla memoria, o peggio ancora a una mera sedimentazione scritta. Al contrario, a lui interessa partire da una esperienza sempre possibile e verificabile, basata sul continuo annuncio dell'euagghèlion. È in esso che appunto "si rivela", apokalýptetai, un particolare tipo di giustizia di Dio, che nel contesto va intesa come sinonimo di misericordia. L'annuncio di Cristo, perciò, rappresenta una vera, anzi la vera "apocalisse" di Dio. La scelta del verbo lascia intendere che Paolo non pensa a una rivelazione qualunque; ogni volta che vi ricorre nelle sue lettere è per affermare qualcosa di escatologico o comunque di origine divina, quindi di assolutamente incisivo. L'idea di rivelazione viene ripresa in 3, 21. Paolo ne precisa maggiormente i contorni, cominciando col dire che della giustizia salvifica di Dio non bisogna attendere una rivelazione futura, poiché la sua manifestazione è già avvenuta: "si è manifestata" (pefanèrôtai). Per la verità, il tempo verbale impiegato da Paolo ha una semantica complessa; in greco, infatti, esso ha due connotazioni: una che riguarda il passato, con rimando a un evento già verificatosi, e un'altra che concerne il presente, in quanto l'evento già compiutosi precedentemente viene ricordato nelle sue ricadute attuali tuttora vive - in questo caso: la giustizia di Dio "è manifesta". La traduzione nelle nostre lingue comporta inevitabilmente di sacrificare una delle due componenti. Se qui scegliamo di tradurre con il passato è per due ragioni ben precise. La prima è che nel successivo verso 25, venendo concretamente al dunque, Paolo collocherà esplicitamente questa manifestazione in un atto di Dio compiuto nel passato (proètheto, "ha presentato"). La seconda è che il presente era già stato inequivocabilmente impiegato in 1, 17 - sia pur con l'utilizzo di un altro verbo: apokalýptetai - per connotare una rivelazione attuale della stessa giustizia di Dio, in quanto essa avviene oggi nell'annuncio evangelico. Proprio questo confronto con 1, 17 arricchisce enormemente il tema paolino della giustizia di Dio. Essa infatti conosce due momenti distinti e insieme complementari della sua dimostrazione: uno nell'effusione storica del sangue di Cristo, l'altro quando quell'evento si fa semplice parola nell'annuncio. Questa manifestazione, secondo Paolo, avviene storicamente nel sangue di Cristo, proposto da Dio come hilastèrion, cioè come strumento o luogo di espiazione per i peccati degli uomini, e quindi come luogo di redenzione. Proprio i concetti di redenzione (in 3, 24) e di espiazione (in 3, 25), pur di diversa provenienza semantica, costituiscono la materia della manifestazione-rivelazione della iustitia salutifera di Dio, la quale ormai non è più reperibile nella Legge e tantomeno nella sua osservanza. Passiamo ora a Romani, 8, 18 dove si legge: "Penso infatti che le sofferenze del tempo presente non hanno peso in confronto con la gloria futura che sarà rivelata per noi (pròs tèn mèllousan dòxan apokalyfthènai eis hèmas)". Questa dichiarazione è suggerita e richiesta dalla conclusione del precedente verso 17, concernente l'idea di una eredità futura che andrà ben oltre l'attuale situazione storica. Avviene così ciò che si era già verificato con la propositio generale di 1, 16-17 sul concetto di evangelo, che si agganciava all'idea di evangelizzazione enunciata nella conclusione del precedente 1, 15 (cfr. commento). Ma ora l'apertura della frase con "Penso infatti" (logìzomai gàr) è più solenne (cfr. l'assioma enunciato in 3, 28: logizòmetha gàr), cioè corrisponde alla formulazione di un principio assiomatico, che esprime una convinzione forte e importante (cfr. anche 2 Corinzi, 11, 5). L'assioma è incentrato sulla contrapposizione tra le sofferenze attuali e la gloria futura. Viene perciò stabilito un paragone tra due esperienze contrastanti, che caratterizzano rispettivamente due diversi momenti successivi, per negarne ogni equivalenza. Ed è ben possibile che dietro la frase di Paolo ci sia una obiezione, la quale, facendo prevalere l'attuale esperienza di sofferenza dei cristiani, metta in discussione la possibilità stessa di una gloria futura. La formulazione circa i due stadi temporali successivi e contrapposti evoca la dottrina dei due eoni, propria dell'apocalittica giudaica (cfr. anche 1 Corinzi, 7, 31). Per Paolo, dunque, da una parte c'è "il momento presente", che sta a indicare non soltanto il periodo compreso tra la prima e la seconda venuta di Cristo quanto anche in senso più generale l'attuale esperienza storica dell'uomo e del cristiano nel mondo presente in quanto contrasta con quello futuro. Dall'altra, poi, c'è "la gloria futura", che rimanda oltre l'attuale periodo di sofferenze a un orizzonte di splendore, e che giustifica l'attuale esperienza di afflizione. Lo stesso schema si ritrova in 2 Corinzi, 4, 17-19: "Il temporaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, poiché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili; le cose visibili infatti sono momentanee, quelle invisibili invece sono eterne". Ovviamente, ai due momenti si accompagnano due situazioni contrarie: rispettivamente, le sofferenze e la gloria. Il primo termine, pathèmata, è tipico del lessico paolino, visto che nel Nuovo Testamento è attestato preferibilmente nel suo epistolario (nove volte su sedici), e indica sia le sofferenze apostoliche sia quelle comuni a tutti. Il secondo, dòxa, che nel Nuovo Testamento è preferibilmente impiegato per designare la gloria propria di Dio, assume qui una interessante connotazione antropologica come sinonimo di splendore, dignità, onore, piena riuscita di sé in quanto acquisizione umana. Il fatto che Paolo non parli solo di felicità o di beatitudine (cfr. 4, 6) dice che la sua prospettiva riguarda l'uomo tutto intero, compresa la sua trasformazione fisica. Perciò il verbo "rivelare" viene a significare una affermazione o manifestazione in pienezza di questa dimensione, che il passivo suggerisce prodotta da Dio. Abbiamo infine la presenza del concetto di rivelazione/manifestazione in Romani 9, 14-23 con la presenza del verbo en-deìknymi nel verso 17. Bisogna riconoscere che abbiamo qui delle affermazioni piuttosto dure per quanto riguarda la libertà umana, come si vede nei versi 15-18 e poi nella metafora di Dio come vasaio con la corrispondente distinzione tra "vasi d'ira" e "vasi di misericordia". Il tema della libertà umana viene sostanzialmente taciuto; ma non bisogna perdere di vista la spiegazione di questo silenzio, derivante dall'insieme dell'argomentazione paolina e consistente nel fatto che l'Apostolo intende piuttosto rispondere al problema concernente la libertà di Dio e delle sue scelte, per dire che egli nel suo agire è del tutto indipendente e non condizionato. È dunque quanto mai evidente la forte sottolineatura di un radicale "teo-archismo" nei rapporti Dio-uomo; ma, in ogni caso e ancora una volta, ci si riferisce a Dio in quanto indulgente e non in quanto punitore. Il verso 17 offre una nuova risposta al problema della libera elezione di Dio, mediante il riporto di un altro passo biblico: "Dice infatti la Scrittura al Faraone: "Proprio per questo ti ho suscitato, perché (Io) possa mostrare in te la mia potenza (hòpos endeìxomai en soì tèn dýnamìn mou) e perché il mio nome possa essere divulgato su tutta la terra"". Nonostante alcune variazioni, il testo biblico corrisponde sostanzialmente a quello greco di Esodo 9, 16 LXX. Il senso proprio è che il Faraone, nonostante la sua opposizione a Israele e al piano divino di sottrarlo alla schiavitù, funziona comunque nelle mani di Dio come uno strumento positivo che serve ai suoi disegni. Infatti, nella misura in cui la sua ostinata resistenza venne finalmente vinta (cfr. il racconto in Esodo, 5-14, che comprende anche le dieci piaghe scatenate sull'Egitto), il nome di Dio risultò ancora più glorioso (vedi il canto di Mosè in Esodo, 15, 1-21). Lo scontro infatti è direttamente tra Dio e il Faraone, tanto che il nome di Mosè viene addirittura taciuto; il complemento "in te" evidenzia bene il ruolo svolto dal Faraone in persona. Qualcosa di analogo avverrà per un altro devastatore di Israele, Nabucodonosor, che Geremia qualificherà addirittura come "servo" di Dio in senso positivo, cioè in quanto servì comunque per portare a termine i suoi disegni. Si delinea così un abbozzo di teologia della storia, secondo cui in ultima analisi è Dio che guida gli avvenimenti umani; e ancora una volta egli viene preposto a ogni decisione presa dall'uomo, persino a quelle apparentemente negative. Infatti il congiuntivo aoristo endeìxòmai esprime un proposito personale di Dio (infatti è Lui che parla) consistente appunto nell'intento di "mostrare", quasi di far toccare con mano, comunque ancora una volta di manifestare/rivelare apertamente, la sua irresistibile conduzione degli avvenimenti. In questo caso è evidente che il riferimento viene fatto al passato dell'esodo di Israele dall'Egitto, quando appunto Dio rivelò la sua grandezza. I cristiani vengono così ricondotti al mistero di Israele come popolo dell'alleanza, sul quale i Gentili vengono innestati per grazia. In conclusione possiamo almeno rilevare il fatto che Paolo non utilizza il lessico di rivelazione per applicarlo al futuro. La frase "La notte è avanzata, il giorno si è avvicinato", anche se riprende la metafora del risvegliarsi dal sonno di fatto non impiega alcun linguaggio "apocalittico". Il parallelo più eloquente lo leggiamo nello stesso Paolo: "Voi, fratelli, non siete al buio, cosicché il giorno vi sorprenda come un ladro; tutti voi infatti siete figli della luce e figli del giorno. Non siamo della notte né del buio. Perciò non dormiamo come gli altri, ma stiamo svegli e sobri. Quelli che dormono infatti dormono di notte e quelli che si ubriacano si ubriacano di notte. Ma noi, essendo del giorno, restiamo sobri" (1 Tessalonicesi, 5, 4-7). Là però manca il dinamismo del passaggio dalla notte al giorno, che invece caratterizza il nostro testo. Evidentemente qui la prospettiva è diversa: Paolo sottolinea, non un passaggio già avvenuto, ma un passaggio ancora a venire. La notte, inserendosi sulla precedente immagine del sonno, diventa figura del presente tempo storico, non solo in quanto transeunte, ma soprattutto in quanto imperfetto e insidioso: non in se stesso, ma in quanto orientato a un ulteriore superamento di ogni imperfezione (cfr. 1 Corinzi, 13, 12). È di questo decorso temporale che si attende la fine, peraltro con la certezza che esso è già in fase quanto mai avanzata. L'affermazione perciò ha il tono rassicurante di una buona notizia. Proprio la dinamica della successione dei due momenti, dove la certezza di una prossima uscita dalla notte equivale a quella di una prossima irruzione del giorno, occasiona l'esortazione a trarne le conseguenze sul piano etico. Resta il fatto che Paolo predilige sostanzialmente il tempo storico, sia del passato sia del presente, come luogo privilegiato per l'affermarsi della rivelazione di Dio e della manifestazione di ciò in cui consiste l'identità cristiana.
(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2009)


Teologia e spiritualità nei diari del mistico toscano - Divo Barsotti maestro di volo estremo - di Andrea Fagioli – L’Osservatore Romano 28 Marzo 2009
Un eroismo puramente umano non può certo bastare perché l'uomo giunga all'atto di fede: l'impegno dell'uomo può divenire efficace solo nella misura in cui è il frutto dell'azione di Dio. Per questo don Divo Barsotti parla spesso della fede come del più grande miracolo compiuto da Dio e come la cosa più importante nella vita di un uomo, "perché l'unica cosa importante nella vita è credere". E come nell'antico canto di Anna nel primo libro di Samuele "il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire", così la lettura dei diari di don Barsotti, l'ultimo mistico del Novecento, ci fa morire e ci fa vivere, ci porta agli inferi e poi ci fa risalire, ci chiede di calarci dentro l'abisso del cuore umano e allo stesso tempo in quello dell'inafferrabile e imperscrutabile grandezza di Dio e del suo amore per gli uomini. Barsotti scrive i suoi diari sospeso sull'orlo di questo duplice abisso, affacciato su due vertiginosi baratri: è solo la fede in Gesù Cristo che gli permette di non precipitare e di non venire inghiottito dalla voragine che si apre sotto di lui. Lo rivela il paziente e amorevole studio di un suo giovane discepolo, padre Stefano Albertazzi, monaco della Comunità dei figli di Dio, che si è avventurato con competenza e passione nei tesori spirituali dei 19 volumi dei diari di don Barsotti fin qui pubblicati a copertura di circa sessant'anni della sua esistenza, dal 1941 al 1997. Nato a Palaia in provincia di Pisa e diocesi di San Miniato il 25 aprile 1914 e morto a Settignano in provincia e diocesi di Firenze il 15 febbraio 2006, Divo Barsotti ha sempre affidato le sue riflessione, le sue preghiere, ma anche le sue inquietudini alle pagine di un diario. I suoi primi manoscritti risalgono al 1933 e sono continuati, a parte qualche breve periodo di interruzione, fino agli ultimi mesi del 1999. Stefano Albertazzi (bolognese, 37 anni, sacerdote dal 2003) ci ha lavorato giorno e notte per un paio di anni e ora quasi non crede quando sfoglia le oltre quattrocento pagine di questo suo Sull'orlo di un duplice abisso (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2009, pagine 456, euro 23) il cui sottotitolo specifica: "Teologia e spiritualità monastica nei diari di Divo Barsotti". Il fondatore della Comunità dei figli di Dio viveva il terrore dell'uomo che sta per precipitare nell'abisso: "Noi cerchiamo di dimenticarlo ma viviamo questo, perché c'è la morte e, nella morte, questo abisso che è come il nulla. Invece, ecco Dio: Lui ti porta sulle sue ali. C'è l'abisso - sì, anche quando c'è Dio c'è l'abisso - ma tu sei portato sulle ali dell'aquila... Ecco la vita dell'anima: si vola sopra gli abissi e si va verso Dio, come l'aquila va verso il sole". Diviso essenzialmente in tre parti, il volume di Albertazzi si propone innanzitutto di far conoscere il profilo biografico di Barsotti, le questioni principali legate al genere letterario del diario e la particolare concezione del monachesimo, quello "interiorizzato", "nel mondo", mediato dai mistici e scrittori russi, primo fra tutti Dostoevskij. "Io - scriveva Barsotti - credo che in fondo la vocazione di tutti noi sia molto grande anche se è semplice: è una vocazione monastica vissuta nel mondo, una vocazione a un monachesimo interiorizzato, per adoperare il linguaggio di Pavel N. Evdokimov, il quale tenta con questa parola di definire quello che profeticamente Dostoevskij sentiva come la testimonianza che il cristianesimo avrebbe dovuto dare nei prossimi tempi all'umanità". Per Barsotti il monachesimo sembra dunque coincidere con il cristianesimo tout court, un cristianesimo monastico appunto. E in questo senso, spiega Albertazzi, "la novità della visione monastica di Barsotti è innegabile". "Finora nessuno aveva concentrato la propria attenzione in modo così sistematico e coscienzioso sui diari", afferma padre Jeremy Driscoll, del Pontificio Ateneo Sant'Anselmo a Roma, che firma la prefazione al volume.
"La parola del diario - spiega ancora Albertazzi - è prima di tutto autobiografica, ma nello stesso tempo è teologia, mistica, preghiera, riflessione sulla vita della Chiesa e del mondo".
Barsotti amava leggere e rileggere i suoi diari, annotando in essi le sue impressioni. Nel diario del 1981 lui stesso confessava che niente di più del diario lo aiutava nella preghiera, "in modo particolare il Diario L'acqua e la pietra. Non so se per il valore oggettivo o il fatto che in quelle pagine ritrovo me stesso, non certo quello che sono ma quello che dovrei essere". Da qui i tanti temi che attraversano i diari: la fede, la preghiera, il peccato, la conversione, la tensione escatologica, la morte, ma anche l'estraneità.
"Barsotti - scrive Albertazzi - ha sempre avuto un'acuta percezione del dramma dell'incomunicabilità umana, vedendo in essa una delle cause principali dell'estraneità. Egli richiama più volte l'attenzione sul paradosso dell'uomo moderno che, in un mondo inebriato davanti ai prodigi operati dai mezzi di comunicazione, vive una radicale difficoltà nel relazionarsi con gli altri. In un mondo che si illude di avere ormai raggiunto la propria maturità, non è tanto Dio ad essere divenuto inaccessibile, ma l'uomo".
Alla fine del lungo percorso attraverso i diari, padre Stefano riesce ad offrire al lettore un ritratto fedele di Divo Barsotti, "un uomo - come dice l'autore del volume - che ci appare sospeso sull'orlo di un duplice abisso, segnato dall'esperienza della lotta, della fuga e dell'estraneità; un uomo fondamentalmente solo, letteralmente assorbito nel suo rapporto con Dio, eppure capace allo stesso tempo di creare intorno a sé una comunità, attirando attraverso i suoi scritti e la sua predicazione l'interesse di numerosi discepoli, molti dei quali hanno affermato di aver incontrato in lui un padre; un uomo - soprattutto - che nel suo rapporto con Gesù Cristo ha saputo trovare il fulcro insostituibile della sua esistenza e che è riuscito sempre a riportare a tale rapporto tutta la sua complessa e travagliata vicenda umana".
(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2009)


Antropologia cristiana contro nichilismo e derive tecno-scientiste - Il Cardinale Camillo Ruini spiega i fondamenti dell’educazione cristiana - di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 27 marzo 2009 (ZENIT.org) - Nella prolusione al IX Forum del Progetto culturale, in corso a Roma, sul tema “L’emergenza educativa. Persona, intelligenza, libertà, amore”, il Cardinale Camillo Ruini ha spiegato che nichilismo e riduzionismo tecnocratico possono essere superati solo con l’antropologia cristiana.
Venerdì 27 marzo, presso il Centro Villa Aurelia, il Presidente del Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha osservato che pur non indulgendo “ad un globale e unilaterale pessimismo” è evidente “la gravità e acutezza” della crisi del progetto educativo.
Il porporato ha ripreso un intervista del prof. Salvatore Natoli in cui si sostiene che “la situazione di questi ultimi anni corrisponde in qualche misura a quel tipo di soggettività e di rivoluzione che propugnava de Sade, basata sul trionfo delle pulsioni individuali piuttosto che su un ideale di regolamentazione razionale”, al punto tale che “molti praticano normalmente la perversione, perché ritengono di avere il diritto su tutto”.
Secondo il Cardinale Ruini, ha ragione il Pontefice Benedetto XVI quando riconduce l’emergenza educativa “al relativismo che permea la nostra cultura e vita sociale”, ed essendo stretta la parentela tra nichlismo e relativismo “è quindi il nichilismo la decisiva causa culturale del malessere diffuso tra la gioventù”.
Per il Presidente del Progetto culturale la causa prima dell’emergenza educativa va ricercata nella “mutazione del concetto di uomo”.
Per molti infatti il soggetto umano non sarebbe altro che un risultato della mera evoluzione; mentre un’interpretazione delle neuroscienze ridurrebbe l’umanità a funzioni dell’organo cerebrale e le scienze empiriche considererebbero l’uomo solo come un ‘oggetto’ materiale.
“Tutte queste interpretazioni – ha spiegato il porporato – finiscono con il negare che l’uomo sia anzitutto e irriducibilmente ‘soggetto’ il quale, proprio nella sua intrinseca e ineliminabile soggettività, non può mai essere totalmente oggettivato e conosciuto in maniera adeguata attraverso le scienze empiriche”.
“E soprattutto – ha aggiunto – rimettono in discussione l’idea ebraico-cristiana dell’uomo come immagine di Dio”.
Nel descrivere il dibattito in corso, il Cardinale Ruini ha fatto riferimento alle parole pronunciate da Benedetto XVI a Verona secondo cui il “rischio per le sorti della famiglia umana… è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali”.
Per superare questo rischio, il Presidente del Progetto culturale ha proposto “l’educazione della persona” collegandola “ai fondamentali parametri antropologici”, ed in particolare promuovendo “il ruolo che può esercitare il cristianesimo in rapporto al bene umano”.

A questo proposito il Cardinale Ruini ha citato Karl Löwith, il quale, nel libro Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, ha scritto che “chiunque abbia un volto umano possiede come tale la ‘dignità’ e il ‘destino’ di essere uomo”, con il quale non s’intende il “mondo della semplice umanità” bensì il “mondo del cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo”.
“In concreto - ha sottolineato il porporato -, né la riduzione dell’uomo alla natura né un totale relativismo né una prospettiva nichilistica possono affermarsi pienamente e diventare egemoni finché la fede cristiana è viva e riesce a generare cultura”.
“Non si tratta però soltanto di contrastare derive pericolose - ha concluso il Cardinale Ruini - ma ancor più di contribuire positivamente all’educazione delle nuove generazioni e più in generale agli sviluppi della storia, rimanendo aperti e desiderosi verso tutte le possibili collaborazioni e sinergie e tenendo come unico criterio di discernimento quel fine dell’educazione e del divenire storico che è l’uomo stesso”.


Rapporto sulla fecondazione assistita - Ma guarda, la legge «crudele» funziona – Avvenire, 28 marzo 2009
I figli nati da fecondazione assistita in I­talia sono quasi raddoppiati. Secondo la relazione presentata al Parlamento e de­dicata all’attuazione della legge 40, l’in­cremento di nascite in tre anni è netto: nel 2007 sono 'transitati' per le provette oltre novemila bambini, contro i meno di cin­quemila del 2005, primo anno in cui tutti i centri italiani erano stati monitorizzati. Il primo elemento dunque nel bilancio del­la legge passata attraverso l’aspro scontro del referendum, è che non c’è stato il crol­lo di nascite e la generalizzata fuga all’e­stero delle coppie che non riescono a con­cepire.

Oltre frontiera 'deve' andare chi vuole una diagnosi prenatale dell’em­brione, e dunque una selezione fra i figli concepiti, oppure chi ne chiede il conge­lamento, vietato dalla legge italiana. Al di fuori di queste possibilità, peraltro etica­mente critiche e non solo per i cattolici, i numeri della Relazione dicono sostan­zialmente che la legge funziona; e sem­brano anche svuotare dunque, nel meri­to, il ricorso avanzato alla Corte Costitu­zionale dai suoi avversari.

Due, sostanzialmente, i punti critici del­l’attuazione: il primo segnala una percen­tuale più alta di quella europea di parti trigemellari. Per i detrattori del­la legge questa è la conseguenza del­l’obbligo di impian­to dei tre embrioni prodotti in provet­ta. Dal Ministero si replica che tale è il divario di gravidan­ze trigemellari tra un centro e l’altro – dallo 0 addirittura al 13 per cento del to­tale – che è evidente come non la legge, ma la pratica operativa dei centri deter­mini questo risultato. In altre parole, nei centri migliori si seleziona l’ovocita e si ot­tengono e impiantano solo uno o due em­brioni invece che tre, come usano fare in­vece i medici meno qualificati, per au­mentare le chance di successo.

Di qui l’in­tenzione, importante, di arrivare a una classificazione di qualità dei centri, per­ché le donne sappiano con esattezza in quali mani si mettono, nella disparità fra strutture private e pubbliche, fra Nord e Sud. È anche questo un ordine necessario, nella ampiezza di un 'mercato' comples­so e agguerrito, che almeno la legge ha il merito di avere regolamentato. L’altra criticità italiana è l’età molto eleva­ta in cui le donne si rivolgono alla fecon­dazione assistita, 36 anni di media, con un quarto di richieste oltre i 40 anni, quando le possibilità di avere un figlio si abbassa­no drasticamente.

Età elevata che però sembra un portato del ritardo sui tempi biologici con cui in Italia si arriva a cerca­re un figlio: lo si desidera a trent’anni, e a trentasei se non arriva si ricorre alle pro­vette. Molte gravidanze in più sarebbero fi­siologiche se si riuscisse ad agire su quei fattori sociali ed economici che portano la maternità in fondo, temporalmente, a­gli obiettivi che una donna deve realizza­re. Almeno in questa accezione avrebbe significato quel 'diritto al figlio' tanto de­clamato quattro anni orsono.

Dal referendum che ha diviso l’Italia, e che ha visto i cattolici costretti a difendere u­na legge pure idealmente non condivisa per evitare che tutto nel campo della fe­condazione artificiale fosse possibile, i nu­meri dicono che le italiane hanno acces­so alla fecondazione assistita, senza biso­gno di emigrare. Che, anzi, il divieto di con­gelamento degli embrioni ha incentivato le tecniche alternative di crioconservazio­ne degli ovociti, in cui l’Italia è all’avan­guardia.

La diagnosi prenatale sugli em­brioni, la selezione di quelli sani, il conge­lamento, nel nostro Paese restano inac­cessibili: la legge ha doverosamente limi­tato i 'diritti' dei genitori con quelli dei fi­gli in fieri – che non sono cose. E questa mediazione, e i numeri, dicono oggi che la avversatissima legge 40, la «legge crudele», la «legge bigotta», fuori dall’ideologia e nel­la realtà naviga, e funziona.
Marina Corradi


I DATI MOSTRANO CHE FUNZIONA? I GIORNALI NON NE PARLANO - L’informazione nascosta sul successo della legge 40 - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 29 marzo 2009
A volte si strilla, a volte si tace. E in questo caso il silenzio fa più clamore.
L’informazione sulle grandi questioni bioetiche in Italia va così, con una plateale intermittenza nell’urlare o silenziare le notizie che grosso modo si può spiegare attraverso un teorema persino disarmante per quant’è banale: se i fatti contraddicono l’icona pazientemente costruita di un Paese in lotta contro le tenebre dell’oscurantismo etico, allora di quei fatti l’opinione pubblica va tenuta sistematicamente al riparo. Come se non fosse preparata per reggere lo scandalo di una realtà che dà torto alla sua grottesca ricostruzione mediatica.
Ma la realtà è testarda. E una settimana dopo l’altra inanella scoperte ed evidenze scientifiche, dati di laboratorio e nuove acquisizioni mediche, con tutt’altra logica rispetto a quella che ispira la cultura pubblica oggi pressoché egemone, più preoccupata di autodimostrarsi piuttosto che accettare un laico confronto con quel che davvero accade.
Ma quando si informa sulla bioetica la realtà interessa ancora? Sfogliando i quotidiani di ieri, il dubbio non poteva risultare più fondato. Dell’annuale Relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 40 – quella che dal 2004 regolamenta la procreazione assistita –, presentata a tutti i media nazionali venerdì dal ministero del Welfare, la grande stampa pare non essersi accorta. Salvo qualche virtuosa eccezione, silenzio pressoché assoluto attorno a un documento che – con l’inoppugnabile evidenza delle cifre – ribalta il pregiudizio su una legge a torto ritenuta penalizzante in termini di gravidanze felicemente concluse e di salute della donna.
Invece, ecco che la realtà – ribelle e impertinente – mostra il raddoppio delle maternità nel giro di tre anni (ovvero da quando la legge può dirsi andata a regime) e un drastico ridimensionamento delle patologie da 'iperstimolazione ovarica', la vera maledizione del bombardamento ormonale cui le donne sono sottoposte perché la provetta funzioni. Fatti clamorosi, che rendono onore ai centri specializzati nei quali si mostra in misura sempre maggiore di saper lavorare in modo eticamente serio e clinicamente efficace all’interno di regole fissate per tutelare la vita del concepito e della madre dalla pretesa di farne merce contrattabile.
Eppure di queste cifre poco o nulla sembra interessare a quegli stessi media per i quali – e non certo da ieri – la legge 40 è troglodita, inumana e clericale. Approvata cinque anni fa da una maggioranza parlamentare ampia e trasversale, rafforzata dal giudizio di un referendum abrogativo fallimentare per il quale i detrattori non risparmiarono mezzi e argomenti, la legge sulla fecondazione artificiale – con tutti i limiti che non ne fanno certo una 'legge cattolica' – mostra ora innegabilmente di funzionare bene. Perché allora si insiste nel volerla fare a pezzi, auspicando che ci pensi martedì la Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi da una serie di ricorsi giudiziari, e intanto nascondendo agli italiani la verità sulla sua efficienza ormai certificata?
Questa singolare storia di omissioni informative va facendosi stucchevole. Nel giro di poche settimane non abbiamo letto nei quotidiani più diffusi alcunché sulle associazioni che si occupano di stati vegetativi e che negano – esperienze alla mano – la definizione di 'terapia' alla nutrizione assistita (e non 'forzata' come qualcuno si ostina a scrivere). Né abbiamo scorto un rigo sulle ripetute scoperte che accreditano le staminali adulte riprogrammate di un immenso potenziale terapeutico, definitivamente alternativo all’uso degli embrioni. Ma non è andata meglio all’annuncio che la conservazione privata a pagamento del cordone ombelicale è un pericoloso inganno commerciale senza fondamento scientifico. E Paolo De Coppi, italianissimo scopritore delle staminali nel liquido amniotico, è ancora in attesa che qualche acritico fan di Obama si interessi di lui dopo la sua recentissima ricerca sulle prime possibili applicazioni cliniche. Niente, silenzio, omissis. L’ideologia urla più forte dei fatti, ma la storia insegna che non può resistergli a lungo.