domenica 15 marzo 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 15/03/2009 12:17 – VATICANO - Papa: Pellegrino in Africa annunciando Cristo crocefisso, che rinnova il mondo - Benedetto XVI annuncia che si recherà a Yaoundé (Camerun) e Luanda (Angola), chiede di essere accompagnato dalla preghiera di tutti, anche con l’aiuto di san Giuseppe, suo patrono personale. Sostegno alla pastorale universitaria, per elaborare “una cultura ispirata al vangelo”. Un saluto alle decine di migliaia di “coccinelle”, le bambine scout d’Italia ed Europa.
2) LEFEBVRIANI/ Julian Carron: «Una misericordia che ci sfida» - Redazione sabato 14 marzo 2009 – ilsussidiario.net
3) Il Papa è solo. Mettiamoci al suo fianco! - di Renato Farina - Editoriale di Libero del 13/2/2009
4) Il Papa alla plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti Il mistero eucaristico senza confusione o riduzionismi - Nessuna confusione tra messa e adorazione eucaristica, ma anche nessuna sottovalutazione della centralità dell'Eucaristia nella vita della Chiesa. È quanto ha raccomandato Benedetto XVI nel discorso rivolto ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ricevuti in udienza venerdì mattina, 13 marzo, nella Sala del Concistoro. – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
5) La lettera di Benedetto XVI - Il senso della Chiesa - Camillo Ruini Cardinale vicario generale emerito di Roma – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
6) Nella tradizione islamica - Tolleranza è un concetto conflittuale - Il 13 e il 14 marzo a Roma, presso l'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente, si tiene il convegno "Ad ulteriores gentes. The Christians in the East". Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni. - di Vincenzo Poggi Pontificio Istituto Orientale – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
7) Benedetto XVI e il realismo della fede - Lo strano divorzio tra esegesi biblica e teologia - di Enrico dal Covolo – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
8) La «Sinfonia della parola» di Frédéric Manns - L'amore è un principio d'interpretazione - di Marco Tibaldi – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
9) QUASI MISTIFICATORIO IL DIBATTITO SULL’ARTICOLO 32 - Libertà e realismo i perni della Carta - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 14 marzo 2009
10) Scola: nuova laicità in una società plurale - «I cattolici non si rassegnino all’irrilevanza» - Il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia - DAL NOSTRO INVIATO A RIVA DEL GARDA ( TN) PAOLO VIANA – Avvenire, 14 marzo 2009
11) Staminali da placenta, esperti a Brescia: «Si va verso sperimentazioni cliniche» - DAL NOSTRO INVIATO A BRESCIA - ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 14 marzo 2009
12) CINEMA/ Weekend: Gran Torino rivela un sorprendente Clint Eastwood attore e regista - Beppe Musicco - sabato 14 marzo 2009 – ilsussidiario.net
13) La visita del Papa in Sinagoga, un segno “di rispetto e di amicizia”
14) L’Islam spiegato da un sacerdote egiziano (parte II) - Intervista a padre Samir Khalil Samir, S.I. di Annamarie Adkins
15) 14/03/2009 12:40 - CINA – TIBET - Osservatori internazionali per fermare le falsità della Cina sul Tibet, di Urgen Tenzin - Legge marziale, arresti, violenze, monasteri controllati: questa è la “pace” del Tibet decantata da Wen Jiabao. Nei dialoghi Cina-Tibet occorrono osservatori internazionali e stampa per verificare le reali intenzioni di Pechino. Il ricatto economico della Cina verso tutte le diplomazie mondiali. La campagna di offese contro il Dalai Lama accresce la protesta.
16) 13/03/2009 17:13 – CINA - L’eroe della Sars in Cina chiede le scuse del Partito per essere stato arrestato - Dopo la sua denuncia sulla Sars, che ha salvato tante vite, aveva domandato alla leadership di rettificare il giudizio sul movimento di Tiananmen, accusando l’esercito del massacro di aver usato armi proibite e essere stato “drogato”. Per quasi 10 mesi è stato sottoposto a interrogatorio e a lavaggio del cervello. Le scuse e il reintegro dei suoi diritti sono in linea con la “società armoniosa” sognata da Hu Jintao.
17) La terza domenica di quaresima nella tradizione bizantina - E il ladrone divenne teologo - di Manuel Nin – L’Osservatore Romano, 15 Marzo 2009
18) La “Fides et ratio” e la questione del “senso”
19) Il nichilismo da Nietzsche a Vattimo - Congresso sulla “Fides et Ratio” a 10 anni dalla sua pubblicazione


15/03/2009 12:17 – VATICANO - Papa: Pellegrino in Africa annunciando Cristo crocefisso, che rinnova il mondo - Benedetto XVI annuncia che si recherà a Yaoundé (Camerun) e Luanda (Angola), chiede di essere accompagnato dalla preghiera di tutti, anche con l’aiuto di san Giuseppe, suo patrono personale. Sostegno alla pastorale universitaria, per elaborare “una cultura ispirata al vangelo”. Un saluto alle decine di migliaia di “coccinelle”, le bambine scout d’Italia ed Europa.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Benedetto XVI chiede a tutti i fedeli di pregare “invocando Maria, Madre e Regina dell’Africa”, per essere accompagnato nel suo primo viaggio apostolico in Africa, dal 17 al 23 marzo prossimi. Parlando prima della preghiera dell’Angelus, dalla sua finestra su piazza san Pietro, egli ha detto di partire “con la consapevolezza di non avere altro da proporre e donare a quanti incontrerò se non Cristo e la Buona Novella della sua Croce, mistero di amore supremo, di amore divino che vince ogni umana resistenza e rende possibile persino il perdono e l’amore per i nemici”.
Il pontefice sarà a Yaoundé (Camerun), per consegnare idealmente a tutti i vescovi del continente “lo ‘Strumento di lavoro’ della Seconda Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, che avrà luogo in ottobre… in Vaticano”. E si recherà poi a Luanda (Angola), in “un Paese che, dopo la lunga guerra interna, ha ritrovato la pace ed ora è chiamato a ricostruirsi nella giustizia”.
“Con questa visita – ha spiegato il papa - intendo idealmente abbracciare l’intero continente africano: le sue mille differenze e la sua profonda anima religiosa; le sue antiche culture e il suo faticoso cammino di sviluppo e di riconciliazione; i suoi gravi problemi, le sue dolorose ferite e le sue enormi potenzialità e speranze. Intendo confermare nella fede i cattolici, incoraggiare i cristiani nell’impegno ecumenico, recare a tutti l’annuncio di pace affidato alla Chiesa dal Signore risorto”.
Riferendosi poi a una delle letture di oggi, Terza domenica di Quaresima, tratta dalla Prima lettera ai Corinti - in cui Paolo afferma di annunciare Cristo crocifisso, “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio" (1 Cor 1,23-24) – egli ha sottolineato di non avere altro da “proporre e donare” se non la “Buona Novella della sua Croce”. E ha aggiunto: “Questa è la grazia del Vangelo capace di trasformare il mondo; questa è la grazia che può rinnovare anche l’Africa, perché genera una irresistibile forza di pace e di riconciliazione profonda e radicale. La Chiesa non persegue dunque obbiettivi economici, sociali e politici; la Chiesa annuncia Cristo, certa che il Vangelo può toccare i cuori di tutti e trasformarli, rinnovando in tal modo dal di dentro le persona e le società”.
Durante il suo viaggio in Africa, Benedetto XVI celebrerà il suo onomastico (san Giuseppe, il 19 marzo). Anche a lui, il papa affida il suo pellegrinaggio: “San Giuseppe - egli dice - avvertito in sogno da un angelo, dovette fuggire con Maria in Egitto, nel nord-ovest [sic!] dell’Africa, per mettere in salvo Gesù appena nato, che il re Erode voleva uccidere. Si adempirono così le Scritture: Gesù ha calcato le orme degli antichi patriarchi e, come il popolo d’Israele, è rientrato nella Terra promessa dopo essere stato in esilio in Egitto. Alla celeste intercessione di questo grande Santo affido il prossimo pellegrinaggio e le popolazioni dell’Africa tutta intera, con le sfide che le segnano e le speranze che le animano. In particolare, penso alle vittime della fame, delle malattie, delle ingiustizie, dei conflitti fratricidi e di ogni forma di violenza che purtroppo continua a colpire adulti e bambini, senza risparmiare missionari, sacerdoti, religiosi, religiose e volontari”.
Dopo la preghiera dell’Angelus, il papa ha salutato gli studenti e i docenti universitari a Roma per il “Giubileo paolino degli universitari”, promosso dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica e dal Pontificio Consiglio della Cultura e organizzato dal Vicariato di Roma. “Auspico – ha detto il pontefice - che in tutte le Chiese particolari si sviluppi la pastorale universitaria, per la formazione dei giovani e per l’elaborazione di una cultura ispirata al Vangelo. Cari universitari, vi incoraggio e vi accompagno con la preghiera”.
Dopo molti saluti nelle diverse lingue, Benedetto XVI si è rivolto alle “coccinelle”, le bambine dell’Associazione Italiana Guide e Scout d’Europa Cattolici, che hanno riempito la piazza san Pietro quasi totalmente. “Care bambine – ha detto il papa - dite sempre il vostro ‘eccomi!’ a Dio, come la Vergine Maria; ditelo con il cuore, e sarete raggi di luce per il mondo. Grazie di essere venute!”.
Foto: CPP


LEFEBVRIANI/ Julian Carron: «Una misericordia che ci sfida» - Redazione sabato 14 marzo 2009 – ilsussidiario.net
La prima cosa che colpisce è il fatto che il Papa abbia sentito il bisogno di scrivere una lettera così: piena di dolore davanti all’incomprensione non tanto degli estranei, quanto dei cattolici. Caso insolito nella storia recente, da quanto ricordi, e segno del fatto che non capiamo un gesto che, come dimostra la lettera, è pieno di ragionevolezza.
Nella sua semplicità, è stato un gesto di misericordia per una parte di fedeli affidati alla sua paternità di pastore universale della Chiesa, che acquista tutta la sua portata davanti agli irrigidimenti di coloro che lo criticano, inclusi quelli a cui era rivolto. Questo gesto pone davanti a tutti lo scandalo cristiano. È difficile, infatti, che leggendo la lettera non vengano alla mente le parole di Gesù: «Beato colui che non si scandalizza di me», rivolte a chi si arrabbiava perché mangiava coi pubblicani e i peccatori. La misericordia, gesto inequivocabile del divino, continua a scandalizzare come il primo giorno. Peccato che questo succeda anche tra chi appartiene al popolo dei redenti, vale a dire, tra chi per primo è stato oggetto di una sconfinata misericordia.
Diversamente da quanti pensano che Benedetto XVI confermi i destinatari nella loro posizione, il suo gesto costituisce la sfida più grande davanti alla quale si siano mai trovati. Soltanto la misericordia sfida come nessun altro richiamo la nostra testardaggine. A chi molto viene perdonato, molto ama, dice Gesù. A nessun altro gesto è sensibile l’uomo come alla misericordia, tanto è vero che è stato il metodo di Gesù, come ci ricorda San Paolo: «Quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Quella del Papa è una risposta alla «priorità che sta al di sopra di tutte, rendere Dio presente in questo mondo», un Dio incarnato il cui nome è “misericordia”, che si manifesta attraverso «l’unità dei credenti».
Questa lettera ha un “respiro” di cui non possiamo non ringraziare il Papa, tanto più quanto più aumentano gli irrigidimenti di coloro che riducono la vita cristiana a un moralismo soffocante. Niente più di una lettera così mi fa sentire orgoglioso della mia appartenenza ecclesiale, pieno di fiducia che il giorno in cui io dovessi sbagliare sarei trattato con altrettanta misericordia.
(Julián Carrón)
Pubblicato su L'Avvenire, 14 Marzo 2009


Il Papa è solo. Mettiamoci al suo fianco! - di Renato Farina - Editoriale di Libero del 13/2/2009
Con una sincerità tale da sfiorare il candore, il Papa ha denunciato pubblicamente una rivolta dentro la Chiesa contro di lui. La minaccia non viene come ai tempi di Pio IX dai bersaglieri di Cadorna, né c'è più il rischio di vedere cosacchi abbeverare i loro cavalli alle fontane di San Pietro. I nemici hanno lo zucchetto rosso, hanno studiato gli stessi suoi libri, agitano il vangelo: per questo lo angosciano. Attaccano lui, il Papa. Non il teologo Joseph Ratzinger: se fosse così, sorriderebbe, ci ha fatto il callo, le ha date e le ha prese per cinquant'anni.
Invece colpiscono lui in quanto Benedetto XVI, successore di Pietro, pietra su cui si regge l'unità dei cattolici. Era capitato già ai suoi predecessori: Wojtyla e Montini. Ma una volta ad alzare le difese intorno al Pontefice, a chiamare a raccolta i fedeli era le trombe dei cardinali e dei vescovi intorno a lui. Stavolta ci sono sì alcuni cardinali e vescovi a volergli bene, ma è come se fossero fuscelli, non hanno potenza mediatica. Una volta a Roma c'era il cardinal Ruini, vicario del papa. Adesso c'è qualcuno che sa il nome del suo successore? È fedelissimo, è pronto a tutto per il Santo Padre: ma non se ne accorge nessuno (è il cardinal Agostino Vallini).
Allora, come un uomo molto solo, che dalla sua ha il popolo ma non i capi del popolo, Papa Ratzinger ha scritto una drammatica lettera ai vescovi. Parla dei lefebvriani, degli errori dei propri collaboratori, ma non è questo il punto.
Egli espone il suo cuore offeso. Confessa ai confratelli porporati e violacei, oltre che al mondo intero, il suo stupore per quanto ha visto accadere in casa sua: «oggi nella Chiesa c'è il mordersi e il divorarsi a vicenda espressione di una libertà male intesa».
Il documento papale è il grido di dolore più netto e commosso mai udito nelle mura vaticane dai tempi di Paolo VI. Imprevedibilmente Papa Montini il 29 giugno del 1972, nell'omelia per la festa di Pietro e Paolo disse: «Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio... Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio». Poi, in privato, all'amico Jean Guitton nel settembre del 1977 confidò: «Siamo prossimi alla fine?... Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia».

Ratzinger è ancora più amaro. Scrive: mordersi, divorarsi. È un lavoro da lupi. Viene in mente la metafora evangelica del Buon Pastore che «dà la vita per le sue pecore». Vogliono lui. Il Papa sente su di sé il peso di una profezia, forse quella di Fatima: chi morde e divora finge di accontentarsi delle pecore nere e antisemite, ma punta al pastore. Finge di difendere il Vaticano II, stracciato dal negazionismo sulla Shoah del vescovo Williamson, ma ha in mente di spezzare la determinazione di Benedetto XVI nel lavoro per eliminare gli abusi liturgici e dottrinali. I nemici armati di anello episcopale e di citazioni prendono pretesto dai gravi sbagli (errori o volute mancanze?) della Curia, e tentano di imprigionare il Papa nelle sue stanze, di interdirlo come un pover'uomo che nulla capisce del mondo post-moderno.
Si chiama delegittimazione morale e intellettuale.

La lettera è un grido al Signore e una chiamata a raccolta delle forze buone e leali, non solo tra i fedeli credenti, ma anche dei laici e persino degli atei. Colpisce la commozione con cui il Papa si riferisce agli ebrei, che ringrazia di averlo avvertito dei rischi, e di aver capito le sue spiegazioni. Non sono loro che gli vogliono male.
Scrive: «Sono rimasto rattristato che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto saper meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un'ostilità pronta all'attacco».

Ha di certo in mente il teologo e vecchio collega di Bonn, Hans Küng. Intervistatissimo, ha trattato Ratzinger come l'ottuso reazionario. Ma a lui si sono associati i vescovi del nord, specie i tedeschi, come il loro capo in Curia, il cardinal Walter Kasper. Incredibile per Ratzinger: anche il cardinale di Praga, Miloslav Vlk, e tutti gli svizzeri o quasi, gli hanno dato contro.

Tanti hanno impugnato il Concilio Vaticano II come se la tensione al perdono del Papa verso i fedeli tradizionalisti, fosse l'assassinio dello Spirito Santo. Poche settimane fa, chi scrive è stato a Lucerna, sulla tomba di un maestro di Wojtyla e Ratzinger, il cardinale Hans Urs von Balthasar. La tomba era dimenticata. Nella cattedrale accanto, dove hanno celebrato Karol Wojtyla e il cardinal Ratzinger, nella navata, su un tavolino, invece della Bibbia, c'era una petizione per la difesa del Vaticano II contro le aggressioni del papa, primo firmatario l'organista. E così in Austria. Molto dolore ha dato a Benedetto XVI anche la ruvidezza delle critiche del cardinal Christoph von Schönborn. Il quale ha ragione a dirsi sconcertato per gli errori della Curia, ma dovrebbe esibire qualche parola di difesa totale del Papa.

A Roma in Curia, poi. C'è chi guarda e tace, sperando promozioni. Come Gianfranco Ravasi, arcivescovo responsabile per la Cultura, da cui ci si aspettava un sostegno. Invece: niente. Punta alla diocesi di Milano, dove il cardinal Dionigi Tettamanzi, che pare sempre volersi distinguere dal Papa, è prossimo alle dimissioni per ragioni di età.

La lettera di Ratzinger spiega perché si era deciso a togliere la scomunica ai lefebvriani. Un gesto «sommesso di misericordia». Dice: «sommesso». Umile.
Invece è diventata una trappola per lui. La sua colpa è non aver visto «l'internet» (scrive così). Lì c'era già vagante l'intervista del vescovo Williamson. Certo il Papa ha dato il consenso a che il cardinal Giovanni Battista Re e il cardinale Castrillon firmassero la decadenza della scomunica. Ma perché loro non l'hanno informato? Com'è possibile che la più raffinata e competente diplomazia del mondo non abbia avvertito la minaccia alle porte? Il nunzio in Svezia e quello in Argentina (dove risiedeva Williamson e dove sono state trasmesse le immagini dell'intervista famigerata che negava le camere a gas) possibile non abbiano saputo nulla?

Il Papa denuncia una specie di mancanza di professionalità. E noi ci domandiamo se non sia stata voluta, se qualcuno remi contro anche se adesso fa l'acqua cheta e si mostra scandalizzato. Non è un mistero per nessuno che il cardinale Re, prefetto della Congregazione dei vescovi, sia deluso dalla mancata promozione a segretario di Stato, e non veda bene il cardinal Tarcisio Bertone, segretario di Stato: preferirebbe, e come lui tanti, che da bravo salesiano pratichi il calcio all'oratorio. La scelta poi di un portavoce come il bravo padre Federico Lombardi, che è nel contempo direttore della Radio vaticana, è diventata materia per indebolire il Papa da molto vicino. Si fanno volentieri chiacchiere e le si lascia filtrare sull'invece irreprensibile "bel" padre George, suo segretario.
Lupi, mordono, divorano. Lui lavora per l'unità, chiama i lefebvriani perché accettino il perdono, e si trova chi li usa per lanciare in alto il barrito dell'«odio».

Per fortuna la Conferenza episcopale italiana è stretta, nella sua dirigenza, intorno al Papa, ma il cardinal Angelo Bagnasco deve farsi mediaticamente le ossa. Il cardinal Angelo Scola di Venezia e l'arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori sono attivi e forti. Ma forse occorrerebbe che Benedetto XVI portasse gente di questa tempra più vicino a sé e al cardinal Bertone.

Questo Papa tedesco non è Giovanni Paolo II. Non ha la grandiosa forza dei gesti, l'imponenza scenica del polacco. Persino da morto Wojtyla sembrò muovere il vento ad agitare il vangelo aperto sulla propria bara a raffigurare l'unità di sé con il Cristo centro del cosmo e della storia.
Benedetto XVI invece ha voluto essere quello che è: un Papa capace di elaborare concetti, di fissare dottrine, con una logica incantevole, ma che appunto esige attenzione, non ha dalla sua la simbologia wojtyliana: ha la forza nelle parole, nella concatenazione formidabile del suo racconto di Dio e del Vangelo.
Si sente solo, ricorda Gesù nel Getsemani.


Il Papa alla plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti Il mistero eucaristico senza confusione o riduzionismi - Nessuna confusione tra messa e adorazione eucaristica, ma anche nessuna sottovalutazione della centralità dell'Eucaristia nella vita della Chiesa. È quanto ha raccomandato Benedetto XVI nel discorso rivolto ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ricevuti in udienza venerdì mattina, 13 marzo, nella Sala del Concistoro. – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
Signori Cardinali, venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio, cari fratelli! Con grande gioia e con sempre viva riconoscenza vi ricevo, in occasione della Plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. In questa importante occasione mi è gradito, in primo luogo, porgere il mio cordiale saluto al Prefetto, il Signor Cardinale Antonio Cañizares Llovera, che ringrazio per le parole con cui ha illustrato i lavori svolti in questi giorni e ha dato espressione ai sentimenti di quanti sono oggi qui presenti. Estendo il mio saluto affettuoso e il mio cordiale ringraziamento a tutti i Membri ed Officiali del Dicastero, a cominciare dal Segretario, Mons. Malcom Ranjith, e dal Sotto-Segretario, fino a tutti gli altri che, nelle diverse mansioni, prestano con competenza e dedizione il loro servizio per "la regolamentazione e la promozione della sacra liturgia" (Pastor Bonus, n. 62). Nella Plenaria avete riflettuto sul Mistero eucaristico e, in modo particolare, sul tema dell'adorazione eucaristica. Mi è ben noto come, dopo la pubblicazione dell'Istruzione "Eucharisticum mysterium" del 25 maggio 1967 e la promulgazione, il 21 giugno 1973, del Documento "De sacra communione et cultu mysterii eucharistici extra Missam", l'insistenza sul tema dell'Eucaristia come fonte inesauribile di santità è stata una premura di primo piano del Dicastero.
Ho accolto, pertanto, volentieri la proposta che la Plenaria si occupasse del tema dell'adorazione eucaristica, nella fiducia che una rinnovata riflessione collegiale su tale prassi potesse contribuire a mettere in chiaro, nei limiti di competenza del Dicastero, i mezzi liturgici e pastorali con cui la Chiesa dei nostri tempi può promuovere la fede nella presenza reale del Signore nella Santa Eucaristia e assicurare alla celebrazione della Santa Messa tutta la dimensione dell'adorazione. Ho sottolineato questo aspetto nell'Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, in cui raccoglievo i frutti della xi Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo, svoltasi nell'ottobre del 2005. In essa, evidenziando l'importanza della relazione intrinseca tra celebrazione dell'Eucaristia e adorazione (cfr. n. 66), citavo l'insegnamento di sant'Agostino: "Nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando" (Enarrationes in Psalmos, 98, 9: ccl 39, 1385). I Padri sinodali non avevano mancato di manifestare preoccupazione per una certa confusione ingeneratasi, dopo il Concilio Vaticano ii, circa la relazione tra Messa e adorazione del Santissimo Sacramento (cfr. Sacramentum caritatis, n. 66). In questo, trovava eco quanto il mio Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, aveva già espresso circa le devianze che hanno talvolta inquinato il rinnovamento liturgico post-conciliare, rivelando "una comprensione assai riduttiva del mistero eucaristico" (Ecclesia de Eucharistia, n. 10). Il Concilio Vaticano Secondo ha messo in luce il ruolo singolare che il mistero eucaristico ha nella vita dei fedeli (Sacrosanctum Concilium, nn. 48-54, 56). Come Papa Paolo VI ha più volte ribadito: "l'Eucaristia è un altissimo mistero, anzi propriamente, come dice la Sacra Liturgia, il mistero di fede" (Mysterium fidei, n. 15). L'Eucaristia, infatti, è alle origini stesse della Chiesa (cfr. Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 21) ed è la sorgente della grazia, costituendo un'incomparabile occasione sia per la santificazione dell'umanità in Cristo che per la glorificazione di Dio. In questo senso, da una parte, tutte le attività della Chiesa sono ordinate al mistero dell'Eucaristia (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 10; Lumen gentium, n. 11; Presbyterorum ordinis, n. 5; Sacramentum caritatis, n. 17), e, dall'altra, è in virtù dell'Eucaristia che "la Chiesa continuamente vive e cresce" anche oggi (Lumen gentium, n. 26). Nostro compito è percepire il preziosissimo tesoro di questo ineffabile mistero di fede "tanto nella stessa celebrazione della Messa quanto nel culto delle sacre specie, che sono conservate dopo la Messa per estendere la grazia del Sacrificio" (Istruz. Eucharisticum mysterium, n. 3, g.). La dottrina della transustanziazione del pane e del vino e della presenza reale sono verità di fede evidenti già nella Sacra Scrittura stessa e confermate poi dai Padri della Chiesa. Papa Paolo VI, al riguardo, ricordava che "la Chiesa Cattolica non solo ha sempre insegnato, ma anche vissuto la fede nella presenza del corpo e del sangue di Cristo nella Eucaristia, adorando sempre con culto latreutico, che compete solo a Dio, un così grande Sacramento" (Mysterium fidei, n. 56; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1378). È opportuno ricordare, al riguardo, le diverse accezioni che il vocabolo "adorazione" ha nella lingua greca e in quella latina. La parola greca proskýnesis indica il gesto di sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire. La parola latina adoratio, invece, denota il contatto fisico, il bacio, l'abbraccio, che è implicito nell'idea di amore. L'aspetto della sottomissione prevede un rapporto d'unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Infatti, nell'Eucaristia l'adorazione deve diventare unione: unione col Signore vivente e poi col suo Corpo mistico. Come ho detto ai giovani sulla Spianata di Marienfeld, a Colonia, durante la XX Giornata mondiale della Gioventù, il 21 agosto 2005: "Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo, perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo" (Insegnamenti, vol. i, 2005, pp. 457 s.). In questa prospettiva ricordavo ai giovani che nell'Eucaristia si vive la "fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita; essa trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta" (ibid., p. 457). Il mio Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica "Spiritus et Sponsa", in occasione del 40° anniversario della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia, esortava ad intraprendere i passi necessari per approfondire l'esperienza del rinnovamento. Ciò è importante anche rispetto al tema dell'adorazione eucaristica. Tale approfondimento sarà possibile soltanto attraverso una maggiore conoscenza del mistero in piena fedeltà alla sacra Tradizione ed incrementando la vita liturgica all'interno delle nostre comunità (cfr. Spiritus et Sponsa, nn. 6-7). A questo riguardo, apprezzo in particolare che la Plenaria si sia soffermata anche sul discorso della formazione di tutto il Popolo di Dio nella fede, con una speciale attenzione ai seminaristi, per favorirne la crescita in uno spirito di autentica adorazione eucaristica. Spiega, infatti, S. Tommaso: "Che in questo sacramento sia presente il vero Corpo e il vero Sangue di Cristo non si può apprendere coi sensi, ma con la sola fede, la quale si appoggia all'autorità di Dio" (Summa theologiae, iii, 75, 1; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1381). Stiamo vivendo i giorni della Santa Quaresima che costituisce non soltanto un cammino di più intenso tirocinio spirituale, ma anche una efficace preparazione a celebrare meglio la santa Pasqua. Ricordando tre pratiche penitenziali molto care alla tradizione biblica e cristiana - la preghiera, l'elemosina, il digiuno -, incoraggiamoci a vicenda a riscoprire e vivere con rinnovato fervore il digiuno non solo come prassi ascetica, ma anche come preparazione all'Eucaristia e come arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi. Questo periodo intenso della vita liturgica ci aiuti ad allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e ad intensificare ciò che nutre l'anima, aprendola all'amore di Dio e del prossimo. Con tali sentimenti, formulo già fin d'ora a tutti Voi i miei auguri per le prossime feste pasquali e, mentre vi ringrazio per il lavoro che avete svolto in questa Sessione Plenaria, così come per tutto il lavoro della Congregazione, imparto a ciascuno con affetto la mia Benedizione.

(©L'Osservatore Romano - 14 marzo 2009)


La lettera di Benedetto XVI - Il senso della Chiesa - Camillo Ruini Cardinale vicario generale emerito di Roma – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
Un'autentica novità: chiamerei così la lettera che Benedetto XVI ha scritto ai "Confratelli nel ministero episcopale" sulla remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da monsignor Lefebvre nel 1988. Novità che si manifesta anzitutto nel carattere fortemente personale di questa lettera, che pure è rivolta a tutti i vescovi della Chiesa cattolica e di fatto, essendo stata resa pubblica, anche a tutti i fedeli: una comunicazione personale che supera i limiti dell'ufficialità e si offre al lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire, nell'animo del Papa e di prender parte dal di dentro alla sua sollecitudine pastorale, alle motivazioni fondamentali che guidano le sue scelte e anche all'atteggiamento interiore con cui egli vive il suo ministero.
In questa medesima chiave, la lettera non nasconde certo le difficoltà del momento e le loro cause immediate, anzi le sottolinea, ma per andare più in profondità, alle radici spirituali, culturali ed ecclesiali di quegli ostacoli che rendono faticoso il cammino della Chiesa e che richiedono a ciascuno di noi conversione e rinnovamento. Se vogliamo trovare per questa lettera qualche analogia dobbiamo pensare ad alcune lettere che, soprattutto nei primi secoli del cristianesimo, vescovi di grandi sedi - in particolare i vescovi di Roma - hanno inviato ai loro Confratelli sui problemi allora più preoccupanti.
Benedetto XVI ha chiarito con quella precisione di pensiero che gli è propria il significato positivo e i limiti del provvedimento di remissione della scomunica: sarebbe inutile pertanto ritornare su ciò che è perfettamente chiaro nella sua lettera. Assai utile può essere invece riflettere - per farle intimamente nostre - sulle grandi priorità del suo pontificato, che egli aveva evidenziato fin dall'inizio e che ripresenta e approfondisce con sofferta e vorrei dire drammatica convinzione in questa lettera.
La prima priorità è confermare nella fede i fratelli: in concreto, in questo nostro tempo, "la priorità che sta al di sopra di tutto è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio", a quel Dio che si è pienamente manifestato in Gesù Cristo. Guardando ai nostri fratelli in umanità, e guardando anche dentro alla Chiesa e anzitutto dentro a noi stessi, possiamo renderci conto che questa è davvero, nella concretezza della vita e della storia, la questione decisiva: una questione spesso ignorata o rimossa, o ritenuta ormai superata, ma in realtà la questione da cui tutto dipende, la sola chiave che può aprire al pensiero dell'uomo tutto il suo spazio legittimo e necessario e può offrire al cuore dell'uomo una solida speranza. Dentro alla suprema priorità di Dio trova immediatamente posto la priorità dell'amore e della comunione tra noi: in concreto la priorità dell'unità dei credenti in Cristo e la priorità della pace tra tutti gli uomini. Di qui la sofferenza che Benedetto XVI non nasconde di fronte all'inclinazione a "mordersi e divorarsi a vicenda", purtroppo oggi presente tra noi come fu presente tra i Galati a cui scriveva san Paolo. Tocchiamo qui un nervo scoperto del cattolicesimo degli ultimi secoli, un punto di fragilità e di sofferenza di cui dobbiamo diventare più e meglio consapevoli. Mi riferisco all'indebolirsi, e a volte praticamente all'estinguersi, del senso di appartenenza ecclesiale, della gioia cioè e della gratitudine di far parte della Chiesa cattolica. Non si tratta di qualcosa di secondario e di accessorio, che dovrebbe giustamente lasciare il passo di fronte alla nostra libertà individuale e al nostro rapporto personale con Dio, o anche a tante altre appartenenze che appaiono più concrete e più gratificanti.
Occorre invece ricostruire dentro di noi quella convinzione di fede che ha caratterizzato il cristianesimo fin dal suo inizio, secondo la quale il senso della Chiesa è parte essenziale della nostra appartenenza a Cristo. Hanno qui la loro radice l'accoglienza del magistero della Chiesa e lo sforzo di conformare la nostra vita ai suoi insegnamenti, ma anche un atteggiamento che abbraccia la sfera dei sentimenti e che si traduce spontaneamente nell'affetto per coloro che nella fede ci sono padri e fratelli. Se questi sentimenti saranno vivi in noi resteremo lontani da quel gusto amaro di cogliere in fallo il nostro presunto avversario, che in realtà è nostro fratello, che purtroppo affiora in molte parole, gesti o silenzi, come la lettera del Papa, con onestà e sofferenza, ci aiuta a comprendere.
(©L'Osservatore Romano - 14 marzo 2009)


Nella tradizione islamica - Tolleranza è un concetto conflittuale - Il 13 e il 14 marzo a Roma, presso l'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente, si tiene il convegno "Ad ulteriores gentes. The Christians in the East". Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni. - di Vincenzo Poggi Pontificio Istituto Orientale – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
La tolleranza assoluta è contraddittoria. Si tollera qualcosa, ma fino a un certo punto. Perché la tolleranza suppone sempre un conflitto di valori, o meglio è situata nel bel mezzo di due estremi da evitare: l'assolutismo e il relativismo a oltranza, l'intransigenza e il sincretismo agnostico. Se si vuole attraversare lo stretto della tolleranza bisogna guardarsi dallo Scilla del fondamentalismo, incapace di dubitare di sé e dal Cariddi dello scetticismo senza certezze. Paradossalmente una definizione latina della tolleranza religiosa si trova nella lettera Ad scapulam di un intollerante come Tertulliano: "È un diritto dell'uomo e dell'umana capacità di ciascuno, adorare il dio in cui uno crede, perché a nessuno nuoce o giova una religione aliena. Né si può costringere qualcuno a credere per forza. La religione propria deve scegliersi liberamente come devono essere volontarie le oblazioni". La tolleranza di Roma pagana accetta un pluralismo etnico-culturale e lascia spazio a diverse religioni. Basti pensare al successo a Roma delle religioni orientali, come risulta per esempio dagli scavi di Pompei e dai reperti romani del museo di Napoli o dalla archeologia romana, per esempio dai resti del grandioso tempio mitraico nei pressi di Porta Maggiore. Tuttavia la Roma pagana tiene molto al suo patrimonio religioso tradizionale che considera garante del suo successo e del suo benessere come regno, repubblica e principato. Leggo i consigli sulla tolleranza che Mecenate (nato nel 69 prima dell'era cristiana e morto nell'8 dell'era cristiana) dà all'imperatore Ottaviano Augusto: "Vuoi assicurare la stabilità del tuo governo? Onora le divinità esattamente come hanno fatto i padri e obbliga gli altri a onorarle allo stesso modo. Quanti invece rifiutano di farlo, redarguiscili e castigali non soltanto a causa delle divinità (infatti chi trascura le divinità non avrà rispetto per nessuno) ma le sostituirà con nuove divinità, sollecitando la gente a crearsi leggi proprie, donde nascono cospirazioni, discordie, intrighi che una monarchia deve assolutamente evitare. Perciò, Augusto, non tollerare alcun empio e nessuno stregone". Questa idea della religione, quale usbergo della società costituita, espressa da Mecenate, è all'origine delle persecuzioni dei cristiani da parte degli imperatori romani Decio, Valerio e Diocleziano. Accenno ora brevemente alla tolleranza islamica, se voglio domandarmi se ci sono somiglianze con quella persiana. Da una parte il Corano, libro sacro della religione islamica, manifesta liberalità: "Gli uomini formavano una sola comunità. Allah poi inviò i profeti (...) fece scendere su di loro la Scrittura con la verità" (Sura della giovenca, 2, 213). "Dialogate con belle maniere con la gente della Scrittura, salvo con quelli di loro che sono ingiusti. Dite: Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi e in quello che è stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio ed è a Lui che ci sottomettiamo" (Sura del ragno, 29, 46). "Nella religione non c'è violenza" (Sura della giovenca, 2, 25). "Se il tuo Signore volesse, tutti coloro che sono sulla terra crederebbero" (Sura di Giona, 10, 99). Ma la tolleranza islamica non dimentica che la sua religione è l'unica vera. Del resto a detta di Gustav Mensching fanno lo stesso le tolleranze del monoteismo cioè anche la giudaica e la cristiana sia pure con modulazioni diverse. Dal punto di vista della coscienza di essere la religione vera il musulmano accomuna la gente del Libro con i miscredenti kâfirûn. "E dì a coloro che hanno ricevuto il Libro e agli illetterati: Vi siete sottomessi? Se si sottomettono, saranno ben guidati. Se ti volgono le spalle il tuo compito è solo di trasmettere. Allah osserva i suoi schiavi" (Sura della famiglia di 'Imrân, 3, 20). "E quando saranno trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori, ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se si pentono, se eseguono la salât e pagano la zakat, lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore misericordioso. E se qualche associatore ti chiede asilo, concediglielo purché ascolti la parola di Allah e poi rimandalo in sicurezza" (Sura del pentimento, 9, 5-6.). Cosa sappiamo della tolleranza persiana? Sappiamo che ancora prima di Cristo c'era in Persia una tradizione tollerante nei confronti degli Ebrei. Ciro, figlio di Astiage, nell'anno 538 prima dell'era cristiana proclama per tutto il regno a voce e per iscritto il famoso editto del ritorno dall'esilio. "Il Signore re dei cieli mi ha consegnato tutti i regni della terra. Mi ha comandato di costruire un tempio in Gerusalemme. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta" (2 Cronache, 36, 22-23).
Altrettanto, nel libro di Ester, un editto del re persiano Serse o Assuero, proclama: "Gli Ebrei sono figli di Dio l'Altissimo, Massimo, Vivente, il quale in favore nostro e dei nostri antenati dirige il regno nella migliore floridezza. Quanto a voi, Ebrei, celebrate questo giorno insigne - il Purim - (...) Sia ricordo di salvezza per noi e per i Persiani benevoli" (Ester, 8, 12q-12u). La Persia continuò la sua tradizione di tolleranza sotto i Sassanidi cioè dal secolo iii al secolo vii dell'era cristiana quando arrivarono i musulmani. Costantino nel iv secolo constata che i barbari orientali, cioè i persiani, sono più tolleranti verso i cristiani degli imperatori romani suoi predecessori. Infatti i persiani accolsero i perseguitati da Roma e "li trattennero in una filantropica custodia". Spesso, attraversando il limes di Roma, di ritorno da incursioni vittoriose, si portano dietro schiere di migranti accompagnati da preti e vescovi. Assegnano terre e abitazioni e permettono di praticare indisturbati la loro religione. La tolleranza dei Sassanidi presenta più di una similitudine con quella dei musulmani. C'è una sola religione ufficiale dell'unica autorità persiana o re dei re, la religione di Zoroastro. Come l'unica religione del Profeta o del califfo è l'islam. L'autorità è gelosa delle sue esclusive funzioni e questo provoca reazioni di cui i protetti sono spesso vittime. Per esempio, Sapore ii, dopo la lettera di Costantino che gli raccomanda i sudditi cristiani, scatena contro di loro una persecuzione nell'anno 340. Nel caso dell'islam io temo che secoli di ingerenze politiche dell'Occidente in terra islamica abbiano provocato reazioni di cui i cristiani del dâr al-islâm sono vittime.
Le due tolleranze comportano il pagamento di una tassa di capitazione che in arabo si chiama giziya. Per la Persia lo prova un passo della Cronaca di Seert: "Quando il vescovo maggiore, Mar Simone Bar Sabba'e giunge alla presenza di Sapore ii, questi impone il tributo anche ai monaci che vivono in monastero e pretende che si raddoppi la tassa di ogni cristiano". Claude Cahen ha scritto che anche i musulmani in Egitto esentarono in un primo tempo i monaci dalla tassa. Ma in seguito, avendo constatato che all'arrivo degli esattori alcuni non monaci entravano in monastero per non pagare la tassa, i musulmani abolirono quella esenzione. Per ambedue la condanna cui giunge il versante intransigente della tolleranza ammette sempre, anche in extremis, il perdono del condannato, se solo professa la religione ufficiale, cioè lo zoroastrismo o l'islam. Di questo ci sono prove per la storia islamica. Per la storia persiana lo si trova documentato dalla Cronaca di Seert, dove Sapore propone più di una volta al vescovo maggiore di fare atto di culto zoroastriano. Sulla tolleranza dello zoroastrismo cito un particolare curioso. Aveva concesso la protezione ai cristiani. Quando arrivarono, i musulmani assicurarono i zoroastriani che sarebbero stati tollerati come gli ebrei e i cristiani. Ma i zoroastriani non vollero retrocedere dal grado di seguaci della religione dello sciah a quello di protetti. Migrarono in India dando origine al parsismo. Oltre le intuizioni di Shedd, aggiungo un testo di Jean-Marie Fiey: "Forse bisognerebbe pensare con valore di ipotesi a una formula di condiscendenza da parte dei padroni persiani e di umiltà da parte degli ospiti cristiani, i quali accettarono la loro situazione di clienti (pensiamo ai dimmî) in rapporto al governo e alla religione ufficiale rendendosi garanti, davanti a quei signori, delle intenzioni pacifiche dei cristiani" (Jalons pour une histoire de l'Église en Iraq, Louvain, 1970, p. 54 nota 4). L'iranista Richard Frye fa un passo avanti scrivendo in Cambridge History of Iran (volume iii, parte prima, p. 132): "Il riconoscimento legale di minoranze religiose, divenuto più tardi famoso sotto la forma giuridica del millet, sembra praticato dai primi Sassanidi con l'imposta relativa sulle minoranze".
(©L'Osservatore Romano - 14 marzo 2009)


Benedetto XVI e il realismo della fede - Lo strano divorzio tra esegesi biblica e teologia - di Enrico dal Covolo – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
Quale esegesi biblica per la Chiesa cattolica oggi, all'inizio del terzo millennio? È la questione fondamentale del nuovo libro di monsignor Lorenzo Leuzzi, direttore dell'Ufficio per la pastorale universitaria del Vicariato di Roma (La Parola nelle parole. Dal biblicismo al realismo della fede. I discorsi di Benedetto XVI al Sinodo dei Vescovi, Libreria Editrice Vaticana, euro 10, pagine 104). Già prima del Sinodo, la pubblicazione del Gesù di Nazaret di Benedetto XVI ha segnato una tappa decisiva in questo urgente itinerario di "unità tra esegesi e teologia". Com'è noto, la proposta originale del libro del Papa consisteva nell'integrare il metodo storico-critico con alcuni criteri nuovi, maturati soprattutto negli ultimi due decenni in vari ambienti cattolici della ricerca teologico-biblica. I "criteri nuovi" individuati dal Papa erano soprattutto una fiducia sostanziale nell'attendibilità storica del dato neotestamentario, contro il sospetto metodico; una robusta rivendicazione dell'unità e della continuità tra l'Antico e il Nuovo Testamento; un'ermeneutica più "ecclesiale", docile alla tradizione viva della Chiesa e al magistero dei suoi Padri, considerati come i primi interpreti della Scrittura; una più viva attenzione alla cosiddetta analogia fidei, cioè alle consonanze interne e alle corrispondenze reciproche dei vari dati della fede. Questo "metodo nuovo" - che il Papa definiva "esegesi canonica" (Gesù di Nazaret, p. 14) - consente, in ultima analisi, di "presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il "Gesù storico" in senso vero e proprio" (p. 18). Così non c'è più alcuna divaricazione tra il Gesù di Nazaret e il Cristo della fede. La tappa successiva, e al momento insuperata, nel medesimo itinerario di "unità tra esegesi e teologia" è costituita dall'intervento di Benedetto XVI alla quattordicesima congregazione generale dell'ultimo Sinodo. Tale intervento è riportato integralmente ne La Parola nelle parole, ed è commentato a più riprese nel testo. A ben guardare, l'intervento del Papa introduce un importante elemento di novità: assume i "criteri nuovi" dell'"esegesi canonica" per fondare e raccomandare una vera e propria "esegesi teologica". Il passaggio centrale è il seguente: "Il Concilio indica tre elementi metodologici fondamentali, al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia". Si deve cioè interpretare il testo tenendo presente l'unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama "esegesi canonica". Al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l'unità di tutta la Scrittura e la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente bisogna osservare l'"analogia della fede". In maniera coerente, il Papa va al cuore del nostro problema, quando aggiunge: "Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una "esegesi teologica", di un'esegesi adeguata a questo Libro. Mentre al primo livello l'attuale esegesi accademica lavora a un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l'altro livello... E questo ha conseguenze piuttosto gravi". La più grave è senza dubbio la devastante divaricazione tra la cosiddetta "esegesi scientifica" e la lectio divina, basata sull'"esegesi spirituale" o "allegorica" dei nostri Padri. A sua volta, questa divaricazione trova le sue profonde radici nell'ormai millenaria, reciproca indifferenza tra la cosiddetta teologia razionale, fondata sull'esigenza di chi pretende di capire tutto con le proprie forze, e la teologia monastica, la "teologia in ginocchio", per la quale la vera conoscenza di Dio passa attraverso l'esperienza contemplativa del suo amore. La proposta centrale di monsignor Leuzzi fin dal sottotitolo del suo libro invita a ricomporre tale divaricazione, trascorrendo dal "biblicismo" al "realismo della fede". È noto che il cosiddetto "realismo della fede" nel pensiero di Papa Ratzinger si fonda sul fatto che al centro della nostra fede non sta una serie di parole, e neppure un insieme di asserti teorici, ma l'incontro realissimo con una Persona, Gesù di Nazaret, il Lògos, il Salvatore del mondo. Così il medesimo "realismo della fede" si oppone a ogni sorta di "biblicismo" come pure a qualunque visione meramente intellettualistica e astratta di Dio. In questo il Papa dipende dai suoi maestri prediletti, che sono i grandi scrittori e dottori della Chiesa, da Origene ad Agostino, fino a Bonaventura. Per tutti loro la forma più alta della conoscenza è l'amore. Proprio questo è il "realismo della fede", che la Chiesa è chiamata a introdurre nel dibattito culturale di oggi come contributo peculiare al nuovo umanesimo.
L'esperienza di Gesù Cristo - diceva il Papa agli universitari il 23 giugno 2007 - non si può limitare alla semplice sfera intellettuale. Essa "include anche una rinnovata abilità: (... quella) di lasciarci entusiasmare dalla realtà, la cui Verità si può capire (solo) unendo l'amore alla comprensione". Questo "realismo della fede" si esprime anzitutto nei santi, testimoni privilegiati della verità e dell'amore. Ma un vibrante appello alla testimonianza il Papa lo rivolge a tutti i credenti, e tra essi, in modo particolare, a coloro che sono "chiamati a incarnare la verità della carità intellettuale, riscoprendo la loro primordiale vocazione a formare le generazioni future non solo mediante l'insegnamento, ma anche attraverso la testimonianza profetica della propria vita". Il "realismo della fede", mentre ricompone l'annosa divaricazione tra esegesi e teologia, fonda la "nuova evangelizzazione" e promuove il "nuovo umanesimo", traguardo ideale del dialogo tra la cultura e la fede davanti alla crisi della modernità. Infine potremmo riferirci a un passaggio illuminante della Spe salvi, là dove Benedetto ribadisce che "non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore" (n. 26). In altri termini, non è il "biblicismo", non sono le parole che salvano. Ciò che salva è quell'unica Parola d'Amore che è Gesù Cristo, il Figlio di Dio. "Se esiste", come di fatto esiste, "l'Amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora - soltanto allora - l'uomo è "redento", qualunque cosa gli accade".
(©L'Osservatore Romano - 14 marzo 2009)


La «Sinfonia della parola» di Frédéric Manns - L'amore è un principio d'interpretazione - di Marco Tibaldi – L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2009
Lo sviluppo della scienza e della tecnica non ha cancellato la necessità dell'orizzonte simbolico. L'uomo postmoderno, ultimo Prometeo, cerca rifugio nell'originario linguaggio del simbolo. Anche senza troppo discernimento è affamato di questo nutrimento antico che non di rado trova solo in illusori surrogati. L'uomo è alla ricerca, spesso senza saperlo, del simbolo originario della Parola che sola lo può saziare. Di questo tratta l'ultimo testo del padre francescano Frédéric Manns, direttore emerito dello Studio Biblico francescano a Gerusalemme. Nel suo Sinfonia della Parola. Verso una teologia della Scrittura (Edizioni Terra Santa, Milano 2008, pagine 260, euro 18,00) lo studioso delinea le coordinate di un percorso che conduce a una duplice meta. Da un lato viene tracciato un itinerario di sintesi tra esegesi scientifica e teologia, dall'altro vengono fornite delle chiavi per l'annuncio e la preghiera personale delle Scritture. Il punto sorgivo dell'itinerario è proprio la centralità della dimensione simbolica della Scrittura poiché "la parola di Dio è una realtà così ricca che il linguaggio razionale non è in grado di circoscrivere. Essa stessa è ricorsa al simbolo che illumina le sue numerose sfaccettature, poiché in essa è contenuto un mistero nascosto da secoli in Dio (cfr. Colossesi, 1, 26)" (pagina 5). L'eccedenza comunicativa del simbolo si manifesta anche come capacità di parlare a quei costitutivi profondi dell'uomo, che permangono inalterati anche nel mutare delle epoche e delle società. Ciò non è frutto di qualche moderna strategia comunicativa, ma si radica profondamente nella struttura stessa della Scrittura, che rilegge simbolicamente il significato dei suoi eventi fondatori, applicandoli, già al suo interno, a contesti diversissimi tra loro, come testimonia, ad esempio, la lezione del profetismo. In questo modo, la tanto agognata attualizzazione del testo biblico all'uomo contemporaneo nasce dalla lettura stessa del testo. La fecondità dell'approccio proposto si può notare dalla ricchezza di immagini simboliche con cui viene definita la Scrittura. Una delle più incisive è la metafora nuziale che attraversa sia l'Antico sia il Nuovo Testamento fino al suo compimento ultimo. Il Cantico dei cantici, il salmo 45, il libro del profeta Osea offrono alcuni paradigmi per la descrizione dell'amore di Dio per il suo popolo, per questo san Paolo parlerà della Chiesa come di una fidanzata e una vergine da presentare a Dio (2 Corinzi, 2, 1-3). Questo tema ha alimentato incessantemente l'esegesi dei padri. Non si tratta solo di descrizioni poetiche, ma di una vera e propria ermeneutica perché, come ricorda Manns, "l'amore è un principio d'interpretazione, perché solo colui che ama comprende il linguaggio dell'altro con i suoi sottintesi" (pagina 23). Con la stessa ricchezza di riferimenti vengono presi in esami molti altri simboli biblici della Parola. Tutta la forza della simbologia corporea è convocata per esprimere il legame tra Scrittura e vita: così la Parola è stata letta nel simbolo della manna, del pane, dell'acqua, del miele e del profumo. La sua capacità di orientare concretamente le scelte dell'uomo è evidente nei simboli della spada a due tagli e dello specchio, così come la sua armonia in quello della tromba o in altri strumenti musicali. Da questa ricca simbologia nascono alcuni criteri interpretativi, comuni alla tradizione ebraica e cristiana, che si possono riassumere nell'importanza dell'azione. Solo chi agisce in conformità al bene e alla vita che la Scrittura testimonia la può intendere veramente. Per questo, ricorda Manns, "se lo studio della Torah è tagliato fuori dalla vita, esso risulterà incompleto. Gli mancherà qualcosa".
(©L'Osservatore Romano - 14 marzo 2009)


QUASI MISTIFICATORIO IL DIBATTITO SULL’ARTICOLO 32 - Libertà e realismo i perni della Carta - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 14 marzo 2009
U no degli scogli sui quali si va ingarbugliando il dibattito intorno alla legge sulla cura delle persone in prossimità della fine della loro vita e l’assistenza ai malati cronici non autosufficienti è costituito dal consenso ai trattamenti sanitari. Espresso dal paziente, se ne ha la capacità, oppure da un suo rappresentante (parente, tutore e altri soggetti autorizzati), contestuale o pregresso che sia, il consenso ad un intervento sul proprio corpo (o attraverso il proprio corpo) eseguito da personale medico o infermieristico in nessun caso è la pura attuazione della libertà del malato, quasi essa fosse assoluta, incondizionata dalle circostanze in cui egli si trova. Come tutte le decisione nella nostra vita, anche quella di ricevere o rifiutare un farmaco, l’infusione di acqua oppure l’introduzione di una miscela nutrizionale, non rappresenta un’opzione aperta a tutte le possibilità che l’universo racchiude e la ragione dischiude. L’esperienza del limite (nostro e degli altri), che inesorabilmente accompagna ogni esistenza sulla terra, ci invita ad essere realisti: domandiamo l’impossibile perché il nostro cuore è fatto per l’infinito, ma abbracciamo quotidianamente solo ciò che ci è concesso da Dio e dagli uomini. Così, quando un paziente prende una decisione riguardo alla malattia e alle sue conseguenze sulla propria vita, la libertà di rifiutare non è mai pari a quella di scegliere, che resta sempre circoscritta alle possibilità attuali di intervento sul proprio corpo e alle condizioni fisiopatologiche in cui esso versa, che possono consentire oppure no determinati interventi.
Il frequentemente citato articolo 32 comma 2 della Costituzione sancisce la possibilità di rifiutare un intervento medico (salvo i casi di trattamento sanitario obbligatorio previsti dalla legge a tutela della incolumità propria e altrui), non proclama la libertà assoluta di scelta.
Una astrattezza, quest’ultima, che i padri costituenti si sono ben guardati dall’inserire nella Carta, caratterizzata da un solido realismo critico e da una saggezza umana e giuridica finissima, lontana da ogni retorica ideologica e demagogica. Accade invece di udire, tra le voci che si ergono a sua difesa in riferimento a questo articolo, toni di esaltazione della cosiddetta 'libertà di cura' o 'di fine vita' che, mossi dall’intento di radicare nel diritto costituzionale un preteso 'diritto a scegliere la propria morte', tradiscono l’idea di tutela e promozione della vita, della salute e della dignità di ogni cittadino che abita ogni pagina della legge fondamentale della Repubblica. Il consenso informato all’atto medico – un ragionevole presupposto della relazione paziente-medico – viene da alcuni elevato a vessillo di una battaglia per un’impensabile e irrealizzabile capacità del malato di 'gestire il proprio corpo' secondo una molteplicità di scelte che non troverebbero alcun limite obiettivo né nella fisiopatologia umana né nella considerazione delle conseguenze di determinati interventi o sospensioni di atti di cura medica e infermieristica. In tal modo, da principio ispiratore e garante di una corretta prassi della medicina che riconosce nella persona del paziente e in quella del medico due soggetti in costante dialogo e alleati nella lotta contro la malattia, il consenso o il dissenso agli interventi sanitari diviene strumento di estraneazione della cura da ogni riferimento concreto alle condizioni di possibilità dell’esercizio della libertà dell’uomo. Senza il riconoscimento del valore fondamentale della vita umana per la persona e la società, anche l’affermazione e la difesa della libertà dei cittadini di fronte alle possibilità e alle invasività della medicina diventa evanescente e, come tale, non incide più sulla edificazione del bene comune di un popolo.


Scola: nuova laicità in una società plurale - «I cattolici non si rassegnino all’irrilevanza» - Il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia - DAL NOSTRO INVIATO A RIVA DEL GARDA ( TN) PAOLO VIANA – Avvenire, 14 marzo 2009
«La lettera del Papa è una lezione di umiltà anche per i politici». Le pole­miche sul caso Williamson appro­dano a Riva del Garda, dove ieri si è aperta con una relazione del Pa­triarca di Venezia l’assemblea di Re­te Italia. Il cardinale Angelo Scola, chiamato dai cattolici del Pdl a ri­flettere sul rapporto tra Chiesa e po­­litica, dopo aver ricordato la dichia­razione «di intenso affetto collegia­le » dei vescovi italiani, ha usato pa­role drammatiche per chiudere il ca­so: meditate tutti, ma soprattutto i politici, ha detto, sulla lettera di Be­nedetto XVI «che non si para dietro ad un ruolo ma comunica se stesso. Tenete conto di cosa significa che un Papa si autoesponga in questi ter­mini ». Tinte forti, insomma, per introdur­re una riflessione che è andata ben oltre l’ambito politico per investire il rapporto tra la Chiesa e la società «plurale», alle prese con il meticcia­to e con il rischio del «nuovo ridu­zionismo ». In questo scenario, Sco­la ha rivendicato ai cristiani uno spa­zio - «l’Italia ha il vantaggio di avere una ricchezza di società civile, che altri Paesi europei non hanno, an­che se a qualcuno non piace perché al di là degli 'ismi' del passato non è facile ascoltare il popolo» - e alla Chiesa un ruolo: «In una società plu­rale, tutti promuovano – ha chiesto – la configurazione di una sfera pub- blica plurale e religiosamente qua­­lificata, in cui le religioni svolgano un ruolo di soggetto pubblico, ben separato dall’istituzione statuale e distinto dalla stessa società civile benché all’interno di essa». Insom­ma Stato, Chiesa e società distinte senza essere segregate. Quanto ai contenuti, ha parlato di una «nuova laicità» che «individua nella società civile plurale lo spazio in cui tutti i soggetti incessantemente racconta­no la loro esperienza, in vista di un riconoscimento reciproco».
Scola ha esortato i cristiani a un nuo­vo impegno politico, «la nuova ge­nerazione » invocata dal Papa, fa­cendo di questa nuova laicità la chia­ve del dialogo con il resto della so­cietà: «Una nuova laicità che parte dai beni spirituali e materiali che sia­mo chiamati a condividere con tut­ti, prima di affidarci alle procedure pattuite necessarie in uno stato di diritto per dirimere i conflitti, non certo eliminabili, anzi in una società plurale destinati a crescere». Quan­do le posizioni si divaricano, in­somma, invece di andare allo scon­tro in punta di diritto bisogna con­centrarsi sul contenuto, anche di­stinguendo tra i diritti «quali sono fondamentali, quali sono solo dirit­ti (e su questi quando è necessario si può chiedere un sacrificio) e qua­li sono solo diritti presunti».
Inquadrate le regole della nuova lai­cità, il Patriarca ha indicato le forme concrete dell’impegno politico. Ar­chiviando il partito unico dei catto­lici, ha sottolineato che essi «non de­vono rassegnarsi all’irrilevanza» ma «concorrere al bene comune ren­dendo pubblicamente ragione del­la fecondità sociale della propria fe­de ». L’obiettivo, ha indicato, è la «ri­cerca di un compromesso nobile, con il realismo di chi sa che non si dà convivenza civile senza sacrifici». Insomma, «lo scopo non può esse­re la realizzazione della società per­fetta », per quanto, «operando in par­titi diversi, i laici cattolici dovranno praticare il decisivo principio di di­stinguere nell’unità». Ossia, «non dovranno perdere il senso della co­mune appartenenza ecclesiale e mostrare che in necessariis (ci vuo­le)
unitas » E « in dubiis (quando so­no in gioco questioni di principio)
libertas. In ogni caso non farà venir meno in omnibus caritas ». La rifles­sione proseguirà il 24 aprile a Vi­cenza, dove il Patriarca parlerà alla consulta cattolica dell’Udc.
Intervento del cardinale di Venezia all’assemblea di Rete Italia del Pdl «Chi crede renda pubblicamente ragione della fecondità sociale della propria fede»


Staminali da placenta, esperti a Brescia: «Si va verso sperimentazioni cliniche» - DAL NOSTRO INVIATO A BRESCIA - ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 14 marzo 2009
B rescia è la culla della placenta. L’efficace im­magine che un congressista ha proposto al secondo Workshop internazionale sulle cel­lule staminali derivate dalla placenta, ben delinea il ruolo di prima fila che il Centro di ricerca «Euge­nia Menni» di Brescia si è ritagliato in questo gene­re di studi nel corso degli ultimi anni. E Ornella Pa­rolini, direttrice del Centro che fa parte della Fon­dazione Poliambulanza, sottolinea i passi compiu­ti nella ricerca mondiale sulla cellule staminali nel tempo trascorso dal precedente workshop, che si svolse sempre a Brescia nel 2007: «Due anni fa il centro dell’attenzione era trovare un terreno co­mune, definizioni e protocolli condivisi, e si stu­diava il potenziale delle cellu­le staminali tratte dalla pla­centa principalmente in vitro: fu una sorta di prima confe­renza di consenso tra i ricer­catori di tutto il mondo impe­gnati in questo campo di ri­cerca relativamente nuovo. Oggi che ci ritroviamo siamo un passo avanti: ci sono i pri­mi risultati delle sperimenta­zioni in vivo su animali e si guarda già a possibili speri­mentazioni cliniche. Noi ab­biamo trovato che nei topi le staminali della pla­centa riducono la fibrosi polmonare». Accanto a questi risultati, gli esperti riuniti a Brescia hanno un’altra convinzione: oltre che ragioni etiche, ci so­no ragioni scientifiche per preferire l’utilizzo di cel­lule staminali da tessuti adulti, quali sono le cellu­le della placenta. Ne sono convinti i rappresentanti dei numerosi gruppi di ricerca presenti al workshop, che ven­gono da tutto il mondo: non solo italiani, ma an­che da Stati Uniti, Cina, Germania, Svizzera, Au­stria, Regno Unito, Francia, Belgio, Israele, India. E lo dimostrano i lavori sulle diverse aree in cui si stanno studiando le possibili applicazioni delle staminali da placenta: malattie infiammatorie, neurologiche, cardiovascolari, epatiche, lesioni del midollo spinale.
Ai possibili impieghi delle staminali da placenta nel­le malattie del fegato si dedica Stephen Strom all’U­niversità di Pittsburgh (Stati Uniti): «Sono facilmente reperibili e non presentano generano tumori come quelle embrionali». Il suo collaboratore, l’italiano Fabio Marongiu, aggiunge: «Crediamo che queste cellule arriveranno in clinica presto, prima delle cel­lule embrionali e delle Ips. Adesso lavoriamo alla differenziazione delle staminali della placenta per trasformarle in cellule del fegato. Ma sarà possibile usarle anche per testare farmaci».
Aggiunge Francesco Alviano (che lavora al Diparti­mento di Embriologia all’Università di Bologna con Gian Paolo Bagnara): «Dal punto di vista biologico, le cellule della placenta sono vicine a quelle embrionali per la loro origine. Hanno anche il vantaggio di essere facilmen­te disponibili e non hanno u­na maggiore efficienza delle cellule provenienti dagli adul­ti ».
Alle malattie neurologiche, e in particolare l’ictus, terza cau­sa di morte e principale causa di disabilità degli adulti nei Paesi sviluppati si dedica Da­vid Hess, direttore del Dipar­timento di neurologia alla facoltà di Medicina del­la Georgia (Stati Uniti). Di fronte all’assenza di trat­tamenti efficaci (c’è solo un prodotto biotecnologi­co, che però deve essere assunto nelle prime ore dopo la crisi), la via della medicina rigenerativa of­fre prospettive nuove: «Nessuno ha dato risalto al fatto che nel dicembre dello scorso anno la Food and Drug Administration ha dato il via libera al pri­mo studio clinico (di fase 1) per l’ictus con cellule staminali (brevettate) che verranno testate su sei pazienti». «E nessuno dice che la ricerca sulle cel­lule staminali embrionali, non ha ancora alcuna prospettiva terapeutica, e per ora rischia solo di il­ludere i pazienti».
Parolini (Poliambulanza): abbiamo verificato che nei topi queste cellule hanno l’effetto di ridurre la fibrosi polmonare Il neurologo Usa Hess: approvato dalla Fda il primo trial di fase 1 per l’ictus


CINEMA/ Weekend: Gran Torino rivela un sorprendente Clint Eastwood attore e regista - Beppe Musicco - sabato 14 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Snobbato dall’Academy ma premiato dal pubblico americano, Gran Torino è l’ennesimo film sorprendente di Clint Eastwood, che a 78 anni si dirige in quella che potrebbe essere la pellicola del suo congedo da attore. Walt Kowalski, burbero reduce della guerra di Corea, è animato da odio razzista verso i musi gialli, con i quali si trova ora a convivere in un quartiere di periferia di Detroit. Ad accendere la scintilla del suo rancore è l’imprudente gesto di Taho, giovane vicino di casa che tenta di rubargli la sua amata Ford Gran Torino. La rabbia vendicativa dell’uomo però lascia spazio a un inatteso risvolto quando Walt scopre che il ragazzo è perseguitato da una banda.
Ficarra e Picone promettono risate con La matassa che prende in giro e sdrammatizza le liti famigliari. E fedeli alla loro amata Sicilia, ambientano a Catania la storia di due cugini separati da 20 anni di litigi mai risolti. Al centro della contesa un albergo lasciato dal nonno a uno solo dei suoi figli e che diventerà teatro della riconciliazione (reale o apparente) dei nipoti. Tra funerali, matrimoni combinati e mafiosi arrabbiati i due finiranno per aggrovigliare ancor di più la “matassa” ricevuta in eredità dai genitori.
Vincent Cassel è l’ interprete di Nemico pubblico n°1 - L’istinto di morte, sulla storia vera di Jacques Mesrine, ex soldato ribelle dell’esercito francese di stanza in Algeria che divenne spietato criminale nella Francia degli anni ’70 e che tutti i mass media definirono "il nemico pubblico n. 1". Tratto dal romanzo autobiografico dello stesso Mesrine, “L'Instinct de mort”, il film narra delle rapine a mano armata del criminale insieme alla bella Jeanne Schneider. Un film teso e frenetico, con Cassel perfetto nel ruolo e un grande Depardieu nel ruolo di un anziano malavitoso.
L’epilogo di questa storia sarà raccontato in Nemico Pubblico n°2 - L'ora della fuga, in uscita il 17 aprile.
Frozen River, candidato a due premi Oscar per la miglior sceneggiatura originale (Courtney Hunt) e la miglior attrice protagonista (Melissa Leo) è un insolito thriller psicologico, girato tra le nevi. Abbandonata dal marito e completamente al verde, Ray accetta la proposta di Lila Littlewolf, una ragazza Mohawk che vive in una riserva indiana ai lati del confine tra gli Usa e il Canada: aiutare degli immigrati clandestini ad attraversare un fiume ghiacciato pattugliato su entrambe le sponde. Inizialmente il ghiaccio è ancora spesso, ma mentre i viaggi procedono Ray e Lila scoprono che il traffico di immigrati ha un prezzo molto alto.
Massimo Ranieri è protagonista de L’ultimo Pulcinella, il film per il quale Maurizio Scaparro si è liberamente ispirato a un soggetto inedito di Roberto Rossellini, che narra la storia del rapporto traumatico tra un ragazzo napoletano, che cerca nuovi stimoli creativi e di vita lontano dalla sua città, e suo padre, artista di strada che guadagna da vivere continuando a cantare e a recitare nelle piazze di Napoli "le storie di Pulcinella".
La forza necessaria ad affrontare una malattia incurabile è al centro de Il soffio di Victor Rambaldi, con protagonista Flavio Montrucchio, ex del Grande Fratello. Qui interpreta Alex, un giovane costretto alla dialisi che lotta tutti i giorni per non permettere alla sua malattia di controllare la sua vita, appassionato di arti marziali che insegue il sogno di inventare un nuovo stile capace di unire le energie del corpo e della mente che lui chiama “Il soffio dell’anima”. Grazie all’incontro con alcune persone e in particolare con Luna, di cui s’innamora perdutamente, troverà il modo per sconfiggere le proprie paure e coronare il suo sogno.


La visita del Papa in Sinagoga, un segno “di rispetto e di amicizia”
Afferma il Rabbino capo di Roma

ROMA, venerdì, 13 marzo 2009 (ZENIT.org).- La vista di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma, prevista per l'autunno prossimo, sarà “un gesto importante che segna la volontà di continuare un approccio di rispetto e di amicizia, una volontà di costruire insieme e di camminare insieme, ciascuno tenendo conto delle diversità, di guardarci con simpatia”.
Lo ha affermato ai microfoni della “Radio Vaticana” il Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, confermando quanto annunciato durante la trasmissione “Porta a porta” dal presidente della Comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici.
“L'invito è stato fatto e sembrerebbe che verrà – ha dichiarato Pacifici rispondendo a una domanda del conduttore, Bruno Vespa -. Aspettiamo conferma scritta. Quella verbale è arrivata, la visita sarà in autunno”.
La visita del Papa alla Sinagoga è stata confermata questo giovedì dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, S.I.
Parlando all'emittente pontificia, il Rabbino capo di Roma Di Segni ha ricordato l'“episodio epocale” rappresentato dalla visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma, nel 1986.
“Si è trattato di un evento che non accadeva da millenni… - ha ribadito -. C’è un precedente di un Papa in una sinagoga romana, sicuramente almeno uno: io mi riferisco a Pietro. Il gesto di Giovanni Paolo II è stato un gesto storico e ha aperto una nuova era”.
Di Segni si è quindi riferito al viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, previsto per maggio, sottolineando che “anche in questa occasione la presenza del Papa significa attenzione, condivisione, rispetto, e volontà di partecipare ad un progetto di pace che deve essere condiviso”.
Allo stesso modo, il rabbino ha espresso apprezzamento per la Lettera che il Pontefice ha inviato a Vescovi del mondo circa la remissione della scomunica ai quattro Vescovi consacrati illecitamente da monsignor Marcel Lefebvre, definendo il testo “molto importante”.
“Ci stupisce positivamente la sottolineatura sul fatto che siano stati proprio gli amici ebrei a comprendere le parole del Papa – ha confessato -. Quindi, va letta come un gesto di attenzione nei nostri confronti”.

Nonostante questo, ha riconosciuto che nel confronto ebraico-cristiano ci sono “tanti problemi”: “problemi teologici, storici molto delicati che ci dividono. Alcuni ci dividono in maniera insormontabile perché chiaramente le differenze ideologiche non possono essere colmate. Altri ci dividono dal punto di vista storico-emozionale”.
“Però abbiamo anche impegni di testimonianza comune, possibilità di agire nella società con i valori che condividiamo – ha ammesso –. Se si toglie la parte conflittuale, ogni cosa che ne consegue può essere un grande frutto e un grande bene per tutti”.

In questi giorni, ha concluso il Rabbino, “molte delle nubi che si erano addensate non ci sono più. Prevale un clima di buona volontà che è molto importante”.


L’Islam spiegato da un sacerdote egiziano (parte II) - Intervista a padre Samir Khalil Samir, S.I. di Annamarie Adkins
BEIRUT, venerdì, 13 marzo 2009 (ZENIT.org).- Padre Samir Khalil Samir, di origine egiziana e da lungo tempo residente in Medio Oriente, afferma di non temere i musulmani.
Conosce la loro fede e conosce il Vangelo, e sa che il Vangelo non può temere il Corano.
In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Samir ha illustrato le sue preoccupazioni: l’indifferenza dei cristiani che non conoscono la propria fede e la necessità di attivarsi per cogliere l’occasione di evangelizzazione costituita dall’immigrazione islamica in Occidente.
La prima parte di questa intervista è stata pubblicata il 12 marzo.
Quali sono i più diffusi luoghi comuni sull’Islam che lei ha trovato tra i cristiani praticanti?
Padre Samir: I luoghi comuni più diffusi sono piuttosto negativi: che i musulmani non sono persone moderne, che non sono aperti agli altri, che sono violenti... cose di questo genere.
Peraltro si riscontrano analoghi preconcetti tra i musulmani in relazione ai cristiani: che sono miscredenti, pagani, immorali, aggressivi...
Anche l’idea che essi hanno sugli Stati Uniti è molto negativa: che è un Paese imperialistico, che usa il suo potere per dominare altri popoli, ecc.
Ma questa è una caratteristica comune dell’umanità. Ciascuno vede l’altro dal suo punto di vista e nota le differenze. E le differenze sono spesso viste in senso negativo. Come ha detto Cristo nel sesto capitolo di Luca, versetto 41: “Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, e non t'accorgi della trave che è nel tuo?”.
Dobbiamo quindi imparare a riconoscere che alcune differenze sono negative, ma che altre sono positive.
Abbiamo diversi modi di intendere le cose. Per esempio, la Trinità nel nostro dogma costituisce la più profonda espressione di comunione con Dio stesso: egli è in sé amore e donazione. Ma per i musulmani viene vista come un qualcosa di terribile: tre dei.
Ai loro occhi i cristiani sono come i vecchi pagani, che credono in più di un dio.
Quali sono le domande più frequenti che le vengono rivolte quando parla dell’Islam?
Padre Samir: Il più delle volte mi si chiede se un buon musulmano può essere moderno e fedele allo stesso tempo.
In Europa, sopratutto in Francia, la questione principale è se l’Islam possa essere compatibile con una società laica. Un altra questione è se l’Islam sia in sé violento. Questa domanda non manca mai. Ci si chiede se è un qualcosa di connaturato all’Islam o semplicemente un problema del periodo attuale.
Storicamente, le terre musulmane sono raramente tornate al Cristianesimo o ad altra religione e sono generalmente intolleranti. Oggi assistiamo ad un’esplosione demografica tra le comunità musulmane in terre tradizionalmente cristiane come l’Europa e il Nord America. I cristiani devono temere la crescita dell’Islam? Quale può essere una corretta risposta alla costante espansione della umma musulmana?
Padre Samir: I musulmani raramente si convertono al Cristianesimo o ad altre religioni. Questo è vero. Anche se abbiamo visto, negli ultimi 10 anni, un cambiamento: in Algeria si stanno approvando leggi contro la conversione al Cristianesimo, ma questo non sembra arrestare le conversioni.
Lo stesso, anche se con minore intensità, si sta verificando in Marocco. Nell’Africa meridionale le conversioni sono molto più frequenti.
Su YouTube si può vedere uno spezzone di Al Jazeera in arabo, sul tema delle conversioni di musulmani al Cristianesimo. La risposta dell’imam libico, responsabile della propagazione dell’Islam in Africa, era quella di trovare il modo per fermare le conversioni al Cristianesimo, considerato che sono stati 6 milioni i musulmani che sono passati al Cristianesimo in Africa.
Perché l’Islam è in crescita in Europa e in America? Perché i musulmani fanno figli.
Poco tempo fa ho incontrato un mio ex studente, un musulmano algerino, e gli ho chiesto se si era sposato e se aveva avuto figli. Mi ha risposto che lui e sua moglie avevano tre figli, ma che questo era solo l’inizio della loro famiglia. Nel frattempo, in Occidente, la gente fa uno o due figli ed è convinta che sia sufficiente.
Ciò che io temo è soprattutto l’indifferenza di molti cristiani nei confronti della propria fede. Generalmente i cristiani affermano che non importa se sei cristiano, musulmano o buddista, l’importante è che ci si ami l’un l’altro.
Questo in parte è vero, ma allora bisogna chiedersi: “Come possiamo amarci meglio?”. E la risposta è che amerò meglio se sono un vero cristiano e se vivo secondo il Vangelo.
Non temo i musulmani. Conoscendo la loro fede e conoscendo il Vangelo, il Vangelo non può temere il Corano.
Dopo il famoso discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, ha riscontrato un maggiore interesse nei cristiani di conoscere i musulmani e di promuovere il dialogo, o è piuttosto vero il contrario?
Padre Samir: Ritengo che il famoso discorso di Papa Benedetto a Ratisbona sia stata una tappa fondamentale dell’ultimo decennio.
La prima reazione da parte dei musulmani è stata molto negativa. Molti cristiani e cattolici l’hanno ritenuto un errore. Dopo un po’, quando le acque si sono calmate, i musulmani hanno iniziato a ripensarci. Anche i cristiani hanno iniziato a chiedersi perché il Papa abbia citato quella frase del XIV secolo.
Allora abbiamo tutti, cristiani e musulmani, iniziato a riflettere su ciò che il Papa abbia veramente detto nel suo discorso. Quella singola frase non era sbagliata, ma difficile da spiegare, perché richiede di tornare indietro nella storia, ma il discorso nel suo insieme era di otto pagine.
Molti in Occidente si sono resi conto che era molto positivo e che, in realtà, il Papa aveva toccato un punto essenziale. La fede sta scomparendo in Occidente. La ragione è svuotata della sua originaria accezione spirituale derivante dalla cultura greca. Si tende a pensare che se qualcosa non è materialmente dimostrabile, essa non esiste. Ma oggi la gente inizia nuovamente a riflettere sulla fede.
Nel mondo musulmano è avvenuta la stessa cosa. Centotrentotto persone, guidate dal principe Al-Ghazi di Giordania, hanno sottoscritto una lettera molto importante di risposta al discorso di Ratisbona. Ora sono 300 le persone che hanno firmato questo documento in cui si spiega che l’Islam e il Cristianesimo hanno in comune un duplice principio: l’amore a Dio e l’amore al prossimo.
Dopo due anni, nel novembre del 2008, abbiamo avuto a Roma un incontro fra 30 musulmani e 30 cattolici, per discutere delle questioni sollevate nel discorso di Ratisbona.
È stata una discussione straordinaria. Non è stata sempre facile, ma è stata profonda e aperta, ed ogni partecipante ha dimostrato un grande impegno nell'ascoltare l’altro.
L’ultimo giorno abbiamo scritto un documento congiunto. Ma ad un certo punto era diventato impossibile andare avanti: il contrasto in merito alla libertà di coscienza era diventato insormontabile.
Poco prima della conclusione, e prima dell’incontro con il Papa, il Cardinale Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, ha affermato: “Purtroppo devo annunciare una cosa molto triste: non abbiamo potuto raggiungere una posizione comune”.
Ma un minuto dopo, il Gran Muftì di Sarajevo, l’imam Mustafa Ceric, rappresentante del gruppo musulmano è venuto e ha detto: “Ho buone notizie: diamo la nostra adesione al punto cinque relativo alla libertà di coscienza”. Ha spiegato che il tema era contenuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sottoscritta da gran parte dei Paesi musulmani, e che pertanto non vi era motivo per i rappresentanti musulmani di rifiutarlo.
Abbiamo compiuto piccoli passi per due giorni e il terzo giorno abbiamo riconosciuto di poter essere d’accordo.
Abbiamo convenuto di avere un incontro ogni due anni, ospitato, alternativamente, una volta dai musulmani e l’altra dai cattolici.
Questa è una risposta a Ratisbona ed è una risposta molto positiva.
Qual è, in base alla sua esperienza, il modo più proficuo per promuovere la pace e la buona volontà tra cristiani e musulmani?
Padre Samir: Come cristiano so che i musulmani sono amati da Dio. Dio li ama. Questo è molto importante. Non sono nemici, non sono stranieri; sono, in quanto credenti sinceri, membri della nostra famiglia.
I musulmani sono persone religiose: un buon musulmano mette Dio al di sopra di ogni altra cosa nella sua vita, normalmente. Lo stesso dovrebbe essere detto per i cristiani, ma bisogna riconoscere che spesso, in Occidente, i cristiani non mettono Dio al di sopra del resto.
Quando ho un incontro con un musulmano, io so che se faccio appello ad un qualcosa di religioso della sua e della mia vita, saremo d’accordo. Saremo d’accordo sui valori perché entrambi sappiamo che essi vengono da Dio.
Siamo tutti fratelli. E non è un’asserzione retorica. È vero. Siamo tutti fratelli. Discendiamo tutti da Adamo. L’intento dell’Islam è di adorare l’unico Dio ed essi credono nel compimento della missione iniziata con Abramo, attraverso i profeti, Mosé e Cristo, e l’Islam.
Per me, come cristiano, è chiaro che il compimento è in Cristo, perché egli è la Parola di Dio. Dopo che Dio ha mandato la sua Parola, non può mandarne un’altra, il Corano, a correzione o compimento della sua precedente Parola, il Cristo.
Non sono d’accordo con i musulmani che affermano che il Corano rappresenta l’ultima parola di Dio e che Maometto è “il sigillo dei profeti”. Per me, il sigillo è Cristo e il Vangelo.
Qui siamo in disaccordo, ma questo disaccordo significa che entrambi cerchiamo la perfezione in Dio. E questo non è un male.
Non esiste esclusione. Io sono convinto che la perfezione e il compimento della perfezione sia nel Vangelo, ma sono anche convinto che il musulmano è protesto verso lo stesso obiettivo e lo stesso Dio.
Nella religione, la fede profonda è fonte di pace tra gli uomini. Questa fede non produce esclusione.
La gente si domanda: “Perché i musulmani si stanno diffondendo e stanno crescendo nei Paesi occidentali? Perché in Europa ci sono 15 milioni di musulmani? Non sarebbe meglio se non ce ne fossero affatto?”.
Ma il fatto che i musulmani siano presenti in Nord America e in Europa significa che essi sono il mio prossimo. Essi possono trovare una Bibbia e leggerla, e trovare Gesù Cristo. Essi possono entrare in una chiesa e partecipare alle nostre preghiere.
La tragedia è quando essi non trovano un cristiano vero che li possa aiutare.
Nel passato abbiamo attraversato gli oceani per convertire i musulmani e spesso era un’impresa quasi impossibile. Ora il musulmano è a casa mia, è mio vicino, e noi non facciamo nulla.
Per me è un peccato. Dopo tutti i nostri sforzi nel corso dei secoli per arrivare ai musulmani, Dio ce li ha portati a casa e noi non cogliamo l’occasione per condividere con loro la realtà più bella che abbiamo: Cristo e il Vangelo.
La presenza dei musulmani in Occidente è la più grande benedizione che avessimo potuto sperare. La questione è se vorremo aprire il nostro cuore e riceverli come fratelli.
Io ho una missione nei loro confronti e loro credono di avere una missione verso di noi. Loro conoscono il Gesù del Corano e io devo mostrargli il Gesù del Vangelo.
Questa è la nostra missione. È una missione straordinaria e ci dovrebbe dare una grande speranza.
Ogni cosa è provvidenziale. Non può essere che questo grande movimento di musulmani nel mondo stia avvenendo solo per motivi economici. È Dio che li sta inviando. Forse è il modo migliore perché loro possano scoprire la vera immagine di Dio; un Dio che è amore.
La nostra missione è di testimoniare che Dio è amore e solo amore.


14/03/2009 12:40 - CINA – TIBET - Osservatori internazionali per fermare le falsità della Cina sul Tibet, di Urgen Tenzin - Legge marziale, arresti, violenze, monasteri controllati: questa è la “pace” del Tibet decantata da Wen Jiabao. Nei dialoghi Cina-Tibet occorrono osservatori internazionali e stampa per verificare le reali intenzioni di Pechino. Il ricatto economico della Cina verso tutte le diplomazie mondiali. La campagna di offese contro il Dalai Lama accresce la protesta.
Dharamsala (AsiaNews) – “La Cina non è sincera”: così il tibetano Urgen Tenzin commenta le parole del premier cinese Wen Jiabao secondo il quale il Tibet sarebbe “pacifico e stabile”. Urgen Tenzin è il direttore del Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia (Tchrd) e accusa la Cina di diffondere voci false sulla reale situazione del Tibet, in questi giorni sotto un serrato controllo militare, con arresti, violenze, chiusure di monasteri, rieducazione. Di fronte a queste falsità, il direttore del Tchrd chiede che i dialoghi fra Cina e Tibet avvengano alla presenza di osservatori internazionali e dei media.
Wen ha parlato della situazione tibetana ieri durante una conferenza stampa a chiusura dell’Assemblea nazionale del popolo, il raduno annuale del parlamento cinese. Oltre a difendere la politica di Pechino, volta ad “accelerare lo sviluppo economico”, il premier ha anche riaffermato la volontà di dialogo della Cina con il Dalai Lama, purché questi abbandoni le sue “voglie separatiste”.
Tenzin accusa la Cina di voler distruggere l’immagine del Dalai Lama, ciò che “di più sacro hanno i tibetani” e di ricattare col commercio i politici del mondo perché non abbiano rapporti con lui.
Ecco quanto Urgen Tenzin ha detto ad AsiaNews:
Il premier Wen Jiabao ha detto che il Tibet è in pace. Come mai allora vi sono così tanti soldati e forze di sicurezza dispiegati nel Paese e intorno ai nostri monasteri? Le strade di Lhasa in questo periodo sembrano un campo militare. La Cina ha anche inviato nuove truppe per fermare ogni protesta. La zona è chiusa perfino ai turisti. Di che pace si parla? Questa è solo propaganda cinese! Se è vero che c’è pace perché Lobsang Wangchuk, 32 anni, è stato picchiato senza pietà e arrestato il 10 marzo scorso a Lithang? Perché i monasteri vengono chiusi e i monaci sottoposti a “educazione patriottica”?
Wen Jiabao dice che la Cina è desiderosa di continuare i dialoghi con il Dalai Lama, ma essi non sono sinceri. Mettono di continuo precondizioni inaccettabili ai tibetani, distorcendo la storia. Nei dialoghi la Cina non è né sincera, né positiva.
Da parte nostra noi siamo aperti al dialogo, ma esso non deve essere ristretto ai rappresentanti cinesi e agli inviati del Dalai Lama. Devono affrontare i problemi dei diritti umani e le aspirazioni di tutti i tibetani. Se i cinesi sono sinceri, come dicono, dovrebbero invitare a parteciparvi un osservatore internazionale e magari tenere questi dialoghi anche fuori dal territorio cinese. La Cina potrebbe scegliere qualunque posto nel mondo, dove si dà libertà alla stampa di coprire l’evento e questo metterà alla prova la sincerità dei loro intenti.
Ma tutto ciò mi pare quasi impossibile: il governo cinese si oppone a qualunque contatto fra leader mondiali e il Dalai Lama; esso minaccia qualunque nazione dicendo che ogni incontro con il nostro leader può danneggiare i rapporti commerciali; ogni menzione sui diritti umani in Tibet da parte di qualche governo nel mondo riceve minacce e sanzioni da parte della Cina…
Infine, la Cina continua a disprezzare il Dalai Lama e ferisce i tibetani in ciò che hanno di più sacro. Questa è la causa principale del nostro dissenso e delle nostre proteste. Tale situazione è insopportabile. Pechino continua a produrre false accuse contro Sua Santità il Dalai e questo provoca il nostro popolo a reagire, anche se in maniera non violenta.
(Ha collaborato Nirmala Carvalho)


13/03/2009 17:13 – CINA - L’eroe della Sars in Cina chiede le scuse del Partito per essere stato arrestato - Dopo la sua denuncia sulla Sars, che ha salvato tante vite, aveva domandato alla leadership di rettificare il giudizio sul movimento di Tiananmen, accusando l’esercito del massacro di aver usato armi proibite e essere stato “drogato”. Per quasi 10 mesi è stato sottoposto a interrogatorio e a lavaggio del cervello. Le scuse e il reintegro dei suoi diritti sono in linea con la “società armoniosa” sognata da Hu Jintao.
Pechino (AsiaNews) – Il dottore che per primo ha denunciato l’epidemia di Sars a Pechino, ha chiesto al Partito le scuse per averlo arrestato dopo le critiche da lui espresse sul massacro di Tiananmen. In una lettera indirizzata al segretario generale del Partito comunista e al Politburo, giunta ad AsiaNews, Jiang Yanyong chiede che le autorità “correggano i loro errori e esprimano delle scuse”.
La lettera è datata “6 febbraio 2009”. In essa Jiang Yanyong accusa in particolare l’allora capo della commissione militare, l’ex presidente Jiang Zemin, di averlo arrestato “violando la Costituzione [del Paese], quella del Partito e le regole disciplinari dell’esercito”.
Jiang Yanyong, 77 anni, è un dottore che lavora nell’esercito, all’ospedale 301 di Pechino. Nel 2003, in piena epidemia Sars è stato il primo a denunciarne la presenza costringendo il governo ad ammettere il problema e a allontanare l’allora ministro della sanità e il sindaco della capitale che avevano tenuto nascosto per mesi l’epidemia e la sua gravità. Grazie alla sua denuncia, e ai provvedimenti intrapresi, l’epidemia è stata debellata in pochi mesi, salvando molte vite. Pur avendo comunicato con giornalisti stranieri (azione proibita ai membri del Partito, senza l’autorizzazione), egli è stato considerato un eroe nazionale.
Ma nel febbraio 2004 egli ha inviato un’altra lettera, all’Assemblea nazionale del popolo, domandando la riabilitazione degli studenti e degli operai del movimento democratico dell’89, conclusosi con il massacro di piazza Tiananmen del 4 giugno. Nella lettera Jiang, che quel tempo all’ospedale curava i feriti dagli scontri, accusa i militari di aver fatto uso di armi vietate dalle convenzioni internazionali e accusa anche il governo di aver “drogato” i soldati facendoli credere che dovevano sconfiggere dei moti di insurrezione e “controrivoluzionari”. In questa seconda lettera egli domandava che alle vittime di Tiananmen fosse Dato l’onore di essere definiti “patrioti”.
A causa di ciò, il 1° giugno 2004 egli è stato prelevato dalla polizia e tenuto in un ostello dell’esercito. Per circa 10 mesi ha subito interrogatori e “sessioni di studio” per “comprendere e correggere” i suoi “errori”. È stato poi riportato a casa, ma tenuto agli arresti domiciliari ed è sotto inchiesta per “aver creato voci che demonizzano il Partito e lo Stato”.
Nella sua lettera a Hu Jintao e al Politburo, Jiang esige che gli vengano ridati i diritti per viaggiare all’estero (sua figlia Jiang Rui vive in California). In una velata accusa alla retorica di Hu Jintao, egli dice che solo con le scuse ufficiali e il ripristino dei suoi diritti, si può affermare che si stanno attuando gli “ideali della quarta generazione della leadership: ‘governo secondo la legge’, ‘mettere il popolo al primo posto’ e ‘costruire la società armoniosa’”. (WZC)


La terza domenica di quaresima nella tradizione bizantina - E il ladrone divenne teologo - di Manuel Nin – L’Osservatore Romano, 15 Marzo 2009
"Gioisci, o Croce, per la quale in un attimo il ladrone divenne teologo, gridando: "Ricordati di me, Signore, nel tuo regno". Della sua sorte facci partecipi". Questo tropario del martedì della terza settimana di quaresima raccoglie la confessione di fede del ladrone e di tutta la Chiesa che confessa il Signore crocefisso come re, Signore e datore di vita. Dalla sera del lunedì della terza settimana di quaresima al venerdì della quarta settimana la liturgia bizantina celebra e contempla la santa Croce come luogo di vittoria di Cristo sul peccato e la morte. Tutte le liturgie cristiane hanno lungo l'anno liturgico diverse feste della Croce, che di solito hanno origine da celebrazioni a Gerusalemme nate dalla venerazione solenne della Croce il Venerdì santo, come racconta Egeria intorno all'anno 383. Nella tradizione bizantina, in diversi giorni si celebra in modo speciale la Croce, ricordando che essa è presente nel cuore della vita della Chiesa, come l'albero è presente al centro del paradiso. Ogni mercoledì e venerdì si cantano tropari dedicati alla Croce, a cui sono dedicati il 14 settembre per l'Esaltazione della Croce, la terza domenica di quaresima, il 7 maggio e il 1 agosto. La celebrazione in questa domenica quaresimale ha un'origine costantinopolitana, legata a una traslazione di una reliquia della Croce da Apamea in Siria a Costantinopoli nel vi secolo, dov'è poi attestata dal patriarca Germano (715-730). La terza domenica è messa nel mezzo della quaresima, con una settimana che la prepara - facendola pregustare - e un'altra che la prolunga. In alcuni tropari della terza settimana si accenna al desiderio della "visione" della Croce, quasi che la liturgia volesse metterci in ansia per arrivare alla domenica. I testi liturgici mettono anche in rilievo i passi veterotestamentari che prefigurano la Croce di Cristo: l'albero del paradiso (Genesi, 2, 9); Giacobbe che incrocia le braccia per benedire i figli di Giuseppe (Genesi, 48, 14); Mosè con le mani alzate sul popolo che combatteva Amalek (Esodo, 17, 8); il serpente di bronzo innalzato da Mosè (Numeri, 21, 4). I testi della terza domenica ci presentano la Croce come porta del paradiso: la quaresima infatti comincia con l'espulsione di Adamo dall'Eden e diventa un cammino di ritorno. Come se la pedagogia di Dio, che ci vuol riportare al paradiso, a metà del nostro cammino ce ne facesse vedere già l'accesso, cioè la Croce. All'inizio della Divina liturgia della terza domenica di quaresima, la Croce è presa dall'altare, innalzata e posta su un vassoio con fiori ed erbe profumate, quindi portata dal sacerdote in processione e deposta al centro della chiesa, dove viene venerata dai fedeli. Nei testi liturgici la Croce non ci viene presentata in termini di sofferenza, ma in termini di gioia e di vittoria. Venerando e celebrando la Croce, celebriamo la Croce di Cristo che ci ristora, ci dà la vita e rende già presente la risurrezione di Cristo: "Ci prosterniamo davanti alla tua Croce e glorifichiamo la tua santa Risurrezione". Nei tropari cantati durante la processione e l'adorazione della Croce immagini contrastanti collegano l'Antico e il Nuovo Testamento: "Oggi il Signore dell'universo si lascia inchiodare sulla Croce, riceve la corona di spine colui che cavalca i cieli sulle nubi, rivestito di un mantello di derisione colui che con la sua mano ha modellato l'uomo, colui che dà la luce ai ciechi, riceve gli sputi da labbra impure, Croce vivificante, splendido paradiso della Chiesa, albero dell'incorruttibilità, porta del paradiso". La venerazione della Croce nella terza domenica di quaresima vuole sottolineare che essa ha valore in rapporto con Cristo e ci ricorda che il Signore vi fu crocifisso per la salvezza dell'uomo. Adorando la Croce è Cristo stesso che adoriamo, e anche i gesti esterni di adorazione e venerazione - le prostrazioni, i baci alla Croce - coinvolgono, con i canti e le preghiere, tutta la nostra persona, per portarci alla consapevolezza, all'esperienza della presenza misericordiosa di Dio attraverso il mistero di Cristo crocifisso, morto e risorto. La terza domenica situa la Chiesa nel cuore della quaresima, del cammino in cui siamo chiamati a seguire Cristo secondo la sua parola: "Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua Croce e mi segua". Con una celebrazione nella gioia per venerare la Croce come albero della vita: "Una volta mediante l'albero il serpente aveva chiuso l'Eden, ma l'albero della Croce lo apre a tutti coloro che desiderano purificarsi col digiuno e le lacrime". Il nuovo paradiso dove questo albero viene piantato è la Chiesa, e la Croce per la venerazione è collocata al centro della chiesa: "Si è rivelato un altro paradiso, cioè la Chiesa. Come una volta, essa porta l'albero della vita, la tua Croce o Signore, il cui contatto ci fa comunicare con l'immortalità". La Croce dunque come albero della vita, la Chiesa come paradiso, aspetti presenti nella liturgia e nell'iconografia orientali e latine. Nel bellissimo mosaico della Croce di San Clemente a Roma, senza differenza tra Oriente e Occidente, contempliamo la bellezza della Croce che non mostra la sofferenza, la morte, ma la serenità, il sonno, la pace: colui che vi è appeso, vi dorme. Una Croce dalla cui base germogliano rami abbondanti e vigorosi che avvolgono tutta l'abside, tutto il creato, a indicare che dalla Croce nasce la vita. Croce che ha attorno dodici colombe e quattro ruscelli ai piedi, icona della Chiesa che nasce dalla Croce da cui sgorgano i quattro Vangeli. Uno dei tropari della terza domenica riassume in modo molto bello la teologia della Croce: "Tre croci piantò Pilato sul Golgota, due per i ladroni e una per il datore di vita; l'Ade la vide e disse a quelli di laggiù: "O miei ministri e miei eserciti, chi ha conficcato un chiodo nel mio cuore? Una lancia di legno mi ha trafitto all'improvviso, le mie viscere vanno squarciandosi, il mio ventre è nei dolori, infuria il mio spirito, e sono costretto a rigettare Adamo e i nati da lui che a me mediante un albero erano stati dati: un albero li introduce di nuovo nel paradiso"".
(©L'Osservatore Romano - 15 marzo 2009)


La “Fides et ratio” e la questione del “senso”
ROMA, sabato, 14 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata dal prof. Giuseppe D’Acunto, LC, in occasione del Congresso sull'Enciclica di Giovanni Paolo II “Fides et ratio”, nel 10º anniversario della pubblicazione, svoltosi a Roma il 5 e il 6 marzo presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA).
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La Fides et ratio inizia modulando l’antico topos – prima platonico (Theæt., 155 d), poi aristotelico (Metaph., I, 2) – della meraviglia quale origine del filosofare.
Le conoscenze fondamentali [dell’uomo] scaturiscono dalla meraviglia suscitata in lui dalla contemplazione del creato: […] dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo. […] Parte di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza sempre nuovi [1].
Ora, come, per Aristotele, chi si meraviglia è colui che versa in uno stato di dubbio per essersi imbattuto in una “difficoltà (atopia)”, e proprio dallo stupore riceve l’impulso per liberarsi dalla propria ignoranza (che è ignoranza di cause), così la Fides et ratio afferma che quel che alimenta il desiderio di conoscere – «sempre di più e sempre più a fondo» – è una «ragione carica di interrogativi» (FR 8-9). E ciò perché la verità «inizialmente si presenta all’uomo in forma interrogativa» (FR 38) [2]. La prima questione che si impone ad ognuno di noi è quella del senso: del senso da dare alla nostra esistenza.
Sono domande [quelle radicali] che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza (FR 4).
Inoltre, affermando che la verità è un «cammino» che è stato dato a noi, in Oriente come in Occidente, «entro l’orizzonte dell’autocoscienza personale», per cui c’è un rapporto di proporzionalità diretta fra conoscenza della realtà e conoscenza di se stessi, si puntualizza che, proprio perciò, per l’uomo, «sempre più impellente [è] la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza» (FR 3).
Si aggiunga, infine, che il nostro vivere è costitutivamente fragile, ossia esposto al rischio permanente di apparirci come radicalmente svuotato di senso.
L’esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come quella del senso (FR 38).
E una delle domande radicali in cui si articola la questione, per noi inaggirabile, del “senso” è proprio quella che riguarda l’ineluttabilità della nostra morte, intesa come quel «fatto» che, sempre di nuovo, ci mette davanti agli occhi il problema del «senso della vita e dell’immortalità». Di fronte a tali «interrogativi [a cui] nessuno può sfuggire», l’uomo «cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca» (FR 39).
La Fides et ratio intende, così, il termine “senso” nell’unità della sua doppia accezione di significato e di orientamento. Ebbene, orientarsi – scriveva Kant, riflettendo proprio sull’unità delle due accezioni del termine “senso” – letteralmente «significa: determinare […] l’oriente»: disposizione che fondava in una umana «facoltà di distinguere», posta originariamente in noi dalla natura, ma consolidatasi in un “abito” «in virtù di un frequente esercizio» [3].
Ciò che Kant non si lasciava sfuggire sono proprio i risvolti metafisici di un tale “abito”, affermando che esso può esserci di aiuto nelle elaborazioni concernenti la conoscenza degli oggetti soprasensibili [4]. La capacità di orientarsi nello spazio fungeva, così, per lui, da modello per la capacità di orientarsi nel pensiero, ossia per quell’uso logico in cui la ragione, «partendo da oggetti noti (dell’esperienza)» ed estendendosi oltre i confini di quest’ultima, non trova un termine cui corrisponde un’intuizione, ma apre solo uno «spazio per essa» [5]. Tutto sta nell’appurare «se il concetto con cui osiamo spingerci al di là di ogni esperienza possibile è libero da contraddizioni»: in tal modo, noi non ci rappresentiamo un oggetto in veste sensibile, ma «pensiamo pur sempre qualcosa di sovrasensibile come per lo meno idoneo all’uso empirico della nostra ragione».
In sintesi, ciò che, per Kant, muove il pensiero nello «spazio smisurato del sovrasensibile per noi avvolto da tenebre profonde», permettendo ad esso di orientarsi, è unicamente il «bisogno della ragione», bisogno che si fa valere anche in rapporto al concetto di Dio, inteso come «intelligenza suprema» e come «sommo bene» [6].
Infatti non solo la nostra ragione sente già un bisogno di porre il concetto dell’illimitato a fondamento di quello di tutto ciò che è limitato, e quindi di tutte le cose, ma questo bisogno giunge a presupporre anche l’esistenza dell’illimitato, senza la quale sarebbe impossibile rendere ragione in modo soddisfacente sia della contingenza dell’esistenza delle cose nel mondo, sia soprattutto della finalità e dell’ordine che ovunque si incontrano in misura tanto ammirevole (nel piccolo, poiché ci è più vicino, più ancora che nel grande) [7].
Se abbiamo fatto questo richiamo a Kant è perché ci sembra molto produttivo per intendere il modo in cui la Fides et ratio prospetta la questione del “senso”: il bisogno che, per il primo, innesca la ragione e le fa da guida oltre la soglia del sensibile presenta delle analogie strutturali con ciò che la seconda chiama «intelligenza della fede». Ricordiamo, infatti, che la Lettera enciclica, laddove parla dell’«intellectus fidei» di s. Anselmo, dice che suo compito non è di formulare un giudizio di tenore intellettivo, ma – ben più originariamente – di «saper trovare un senso», ossia di «scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti della fede» (FR 57). O, detto in termini kantiani, che ci forniscano le coordinate essenziali per orientarci [8].
Ricordiamo, inoltre, che la definizione di filosofia offertaci dalla Fides et ratio la qualifica come ciò che, in origine, è un abbozzo di «risposta» alla «domanda circa il senso della vita».
Di fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l’uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell’uomo (FR 5-6).
In questa luce, fondamentale è la distinzione fra «sistema filosofico», in quanto «sapere sistematico» costruito nel segno della «coerenza logica delle affermazioni» e dell’«organicità dei contenuti», e «pensare filosofico» (FR 7), inteso come quella dimensione sorgiva del “senso” in cui il primo mette radici e a cui deve sempre tornare ad attingere.
Ed è proprio intorno a quest’ultimo punto che vorremmo chiudere il nostro breve contributo: la questione del “senso”, quale – abbiamo visto – è prospettata da Kant, presuppone come vincolante il riferimento in atto ad un principio senza il quale non è possibile orientarsi [9]: principio che la Lettera enciclica determina, appunto, nel segno di quel «desiderio di verità» che è una «proprietà nativa della […] ragione [umana]» (FR 6). In questa luce, l’uomo stesso è definito come «colui che cerca la verità», ricerca che, poiché non può essere del tutto inutile e vana, deve implicare, per il fatto stesso di porsi, «già una prima risposta» (FR 40). La «sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo» che ciascuno di noi custodisce in sé, insieme all’«assillo di alcune domande essenziali», «almeno l’abbozzo delle relative risposte» (FR 41).
“Tutti gli uomini desiderano sapere” [Aristotele, Metaph., I, 1], e oggetto proprio di questo desiderio è la verità (FR 36).
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1) Fides et ratio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 6-7 (citata, d’ora in poi, direttamente nel testo, con la sigla FR, seguita dall’indicazione della pagina).
2) Sul fatto che la meraviglia è quel «primo impulso conoscitivo» che si manifesta, innanzi tutto, sollevando in noi «una serie di quesiti», cfr., in particolare, di K. Wojtyła, Persona e atto, a cura di G. Reale e T. Styczeń, Rusconi, Milano 1999, p. 77.
3) I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero (1786), a cura di F. Volpi, tr. it. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1996, pp. 47-8.
4) Un tentativo di ripensare la metafora kantiana dell’orientamento, «nell’ottica di ciò che oggi comunemente viene chiamato “il problema del senso”», è rappresentato da A. Fabris, Kant e la metafora dell’orientamento, in «Per la filosofia. Filosofia e insegnamento», 2000, n. 48, pp. 65-74: p. 69. Qui, si nota come Kant sposti la trattazione delle questioni metafisiche fondamentali dal piano della spiegazione – su cui «era collocata gran parte della teologia filosofica [a lui] precedente» (p. 74) – al piano del senso. Mentre la spiegazione «rinvia alla catena delle relazioni causali (intese nel loro significato più ampio), grazie a cui qualcosa è fissato come tale a partire da qualcos’altro che ne è responsabile», il senso, invece, «non è colto all’interno di una catena che, sotto vari aspetti, può definire e spiegare il motivo del suo presentarsi». Esso, infatti, è un qualcosa che, riferendosi ad un’«ambito ulteriore», mantiene la differenza fra i due livelli in questione, «senza che si ricada nell’appiattimento della spiegazione» (p. 69).
5) Che cosa significa orientarsi nel pensiero, cit., p. 49.
6) Ivi, pp. 50-2.
7) Ivi, pp. 52-3.
8) A conferma di questa interpretazione dell’«intellectus fidei» di s. Anselmo, proposta dalla Fides et ratio, va rilevato che I. Sciuto, curatore di un’ed. it. del Proslogion (Rusconi, Milano 1996), nella sua introduzione (pp. 5-76) al testo, afferma che, nell’arcivescovo di Canterbury, il verbo credere ha un «uso chiaramente non fideistico», riferendosi al «momento preliminare […] del comprendere» (pp. 27-8), ossia a quei contenuti, non ancora accertati, la cui posizione ci serve per dare un primo “orientamento” al movimento di ricerca attivato dalla ragione.
9) In questa luce, ciò che F.Volpi, Kant e l’“oriente” della ragione, premessa a Che cosa significa orientarsi nel pensiero, cit., pp. 11-42, indica come un’aporia in cui rimarrebbe fatalmente irretita la posizione di Kant, è, invece, proprio il suo grande pregio: cogliere il dispiegarsi di un «riferimento oggettivo» all’interno di un «criterio soggettivo a priori dell’orientamento» (p. 34).


Il nichilismo da Nietzsche a Vattimo - Congresso sulla “Fides et Ratio” a 10 anni dalla sua pubblicazione
ROMA, sabato, 14 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata da padre Juan G. Ascencio, LC, in occasione del Congresso sull'Enciclica di Giovanni Paolo II “Fides et ratio”, nel 10º anniversario della pubblicazione, svoltosi a Roma il 5 e il 6 marzo presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA).
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Le seguenti riflessioni cercano di presentare alcune linee portanti del nichilismo, come si è sviluppato storicamente da Nietzsche a Vattimo. In seguito, confronterò brevemente i risultati della prima ricerca con la diagnosi che l’Enciclica Fides et Ratio ha fatto del nichilismo, facendo attenzione alle proposte rivolte al superamento del nihilismo.
Nietzsche si è battuto in diversi modi contro la ragione moderna, e non contro la ragione “tout-court”. Si ricorderà che la ragione moderna –quella concepita da Descartes, da Kant e da altri grandi filosofi—nutriva il desiderio di essere una ragione autonoma. Occorre però osservare che l’autonomia comportava anche l’atemporalità della ragione, la sua indipendenza dalla storia. Queste due caratteristiche della ragione moderna –l’autonomia e l’atemporalità-- sono difficilmente separabili. A differenza dell’autonomia, l’atemporalità era rimasta quasi nell’ombra di ciò che è dato per scontato. Perciò l’atemporalità, chiaramente più sguarnita dell’autonomia, fu uno dei fianchi più deboli della fortezza moderna.
L’ondata di riflessioni filosofiche sulla storia, anzi, sull’intero percorso storico del pensiero occidentale, è già ben presente in Hegel. Questa prospettiva di studio non abbandonerà più la filosofia. Nietzsche non trovò molta difficoltà per operare una generalizzazione e leggere la storia del pensiero occidentale alla luce di una antitesi: quella della ricerca razionale della verità dell’essere eleatico e platonico, e quella della ragione nihilistica, messa davanti ad un essere indifferenziato e informe, ovvero alla vita storica che scorre e agisce in modi che non possono essere colti con “categorie razionali”.
Una volta che la sua finta atemporalità è stata messa allo scoperto, la ragione moderna ha perduto la sua invulnerabilità. Il “soggetto” non si poteva più concepire come un “semplice dato”, al riparo da ogni critica. Il soggetto non era atemporale, a-storico, ma dipendeva totalmente da quella storia che aveva avuto inizio tra i Greci con l’ipotesi di un “essere stabile e vero”, del quale il soggetto era semplicemente il correlato in grado di accoglierne l’evidenza e la verità.
Nemmeno si poteva sostenere l’identificazione tra la mente e la coscienza soggettiva: l’io pensante si dimostrava essere soltanto una sovrastruttura che difficilmente avrebbe potuto dirsi autonoma e lontana dagli influssi di altre zone della complessa interiorità umana dove primeggiava la volontà di potenza.
Il successo di Nietzsche nella sua lotta contro il soggetto moderno è dunque dipeso largamente dal suo modo di guardarlo con sospetto, e dall’aver rinnovato il legame tra la conoscenza e la storia che era stato trascurato dai teorici della modernità. Questa sensibilità storica genererà, al tempo della sua maturazione, il vero movente del il nihilismo. Ciò è avvenuto puntualmente con Heidegger, che collocò la storicità come il punto cardine della vita conoscitiva del Dasein. Forse senza volerlo, Heidegger si trovò così a prolungare nel tempo il nihilismo.
La via di Heidegger, anche tramite la riflessione ermeneutica di Gadamer, esercitò un lungo influsso nella filosofia della seconda metà del secolo XX. Essa conobbe poi un inasprimento distruzionistico in virtù della Nietzsche-Renaissance francese, attiva negli anni Sessanta, potenziata dai continui approcci freudiani e marxisti. Autori quali Derridà, Lacan e Foucault ne trassero abbondanti frutti.
Gianni Vattimo, nonostante la sua vicinanza a Gadamer, ha voluto rimeditare la lezione di Nietzsche e di Heidegger. Perciò egli richiama fortemente l’attenzione sulle categorie linguistiche, sulla loro storicità e sul loro rapporto mutuo: quando queste categorie cambiano, subentra il caos linguistico e culturale. Egli sottolinea anche l’autoreferenzialità del pensare e del parlare, lontani da ogni tipo di fondamentazione. La sua posizione potrebbe dirsi un nihilismo ermeneutico e relativistico, diverso dal nihilismo assiologico e storico di Nietzsche, e anche da quello ontologico e storico di Heidegger.
Siamo arrivati al primo momento di sintesi. Alla luce di questi passaggi storici, si può dire che il nichilismo presenti tre diversi livelli. Il primo è di tipo teorico, e conosce molteplici forme: il “pensiero debole”, il “relativismo”, il “pensiero posmoderno”, ecc. Il secondo livello è di tipo tecnico: sopravvive nella “civiltà tecnica” vincolata al tecnicismo. Infine, il terzo livello è di tipo pratico, una “dottrina della società” (secondo un’espressione di Vattimo).
A questo punto ci si può domandare se nell’Enciclica Fides et Ratio sia presente o no una comprensione sufficiente del fenomeno del nichilismo. Chi percorre con attenzione le sue pagine, può costatare l’acutezza della diagnosi ivi espressa. Non manca nessuno dei tre livelli che sono venuti a luce con l’analisi filosofica.
Il paragrafo 90 dell’Enciclica mette a nudo la radice di tutta la problematica: «l’oblio dell’essere», ovvero le «molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell’essere». Poi, l’Enciclica considera la conseguenza teorica principale: «il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva».
Ciò nonostante, ciò che appare maggiormente preoccupante secondo l’analisi dell’Enciclica è il fatto che, secondo il versante nichilistico della post-modernità, «il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato», condannando di conseguenza l’uomo «a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso». Diventa così palese il nesso tra la dimensione teorica del nihilismo (l’assenza di certezze) e la sua dimensione pratica o sociale (la disperazione diffusa), di cui si fa menzione anche nel paragrafo 46, che ricorda il nihilismo come «filosofia del nulla» che «riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei».
L’Enciclica non coglie solo le dimensioni teorica e pratica del nihilismo. Dà anche un certo spazio alla sua dimensione tecnica. Essa viene ricordata al paragrafo 91. Infatti, per l’uomo post-moderno l’unica speranza sembra essere contenuta nelle «conquiste scientifiche e tecniche» che gli consentirebbero di «giungere da solo ad assicurarsi il pieno dominio del suo destino».
L’Enciclica non solo presenta un attenta diagnosi del nichilismo. Essa mira anche al suo superamento. Sarebbe, però, un grande errore il voler ricorrere esclusivamente alla filosofia nella ricerca della cura da applicare. Il pensiero può e deve trovare il modo di uscire dalle secche del nihilismo scettico e relativista, ma ciò non basterebbe da solo. Certo, questa liberazione intellettuale è importante, e l’Enciclica ne spiega il motivo. La chiave risiede nell’unione esistente tra la libertà e la verità o, il che è lo stesso, nell’unione tra la dimensione speculativa e quella esistenziale.
A differenza del suo versante teorico, il nihilismo tecnico e quello pratico sono divenuti un problema di ordine culturale, non superabile con i soli strumenti della filosofia. Vengono implicate in quella problematica strutture, persuasioni esistenziali e modi di vivere il cui cambiamento è assai difficile. Basti dire che a questo punto la Fides et Ratio merita di essere seguita più nel suo invito alla Fides (e alla spes che ne fa seguito), che alla Ratio. In un certo senso, la cultura della vita, in quanto cultura umana aperta al Logos, è l’unica risposta adeguata. Varrebbe la pena tornare sulle pagine dell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa per capire più articolatamente quale sia la proposta cristiana per far fronte al nihilismo culturale. Togliendo il pungiglione a questo nihilismo –se mai sarà possibile farlo– non sarà difficile persuadersi definitivamente della vacuità del nihilismo tecnico e di quello teorico.