Nella rassegna stampa di oggi:
1) Don Carrón (Cl): «La crisi? - È un’emergenza educativa» - DA IMOLA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 12 marzo 2009
2) All’udienza l’incontro con un disabile che muove solo un mignolo ma ha scritto: «Santità, sono felice di vivere, sono entusiasta e curioso Ringrazio il Signore» - La carezza del Papa a «Capitan Uncino» .- DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO – Avvenire, 12 marzo 2009
3) Williamson, esclusivo Ecco la lettera umile e forte del Papa, di Andrea Tornielli, 11 marzo 2009
4) Storie di conversione: la cambogiana Claire Ly - In cerca di un Dio all'altezza del mio odio - di Elisabetta Galeffi – L’Osservatore Romano, 12 marzo 2009
5) Di fronte alla sovrabbondanza di informazioni e di risposte la modernità deve imparare a selezionare le domande - Nel nuovo rinascimento - l'uomo è un esploratore - Anticipiamo - nella traduzione di Claudia Gasparini della Libera Università San Pio v - il testo integrale di una delle relazioni magistrali che il 12 marzo apriranno in Campidoglio il Forum Internazionale delle Università. - di Eric McLuhan Professore emerito dell'università di Toronto – L’Osservatore Romano, 12 marzo 2009
6) L'Occidente e l'asse del Caos - Roberto Fontolan - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
7) BIOETICA/ Ecco perché la legge 40 è a prova di costituzionalità - Andrea Simoncini, Carter Snead - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
8) SCUOLA/ Autonomia scolastica e premi al merito: la lezione di Obama - Vincenzo Silvano - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
9) STORIA/ Aristotele contro Averroé: la replica di Franco Cardini - INT. Franco Cardini - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
10) OGNUNO MONADE CHE VIVE PER SÉ - LA FOLLIA DECLINATA NELL’OCCIDENTE DEL 2009 - MARINA CORRADI – Avvenire, 12 marzo 2009
11) matita blu - di Tommaso Gomez - Di passaggio, verso l’eutanasia - Filippo Facci è un giornalista che nella biro non ha inchiostro ma Tnt e sul computer ha il tasto ctrl+spingarda. – Avvenire, 12 marzo 2009
Don Carrón (Cl): «La crisi? - È un’emergenza educativa» - DA IMOLA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 12 marzo 2009
«L’emergenza educativa in atto non riguarda solo la scuola, ma è soprattutto una crisi dell’umano. Che si documenta nella passività di tanti giovani, quasi incapaci di interessarsi a qualcosa in modo duraturo, e nella stanchezza, nella solitudine, nello scetticismo di adulti che non sanno cosa offrire come risposta ». Don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha parlato a 2000 persone nel Palasport di Imola per un corso organizzato dalla diocesi e introdotto dal vescovo Tommaso Ghirelli. Carrón parte da una citazione di Alberoni: «Negli ultimi vent’anni molti sociologi erano convinti che nella società postmoderna spariscono non solo le ideologie ma tutte le certezze e lo stesso 'principio di non contraddizione', per cui non dobbiamo più decidere se è vero questo o quello: sono veri tutti e due. Adesso tutto questo è messo alla prova. Perché vediamo la fatica della nostra società a trasmettere la ragione del vivere, cioè a introdurre al reale le nuove generazioni».
Per descrivere il primo segno dell’emergenza, il disinteresse, il relatore richiama un articolo di Pietro Citati sugli eterni adolescenti: «Preferiscono restare passivi, vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L’unico loro tempo è una serie di attimi che non vengono mai legati in una catena o organizzati in una storia». «La ferita in questi giovani – rispondeva poco tempo dopo Eugenio Scalfari – è stata la perdita dell’identità e della memoria, la ferita è stata la noia che ha ucciso il tempo, la storia, le passioni e le speranze». Chiosa don Carrón: «Prima si impegnano per fare perdere ai giovani l’identità e poi si lamentano che non che l’hanno più».
Il presidente della Fraternità di Cl boccia anche i rimedi proposti da Umberto Galimberti a proposito della «generazione del nulla». «Poiché la ragione illuministica – osserva – non è in grado di destare l’interesse, Galimberti propone di tornare ai greci, immaginando una sorta di misura al pensiero illimitato. Ma proprio questa misura si dimostra sconfitta perché la passività aumenta». Senza interesse «si fa strada il nichilismo richiamato da Augusto Del Noce. Quello di oggi è un nichilismo gaio, senza inquietudine. Si potrebbe addirittura definirlo della soppressione dell’'inquieto cor meo' agostiniano. Questa è la disumanizzazione. Come una sorta di indebolimento del desiderio.
Non si trova una risposta all’esigenza di totalità; allora soccombiamo alla menzogna del relativismo ». Chi potrà contribuire alla sfida dell’emergenza educativa? «Chi ha qualcosa da offrire – risponde Carrón –. È un’occasione bellissima anche per la Chiesa. Soprattutto se accetterà di approfondire la natura del cristianesimo, che non è soltanto un insieme di verità o di regole ma la verità diventata carne. Solo se i concetti diventeranno carne e sangue nei testimoni si potrà ridestare la vita dal torpore offrendo un significato che ci consenta di affrontare tutto. Anche la crisi economica ». Chi sia in grado di offrire un’ipotesi che riempia la vita di fascino potrà avere qualche chance nel futuro, conclude il relatore: «Ora non è un’ideologia a decidere, ma il vaglio dell’esperienza. Siamo in un momento, da una parte terribile e dall’altra affascinante, dove a nessuno viene risparmiata la verifica del significato del vivere».
«Oggi pare dominare un nichilismo gaio, senza inquietudine.
Il futuro è di chi saprà offrire un’ipotesi che riempia la vita di fascino»
All’udienza l’incontro con un disabile che muove solo un mignolo ma ha scritto: «Santità, sono felice di vivere, sono entusiasta e curioso Ringrazio il Signore» - La carezza del Papa a «Capitan Uncino» .- DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO – Avvenire, 12 marzo 2009
Capitano Uncino – è stato lui con straordinaria ironia a battezzarsi così – non s’aspettava che il Santo Padre si avvicinasse, ma quando la moglie gli ha detto: «Giampiero, è il Papa che ti sta accarezzando», lui ha sorriso come solo sa fare, muovendo metà della bocca. La sindrome di Locked-in
consente a Giampiero Steccato soltanto di muovere il mignolo della mano sinistra e un po’ le labbra, e non lascia speranze. «Santità – ha detto la moglie Lucia – mio marito non può vederla, ma sente e capisce », allora il Papa ha assicurato che lo affiderà nella sua preghiera alla Madonna e pregherà per tutta la sua famiglia, per la moglie e per i figli Daniele e Silvia che negli occhi portano scritto un amore straordinario per il loro papà a cui resta soltanto un mignolo per ricambiare questo af- fetto. Giampiero Steccato ritorna a Roma dopo dieci anni. Proprio a Roma fu colpito dal male. Ma quando il Papa ha chiesto alla signora Lucia cosa li abbia spinti a venire, lei ha risposto: «Per festeggiare in modo degno i nostri 35 anni di matrimonio». Il Papa lo ha accarezzato ancora poi ha preso la lettera che quest’uomo ha dettato servendosi di un linguaggio fatto di gesti. Muovendo metà bocca e sfiorando con il mignolo della mano sinistra un sensore laser, Capitan Uncino ha scritto queste parole al Papa: «Con queste poche righe, vorrei trasmetterle quello che il mio corpo rischia di celare: ho voglia di vivere, sono entusiasta e curioso, amo la natura e il mondo in cui ho la fortuna e il privilegio di esistere. Sono consapevole – dice ancora nella lettera – che la mia fortuna è frutto della volontà del Signore e ringrazio infinite volte per quanto mi viene concesso, confido proprio nel Signore e anche nella Sua persona, perché spero che la Sua influenza possa permettere all’umanità un futuro migliore, la pace per chi vive in guerra, un po’ di pane per coloro che hanno fame e un po’ di solidarietà in una società troppo individualista ». Giampiero Steccato, o Capitan Uncino per quell’occhio che il morbo gli ha chiuso, è fatto così: «Non chiede mai per sé», come dicono pure gli amici che lo hanno accompagnato a Roma. Gli sta vicino l’amico di sempre, Giovanni Badini, e il cardiologo Ugo Gazzola, ex primario a Piacenza e adesso volontario con la Croce Rossa Italiana. Ad accompagnarlo in questo viaggio, che nelle sue condizioni gli è spesso sembrato irrealizzabile come un sogno, anche il vescovo di Piacenza, monsignor Gianni Ambrosio.
Giampiero Steccato non può muoversi senza una sedia a rotelle particolarmente attrezzata ed ha bisogno costante di alcune apparecchiature. Anche il figlio è raggiante: «A papà non è parso vero finché non ci siamo imbarcati su una aereo messo a disposizione dall’Aeronautica Militare ». L’Arma Azzurra non è nuova a queste iniziative umanitarie. Lo ha preso in cura l’equipaggio di un C27J della 46esima Brigata Aerea di Pisa: «Sono stati straordinari – dice il ragazzo –. Siamo commossi per quanto hanno fatto per noi. La gente quando vede il mio papà, per le condizione in cui si trova dimostra compassione e spesso guarda dall’altra parte. Sull’aereo, invece, hanno dimostrato affetto». Giampiero sullo scialle di lana che lo protegge porta due distintivi dell’Aeronautica, dono dell’equipaggio. Quando il Papa lo ha lasciato, ha detto alla moglie: «Non pensavo che mi accarezzasse». Con il mignolo e metà bocca, ma si è fatto capire.
Williamson, esclusivo Ecco la lettera umile e forte del Papa, di Andrea Tornielli, 11 marzo 2009
E' un testo articolato, bello, umile e allo stesso tempo forte: il Papa vuole fare chiarezza circa le polemiche sollevate dalla revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani e dal caso Williamson, e interviene sulle critiche divampate anche e soprattutto dentro la Chiesa. Lo fa con una lettera inviata a tutti i vescovi cattolici, ricordando che il caso “ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata“.
Benedetto XVI ricorda la “valanga di proteste” e l’accusa a lui rivolta di voler tornare indietro rispetto al Concilio. “Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come una smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Conciloio aveva chiarito per il cammino della Chiesa“.
L’invito alla riconciliazione con un gruppo che si era separato, è stato dunque presentato come una volontà di creare nuove fratture fra cristiani ed ebrei. Nelle parole di Papa Ratzinger emerge tutto il dolore che questa strumentalizzazione gli ha provocato, dato che proprio la riconciliazione tra cristiani ed ebrei “fin dall’inizio era stato un obbiettivo del mio personale lavoro teologico“.
Benedetto XVI spiega che in futuro la Santa Sede dovrà prestare più attenzione alle notizie diffuse su Internet (le dichiarazioni di Williamson erano circolavano infatti sul Web già prima della pubblicazione della revoca della scomunica) e aggiunge: “Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia“.
Il Papa si rammarica poi per il fatto che la stessa revoca della scomunica, “la portata e i limiti del provvedimento” non siano stati “illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione“. E precisa che la scomunica colpisce persone, non istituzioni: la revoca è un atto disciplinare, che rimane ben distinto dall’ambito dottrinale: “Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali” e i suoi ministri, anche se “sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica, non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa“.
Continuando su questo tema, il Pontefice annuncia di voler collegare la commissione Ecclesia Dei, che si occupa dei lefebvriani, con la Congregazione per la dottrina della fede. E a proposito del Concilio dice: “Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 - ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta con sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive“. Benedetto XVI - ed è la parte più commovente della lettera - risponde poi alla domanda critica che molti gli hanno rivolto in queste settimane: la revoca della scomunica era necessaria? Era davvero una priorità?
Il Papa risponde che la sua priorità come pastore universale “è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo … in Gesù crocifisso e risorto“. Nel momento in cui Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini, bisogna “avere a cuore l’unità dei credenti“, perché la loro discordia e contrapposizione “mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio“. Anche “riconciliazioni piccole e medie” fanno dunque parte delle priorità per la Chiesa. Il “sommesso gesto di una mano tesa” ha invece dato origine a un grande chiasso, trasformandosi così “nel contrario di una riconciliazione“.
Ma il Papa spiega come sia invece necessario cercare di reintegrare, prevenire ulteriori radicalizzazioni, impegnarsi per sciogliere irrigidimenti e dar spazio a ciò che vi è di positivo. “Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità” - i lefebvriani - “nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi … 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa?“.
Benedetto XVI non si nasconde che dalla Fraternità da molto tempo siano venute “molte cose stonate - superbia, saccenteria, unilateralismi ecc. Per amore di verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori“. Ma aggiunge che anche nell’ambiente ecclesiale sono emerse stonature: “A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi - in questo caso il Papa - perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo“.
Benedetto XVI ha dunque revocato la scomunica ai vescovi lefebvriani con lo sguardo del pastore preoccupato per l’unità della Chiesa, che tende la mano e offre misericordia. Quel gesto sommesso non significa ancora piena unità, finché le questioni dottrinali non saranno chiarite. La sciagurata intervista negazionista di Williamson non era conosciuta dal Papa quando ha approvato il decreto: leggere ciò che è avvenuto come un cambiamento di rotta rispetto a quanto stabilito dal Concilio nel rapporto con gli ebrei è stata una strumentalizzazione, alla quale si sono prestati anche cattolici, nonostante il Pontefice ammetta che andava chiarita meglio la portata del provvedimento.
La Chiesa non torna indietro rispetto al Vaticano II, ma il Vaticano II non rappresenta una frattura, un nuovo inizio, rispetto alla bimillenaria storia cristiana. C’è da augurarsi che tutti i vescovi, anche e soprattutto coloro che hanno criticato il Papa, leggano bene le parole umili e forti del servo dei servi di Dio e comprendano l’atteggiamento di un padre misericordioso, che cerca di favorire l’unità dei credenti in Cristo, per testimoniarlo in un mondo che ha fatto sparire Dio dal suo orizzonte.
Storie di conversione: la cambogiana Claire Ly - In cerca di un Dio all'altezza del mio odio - di Elisabetta Galeffi – L’Osservatore Romano, 12 marzo 2009
"Per affrontare questa lotta di sopravvivenza ho bisogno di un testimone. Mi viene in mente (...) il Dio degli occidentali, il Dio della loro Bibbia; non so se questo Essere esista davvero, ma non ha nessuna importanza". Inizia così, inconsapevolmente, la conversione al cristianesimo di Claire Ly, professoressa di filosofia e alto funzionario del ministero dell'Istruzione cambogiano agli inizi degli anni Settanta. Con l'avvento della dittatura di Pol Pot è costretta ad abbandonare tutti i suoi beni e tutta la sua vita passata; dal 1975 al 1979 diventa una "compagna contadina" in un campo di lavoro ai confini con la Thailandia.
La sua nuova vita inizia il 24 aprile 1975 quando lascia casa e marito nella capitale sotto l'attacco degli khmer rossi nel tentativo di fuggire con l'anziana madre e il figlioletto. Claire è sola - come mai capitava a una donna della buona borghesia khmer - in attesa di un altro bambino, è responsabile degli altri compagni di viaggio più deboli. Capisce che deve trovare in qualche modo la forza di affrontare la durissima realtà se vuol sopravvivere.
"Nel corso di questi disordini" scrive nel suo primo libro Tornata dall'inferno, raccontando del suo avventuroso viaggio su una Citroën DS per raggiungere il confine thailandese "mi sforzo di convincermi che tutto è illusione".
Da buona buddista, cerca di allontanarsi dai due lati estremi della vita, il piacere e la mortificazione per trovare la pace; "entrambi sono avvilenti, volgari e non portano all'uomo nessun vantaggio" si ripete Claire, ma nella sua vita sconvolta non riesce a trovare spazio per la "terza via" del Nirvana. Quando realizza che il distacco totale dalla realtà non le sarebbe utile a salvare le vite dei figli, Claire cerca in sé la forza di proteggerli; i suoi figli non le appaiono affatto un'illusione, ma una realtà bisognosa di aiuto. Cerca un sentimento forte che la riporti ad affrontare la vita e la risvegli dal torpore, dal senso di smarrimento in cui è caduta dopo i rapidissimi cambiamenti di tutto il suo mondo; tenta ogni strada per riuscirci, accetta anche di far leva sui propri sentimenti di odio.
Il rancore che prova nei confronti delle idee del mondo occidentale è il suo sentimento più vivo in quelle ore. Al pensiero occidentale - che conosce bene per i suoi studi filosofici - Claire imputa la responsabilità della fine del suo mondo, prima a causa della guerra del Vietnam e adesso con la rivoluzione di Pol Pot, che ha incitato gli khmer delle campagne a ribellarsi all'idea buddista del karma sotto la spinta rivoluzionaria del pensiero marxista. "Anch'io - scrive Claire - ero parte di quegli intellettuali cambogiani che pensavano di dover far qualcosa per cambiare la mentalità della gente di città".
Claire ha avuto il suo primo incontro con il mondo occidentale frequentando le scuole francesi della sua città natale, Battambang, e il suo primo scontro come insegnante di filosofia a Phnom Penh. "Nel 1968 - risponde a un giornalista del settimanale francese Panorama - la domanda del perché tanti missionari cercavano di portare in Cambogia la loro religione, quando noi ne avevamo già una, mi incitò a tornare verso il buddismo, a ritrovare le mie tradizioni. Non più solamente come un'eredità familiare; gli insegnamenti del Buddha diventarono per me una questione di identità personale, la ragione filosofica per resistere a quello che consideravamo "l'imperialismo spirituale" dell'Occidente".
Ma adesso con la fine del suo mondo Claire deve reinventare la sua vita. "Chi sono io?" si domanda, scoprendo di aver bisogno di un interlocutore con cui confrontarsi; per due anni l'unico interlocutore alle sue domande di cambogiana ricca e colta ridotta a far la contadina in condizioni terribili diventa il Dio degli occidentali a cui confessa ogni sua insoddisfazione. "Mi serviva qualcuno all'altezza del mio odio e del mio rancore. Qualcuno a cui dare in prestito il cammino della mia rabbia; non potevo scegliere Buddha, perché è soltanto un essere umano". Così "il Dio degli occidentali", all'inizio solo un testimone della sua rabbia, diventa a poco a poco un amico che le fa compagnia. Scrive Claire in Tornata dall'inferno: "Il fondamento del buddismo, il karma, è un concetto astratto, assolutamente neutro, uguale al concetto di tavolo o di sedia. Come si fa a rimproverare a una sedia il suo essere sedia? Non è responsabile di quello che fa".
Lungo i due anni in cui Claire si confronta con Dio, "i paragoni - scrive - tra l'esperienza buddista legata alla mia cultura di origine e la mia volontà di essere una persona libera saranno molto difficili" e alla fine la sua conversione al cattolicesimo non esclude né rinnega completamente gli insegnamenti del Buddha. Ma "la vita di Gesù di Nazaret mi affascina, amo la libertà di quest'uomo che non è prigioniero di nessuna convenzione religiosa o sociale".
Claire Ly raggiunge con i suoi due figli la Thailandia nel 1979 alla caduta della dittatura dell'Angkar; nel 1980 emigra in Francia, dove ancora vive e insegna filosofia all'Istituto Scienze e Teologie delle religioni a Marsiglia.
(©L'Osservatore Romano - 12 marzo 209)
Di fronte alla sovrabbondanza di informazioni e di risposte la modernità deve imparare a selezionare le domande - Nel nuovo rinascimento - l'uomo è un esploratore - Anticipiamo - nella traduzione di Claudia Gasparini della Libera Università San Pio v - il testo integrale di una delle relazioni magistrali che il 12 marzo apriranno in Campidoglio il Forum Internazionale delle Università. - di Eric McLuhan Professore emerito dell'università di Toronto – L’Osservatore Romano, 12 marzo 2009
Nuove circostanze richiedono nuovi metodi per mettere a punto il rapporto tra Vangelo e cultura, in particolar modo quella popolare. Il nostro mondo è in grande fermento, uno degli sviluppi più recenti è la crisi economica. Ma questi turbamenti economici a livello mondiale non fanno altro che mettere in luce lo stato della nostra interdipendenza nell'età dell'elettricità. Tutti i modelli definiti e codificati di cultura stanno subendo delle modifiche, o vengono addirittura superati. Sono pochi, quando ce ne sono, gli standard a cui possiamo fare riferimento. Il ruolo degli uomini, delle donne e anche dei bambini sembra mutare quasi ogni settimana. Persino l'alfabetizzazione ha perso il suo ruolo centrale nella cultura e nelle questioni quotidiane. Non si tratta di incidenti isolati, ma di evoluzioni parte di un rinascimento che sta dilagando e ci accompagna dall'avvento del telegrafo. Se i precedenti sono stati relegati a una manciata di culture alla volta, l'attuale fenomeno coinvolge contemporaneamente l'intero mondo. Un immenso cambiamento richiede che compaia un nuovo uomo del rinascimento, abile nel leggere tutte le alfabetizzazioni e capace di coniugare il linguaggio delle forme dell'ambiente. In Occidente stiamo riciclando e rivisitando la nostra cultura, ma stiamo anche indagando tutte le altre, ogni forma di esperienza che gli esseri umani abbiano mai creato o su cui abbiano mai indugiato. Il contenuto, quindi, del rinascimento che infuria intorno a noi è rappresentato dall'intera era neolitica. L'età neolitica, che è giunta alla fine, ha usato il cacciatore-pastore come contenuto e, in tempi recenti, la pastorizia come estetica. Ora l'ambiente non è più costituito da hardware e strumenti specialistici, ma è fatto da informazioni e da software. L'Oriente è sottoposto alle stesse forme di recupero, sia della cultura occidentale sia della propria, così come noi stiamo riscoprendo l'est. Queste nuove forme di comunicazione richiedono partecipazione e sono per loro stessa natura inclusive ed enciclopediche. Internet sta diventando un deposito dell'intera conoscenza umana: la rete ci offre lo spettro della vecchia enciclopedia orale precedente all'alfabetizzazione, la enkýklios paidéia, anche se in una forma elettronica radicalmente nuova.
Il grande rinascimento del XVI secolo è così definito non soltanto perché fu il più importante e il più comprensivo nell'esperienza dell'uomo, ma anche perché coinvolgeva l'intero mondo occidentale. Certamente, il rinascimento del XII secolo appariva a chi vi partecipava grande ed esteso, ma ai nostri occhi impallidisce in raffronto con gli eventi del XV e XVI secolo. Ma dovremmo osservare che entrambe queste effervescenze culturali erano movimenti diretti verso l'esterno, in espansione. Il nostro attuale rinascimento, potenziato dall'elettricità, è di gran lunga più eclettico di qualunque altro simile fenomeno precedente, ed è implosivo in quanto interessa l'intero globo allo stesso tempo. Una volta coinvolto il mondo nella sua interezza, non è più possibile alcuna ulteriore espansione. Questa condizione fa emergere la prospettiva che, contrariamente a quanto accaduto in passato, il rinascimento del XX secolo andrà avanti senza soluzione di continuità, diventerà la nostra condizione permanente.
I popoli illetterati considerano il presente, il passato e il futuro come un unico evento multidimensionale o come un insieme di cicli, un vortice di energie culturali caricate dall'essere, dal significato cosmico e dal destino. La nostra cultura riecheggia questo senso delle cose, ad esempio nell'idea popolare della reincarnazione, o nel detto "ciò che ruota ritorna". Nell'età dell'elettricità, tutti i tempi ritornano, allo stesso tempo presenti e accessibili, non come ipotesi, ma come esperienza reale e disponibile. La ciclicità implica il dinamismo e la compattezza, uno strumento per caricare e ricaricare le batterie culturali. L'alternativa, la linea razionale più familiare della storia, presenta, invece, una sola, unica e prolungata scarica. Oggi viviamo nella post-storia, nel senso che tutti i passati che mai si sono succeduti sono presenti alla nostra coscienza come tutti i futuri che saranno.
Vivere oggi significa vivere in molte culture e molti tempi contemporaneamente. Se esiste un futuro per la storia, questo risiede, come il retorico Giambattista Vico ha cercato di indicare, nelle mani dei poeti e degli artisti. A mano a mano che l'unità del mondo moderno diviene sempre più una questione tecnologica piuttosto che sociale, le tecniche delle arti offrono mezzi di indagine più validi nella vera e reale direzione dei nostri obiettivi collettivi.
Non conosco alcuno studio che sia mai stato fatto sui rinascimenti in generale. Ogni approfondimento che ho conosciuto riguarda questo o quel rinascimento in particolare; occasionalmente, se ne trovano due esaminati in parallelo. Questi studi sono ben focalizzati e impeccabili dal punto di vista dell'erudizione. Inoltre c'è una gran profusione di libri su questo o quel rinascimento per un uso generale. Ma non esistono studi della lunghezza e ampiezza di un libro, né esiste un singolo articolo, che riguardi i rinascimenti come fenomeno. La Phoenix Playhouse fino a oggi ha lavorato dietro una porta chiusa. Consentitemi di suggerire i seguenti sei tratti distintivi come caratterizzanti dei rinascimenti.
Un rinascimento è sempre invisibile agli occhi di chi lo sta vivendo. Un rinascimento è sempre un effetto collaterale di qualcos'altro, un qualche nuovo strumento che rimodella la percezione. Nel nostro caso, le tecnologie che vanno dal motore all'mp3, dal telegrafo al satellite, dalla radio a internet. Un rinascimento è sempre accompagnato da una rivoluzione della sensibilità. Un rinascimento è sempre annunciato nell'arte e dall'arte; gli artisti funzionano come le "antenne della competizione". Un rinascimento serve sempre come fase propedeutica a una nuova modalità della cultura e della società, di identità diversamente modellate ovunque. Un rinascimento è sempre accompagnato da una guerra di vaste dimensioni. Nel nostro caso, abbiamo assistito a due guerre mondiali, alla "guerra fredda" e oggi siamo coinvolti nella prima guerra al terrorismo. Alla velocità della luce, il fronte è scomparso, il campo di battaglia è il globo e il paysage intérieur di gran lunga più ampio.
Nell'età dell'informazione globale, sia la natura sia il significato della guerra sono stati rimaneggiati. Il villaggio globale dell'era della radio è stato sostituito dal teatro globale dell'età dei satelliti. Ora tutti indossiamo delle maschere e abbiamo dei ruoli e nuove identità di gruppo che sostituiscono i vecchi schemi di lavoro e i singoli individui che hanno rappresentato l'eredità dell'alfabeto e della stampa.
Per molti secoli la cristianità si è affidata al terreno dell'alfabetizzazione come strumento per diffondere e trasmettere il Vangelo. Ora che il terreno è stato sostituito da quello dell'informazione elettrica, ci troviamo in una cultura sempre più priva di legami con l'alfabetizzazione. L'alfabeto fonetico ci ha fatto vivere per la prima volta l'esperienza del distacco: la separazione del suono dal significato. Dall'alfabeto abbiamo appreso la separazione tra pensiero e sentimento, tra azione e reazione, tra chi conosce e ciò che è conosciuto. Il singolo spezza il legame tribale ed emerge dal gruppo. La stampa ha accelerato enormemente questi processi e ha prodotto il grande rinascimento di recente memoria. Oggi il rinascimento delinea, invece, il forte desiderio di un coinvolgimento sempre maggiore in ogni fase del gioco e della vita sociale e culturale. La mimesis, non l'obiettività, alimenta questo desiderio. Le nostre modalità di conoscenza sono state deviate verso antichi schemi senza che ce ne rendessimo conto.
Basta osservare l'attuale forma della pubblicità, dei videogame e della schiera di maschere, icone e ruoli partecipativi di cui ci facciamo carico quando ci avventuriamo su internet. Mimesis significa indossare la modalità della nuova cultura, nello stesso modo che consigliava san Paolo quando diceva di "indossare" l'armatura e le armi del paradiso per combattere le tentazioni e le tendenze erronee. Aristotele osservava che la mimesis è il processo con cui tutti gli uomini apprendono, intendendo con questo l'indossare come modo di conoscere. Noi indossiamo questi nuovi media ogni qual volta ci avventuriamo all'interno dell'ambiente globale. Platone dichiarava guerra, nella sua Repubblica, al contesto poetico del suo tempo sull'uso che facevano della mimesis: oggi l'ambiente dell'informazione globale ha dichiarato guerra a Platone. Da Cézanne ai poeti simbolisti del xix secolo, le nostre arti hanno insistito sul nostro "indossare" la nostra "quota" di partecipazione da osservatori. Gli annunci pubblicitari moderni (sullo stile di vita e su altro), similmente, ci propongono non prodotti, ma stili, immagini di gruppo e culture aziendali, chiedendoci di partecipare. La cultura di gruppo delinea alcune curiose manifestazioni, ivi compreso il divorzio senza colpa e la rassicurazione. La tradizionale cultura cattolica, d'altra parte, enfatizza l'alfabetizzazione sia direttamente, per la lettura delle Scritture e per il commento, sia indirettamente, attraverso la sua insistenza su identità, anima, responsabilità e salvazione come elementi privati e individuali. Di conseguenza la tradizione culturale cattolica si trova a giocare il ruolo di controcultura nel mondo dell'elettricità. Abbiamo posto fine all'alfabetizzazione quando abbiamo ucciso l'Idra, il pubblico lettore. Al suo posto sono emerse dozzine di baby-alfabetizzazioni avide di sapere. Il vecchio pubblico lettore è arretrato allo stadio precedente di piccoli gruppi di lettori, dei "club di lettura". Coloro che ora leggono lo fanno in un'atmosfera di postalfabetizzazione: siamo circondati da persone che sanno leggere, ma nell'insieme preferiscono non farlo. Le nuove alfabetizzazioni appaiono in ogni area immaginabile, da quelle dei vari media (film, tv, computer) alle arti; esistono anche alfabetizzazioni culturali, dei numeri, dell'ambiente, e così via. Ma siamo immersi in un rinascimento globale, per la prima volta nell'esperienza dell'uomo, un fenomeno che sta ancora crescendo. La maggior parte dei rinascimenti passati sono sfociati, dopo un secolo più o meno, nella nuova cultura che hanno coniato, mentre il cambiamento che ci avvolge riceve fresco impulso da ogni nuova tecnologia che appare sulla scena. Un rinascimento è in particolare un tempo di rinascita, di recupero e di aggiornamento. Il tempo è maturo per rivivere gli aspetti della cultura cattolica in sintonia con la nuova sensibilità e la rinnovata domanda di coinvolgimento mimetico. Ci sono le condizioni per aggiornare tutte le modalità meditative della preghiera e della liturgia; per recuperare le numerose interpretazioni delle Scritture; per ravvivare il misticismo cattolico; per vivificare la pienezza della nostra tradizione colta, la translatio studii, come un intero simultaneo. L'attuale declino dell'alfabetizzazione letterale, sostituita da tutte quelle piccole alfabetizzazioni, costituisce un altro revival, familiare a tutto il medioevo. La cantilena degli alunni lo riassume così:
Omnis mundi creatura
Quasi liber et pictura
Nobis est, et speculum
Si è sempre sostenuto che Dio stesso parla all'uomo in due modi, attraverso le Scritture e attraverso quel grande discorso denominato la creazione. Così emerge il tropo dei due Libri che sono stati posti avanti all'uomo perché li legga e li interpreti, il Libro della Natura e i Libro della Scrittura. Naturalmente i due testi sono in assoluta armonia, anche se scritti in lingue completamente separate e distinte: uno fatto di parole, l'altro di forme. Si potrebbe persino affermare che la lingua dell'uno è il software (l'informazione) e quella dell'altro è l'hardware (le cose). Fin dall'inizio, i due Libri hanno significato l'esistenza delle due alfabetizzazioni, ciascuna offre livelli simultanei di significato. Per uno, i quattro livelli familiari di interpretazione (letterale, allegorica, tropologica, analogica); per l'altro, le quattro cause (formale, efficiente, materiale, finale). Colui che voleva leggere entrambi i libri, il grammatico, doveva essere versato nelle arti e nelle scienze, doveva essere capace di lavorare con qualunque lingua: imparava a leggere la lingua delle forme. Il grammaticus, l'uomo di lettere, sapeva leggere e decodificare qualunque alfabetizzazione. Il nostro ambiente contemporaneo di alfabetizzazioni multiple è un segno sicuro che i due Libri stanno riprendendo il loro ruolo. L'istruzione moderna deve comprendere la formazione nella lettura di entrambi, il divino e l'umano, il Vangelo e la cultura. Il libro del mondo oggi comprende l'alfabetizzazione dell'ecologia ambientale e quella dell'ecologia culturale, e ora anche tutte quelle nuove alfabetizzazioni che vengono alla luce ogni due o tre settimane, una moltitudine di forme che tuttavia ancora mancano di coordinamento. I nuovi media sono le nuove lingue della percezione, le loro grammatiche e sintassi - le loro "alfabetizzazioni" - che, però, devono essere ancora accertate. Il riapparire dei due Libri sarà seguito dall'apparire del loro lettore e interprete, il grammatico, in una forma opportunamente aggiornata. La sua formazione sarà orientata all'enciclopedismo invece che alla specializzazione. Deve anche essere un lettore delle lingue. In abiti moderni sarà piuttosto come il famoso e celebrato uomo del rinascimento. Questo parallelo è assolutamente pertinente in quanto noi stessi siamo nel mezzo di un rinascimento.
Non propongo tutto questo come punto più alto del tipo di istruzione di cui abbiamo bisogno oggi, ma come la norma. La nostra sopravvivenza, individuale e culturale, dipende dalla nostra capacità di leggere e interpretare ciò che il nostro ambiente fatto dall'uomo dice e fa. Il nostro ambiente di informazioni elettriche richiede la competenza dell'esploratore e del navigatore invece che dello studioso e dell'esteta. Stiamo annegando nell'informazione, nelle risposte: soltanto l'indagine, la domanda risolve la questione. Un'istruzione orientata ad analisi e a concetti formali deve arrendersi a un'istruzione focalizzata sulla formazione di una consapevolezza critica e sulla formazione della percezione. Anche se somiglia a un "trionfo dello stile sulla sostanza", il mutamento è effettivamente più profondo e di maggiore importanza. Rappresenta una riduzione dell'enfasi sul contenuto ideologico e un revival dello studio della forma ambientale e della causalità formale.
Ho cercato di suggerire alcune considerazioni da tenere a mente durante le vostre decisioni nei prossimi giorni in merito al Vangelo e alla cultura. Poiché cambiamo cultura, ogni volta cambiamo i media - introducendone di nuovi - a una velocità vertiginosa. Ogni nuovo ambiente significa un modo completamente nuovo di vedere e di immaginare il mondo e apre un nuovo atto sul palcoscenico del teatro globale.
(©L'Osservatore Romano - 12 marzo 209)
L'Occidente e l'asse del Caos - Roberto Fontolan - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Squassato dalla crisi economica, l’Occidente guarda con maggiore fatica (Stati Uniti) e senso di impotenza (Europa) ai due “buchi neri” del pianeta. I dossier si accumulano sui tavoli delle cancellerie e le conversazioni strategico-diplomatiche si arenano nei dubbi e nell’esaltazione delle difficoltà. Da un lato l’agglomerato Afghanistan-Pakistan, dall’altro quelle sponde arabo-africane, ormai unite più che separate dal Golfo di Aden. Tirato un sospiro di breve sollievo con la tregua di Gaza -il processo è comunque lungo e occorre dare tempo agli sviluppi interni di Israele e della Palestina- riflettori e satelliti sono oggi puntati su Kabul e Islamabad, Mogadiscio e il sud della penisola araba. Sono il nucleo centrale di quello che già viene definito “il nuovo asse del caos”, che dispone di varie propaggini allungandosi fino all’Asia e che è il frutto dell’incandescente mescolarsi di fattori religiosi, economici e geopolitici.
L’esempio più citato è quello del nuovo preoccupante capitolo della guerra ai talebani. Più soldati americani e maggiore energia bellica, anche da parte della Nato: su questo c’è un consenso piuttosto diffuso, ma è altrettanto chiaro che occorre trovare il modo di superare lo stallo politico interno e di agire decisamente anche e forse soprattutto sui piani della ricostruzione strutturale e del cambiamento “culturale”.
Se viene ucciso il marito della nota giornalista televisiva e se intere regioni sono tornate sotto il potere quotidiano del “lato oscuro della forza”, come infondere fiducia, come spingere al coraggio la maggioranza del popolo? Il tema è in un certo senso educativo e antropologico, ma è una battaglia questa che non si combatte con i droni e i bombardamenti aerei. Inoltre, è un fatto più che certo che una incalcolabile parte del potere talebano viene dalla droga.
Ma l’amministrazione Bush sosteneva che la distruzione dei campi di oppio non faceva parte degli obbiettivi della guerra e così, nel corso degli anni, ci si è ritrovati con oltre l’80% della produzione controllata dagli uomini barbuti. Nelle vicine aree tribali del Pakistan le cose in queste ultime settimane sono sembrate andare un po’ meglio, ma solo perché in alcune province (tra cui la famigerata Swat Valley), con l’approvazione del governo centrale, dal 16 marzo la giustizia verrà amministrata dalle corti islamiche e l’ordine “assicurato” da una organizzazione talebana. Fragilità politica, milizie terroristiche, servizi deviati, contrasto con l’India, capacità nucleare, contiguità con l’Afghanistan, fanno del Pakistan odierno un rebus senza soluzione apparente.
A una certa distanza, dall’altra parte della penisola araba, si è intanto consumato l’ennesimo dramma della Somalia, anch’essa entrata o meglio rientrata nell’orbita dell’islamismo, dopo la parentesi presidiata dall’esercito dell’Etiopia, che non ha potuto tutelare le vecchie autorità ufficiali, ridotte a ectoplasmi. Anche in Somalia vige il regime della sharia, e dopo decenni di sforzi, di soldati e giornalisti occidentali morti, di montagne di denaro europeo investito per sostenere governi esiliati, nel Corno d’Africa si è instaurata solidamente una dittatura coranica. Per molti si tratta di una piattaforma di espansione islamista verso il resto della regione con possibili gravi conseguenze per il Kenya e l’Etiopia. E per di più una piattaforma alimentata incessantemente dai rifornimenti di ogni genere, soldi, predicatori, armi, miliziani, che arrivano dalla Penisola araba attraverso le vie più impensate e più impensabili. Così l’Africa “dimenticata” deve tornare a essere pensata e aiutata, in tutti i modi, come speriamo possano realmente fare i prossimi round del G8 a presidenza italiana.
BIOETICA/ Ecco perché la legge 40 è a prova di costituzionalità - Andrea Simoncini, Carter Snead - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Il prossimo 31 marzo 2009 la Corte Costituzionale prenderà in esame una serie di questioni sollevate da diversi Tribunali e riguardanti la costituzionalità della legge n. 40 del 2004 che ha disposto le “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”.
Le ragioni per cui alcuni giudici dubitano della costituzionalità di questa legge sono molteplici, ma con queste brevi osservazioni vorremmo soffermarci su quelle che sembrano essere le questioni centrali.
La legge del 2004, com’è noto, ha introdotto una specifica disciplina per regolare l’accesso delle coppie alle tecniche della procreazione medicalmente assistita.
Uno dei punti controversi in questa regolazione è l’art. 14 laddove prevede che «le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tecnico-scientifica e di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre».
Questa disposizione sarebbe, a detta dei giudici remittenti, irragionevole perché limiterebbe il numero massimo degli embrioni impiantabili, quando invece potrebbero occorrerne di più per ottenere quello che si sostiene essere lo scopo della legge: ottenere la gravidanza.
Ci troveremmo, quindi, di fronte ad un caso classico di irragionevolezza sotto il profilo dell’eccesso di potere legislativo, quando, cioè, la legge predispone mezzi intrinsecamente contraddittori con il fine che vuole raggiungere.
Queste ragioni di incostituzionalità sono del tutto inconsistenti sia con riferimento al presunto fine della legge, sia alla adeguatezza dei mezzi.
1. La procreazione medicalmente assistita non è una cura
Il fine della legge 40 del 2004 non è quello di curare una malattia e conseguentemente quello di garantire un diritto alla riproduzione assistita per la donna come espressione del suo diritto costituzionale alla salute. In realtà, se così fosse, allora si potrebbe sostenere che la limitazione a tre degli embrioni è irragionevole ogniqualvolta un numero maggiore di embrioni rendesse più probabile una gravidanza sana per la madre (numero maggiore, giacché la legge consente di creare ed impiantare meno di tre embrioni).
Ma così non è.
Sono molteplici le ragioni – la maggior parte delle quali assolutamente autoevidenti – per cui non si può pensare che la legge 40 abbia inteso la disciplina di una terapia per una malattia.
Basta scorrere gli articoli della legge, a partire dal primo, per capire che la legge 40 intende favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità attraverso un mezzo – la creazione di un embrione ed il suo impianto – che interviene solo quando «non ci siano terapie» efficaci a rimuovere le cause della sterilità o infertilità. È infatti del tutto intuitivo comprendere che, se uno o l’altro partner di una coppia hanno problemi riproduttivi, la procreazione medicalmente assistita (PMA) non li “cura” in nessun modo, non agisce sulle cause rimuovendole, ma consente di procreare un figlio attraverso una modalità medicalmente assistita.
Non si può in alcun modo dire che la creazione dell’embrione è un mezzo di cura; questo contrasterebbe non solo con tutti i principi di civiltà, ma con le norme della legge (art. 1) che assicura i «diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito».
Questa è la ragione sostanziale assorbente per la quale tutti i rilievi di costituzionalità presentati sono radicalmente infondati: non si può impugnare gli articoli 6, 13 o 14 senza logicamente attaccare contemporaneamente l’art. 1 e tutto l’impianto della legge.
Le questioni poste dai giudici nel ritenere incostituzionali gli articoli 6, 13 e 14, muovono tutte da un clamoroso errore di interpretazione; questi articoli, infatti, sono tutti espressivi e consequenziali con la ratio stessa della legge, ragion per cui annullare questi articoli e lasciare intatti gli articoli 1, 2, 3 e 4, ad esempio, sarebbe operazione del tutto inutile e produrrebbe un risultato, questo sì, del tutto irrazionale come la stessa Corte ha avuto modo di dire con riferimento ad una precedente questione che le era stata sottoposta su questa legge. Ma, d’altra parte, attaccare i principi basilari vorrebbe dire, come effetto pratico, annullare la legge nella sua generalità (finalità che, lo si capisce dalla lettura degli atti, è probabilmente quella realmente perseguita dai giudici, ma che è stata già considerata impossibile sul piano costituzionale ancora una volta dalla Corte in una sua precedente decisione con cui ha respinto l’ammissibilità del referendum abrogativo totale della legge; di qui la scelta di alcuni articoli).
Vogliamo limitarci ad illustrare qualche motivo per cui è assolutamente chiaro che la legge 40 non considera la PMA una terapia finalizzata alla cura di una malattia.
a) In primis, l’ ipotizzata terapia dovrebbe consistere nella creazione di un soggetto di diritti: l’embrione. Tutti conosciamo il dibattito difficile e controverso sulla natura giuridica dell’embrione, ma nessuno sino ad oggi, neppure chi ha difeso le tesi più estreme e libertarie, ha mai considerato un embrione al pari di un medicinale
b) Se la PMA fosse una terapia o un diritto non si vede perché la disciplina graduale nella sua somministrazione: perché solo quando sono state previamente percorse tutte le altre soluzioni (art.4)? Perché alla coppia dev’essere prospettata la possibilità di ricorrere all’adozione o all’affidamento come alternative alla PMA (art. 6)?
c) Ma soprattutto: se la PMA fosse davvero una terapia e quindi, parallelamente, un diritto della donna ad ottenere l’impianto di un embrione, perché il divieto di PMA eterologa (art. 4)? L’esclusione del ricorso a donatori esterni restringe in maniera drastica la possibilità dell’accesso e di riuscita.
Se stessimo discutendo del diritto costituzionale alla salute della donna tutte queste limitazioni sarebbero altrettanto irragionevoli, ma non lo sono per la chiara ragione che la legge non ha questo scopo né si occupa di questo
d) E veniamo al punto cruciale. Se la PMA fosse una terapia ovvero un diritto della donna ad ottenere l’impianto perché (art. 5) possono accedere alla tecnica solo «coppie, maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi»? E’ evidente che tutte queste rappresenterebbero limitazioni assurde ed odiose se stessimo parlando di somministrare un medicinale ad una persona per guarire una sua malattia. Sono invece condizioni del tutto ragionevoli se pensiamo al fatto che creando uno o più embrioni ed impiantandoli stiamo generando una nuova persona i cui diritti debbono essere tutelati assieme a quelli della madre e del padre.
e) Ed allo stesso modo si spiega l’inconsistenza dell’altra accusa di incostituzionalità che viene fatta alla legge: sarebbe infatti contro la Costituzione la norma che non consente alla coppia o alla donna di ritirare il consenso all’impianto dopo la fecondazione dell’ovulo (art.6).
Certamente, se ci trovassimo dinanzi ad un trattamento sanitario, una disposizione del genere sarebbe problematica rispetto ai i principi del consenso informato o del divieto di trattamenti sanitari obbligatori.
Ma ancora una volta così non è.
Innanzitutto, se muoviamo dagli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge – cioè dalla sua ratio – si comprende benissimo che, una volta creato l’embrione, non ci siamo limitati a produrre un medicinale che, se non utilizzato, possiamo smaltire.
Ma, in secondo luogo, è assolutamente chiaro che la legge proprio per l’esigenza di questi delicatissimi bilanciamenti, non ha previsto alcuna sanzione afflittiva o punitiva né, tanto meno, alcuna forma di esecuzione coattiva dell’impianto in caso di revoca del consenso.
E’ un caso classico di norma imperfetta (come la si definisce nei manuali di diritto) che prescrive il comportamento che dovrebbe essere seguito sulla base dei principi che essa stessa pone, ma che in caso di inadempimento non predispone alcuna conseguenza, ché ovviamente sarebbe lesiva della libertà e della dignità della donna. Anche qui, dunque, sul piano interpretativo non c’è alcun contrasto con la Costituzione, ma solo il totale fraintendimento da parte dei giudici da cui deriva la completa assenza di rilevanza della questione. Nessuna donna potrebbe essere condannata ad una multa né tanto meno ad una esecuzione coattiva nel caso in cui, dopo aver fecondato l’ovulo, non intenda sottoporsi all’intervento.
E’ dunque una interpretazione errata ed in ogni caso non applicabile a nessun caso concretamente in discussione.
2. Perché è bene porre dei limiti
Ma la ragionevolezza delle limitazioni poste dalla legge 40 non solo è chiaramente dimostrata, sol che si comprenda esattamente lo scopo della legge stessa; in realtà sono la stessa scienza e la tecnica della medicina riproduttiva a richiedere una limitazione – spesso anche inferiore ai tre embrioni – al fine di garantire il buon esito dell’impianto.
Su questo punto basti far riferimento alle linee guida elaborate dalla “Human Fertilisation and Embryology Authority” inglese, l’Autorità indipendente che sovrintende all’applicazione delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita nel Regno Unito.
Nonostante il sistema legale inglese sia notoriamente molto più permissivo e “liberale” nei confronti di tali tecniche, le linee guida elaborate da questo organismo prevedono il trasferimento di non più di due embrioni nella generalità dei casi e di massimo tre embrioni solo nel caso di donne ultraquarantenni (cfr. www.hfea.gov.uk/en/664.html).
Questo per il motivo, ben noto ai tecnici, che «la gravidanza multipla è il fattore di rischio più grave per la madre e per il figlio nei casi di PMA» (www.hfea.gov.uk/en/1726.html); dal primo gennaio 2009 l’Autorità inglese ha deciso di diminuire drasticamente la percentuale delle gravidanze multiple scegliendo addirittura la “Single Embryo Transfer policy”.
E’ dunque dai presidi più avanzati della evoluzione tecnico-scientifica che viene l’indicazione di porre tetti massimi ed invalicabili al trasferimento degli embrioni. Si guardi la denuncia apparsa sul magazine internazionale Newsweek, dopo la vicenda della madre single che dopo una prima gravidanza multipla ottenuta seguito di PMA (6 figli) ha recentemente procreato, sempre a seguito di PMA, altri otto figli; denuncia intitolata, significativamente: «Procreazione Assistita: la maggior parte delle cliniche della fertilità non rispetta le regole» (www.newsweek.com/id/185689/output/print).
Non vi è dunque alcuna irragionevole limitazione, neppure se si considerasse lo scopo della legge puramente e semplicemente consentire interventi di PMA.
Il rischio, infatti, delle gravidanze multiple è quello che abbassa drammaticamente la percentuale dei successi, in termini di salute per la madre e per il figlio.
3. Conclusioni
In conclusione, la questione che tra pochi giorni si aprirà dinanzi alla Corte costituzionale nasce da un duplice palese errore di interpretazione da parte dei giudici.
Da un lato, essi ragionano come se lo scopo della legge 40 /2004 fosse quello di predisporre la cura o la terapia per una malattia o un disturbo. La PMA non cura né rimuove alcuna malattia, né tanto meno la sterilità o l’infertilità.
La legge 40 nella sua totalità, anche attraverso gli articoli 6, 13 e 14 che sono stati impugnati, invece regolamenta un complesso procedimento, in cui, attraverso l’applicazione di tecniche mediche si da’ vita ad embrioni, soggetti di diritti destinati, se l’impianto ha successo, a diventare persone.
Dall’altro, i giudici rimettenti ritengono che lo scopo della legge sia quello di massimizzare il numero di embrioni da creare e trasferire perché così – secondo grave errore di valutazione – si faciliterebbero le gravidanze sane e vitali. Così non è, come le stesse Autorità indipendenti in materia di medicina riproduttiva affermano.
SCUOLA/ Autonomia scolastica e premi al merito: la lezione di Obama - Vincenzo Silvano - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Ha fatto scalpore, e dunque è stata ripresa da numerosi quotidiani italiani, la notizia relativa all’intervento di Barak Obama sulla scuola: stipendi basati sulla performance degli insegnanti, scuole più indipendenti dai sindacati, raddoppio dei finanziamenti, anno accademico più lungo.
In tema di scuola (a differenza di altri temi, come ad esempio la bioetica) il presidente statunitense pare che abbia le idee abbastanza chiare e che consideri essenziale la riforma dell’istruzione per salvaguardare la leadership economica degli Stati Uniti: «La posta in gioco è troppo alta – ha dichiarato –. Non ci possiamo permettere nient’altro che il meglio per i nostri figli. E questo vale per i loro insegnanti e per le loro scuole».
Fin qui tutto ok, salvo la prevedibile gelida reazione dei potenti sindacati degli insegnanti, contrari da sempre al criterio meritocratico; cori di assenso trasversali, invece, non solo da molti riformatori, democratici e repubblicani americani, ma pure dai nostrani censori, che pure sono sempre sul “chi va là” quando si tratta di mettere mano al fatiscente sistema di istruzione del nostro paese.
Quello che però pochi hanno sottolineato, è come il presidente americano intende spendere i soldi per l’istruzione. Alla proposta di raddoppiare i finanziamenti per l’istruzione, è legata infatti quella di aumentare il numero delle cosiddette “Charter schools”, uno dei più interessanti fenomeni di rinnovamento della scuola americana degli ultimi vent’anni: si tratta di scuole pubbliche a gestione privata che, benché obbligate a rispettare determinati obiettivi sulle performance degli alunni (pena il ritiro dei finanziamenti pubblici), tuttavia sono meno soggette al rispetto delle regole imposte per il sistema di istruzione elementare e secondario.
Una scuola charter è – come spiegava Luisa Ribolzi in un articolo dello scorso anno (ilsussidiario.net, 21 maggio 2008) – «una scuola di pubblica scelta, indipendente, libera quanto alle regole ma affidabile quanto ai risultati: in quanto pubblica, è aperta a tutti, gratuita (finanziata fino all’80% del costo delle scuole di distretto con i soldi delle tasse), e deve rendere conto dei risultati che raggiunge sia ai propri utenti che allo stato».
Una scuola charter può essere aperta da un gruppo di insegnanti o di famiglie, da un’associazione, un’università, perfino da una scuola di distretto che decide di trasformarsi in charter, e viene autorizzata dalle autorità locali per mezzo di un decreto (la chart, appunto) sulla base di un progetto validato da un ente, di solito un’università. L’autorizzazione ha una scadenza (di solito cinque anni) in capo alla quale, se non ha mantenuto gli impegni presi con gli utenti e con lo stato, la scuola viene chiusa.
Le qualità più apprezzate dai genitori sono soprattutto la sicurezza (molte charter operano in quartieri difficili), la possibilità di scegliere liberamente il progetto della scuola, e i migliori risultati ottenuti, come nel caso della Urban Prep Charter Academy di cui trattò a suo tempo l’Economist, esplicitamente finalizzata a promuovere la preparazione accademica dei ragazzi meno favoriti.
La maggior parte delle scuole charter non è certo di élite quanto all’utenza, prevalentemente composta di ragazzi afroamericani, latino americani e bianchi poveri, ma lo è quanto ai risultati ottenuti, grazie alla personalizzazione dei progetti, all’impegno dei docenti e all’utilizzo intensivo di tutor e tecnologie dell’informazione.”
Perrché dunque Obama vuole aumentarne il numero, sfidando i potenti sindacati degli insegnanti, ovviamente contrari alle charter schools? E’ semplice: il successo di queste scuole è incontrovertibile, centinaia di migliaia di studenti americani sono in lista d’attesa per poterle frequentare, ed è pertanto un dato di realtà cui occorre guardare per decidere da dove e come ripartire, perché, come ha detto lo stesso presidente, «il sistema scolastico d’America torni ad essere l’invidia del mondo intero».
Esattamente quello che occorre anche in Italia: ripartire da ciò che già c’è e dimostra di funzionare. Qualche segnale in questa direzione pare cominci ad esserci se, come ha dichiarato il Ministro Gelmini nel recente messaggio inviato al Convegno della CdO Opere Educative, saranno davvero «recuperati i fondi mancanti in Finanziaria a favore delle scuole paritarie anche per i prossimi anni» e, soprattutto, si manterrà «l’impegno a defiscalizzare tutte le spese per le rette e le doti nell’arco della legislatura».
Andiamo anche noi, dunque, verso un rinnovato sistema scolastico con un maggiore protagonismo delle famiglie e della società civile? E’ presto per dirlo. Per ora di questo, sulla maggior parte dei quotidiani di “casa nostra” non c’è traccia… Ed è ovvio: le charter schools somigliano troppo – pur nella diversità – alle nostre scuole paritarie; e certamente non si può sostenere Obama fino a questo punto.
STORIA/ Aristotele contro Averroé: la replica di Franco Cardini - INT. Franco Cardini - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
In risposta alla presentazione del libro pubblicata l’altro ieri su ilsussidiario.net, il professor Franco Cardini interviene sollevando non poche perplessità sulla validità scientifica dell’opera. Se la cultura europea si è notevolmente sviluppata lungo gli ultimi secoli in ambito non solo filosofico, ma anche tecnico e scientifico non è giusto, sostiene l’illustre storico, non riconoscere alcun merito all’apporto dell’Islam in questa evoluzione.
Professor Cardini, qual è la sua opinione in merito alle tesi sostenute nel libro di Sylvain Gouguenheim?
La tesi di Gouguenheim o, meglio, che del suo studio ha interessato maggiormente i lettori e i commentatori è obiettivamente del tutto sprovvista di fondamento. Tale tesi sostiene l’idea che l’Islam non abbia partecipato in nulla alla crescita della cultura europea. Questo perché, secondo gli studi di Gouguenheim, che in fondo non ha scoperto nulla, già nella prima metà del XII secolo a Mont Saint-Michel, un’abbazia benedettina fra Normandia e Bretagna, un monaco bizantino che stette a lungo a Venezia o che era di Venezia, trascrisse e diffuse in Europa le opere di Aristotele. Ora, io non sono uno specialista del campo, ma parlando con molti specialisti e anche con il maestro di Gouguenheim, André Vauchez, che è d’accordo con me, risulta chiaramente che questo non è vero.
Quindi è solamente una raccolta di fandonie storiche?
No, è un ottimo studio finché si concentra sul personaggio in questione, Giacomo da Venezia, e sulle sue traduzioni di Aristotele. È uno studio che mancava, anche se l’idea non era proprio nuova. Il personaggio è ben conosciuto infatti in ambito accademico, ma lo studioso francese ha avuto senz’altro il merito di aver risistemato le conoscenze intorno a questo monaco. È quindi, tutto sommato, uno studio più che buono. Ovviamente gli specialisti riveleranno errori e lacune, che comunque ci sono sempre e dappertutto per ogni studio di questo tipo.
Allora che cos’è che proprio non le va giù in merito a questo saggio?
Il capitolo finale, in cui palesemente Gouguenheim afferma che l’Occidente non deve nulla all’Islam. E non solo, ma anche che l’Occidente cristiano è strettamente legato senza soluzione di continuità con il mondo greco. Prima di tutto Aristotele in Occidente è stato conosciuto a partire dal XII secolo da una quantità molto più elevata di opere trascritte di quelle di Giacomo Veneto. Che poi tra i trascrittori ci fossero non solo degli arabi musulmani, ma anche cristiani è perfettamente vero, ma questo non prova e non aggiunge niente. San Giovanni Damasceno, uno dei principali santi della chiesa ortodossa, era un arabo siriano che stava alla corte del Sultano, un suo funzionario. Ma era anche vescovo della comunità cristiana di Damasco e nessun musulmano gli diede mai noia, nessuno gli ha mai fatto nulla, nonostante egli scrivesse peste e corna del profeta Maometto. Occorre capire che all’epoca in questione non c’era fra cristiani e musulmani quel tipo di tensione che in fondo oggi alcuni storici vogliono far credere. Dico questo per dimostrare la perfetta sinergia culturale che caratterizzò il periodo considerato.
Gouguenheim sostiene però che fu l’Occidente a saper interloquire con vera efficacia con la conoscenza classica
Questa è una tesi che sostengono molti storici che hanno apprezzato il lavoro di Gouguenheim coprendolo di lodi e recandogli, a mio avviso, danno. Infatti da lì è cominciata a serpeggiare l’idea che lo storico abbia scritto quest’opera con l’intento di realizzare un best seller per i teocon. È un’accusa che personalmente trovo molto antipatica e non vera. Comunque, per tornare alla domanda, il fatto che Aristotele sia stato scritto e tradotto da Giacomo Veneto è verissimo come non è meno vero che i codici trascritti sono un numero considerevole, ma ciò non toglie che questo monaco fosse poco noto fuori della cerchia dei suoi confratelli di Mont Saint-Michel. Mentre tutta l’Europa, le università europee, le scuole di medicina, hanno sempre, e direi quasi esclusivamente, letto Aristotele attraverso la traduzione araba, poi tradotta in latino, e il commento di Averroé.
Ora, siccome Averroé è un grosso filosofo dell’islam spagnolo del XIII secolo, conosciuto in tutto il mondo anche di allora, è evidente che all’Islam si devono la tradizione e la traduzione di Aristotele, che poi è diventata il pane quotidiano delle Università.
Ravvisa una certa influenza ideologica dietro l’impostazione dello studio di Gouguenheim?
Quello che mi fa sospettare di una certa dose di disonestà intellettuale è il fatto che Gouguenheim sa benissimo che attraverso l’arabo, e attraverso anche il persiano, è passata la cultura greca in Europa non solo per quanto riguarda Aristotele, ma anche per una serie di altri autori, per esempio Platone. Per non parlare del vasto numero di trattatisti di fisica, di matematica, di medicina. Lo stesso Pitagora è stato tramandato da testi arabi. Quindi la problematica aristotelica non esaurisce il debito che l’Occidente ha nei confronti dell’Islam. Anche ammesso e assolutamente non concesso che noi dovessimo la conoscenza di Aristotele a Giacomo da Venezia e non ad Averroé resterebbe tutto il resto a cominciare dalle opere mediche di Avicenna che sono state insegnate in tutte le università europee fino al 1700. Questa cosa, Gouguenheim essendo un medievista serio, non la può ignorare.
Oltre alla tradizione e traduzione delle opere classiche ha notato altri “vizi” nell’opera in questione?
Un’ultima cosa riguarda il collegamento stretto che Gouguenheim fa, questo sì un vero “cavallo di battaglia” teocon, fra il mondo greco antico e il mondo cristiano. Ma ci immaginiamo dei monaci ortodossi alle prese con la Lisistrata di Aristofane? È impensabile che i monaci bizantini abbiano conservato un’opera praticamente “pornografica” come questa. Lo dico per fare un esempio. C’è stata una rottura fra la morale antica e la morale cristiana, e testi di questo tipo sono stati conservati da trascrittori islamici. Dico questo perché uno dei capisaldi del capitolo finale del libro di Gouguenheim è rappresentato proprio dalla continuità fra mondo classico e cristiano. Questo ultimo capitolo, mediante il quale Gouguenheim vuole tirare le somme, rovina dunque uno studio che in realtà sarebbe stato, non certo sconvolgente, ma interessante.
OGNUNO MONADE CHE VIVE PER SÉ - LA FOLLIA DECLINATA NELL’OCCIDENTE DEL 2009 - MARINA CORRADI – Avvenire, 12 marzo 2009
Delle immagini da Stoccarda quella che più sbalordisce non è la scuola circondata da teste di cuoio, né la colonna di ambulanze accorse inutilmente. Invece ti trafigge la foto di un bambino sui dodici anni, con i capelli corti; un bambino sorridente che brandisce un trofeo vinto nel torneo di ping pong, a scuola, cinque anni fa. E che quel bambino felice sia Tim Kretschmer, 17 anni, il ragazzo che ha massacrato dieci compagni della sua vecchia scuola e altre cinque persone prima d’essere ucciso, è il segno di quanto sia profondo il mistero di un uomo; un abisso, in cui nemmeno padre e madre e fratelli a volte riescono a scandagliare.
Il secondo elemento che quasi inquieta, nella tragedia tedesca, è l’ordine del quartiere e della scuola del massacro. A Winninden, satellite di Stoccarda, la Albertville Reichschule pare un istituto modello, così nuovo e circondato da un verde ben curato. Il sito on line del quotidiano
Bild si sofferma sui pavimenti tirati a lucido, sull’ordine dell’aula d’informatica. Gli altri, i compagni, còlti dai flash mentre se ne scappano a casa atterriti, hanno facce poco più che da bambini. Da quale antro sbuca allora la brama di nulla che ha spinto un ragazzo, uscito da quella scuola l’anno scorso, a presentarsi un mattino vestito di nero e armato da giustiziere, come in un film, Elephant,
che forse aveva visto?
Follia, certo. Solo una psicosi può spiegare che un adolescente covi un simile odio, e una mattina, freddo, passi all’azione. Un folle, come folle anche quel Michael da Kinston, Alabama, che nelle stesse ore ha ucciso sua madre e nove altri, prima di spararsi. Ma proprio la coincidenza del giorno, e della ferocia, simmetrica ai due capi del mondo, provoca: follia, d’accordo, ma in quale humus si abbevera una simile ansia di morte? Nell’orizzonte di decorose villette che fa da sfondo a entrambi massacri, di cosa si era nutrita finora la forza oscura che covava in quei due, apparentemente normali?
Solo, a Stoccarda, un elemento come una nota stonata. I genitori di Kretschmer tenevano in casa diciotto armi. Regolarmente denunciate. E però, diciotto armi sono un museo in casa, una presenza incombente. Stava a osservare, il ragazzo, quelle canne lucenti, ben pulite? Cose custodite con cura, maneggiate con cautela e compiacimento. Non ne era forse affascinato, il bambino? Strano ragazzo, pareva che crescendo qualcosa gli pesasse addosso; forse una ostinata sensazione di solitudine, forse la precoce sensazione di essere in qualche modo diverso, con diversi pensieri. Gli amici che avvertono l’alterità, e ti evitano; la parola umiliante di una ragazza, magari, l’unica che ti sta a cuore. E cova, cova il male, e cresce. Perché un giorno la tristezza, coltivata e già gonfia di rabbia, si è soffermata su quelle pistole? Già, le pistole. Le armi, almeno, sono cosa semplice: basta premere il grilletto. È facile. Tanto è paziente il lavoro di crescere un bambino, e farne un uomo, tanto è rapido e semplice sparare. Non c’è bisogno neanche di essere forti. Spari, e l’altro è cancellato. («Non siete ancora tutti morti?», ha urlato Tim in un’aula, quasi stizzito). E quante volte quel folle progetto avrà nella sua stanza, la sera, al buio immaginato? Non un amico a dirgli: cosa fai lì, vieni, non uno sguardo in casa a accorgersi dell’abisso che si allargava. Il tarlo della follia, nel silenzio scava indisturbato. Nessuno, in quelle vie ordinate, nel lungo inverno e fra vicini borghesemente intenti a badare ai fatti propri, nessuno che veda.
La quarta strage in una scuola in pochi anni, in Germania – in America, hanno perso il conto. Cos’è? Forse la follia declinata nell’Occidente del 2009: decorose città, legioni di villette graziose. Ognuno dentro solo davanti a un computer, ognuno monade che vive per sé. E la malattia di un ragazzo che in questa anonimia si installa, padrona, e divora.
matita blu - di Tommaso Gomez - Di passaggio, verso l’eutanasia - Filippo Facci è un giornalista che nella biro non ha inchiostro ma Tnt e sul computer ha il tasto ctrl+spingarda. – Avvenire, 12 marzo 2009
Sul Giornale del 7 marzo se la prende pure con noi e i nostri timori di una deriva pro-eutanasia: «C’è qualcuno che la chiede?». Lo spazio è limitato ma desideriamo ugualmente segnalare a Facci i principali reperti delle ultime ore. Sullo stesso Giornale, il 10 marzo, sembra replicargli Michele Brambilla (titolo: «Una fine meravigliosa. Gli spot giulivi pro eutanasia»).
Brambilla cita un servizio di Times sull’associazione inglese «Amici alla fine», che «dispensa consigli pratici a coloro che vogliono farla finita restando a casa propria» e presenta testimonianze entusiaste: «È in atto una campagna, e marketing e pubblicità hanno le loro esigenze di comunicazione: quando si deve vendere un prodotto, bisogna farlo desiderare».
Brambilla cita l’ampio servizio apparso il 7 marzo su Repubblica, dal titolo: «Morire in
Icoppia nella clinica dell’eutanasia. La scelta del miliardario Duff e della moglie. Suicidio assistito nella struttura svizzera 'Dignitas'».
Peter e Penelope Duff, 80 e 70 anni, erano entrambi malati di cancro. Per la verità, sia pure su un solo cauto colonnino, lo stesso giorno la notizia è data anche dal Corriere della Sera.
l 4 marzo, invece, il Foglio racconta i guai giudiziari di «Final Exit», che negli Usa «non esegue iniezioni letali» ma «dispensa consigli pratici e spirituali, spedisce libretti ausiliari, «sostiene moralmente», sfrutta il fatto che «'non è reato trovarsi nel luogo di un suicidio'». Facci potrebbe fare una chiacchierata con Jerry Dincin (che il correttore di Word, provocatoriamente, si ostina a voler scrivere Cincin...), vicepresidente di «Final Exit», secondo il quale «il diritto di morire diventerà il diritto umano del XXI secolo». Oppure con il fondatore, Derek Humphrey: «Stiamo cercando di rovesciare duemila anni di tradizione cristiana».
Sono americani? Ecco gli italiani. Unità di ieri, 11 marzo. Titolo: «L’appello: ora si discuta di eutanasia e suicidio assistito». Tra i firmatari: Maurizio Mori, Mario Riccio, Carlo Flamigni, Carlo Augusto Viano e Sergio Bartolommei.
L’Unità riassume così il loro appello: «Sì a una buona legge sul testamento biologico e allo sviluppo delle cure palliative, 'passaggi essenziali per raggiungere l’obiettivo della buona morte'». Chiaro? La legge sul fine-vita è un semplice «passaggio». Lo scrivono loro, non ce lo inventiamo noi.
Ma se a Facci non basta, può fare due chiacchiere con il sociologo Marzio Barbagli. Anche il Venerdì di Repubblica presenta, in ben tre pagine, il suo libro
Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente. Paola Zanuttini ricorda i sondaggi: 62 italiani su cento sono contrari all’eutanasia in ogni caso. Domanda: «Ancora l’influenza della Chiesa?». Risposta: «Evidentemente». Ah, questi italiani che «si suicidano molto meno che altrove: 6,1 casi per centomila abitanti, contro un tasso del 17,3 in Francia, del 16,9 in Austria e del 26 in Ungheria». Colpa, «evidentemente», della Chiesa e della sua indebita ingerenza. E chi lo dice a Filippo Facci, senza beccarsi una bordata di crtl+spngrd?
1) Don Carrón (Cl): «La crisi? - È un’emergenza educativa» - DA IMOLA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 12 marzo 2009
2) All’udienza l’incontro con un disabile che muove solo un mignolo ma ha scritto: «Santità, sono felice di vivere, sono entusiasta e curioso Ringrazio il Signore» - La carezza del Papa a «Capitan Uncino» .- DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO – Avvenire, 12 marzo 2009
3) Williamson, esclusivo Ecco la lettera umile e forte del Papa, di Andrea Tornielli, 11 marzo 2009
4) Storie di conversione: la cambogiana Claire Ly - In cerca di un Dio all'altezza del mio odio - di Elisabetta Galeffi – L’Osservatore Romano, 12 marzo 2009
5) Di fronte alla sovrabbondanza di informazioni e di risposte la modernità deve imparare a selezionare le domande - Nel nuovo rinascimento - l'uomo è un esploratore - Anticipiamo - nella traduzione di Claudia Gasparini della Libera Università San Pio v - il testo integrale di una delle relazioni magistrali che il 12 marzo apriranno in Campidoglio il Forum Internazionale delle Università. - di Eric McLuhan Professore emerito dell'università di Toronto – L’Osservatore Romano, 12 marzo 2009
6) L'Occidente e l'asse del Caos - Roberto Fontolan - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
7) BIOETICA/ Ecco perché la legge 40 è a prova di costituzionalità - Andrea Simoncini, Carter Snead - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
8) SCUOLA/ Autonomia scolastica e premi al merito: la lezione di Obama - Vincenzo Silvano - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
9) STORIA/ Aristotele contro Averroé: la replica di Franco Cardini - INT. Franco Cardini - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
10) OGNUNO MONADE CHE VIVE PER SÉ - LA FOLLIA DECLINATA NELL’OCCIDENTE DEL 2009 - MARINA CORRADI – Avvenire, 12 marzo 2009
11) matita blu - di Tommaso Gomez - Di passaggio, verso l’eutanasia - Filippo Facci è un giornalista che nella biro non ha inchiostro ma Tnt e sul computer ha il tasto ctrl+spingarda. – Avvenire, 12 marzo 2009
Don Carrón (Cl): «La crisi? - È un’emergenza educativa» - DA IMOLA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 12 marzo 2009
«L’emergenza educativa in atto non riguarda solo la scuola, ma è soprattutto una crisi dell’umano. Che si documenta nella passività di tanti giovani, quasi incapaci di interessarsi a qualcosa in modo duraturo, e nella stanchezza, nella solitudine, nello scetticismo di adulti che non sanno cosa offrire come risposta ». Don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha parlato a 2000 persone nel Palasport di Imola per un corso organizzato dalla diocesi e introdotto dal vescovo Tommaso Ghirelli. Carrón parte da una citazione di Alberoni: «Negli ultimi vent’anni molti sociologi erano convinti che nella società postmoderna spariscono non solo le ideologie ma tutte le certezze e lo stesso 'principio di non contraddizione', per cui non dobbiamo più decidere se è vero questo o quello: sono veri tutti e due. Adesso tutto questo è messo alla prova. Perché vediamo la fatica della nostra società a trasmettere la ragione del vivere, cioè a introdurre al reale le nuove generazioni».
Per descrivere il primo segno dell’emergenza, il disinteresse, il relatore richiama un articolo di Pietro Citati sugli eterni adolescenti: «Preferiscono restare passivi, vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L’unico loro tempo è una serie di attimi che non vengono mai legati in una catena o organizzati in una storia». «La ferita in questi giovani – rispondeva poco tempo dopo Eugenio Scalfari – è stata la perdita dell’identità e della memoria, la ferita è stata la noia che ha ucciso il tempo, la storia, le passioni e le speranze». Chiosa don Carrón: «Prima si impegnano per fare perdere ai giovani l’identità e poi si lamentano che non che l’hanno più».
Il presidente della Fraternità di Cl boccia anche i rimedi proposti da Umberto Galimberti a proposito della «generazione del nulla». «Poiché la ragione illuministica – osserva – non è in grado di destare l’interesse, Galimberti propone di tornare ai greci, immaginando una sorta di misura al pensiero illimitato. Ma proprio questa misura si dimostra sconfitta perché la passività aumenta». Senza interesse «si fa strada il nichilismo richiamato da Augusto Del Noce. Quello di oggi è un nichilismo gaio, senza inquietudine. Si potrebbe addirittura definirlo della soppressione dell’'inquieto cor meo' agostiniano. Questa è la disumanizzazione. Come una sorta di indebolimento del desiderio.
Non si trova una risposta all’esigenza di totalità; allora soccombiamo alla menzogna del relativismo ». Chi potrà contribuire alla sfida dell’emergenza educativa? «Chi ha qualcosa da offrire – risponde Carrón –. È un’occasione bellissima anche per la Chiesa. Soprattutto se accetterà di approfondire la natura del cristianesimo, che non è soltanto un insieme di verità o di regole ma la verità diventata carne. Solo se i concetti diventeranno carne e sangue nei testimoni si potrà ridestare la vita dal torpore offrendo un significato che ci consenta di affrontare tutto. Anche la crisi economica ». Chi sia in grado di offrire un’ipotesi che riempia la vita di fascino potrà avere qualche chance nel futuro, conclude il relatore: «Ora non è un’ideologia a decidere, ma il vaglio dell’esperienza. Siamo in un momento, da una parte terribile e dall’altra affascinante, dove a nessuno viene risparmiata la verifica del significato del vivere».
«Oggi pare dominare un nichilismo gaio, senza inquietudine.
Il futuro è di chi saprà offrire un’ipotesi che riempia la vita di fascino»
All’udienza l’incontro con un disabile che muove solo un mignolo ma ha scritto: «Santità, sono felice di vivere, sono entusiasta e curioso Ringrazio il Signore» - La carezza del Papa a «Capitan Uncino» .- DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO – Avvenire, 12 marzo 2009
Capitano Uncino – è stato lui con straordinaria ironia a battezzarsi così – non s’aspettava che il Santo Padre si avvicinasse, ma quando la moglie gli ha detto: «Giampiero, è il Papa che ti sta accarezzando», lui ha sorriso come solo sa fare, muovendo metà della bocca. La sindrome di Locked-in
consente a Giampiero Steccato soltanto di muovere il mignolo della mano sinistra e un po’ le labbra, e non lascia speranze. «Santità – ha detto la moglie Lucia – mio marito non può vederla, ma sente e capisce », allora il Papa ha assicurato che lo affiderà nella sua preghiera alla Madonna e pregherà per tutta la sua famiglia, per la moglie e per i figli Daniele e Silvia che negli occhi portano scritto un amore straordinario per il loro papà a cui resta soltanto un mignolo per ricambiare questo af- fetto. Giampiero Steccato ritorna a Roma dopo dieci anni. Proprio a Roma fu colpito dal male. Ma quando il Papa ha chiesto alla signora Lucia cosa li abbia spinti a venire, lei ha risposto: «Per festeggiare in modo degno i nostri 35 anni di matrimonio». Il Papa lo ha accarezzato ancora poi ha preso la lettera che quest’uomo ha dettato servendosi di un linguaggio fatto di gesti. Muovendo metà bocca e sfiorando con il mignolo della mano sinistra un sensore laser, Capitan Uncino ha scritto queste parole al Papa: «Con queste poche righe, vorrei trasmetterle quello che il mio corpo rischia di celare: ho voglia di vivere, sono entusiasta e curioso, amo la natura e il mondo in cui ho la fortuna e il privilegio di esistere. Sono consapevole – dice ancora nella lettera – che la mia fortuna è frutto della volontà del Signore e ringrazio infinite volte per quanto mi viene concesso, confido proprio nel Signore e anche nella Sua persona, perché spero che la Sua influenza possa permettere all’umanità un futuro migliore, la pace per chi vive in guerra, un po’ di pane per coloro che hanno fame e un po’ di solidarietà in una società troppo individualista ». Giampiero Steccato, o Capitan Uncino per quell’occhio che il morbo gli ha chiuso, è fatto così: «Non chiede mai per sé», come dicono pure gli amici che lo hanno accompagnato a Roma. Gli sta vicino l’amico di sempre, Giovanni Badini, e il cardiologo Ugo Gazzola, ex primario a Piacenza e adesso volontario con la Croce Rossa Italiana. Ad accompagnarlo in questo viaggio, che nelle sue condizioni gli è spesso sembrato irrealizzabile come un sogno, anche il vescovo di Piacenza, monsignor Gianni Ambrosio.
Giampiero Steccato non può muoversi senza una sedia a rotelle particolarmente attrezzata ed ha bisogno costante di alcune apparecchiature. Anche il figlio è raggiante: «A papà non è parso vero finché non ci siamo imbarcati su una aereo messo a disposizione dall’Aeronautica Militare ». L’Arma Azzurra non è nuova a queste iniziative umanitarie. Lo ha preso in cura l’equipaggio di un C27J della 46esima Brigata Aerea di Pisa: «Sono stati straordinari – dice il ragazzo –. Siamo commossi per quanto hanno fatto per noi. La gente quando vede il mio papà, per le condizione in cui si trova dimostra compassione e spesso guarda dall’altra parte. Sull’aereo, invece, hanno dimostrato affetto». Giampiero sullo scialle di lana che lo protegge porta due distintivi dell’Aeronautica, dono dell’equipaggio. Quando il Papa lo ha lasciato, ha detto alla moglie: «Non pensavo che mi accarezzasse». Con il mignolo e metà bocca, ma si è fatto capire.
Williamson, esclusivo Ecco la lettera umile e forte del Papa, di Andrea Tornielli, 11 marzo 2009
E' un testo articolato, bello, umile e allo stesso tempo forte: il Papa vuole fare chiarezza circa le polemiche sollevate dalla revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani e dal caso Williamson, e interviene sulle critiche divampate anche e soprattutto dentro la Chiesa. Lo fa con una lettera inviata a tutti i vescovi cattolici, ricordando che il caso “ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata“.
Benedetto XVI ricorda la “valanga di proteste” e l’accusa a lui rivolta di voler tornare indietro rispetto al Concilio. “Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come una smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Conciloio aveva chiarito per il cammino della Chiesa“.
L’invito alla riconciliazione con un gruppo che si era separato, è stato dunque presentato come una volontà di creare nuove fratture fra cristiani ed ebrei. Nelle parole di Papa Ratzinger emerge tutto il dolore che questa strumentalizzazione gli ha provocato, dato che proprio la riconciliazione tra cristiani ed ebrei “fin dall’inizio era stato un obbiettivo del mio personale lavoro teologico“.
Benedetto XVI spiega che in futuro la Santa Sede dovrà prestare più attenzione alle notizie diffuse su Internet (le dichiarazioni di Williamson erano circolavano infatti sul Web già prima della pubblicazione della revoca della scomunica) e aggiunge: “Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia“.
Il Papa si rammarica poi per il fatto che la stessa revoca della scomunica, “la portata e i limiti del provvedimento” non siano stati “illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione“. E precisa che la scomunica colpisce persone, non istituzioni: la revoca è un atto disciplinare, che rimane ben distinto dall’ambito dottrinale: “Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali” e i suoi ministri, anche se “sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica, non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa“.
Continuando su questo tema, il Pontefice annuncia di voler collegare la commissione Ecclesia Dei, che si occupa dei lefebvriani, con la Congregazione per la dottrina della fede. E a proposito del Concilio dice: “Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 - ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta con sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive“. Benedetto XVI - ed è la parte più commovente della lettera - risponde poi alla domanda critica che molti gli hanno rivolto in queste settimane: la revoca della scomunica era necessaria? Era davvero una priorità?
Il Papa risponde che la sua priorità come pastore universale “è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo … in Gesù crocifisso e risorto“. Nel momento in cui Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini, bisogna “avere a cuore l’unità dei credenti“, perché la loro discordia e contrapposizione “mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio“. Anche “riconciliazioni piccole e medie” fanno dunque parte delle priorità per la Chiesa. Il “sommesso gesto di una mano tesa” ha invece dato origine a un grande chiasso, trasformandosi così “nel contrario di una riconciliazione“.
Ma il Papa spiega come sia invece necessario cercare di reintegrare, prevenire ulteriori radicalizzazioni, impegnarsi per sciogliere irrigidimenti e dar spazio a ciò che vi è di positivo. “Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità” - i lefebvriani - “nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi … 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa?“.
Benedetto XVI non si nasconde che dalla Fraternità da molto tempo siano venute “molte cose stonate - superbia, saccenteria, unilateralismi ecc. Per amore di verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori“. Ma aggiunge che anche nell’ambiente ecclesiale sono emerse stonature: “A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi - in questo caso il Papa - perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo“.
Benedetto XVI ha dunque revocato la scomunica ai vescovi lefebvriani con lo sguardo del pastore preoccupato per l’unità della Chiesa, che tende la mano e offre misericordia. Quel gesto sommesso non significa ancora piena unità, finché le questioni dottrinali non saranno chiarite. La sciagurata intervista negazionista di Williamson non era conosciuta dal Papa quando ha approvato il decreto: leggere ciò che è avvenuto come un cambiamento di rotta rispetto a quanto stabilito dal Concilio nel rapporto con gli ebrei è stata una strumentalizzazione, alla quale si sono prestati anche cattolici, nonostante il Pontefice ammetta che andava chiarita meglio la portata del provvedimento.
La Chiesa non torna indietro rispetto al Vaticano II, ma il Vaticano II non rappresenta una frattura, un nuovo inizio, rispetto alla bimillenaria storia cristiana. C’è da augurarsi che tutti i vescovi, anche e soprattutto coloro che hanno criticato il Papa, leggano bene le parole umili e forti del servo dei servi di Dio e comprendano l’atteggiamento di un padre misericordioso, che cerca di favorire l’unità dei credenti in Cristo, per testimoniarlo in un mondo che ha fatto sparire Dio dal suo orizzonte.
Storie di conversione: la cambogiana Claire Ly - In cerca di un Dio all'altezza del mio odio - di Elisabetta Galeffi – L’Osservatore Romano, 12 marzo 2009
"Per affrontare questa lotta di sopravvivenza ho bisogno di un testimone. Mi viene in mente (...) il Dio degli occidentali, il Dio della loro Bibbia; non so se questo Essere esista davvero, ma non ha nessuna importanza". Inizia così, inconsapevolmente, la conversione al cristianesimo di Claire Ly, professoressa di filosofia e alto funzionario del ministero dell'Istruzione cambogiano agli inizi degli anni Settanta. Con l'avvento della dittatura di Pol Pot è costretta ad abbandonare tutti i suoi beni e tutta la sua vita passata; dal 1975 al 1979 diventa una "compagna contadina" in un campo di lavoro ai confini con la Thailandia.
La sua nuova vita inizia il 24 aprile 1975 quando lascia casa e marito nella capitale sotto l'attacco degli khmer rossi nel tentativo di fuggire con l'anziana madre e il figlioletto. Claire è sola - come mai capitava a una donna della buona borghesia khmer - in attesa di un altro bambino, è responsabile degli altri compagni di viaggio più deboli. Capisce che deve trovare in qualche modo la forza di affrontare la durissima realtà se vuol sopravvivere.
"Nel corso di questi disordini" scrive nel suo primo libro Tornata dall'inferno, raccontando del suo avventuroso viaggio su una Citroën DS per raggiungere il confine thailandese "mi sforzo di convincermi che tutto è illusione".
Da buona buddista, cerca di allontanarsi dai due lati estremi della vita, il piacere e la mortificazione per trovare la pace; "entrambi sono avvilenti, volgari e non portano all'uomo nessun vantaggio" si ripete Claire, ma nella sua vita sconvolta non riesce a trovare spazio per la "terza via" del Nirvana. Quando realizza che il distacco totale dalla realtà non le sarebbe utile a salvare le vite dei figli, Claire cerca in sé la forza di proteggerli; i suoi figli non le appaiono affatto un'illusione, ma una realtà bisognosa di aiuto. Cerca un sentimento forte che la riporti ad affrontare la vita e la risvegli dal torpore, dal senso di smarrimento in cui è caduta dopo i rapidissimi cambiamenti di tutto il suo mondo; tenta ogni strada per riuscirci, accetta anche di far leva sui propri sentimenti di odio.
Il rancore che prova nei confronti delle idee del mondo occidentale è il suo sentimento più vivo in quelle ore. Al pensiero occidentale - che conosce bene per i suoi studi filosofici - Claire imputa la responsabilità della fine del suo mondo, prima a causa della guerra del Vietnam e adesso con la rivoluzione di Pol Pot, che ha incitato gli khmer delle campagne a ribellarsi all'idea buddista del karma sotto la spinta rivoluzionaria del pensiero marxista. "Anch'io - scrive Claire - ero parte di quegli intellettuali cambogiani che pensavano di dover far qualcosa per cambiare la mentalità della gente di città".
Claire ha avuto il suo primo incontro con il mondo occidentale frequentando le scuole francesi della sua città natale, Battambang, e il suo primo scontro come insegnante di filosofia a Phnom Penh. "Nel 1968 - risponde a un giornalista del settimanale francese Panorama - la domanda del perché tanti missionari cercavano di portare in Cambogia la loro religione, quando noi ne avevamo già una, mi incitò a tornare verso il buddismo, a ritrovare le mie tradizioni. Non più solamente come un'eredità familiare; gli insegnamenti del Buddha diventarono per me una questione di identità personale, la ragione filosofica per resistere a quello che consideravamo "l'imperialismo spirituale" dell'Occidente".
Ma adesso con la fine del suo mondo Claire deve reinventare la sua vita. "Chi sono io?" si domanda, scoprendo di aver bisogno di un interlocutore con cui confrontarsi; per due anni l'unico interlocutore alle sue domande di cambogiana ricca e colta ridotta a far la contadina in condizioni terribili diventa il Dio degli occidentali a cui confessa ogni sua insoddisfazione. "Mi serviva qualcuno all'altezza del mio odio e del mio rancore. Qualcuno a cui dare in prestito il cammino della mia rabbia; non potevo scegliere Buddha, perché è soltanto un essere umano". Così "il Dio degli occidentali", all'inizio solo un testimone della sua rabbia, diventa a poco a poco un amico che le fa compagnia. Scrive Claire in Tornata dall'inferno: "Il fondamento del buddismo, il karma, è un concetto astratto, assolutamente neutro, uguale al concetto di tavolo o di sedia. Come si fa a rimproverare a una sedia il suo essere sedia? Non è responsabile di quello che fa".
Lungo i due anni in cui Claire si confronta con Dio, "i paragoni - scrive - tra l'esperienza buddista legata alla mia cultura di origine e la mia volontà di essere una persona libera saranno molto difficili" e alla fine la sua conversione al cattolicesimo non esclude né rinnega completamente gli insegnamenti del Buddha. Ma "la vita di Gesù di Nazaret mi affascina, amo la libertà di quest'uomo che non è prigioniero di nessuna convenzione religiosa o sociale".
Claire Ly raggiunge con i suoi due figli la Thailandia nel 1979 alla caduta della dittatura dell'Angkar; nel 1980 emigra in Francia, dove ancora vive e insegna filosofia all'Istituto Scienze e Teologie delle religioni a Marsiglia.
(©L'Osservatore Romano - 12 marzo 209)
Di fronte alla sovrabbondanza di informazioni e di risposte la modernità deve imparare a selezionare le domande - Nel nuovo rinascimento - l'uomo è un esploratore - Anticipiamo - nella traduzione di Claudia Gasparini della Libera Università San Pio v - il testo integrale di una delle relazioni magistrali che il 12 marzo apriranno in Campidoglio il Forum Internazionale delle Università. - di Eric McLuhan Professore emerito dell'università di Toronto – L’Osservatore Romano, 12 marzo 2009
Nuove circostanze richiedono nuovi metodi per mettere a punto il rapporto tra Vangelo e cultura, in particolar modo quella popolare. Il nostro mondo è in grande fermento, uno degli sviluppi più recenti è la crisi economica. Ma questi turbamenti economici a livello mondiale non fanno altro che mettere in luce lo stato della nostra interdipendenza nell'età dell'elettricità. Tutti i modelli definiti e codificati di cultura stanno subendo delle modifiche, o vengono addirittura superati. Sono pochi, quando ce ne sono, gli standard a cui possiamo fare riferimento. Il ruolo degli uomini, delle donne e anche dei bambini sembra mutare quasi ogni settimana. Persino l'alfabetizzazione ha perso il suo ruolo centrale nella cultura e nelle questioni quotidiane. Non si tratta di incidenti isolati, ma di evoluzioni parte di un rinascimento che sta dilagando e ci accompagna dall'avvento del telegrafo. Se i precedenti sono stati relegati a una manciata di culture alla volta, l'attuale fenomeno coinvolge contemporaneamente l'intero mondo. Un immenso cambiamento richiede che compaia un nuovo uomo del rinascimento, abile nel leggere tutte le alfabetizzazioni e capace di coniugare il linguaggio delle forme dell'ambiente. In Occidente stiamo riciclando e rivisitando la nostra cultura, ma stiamo anche indagando tutte le altre, ogni forma di esperienza che gli esseri umani abbiano mai creato o su cui abbiano mai indugiato. Il contenuto, quindi, del rinascimento che infuria intorno a noi è rappresentato dall'intera era neolitica. L'età neolitica, che è giunta alla fine, ha usato il cacciatore-pastore come contenuto e, in tempi recenti, la pastorizia come estetica. Ora l'ambiente non è più costituito da hardware e strumenti specialistici, ma è fatto da informazioni e da software. L'Oriente è sottoposto alle stesse forme di recupero, sia della cultura occidentale sia della propria, così come noi stiamo riscoprendo l'est. Queste nuove forme di comunicazione richiedono partecipazione e sono per loro stessa natura inclusive ed enciclopediche. Internet sta diventando un deposito dell'intera conoscenza umana: la rete ci offre lo spettro della vecchia enciclopedia orale precedente all'alfabetizzazione, la enkýklios paidéia, anche se in una forma elettronica radicalmente nuova.
Il grande rinascimento del XVI secolo è così definito non soltanto perché fu il più importante e il più comprensivo nell'esperienza dell'uomo, ma anche perché coinvolgeva l'intero mondo occidentale. Certamente, il rinascimento del XII secolo appariva a chi vi partecipava grande ed esteso, ma ai nostri occhi impallidisce in raffronto con gli eventi del XV e XVI secolo. Ma dovremmo osservare che entrambe queste effervescenze culturali erano movimenti diretti verso l'esterno, in espansione. Il nostro attuale rinascimento, potenziato dall'elettricità, è di gran lunga più eclettico di qualunque altro simile fenomeno precedente, ed è implosivo in quanto interessa l'intero globo allo stesso tempo. Una volta coinvolto il mondo nella sua interezza, non è più possibile alcuna ulteriore espansione. Questa condizione fa emergere la prospettiva che, contrariamente a quanto accaduto in passato, il rinascimento del XX secolo andrà avanti senza soluzione di continuità, diventerà la nostra condizione permanente.
I popoli illetterati considerano il presente, il passato e il futuro come un unico evento multidimensionale o come un insieme di cicli, un vortice di energie culturali caricate dall'essere, dal significato cosmico e dal destino. La nostra cultura riecheggia questo senso delle cose, ad esempio nell'idea popolare della reincarnazione, o nel detto "ciò che ruota ritorna". Nell'età dell'elettricità, tutti i tempi ritornano, allo stesso tempo presenti e accessibili, non come ipotesi, ma come esperienza reale e disponibile. La ciclicità implica il dinamismo e la compattezza, uno strumento per caricare e ricaricare le batterie culturali. L'alternativa, la linea razionale più familiare della storia, presenta, invece, una sola, unica e prolungata scarica. Oggi viviamo nella post-storia, nel senso che tutti i passati che mai si sono succeduti sono presenti alla nostra coscienza come tutti i futuri che saranno.
Vivere oggi significa vivere in molte culture e molti tempi contemporaneamente. Se esiste un futuro per la storia, questo risiede, come il retorico Giambattista Vico ha cercato di indicare, nelle mani dei poeti e degli artisti. A mano a mano che l'unità del mondo moderno diviene sempre più una questione tecnologica piuttosto che sociale, le tecniche delle arti offrono mezzi di indagine più validi nella vera e reale direzione dei nostri obiettivi collettivi.
Non conosco alcuno studio che sia mai stato fatto sui rinascimenti in generale. Ogni approfondimento che ho conosciuto riguarda questo o quel rinascimento in particolare; occasionalmente, se ne trovano due esaminati in parallelo. Questi studi sono ben focalizzati e impeccabili dal punto di vista dell'erudizione. Inoltre c'è una gran profusione di libri su questo o quel rinascimento per un uso generale. Ma non esistono studi della lunghezza e ampiezza di un libro, né esiste un singolo articolo, che riguardi i rinascimenti come fenomeno. La Phoenix Playhouse fino a oggi ha lavorato dietro una porta chiusa. Consentitemi di suggerire i seguenti sei tratti distintivi come caratterizzanti dei rinascimenti.
Un rinascimento è sempre invisibile agli occhi di chi lo sta vivendo. Un rinascimento è sempre un effetto collaterale di qualcos'altro, un qualche nuovo strumento che rimodella la percezione. Nel nostro caso, le tecnologie che vanno dal motore all'mp3, dal telegrafo al satellite, dalla radio a internet. Un rinascimento è sempre accompagnato da una rivoluzione della sensibilità. Un rinascimento è sempre annunciato nell'arte e dall'arte; gli artisti funzionano come le "antenne della competizione". Un rinascimento serve sempre come fase propedeutica a una nuova modalità della cultura e della società, di identità diversamente modellate ovunque. Un rinascimento è sempre accompagnato da una guerra di vaste dimensioni. Nel nostro caso, abbiamo assistito a due guerre mondiali, alla "guerra fredda" e oggi siamo coinvolti nella prima guerra al terrorismo. Alla velocità della luce, il fronte è scomparso, il campo di battaglia è il globo e il paysage intérieur di gran lunga più ampio.
Nell'età dell'informazione globale, sia la natura sia il significato della guerra sono stati rimaneggiati. Il villaggio globale dell'era della radio è stato sostituito dal teatro globale dell'età dei satelliti. Ora tutti indossiamo delle maschere e abbiamo dei ruoli e nuove identità di gruppo che sostituiscono i vecchi schemi di lavoro e i singoli individui che hanno rappresentato l'eredità dell'alfabeto e della stampa.
Per molti secoli la cristianità si è affidata al terreno dell'alfabetizzazione come strumento per diffondere e trasmettere il Vangelo. Ora che il terreno è stato sostituito da quello dell'informazione elettrica, ci troviamo in una cultura sempre più priva di legami con l'alfabetizzazione. L'alfabeto fonetico ci ha fatto vivere per la prima volta l'esperienza del distacco: la separazione del suono dal significato. Dall'alfabeto abbiamo appreso la separazione tra pensiero e sentimento, tra azione e reazione, tra chi conosce e ciò che è conosciuto. Il singolo spezza il legame tribale ed emerge dal gruppo. La stampa ha accelerato enormemente questi processi e ha prodotto il grande rinascimento di recente memoria. Oggi il rinascimento delinea, invece, il forte desiderio di un coinvolgimento sempre maggiore in ogni fase del gioco e della vita sociale e culturale. La mimesis, non l'obiettività, alimenta questo desiderio. Le nostre modalità di conoscenza sono state deviate verso antichi schemi senza che ce ne rendessimo conto.
Basta osservare l'attuale forma della pubblicità, dei videogame e della schiera di maschere, icone e ruoli partecipativi di cui ci facciamo carico quando ci avventuriamo su internet. Mimesis significa indossare la modalità della nuova cultura, nello stesso modo che consigliava san Paolo quando diceva di "indossare" l'armatura e le armi del paradiso per combattere le tentazioni e le tendenze erronee. Aristotele osservava che la mimesis è il processo con cui tutti gli uomini apprendono, intendendo con questo l'indossare come modo di conoscere. Noi indossiamo questi nuovi media ogni qual volta ci avventuriamo all'interno dell'ambiente globale. Platone dichiarava guerra, nella sua Repubblica, al contesto poetico del suo tempo sull'uso che facevano della mimesis: oggi l'ambiente dell'informazione globale ha dichiarato guerra a Platone. Da Cézanne ai poeti simbolisti del xix secolo, le nostre arti hanno insistito sul nostro "indossare" la nostra "quota" di partecipazione da osservatori. Gli annunci pubblicitari moderni (sullo stile di vita e su altro), similmente, ci propongono non prodotti, ma stili, immagini di gruppo e culture aziendali, chiedendoci di partecipare. La cultura di gruppo delinea alcune curiose manifestazioni, ivi compreso il divorzio senza colpa e la rassicurazione. La tradizionale cultura cattolica, d'altra parte, enfatizza l'alfabetizzazione sia direttamente, per la lettura delle Scritture e per il commento, sia indirettamente, attraverso la sua insistenza su identità, anima, responsabilità e salvazione come elementi privati e individuali. Di conseguenza la tradizione culturale cattolica si trova a giocare il ruolo di controcultura nel mondo dell'elettricità. Abbiamo posto fine all'alfabetizzazione quando abbiamo ucciso l'Idra, il pubblico lettore. Al suo posto sono emerse dozzine di baby-alfabetizzazioni avide di sapere. Il vecchio pubblico lettore è arretrato allo stadio precedente di piccoli gruppi di lettori, dei "club di lettura". Coloro che ora leggono lo fanno in un'atmosfera di postalfabetizzazione: siamo circondati da persone che sanno leggere, ma nell'insieme preferiscono non farlo. Le nuove alfabetizzazioni appaiono in ogni area immaginabile, da quelle dei vari media (film, tv, computer) alle arti; esistono anche alfabetizzazioni culturali, dei numeri, dell'ambiente, e così via. Ma siamo immersi in un rinascimento globale, per la prima volta nell'esperienza dell'uomo, un fenomeno che sta ancora crescendo. La maggior parte dei rinascimenti passati sono sfociati, dopo un secolo più o meno, nella nuova cultura che hanno coniato, mentre il cambiamento che ci avvolge riceve fresco impulso da ogni nuova tecnologia che appare sulla scena. Un rinascimento è in particolare un tempo di rinascita, di recupero e di aggiornamento. Il tempo è maturo per rivivere gli aspetti della cultura cattolica in sintonia con la nuova sensibilità e la rinnovata domanda di coinvolgimento mimetico. Ci sono le condizioni per aggiornare tutte le modalità meditative della preghiera e della liturgia; per recuperare le numerose interpretazioni delle Scritture; per ravvivare il misticismo cattolico; per vivificare la pienezza della nostra tradizione colta, la translatio studii, come un intero simultaneo. L'attuale declino dell'alfabetizzazione letterale, sostituita da tutte quelle piccole alfabetizzazioni, costituisce un altro revival, familiare a tutto il medioevo. La cantilena degli alunni lo riassume così:
Omnis mundi creatura
Quasi liber et pictura
Nobis est, et speculum
Si è sempre sostenuto che Dio stesso parla all'uomo in due modi, attraverso le Scritture e attraverso quel grande discorso denominato la creazione. Così emerge il tropo dei due Libri che sono stati posti avanti all'uomo perché li legga e li interpreti, il Libro della Natura e i Libro della Scrittura. Naturalmente i due testi sono in assoluta armonia, anche se scritti in lingue completamente separate e distinte: uno fatto di parole, l'altro di forme. Si potrebbe persino affermare che la lingua dell'uno è il software (l'informazione) e quella dell'altro è l'hardware (le cose). Fin dall'inizio, i due Libri hanno significato l'esistenza delle due alfabetizzazioni, ciascuna offre livelli simultanei di significato. Per uno, i quattro livelli familiari di interpretazione (letterale, allegorica, tropologica, analogica); per l'altro, le quattro cause (formale, efficiente, materiale, finale). Colui che voleva leggere entrambi i libri, il grammatico, doveva essere versato nelle arti e nelle scienze, doveva essere capace di lavorare con qualunque lingua: imparava a leggere la lingua delle forme. Il grammaticus, l'uomo di lettere, sapeva leggere e decodificare qualunque alfabetizzazione. Il nostro ambiente contemporaneo di alfabetizzazioni multiple è un segno sicuro che i due Libri stanno riprendendo il loro ruolo. L'istruzione moderna deve comprendere la formazione nella lettura di entrambi, il divino e l'umano, il Vangelo e la cultura. Il libro del mondo oggi comprende l'alfabetizzazione dell'ecologia ambientale e quella dell'ecologia culturale, e ora anche tutte quelle nuove alfabetizzazioni che vengono alla luce ogni due o tre settimane, una moltitudine di forme che tuttavia ancora mancano di coordinamento. I nuovi media sono le nuove lingue della percezione, le loro grammatiche e sintassi - le loro "alfabetizzazioni" - che, però, devono essere ancora accertate. Il riapparire dei due Libri sarà seguito dall'apparire del loro lettore e interprete, il grammatico, in una forma opportunamente aggiornata. La sua formazione sarà orientata all'enciclopedismo invece che alla specializzazione. Deve anche essere un lettore delle lingue. In abiti moderni sarà piuttosto come il famoso e celebrato uomo del rinascimento. Questo parallelo è assolutamente pertinente in quanto noi stessi siamo nel mezzo di un rinascimento.
Non propongo tutto questo come punto più alto del tipo di istruzione di cui abbiamo bisogno oggi, ma come la norma. La nostra sopravvivenza, individuale e culturale, dipende dalla nostra capacità di leggere e interpretare ciò che il nostro ambiente fatto dall'uomo dice e fa. Il nostro ambiente di informazioni elettriche richiede la competenza dell'esploratore e del navigatore invece che dello studioso e dell'esteta. Stiamo annegando nell'informazione, nelle risposte: soltanto l'indagine, la domanda risolve la questione. Un'istruzione orientata ad analisi e a concetti formali deve arrendersi a un'istruzione focalizzata sulla formazione di una consapevolezza critica e sulla formazione della percezione. Anche se somiglia a un "trionfo dello stile sulla sostanza", il mutamento è effettivamente più profondo e di maggiore importanza. Rappresenta una riduzione dell'enfasi sul contenuto ideologico e un revival dello studio della forma ambientale e della causalità formale.
Ho cercato di suggerire alcune considerazioni da tenere a mente durante le vostre decisioni nei prossimi giorni in merito al Vangelo e alla cultura. Poiché cambiamo cultura, ogni volta cambiamo i media - introducendone di nuovi - a una velocità vertiginosa. Ogni nuovo ambiente significa un modo completamente nuovo di vedere e di immaginare il mondo e apre un nuovo atto sul palcoscenico del teatro globale.
(©L'Osservatore Romano - 12 marzo 209)
L'Occidente e l'asse del Caos - Roberto Fontolan - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Squassato dalla crisi economica, l’Occidente guarda con maggiore fatica (Stati Uniti) e senso di impotenza (Europa) ai due “buchi neri” del pianeta. I dossier si accumulano sui tavoli delle cancellerie e le conversazioni strategico-diplomatiche si arenano nei dubbi e nell’esaltazione delle difficoltà. Da un lato l’agglomerato Afghanistan-Pakistan, dall’altro quelle sponde arabo-africane, ormai unite più che separate dal Golfo di Aden. Tirato un sospiro di breve sollievo con la tregua di Gaza -il processo è comunque lungo e occorre dare tempo agli sviluppi interni di Israele e della Palestina- riflettori e satelliti sono oggi puntati su Kabul e Islamabad, Mogadiscio e il sud della penisola araba. Sono il nucleo centrale di quello che già viene definito “il nuovo asse del caos”, che dispone di varie propaggini allungandosi fino all’Asia e che è il frutto dell’incandescente mescolarsi di fattori religiosi, economici e geopolitici.
L’esempio più citato è quello del nuovo preoccupante capitolo della guerra ai talebani. Più soldati americani e maggiore energia bellica, anche da parte della Nato: su questo c’è un consenso piuttosto diffuso, ma è altrettanto chiaro che occorre trovare il modo di superare lo stallo politico interno e di agire decisamente anche e forse soprattutto sui piani della ricostruzione strutturale e del cambiamento “culturale”.
Se viene ucciso il marito della nota giornalista televisiva e se intere regioni sono tornate sotto il potere quotidiano del “lato oscuro della forza”, come infondere fiducia, come spingere al coraggio la maggioranza del popolo? Il tema è in un certo senso educativo e antropologico, ma è una battaglia questa che non si combatte con i droni e i bombardamenti aerei. Inoltre, è un fatto più che certo che una incalcolabile parte del potere talebano viene dalla droga.
Ma l’amministrazione Bush sosteneva che la distruzione dei campi di oppio non faceva parte degli obbiettivi della guerra e così, nel corso degli anni, ci si è ritrovati con oltre l’80% della produzione controllata dagli uomini barbuti. Nelle vicine aree tribali del Pakistan le cose in queste ultime settimane sono sembrate andare un po’ meglio, ma solo perché in alcune province (tra cui la famigerata Swat Valley), con l’approvazione del governo centrale, dal 16 marzo la giustizia verrà amministrata dalle corti islamiche e l’ordine “assicurato” da una organizzazione talebana. Fragilità politica, milizie terroristiche, servizi deviati, contrasto con l’India, capacità nucleare, contiguità con l’Afghanistan, fanno del Pakistan odierno un rebus senza soluzione apparente.
A una certa distanza, dall’altra parte della penisola araba, si è intanto consumato l’ennesimo dramma della Somalia, anch’essa entrata o meglio rientrata nell’orbita dell’islamismo, dopo la parentesi presidiata dall’esercito dell’Etiopia, che non ha potuto tutelare le vecchie autorità ufficiali, ridotte a ectoplasmi. Anche in Somalia vige il regime della sharia, e dopo decenni di sforzi, di soldati e giornalisti occidentali morti, di montagne di denaro europeo investito per sostenere governi esiliati, nel Corno d’Africa si è instaurata solidamente una dittatura coranica. Per molti si tratta di una piattaforma di espansione islamista verso il resto della regione con possibili gravi conseguenze per il Kenya e l’Etiopia. E per di più una piattaforma alimentata incessantemente dai rifornimenti di ogni genere, soldi, predicatori, armi, miliziani, che arrivano dalla Penisola araba attraverso le vie più impensate e più impensabili. Così l’Africa “dimenticata” deve tornare a essere pensata e aiutata, in tutti i modi, come speriamo possano realmente fare i prossimi round del G8 a presidenza italiana.
BIOETICA/ Ecco perché la legge 40 è a prova di costituzionalità - Andrea Simoncini, Carter Snead - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Il prossimo 31 marzo 2009 la Corte Costituzionale prenderà in esame una serie di questioni sollevate da diversi Tribunali e riguardanti la costituzionalità della legge n. 40 del 2004 che ha disposto le “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”.
Le ragioni per cui alcuni giudici dubitano della costituzionalità di questa legge sono molteplici, ma con queste brevi osservazioni vorremmo soffermarci su quelle che sembrano essere le questioni centrali.
La legge del 2004, com’è noto, ha introdotto una specifica disciplina per regolare l’accesso delle coppie alle tecniche della procreazione medicalmente assistita.
Uno dei punti controversi in questa regolazione è l’art. 14 laddove prevede che «le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tecnico-scientifica e di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre».
Questa disposizione sarebbe, a detta dei giudici remittenti, irragionevole perché limiterebbe il numero massimo degli embrioni impiantabili, quando invece potrebbero occorrerne di più per ottenere quello che si sostiene essere lo scopo della legge: ottenere la gravidanza.
Ci troveremmo, quindi, di fronte ad un caso classico di irragionevolezza sotto il profilo dell’eccesso di potere legislativo, quando, cioè, la legge predispone mezzi intrinsecamente contraddittori con il fine che vuole raggiungere.
Queste ragioni di incostituzionalità sono del tutto inconsistenti sia con riferimento al presunto fine della legge, sia alla adeguatezza dei mezzi.
1. La procreazione medicalmente assistita non è una cura
Il fine della legge 40 del 2004 non è quello di curare una malattia e conseguentemente quello di garantire un diritto alla riproduzione assistita per la donna come espressione del suo diritto costituzionale alla salute. In realtà, se così fosse, allora si potrebbe sostenere che la limitazione a tre degli embrioni è irragionevole ogniqualvolta un numero maggiore di embrioni rendesse più probabile una gravidanza sana per la madre (numero maggiore, giacché la legge consente di creare ed impiantare meno di tre embrioni).
Ma così non è.
Sono molteplici le ragioni – la maggior parte delle quali assolutamente autoevidenti – per cui non si può pensare che la legge 40 abbia inteso la disciplina di una terapia per una malattia.
Basta scorrere gli articoli della legge, a partire dal primo, per capire che la legge 40 intende favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità attraverso un mezzo – la creazione di un embrione ed il suo impianto – che interviene solo quando «non ci siano terapie» efficaci a rimuovere le cause della sterilità o infertilità. È infatti del tutto intuitivo comprendere che, se uno o l’altro partner di una coppia hanno problemi riproduttivi, la procreazione medicalmente assistita (PMA) non li “cura” in nessun modo, non agisce sulle cause rimuovendole, ma consente di procreare un figlio attraverso una modalità medicalmente assistita.
Non si può in alcun modo dire che la creazione dell’embrione è un mezzo di cura; questo contrasterebbe non solo con tutti i principi di civiltà, ma con le norme della legge (art. 1) che assicura i «diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito».
Questa è la ragione sostanziale assorbente per la quale tutti i rilievi di costituzionalità presentati sono radicalmente infondati: non si può impugnare gli articoli 6, 13 o 14 senza logicamente attaccare contemporaneamente l’art. 1 e tutto l’impianto della legge.
Le questioni poste dai giudici nel ritenere incostituzionali gli articoli 6, 13 e 14, muovono tutte da un clamoroso errore di interpretazione; questi articoli, infatti, sono tutti espressivi e consequenziali con la ratio stessa della legge, ragion per cui annullare questi articoli e lasciare intatti gli articoli 1, 2, 3 e 4, ad esempio, sarebbe operazione del tutto inutile e produrrebbe un risultato, questo sì, del tutto irrazionale come la stessa Corte ha avuto modo di dire con riferimento ad una precedente questione che le era stata sottoposta su questa legge. Ma, d’altra parte, attaccare i principi basilari vorrebbe dire, come effetto pratico, annullare la legge nella sua generalità (finalità che, lo si capisce dalla lettura degli atti, è probabilmente quella realmente perseguita dai giudici, ma che è stata già considerata impossibile sul piano costituzionale ancora una volta dalla Corte in una sua precedente decisione con cui ha respinto l’ammissibilità del referendum abrogativo totale della legge; di qui la scelta di alcuni articoli).
Vogliamo limitarci ad illustrare qualche motivo per cui è assolutamente chiaro che la legge 40 non considera la PMA una terapia finalizzata alla cura di una malattia.
a) In primis, l’ ipotizzata terapia dovrebbe consistere nella creazione di un soggetto di diritti: l’embrione. Tutti conosciamo il dibattito difficile e controverso sulla natura giuridica dell’embrione, ma nessuno sino ad oggi, neppure chi ha difeso le tesi più estreme e libertarie, ha mai considerato un embrione al pari di un medicinale
b) Se la PMA fosse una terapia o un diritto non si vede perché la disciplina graduale nella sua somministrazione: perché solo quando sono state previamente percorse tutte le altre soluzioni (art.4)? Perché alla coppia dev’essere prospettata la possibilità di ricorrere all’adozione o all’affidamento come alternative alla PMA (art. 6)?
c) Ma soprattutto: se la PMA fosse davvero una terapia e quindi, parallelamente, un diritto della donna ad ottenere l’impianto di un embrione, perché il divieto di PMA eterologa (art. 4)? L’esclusione del ricorso a donatori esterni restringe in maniera drastica la possibilità dell’accesso e di riuscita.
Se stessimo discutendo del diritto costituzionale alla salute della donna tutte queste limitazioni sarebbero altrettanto irragionevoli, ma non lo sono per la chiara ragione che la legge non ha questo scopo né si occupa di questo
d) E veniamo al punto cruciale. Se la PMA fosse una terapia ovvero un diritto della donna ad ottenere l’impianto perché (art. 5) possono accedere alla tecnica solo «coppie, maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi»? E’ evidente che tutte queste rappresenterebbero limitazioni assurde ed odiose se stessimo parlando di somministrare un medicinale ad una persona per guarire una sua malattia. Sono invece condizioni del tutto ragionevoli se pensiamo al fatto che creando uno o più embrioni ed impiantandoli stiamo generando una nuova persona i cui diritti debbono essere tutelati assieme a quelli della madre e del padre.
e) Ed allo stesso modo si spiega l’inconsistenza dell’altra accusa di incostituzionalità che viene fatta alla legge: sarebbe infatti contro la Costituzione la norma che non consente alla coppia o alla donna di ritirare il consenso all’impianto dopo la fecondazione dell’ovulo (art.6).
Certamente, se ci trovassimo dinanzi ad un trattamento sanitario, una disposizione del genere sarebbe problematica rispetto ai i principi del consenso informato o del divieto di trattamenti sanitari obbligatori.
Ma ancora una volta così non è.
Innanzitutto, se muoviamo dagli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge – cioè dalla sua ratio – si comprende benissimo che, una volta creato l’embrione, non ci siamo limitati a produrre un medicinale che, se non utilizzato, possiamo smaltire.
Ma, in secondo luogo, è assolutamente chiaro che la legge proprio per l’esigenza di questi delicatissimi bilanciamenti, non ha previsto alcuna sanzione afflittiva o punitiva né, tanto meno, alcuna forma di esecuzione coattiva dell’impianto in caso di revoca del consenso.
E’ un caso classico di norma imperfetta (come la si definisce nei manuali di diritto) che prescrive il comportamento che dovrebbe essere seguito sulla base dei principi che essa stessa pone, ma che in caso di inadempimento non predispone alcuna conseguenza, ché ovviamente sarebbe lesiva della libertà e della dignità della donna. Anche qui, dunque, sul piano interpretativo non c’è alcun contrasto con la Costituzione, ma solo il totale fraintendimento da parte dei giudici da cui deriva la completa assenza di rilevanza della questione. Nessuna donna potrebbe essere condannata ad una multa né tanto meno ad una esecuzione coattiva nel caso in cui, dopo aver fecondato l’ovulo, non intenda sottoporsi all’intervento.
E’ dunque una interpretazione errata ed in ogni caso non applicabile a nessun caso concretamente in discussione.
2. Perché è bene porre dei limiti
Ma la ragionevolezza delle limitazioni poste dalla legge 40 non solo è chiaramente dimostrata, sol che si comprenda esattamente lo scopo della legge stessa; in realtà sono la stessa scienza e la tecnica della medicina riproduttiva a richiedere una limitazione – spesso anche inferiore ai tre embrioni – al fine di garantire il buon esito dell’impianto.
Su questo punto basti far riferimento alle linee guida elaborate dalla “Human Fertilisation and Embryology Authority” inglese, l’Autorità indipendente che sovrintende all’applicazione delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita nel Regno Unito.
Nonostante il sistema legale inglese sia notoriamente molto più permissivo e “liberale” nei confronti di tali tecniche, le linee guida elaborate da questo organismo prevedono il trasferimento di non più di due embrioni nella generalità dei casi e di massimo tre embrioni solo nel caso di donne ultraquarantenni (cfr. www.hfea.gov.uk/en/664.html).
Questo per il motivo, ben noto ai tecnici, che «la gravidanza multipla è il fattore di rischio più grave per la madre e per il figlio nei casi di PMA» (www.hfea.gov.uk/en/1726.html); dal primo gennaio 2009 l’Autorità inglese ha deciso di diminuire drasticamente la percentuale delle gravidanze multiple scegliendo addirittura la “Single Embryo Transfer policy”.
E’ dunque dai presidi più avanzati della evoluzione tecnico-scientifica che viene l’indicazione di porre tetti massimi ed invalicabili al trasferimento degli embrioni. Si guardi la denuncia apparsa sul magazine internazionale Newsweek, dopo la vicenda della madre single che dopo una prima gravidanza multipla ottenuta seguito di PMA (6 figli) ha recentemente procreato, sempre a seguito di PMA, altri otto figli; denuncia intitolata, significativamente: «Procreazione Assistita: la maggior parte delle cliniche della fertilità non rispetta le regole» (www.newsweek.com/id/185689/output/print).
Non vi è dunque alcuna irragionevole limitazione, neppure se si considerasse lo scopo della legge puramente e semplicemente consentire interventi di PMA.
Il rischio, infatti, delle gravidanze multiple è quello che abbassa drammaticamente la percentuale dei successi, in termini di salute per la madre e per il figlio.
3. Conclusioni
In conclusione, la questione che tra pochi giorni si aprirà dinanzi alla Corte costituzionale nasce da un duplice palese errore di interpretazione da parte dei giudici.
Da un lato, essi ragionano come se lo scopo della legge 40 /2004 fosse quello di predisporre la cura o la terapia per una malattia o un disturbo. La PMA non cura né rimuove alcuna malattia, né tanto meno la sterilità o l’infertilità.
La legge 40 nella sua totalità, anche attraverso gli articoli 6, 13 e 14 che sono stati impugnati, invece regolamenta un complesso procedimento, in cui, attraverso l’applicazione di tecniche mediche si da’ vita ad embrioni, soggetti di diritti destinati, se l’impianto ha successo, a diventare persone.
Dall’altro, i giudici rimettenti ritengono che lo scopo della legge sia quello di massimizzare il numero di embrioni da creare e trasferire perché così – secondo grave errore di valutazione – si faciliterebbero le gravidanze sane e vitali. Così non è, come le stesse Autorità indipendenti in materia di medicina riproduttiva affermano.
SCUOLA/ Autonomia scolastica e premi al merito: la lezione di Obama - Vincenzo Silvano - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Ha fatto scalpore, e dunque è stata ripresa da numerosi quotidiani italiani, la notizia relativa all’intervento di Barak Obama sulla scuola: stipendi basati sulla performance degli insegnanti, scuole più indipendenti dai sindacati, raddoppio dei finanziamenti, anno accademico più lungo.
In tema di scuola (a differenza di altri temi, come ad esempio la bioetica) il presidente statunitense pare che abbia le idee abbastanza chiare e che consideri essenziale la riforma dell’istruzione per salvaguardare la leadership economica degli Stati Uniti: «La posta in gioco è troppo alta – ha dichiarato –. Non ci possiamo permettere nient’altro che il meglio per i nostri figli. E questo vale per i loro insegnanti e per le loro scuole».
Fin qui tutto ok, salvo la prevedibile gelida reazione dei potenti sindacati degli insegnanti, contrari da sempre al criterio meritocratico; cori di assenso trasversali, invece, non solo da molti riformatori, democratici e repubblicani americani, ma pure dai nostrani censori, che pure sono sempre sul “chi va là” quando si tratta di mettere mano al fatiscente sistema di istruzione del nostro paese.
Quello che però pochi hanno sottolineato, è come il presidente americano intende spendere i soldi per l’istruzione. Alla proposta di raddoppiare i finanziamenti per l’istruzione, è legata infatti quella di aumentare il numero delle cosiddette “Charter schools”, uno dei più interessanti fenomeni di rinnovamento della scuola americana degli ultimi vent’anni: si tratta di scuole pubbliche a gestione privata che, benché obbligate a rispettare determinati obiettivi sulle performance degli alunni (pena il ritiro dei finanziamenti pubblici), tuttavia sono meno soggette al rispetto delle regole imposte per il sistema di istruzione elementare e secondario.
Una scuola charter è – come spiegava Luisa Ribolzi in un articolo dello scorso anno (ilsussidiario.net, 21 maggio 2008) – «una scuola di pubblica scelta, indipendente, libera quanto alle regole ma affidabile quanto ai risultati: in quanto pubblica, è aperta a tutti, gratuita (finanziata fino all’80% del costo delle scuole di distretto con i soldi delle tasse), e deve rendere conto dei risultati che raggiunge sia ai propri utenti che allo stato».
Una scuola charter può essere aperta da un gruppo di insegnanti o di famiglie, da un’associazione, un’università, perfino da una scuola di distretto che decide di trasformarsi in charter, e viene autorizzata dalle autorità locali per mezzo di un decreto (la chart, appunto) sulla base di un progetto validato da un ente, di solito un’università. L’autorizzazione ha una scadenza (di solito cinque anni) in capo alla quale, se non ha mantenuto gli impegni presi con gli utenti e con lo stato, la scuola viene chiusa.
Le qualità più apprezzate dai genitori sono soprattutto la sicurezza (molte charter operano in quartieri difficili), la possibilità di scegliere liberamente il progetto della scuola, e i migliori risultati ottenuti, come nel caso della Urban Prep Charter Academy di cui trattò a suo tempo l’Economist, esplicitamente finalizzata a promuovere la preparazione accademica dei ragazzi meno favoriti.
La maggior parte delle scuole charter non è certo di élite quanto all’utenza, prevalentemente composta di ragazzi afroamericani, latino americani e bianchi poveri, ma lo è quanto ai risultati ottenuti, grazie alla personalizzazione dei progetti, all’impegno dei docenti e all’utilizzo intensivo di tutor e tecnologie dell’informazione.”
Perrché dunque Obama vuole aumentarne il numero, sfidando i potenti sindacati degli insegnanti, ovviamente contrari alle charter schools? E’ semplice: il successo di queste scuole è incontrovertibile, centinaia di migliaia di studenti americani sono in lista d’attesa per poterle frequentare, ed è pertanto un dato di realtà cui occorre guardare per decidere da dove e come ripartire, perché, come ha detto lo stesso presidente, «il sistema scolastico d’America torni ad essere l’invidia del mondo intero».
Esattamente quello che occorre anche in Italia: ripartire da ciò che già c’è e dimostra di funzionare. Qualche segnale in questa direzione pare cominci ad esserci se, come ha dichiarato il Ministro Gelmini nel recente messaggio inviato al Convegno della CdO Opere Educative, saranno davvero «recuperati i fondi mancanti in Finanziaria a favore delle scuole paritarie anche per i prossimi anni» e, soprattutto, si manterrà «l’impegno a defiscalizzare tutte le spese per le rette e le doti nell’arco della legislatura».
Andiamo anche noi, dunque, verso un rinnovato sistema scolastico con un maggiore protagonismo delle famiglie e della società civile? E’ presto per dirlo. Per ora di questo, sulla maggior parte dei quotidiani di “casa nostra” non c’è traccia… Ed è ovvio: le charter schools somigliano troppo – pur nella diversità – alle nostre scuole paritarie; e certamente non si può sostenere Obama fino a questo punto.
STORIA/ Aristotele contro Averroé: la replica di Franco Cardini - INT. Franco Cardini - giovedì 12 marzo 2009 – ilsussidiario.net
In risposta alla presentazione del libro pubblicata l’altro ieri su ilsussidiario.net, il professor Franco Cardini interviene sollevando non poche perplessità sulla validità scientifica dell’opera. Se la cultura europea si è notevolmente sviluppata lungo gli ultimi secoli in ambito non solo filosofico, ma anche tecnico e scientifico non è giusto, sostiene l’illustre storico, non riconoscere alcun merito all’apporto dell’Islam in questa evoluzione.
Professor Cardini, qual è la sua opinione in merito alle tesi sostenute nel libro di Sylvain Gouguenheim?
La tesi di Gouguenheim o, meglio, che del suo studio ha interessato maggiormente i lettori e i commentatori è obiettivamente del tutto sprovvista di fondamento. Tale tesi sostiene l’idea che l’Islam non abbia partecipato in nulla alla crescita della cultura europea. Questo perché, secondo gli studi di Gouguenheim, che in fondo non ha scoperto nulla, già nella prima metà del XII secolo a Mont Saint-Michel, un’abbazia benedettina fra Normandia e Bretagna, un monaco bizantino che stette a lungo a Venezia o che era di Venezia, trascrisse e diffuse in Europa le opere di Aristotele. Ora, io non sono uno specialista del campo, ma parlando con molti specialisti e anche con il maestro di Gouguenheim, André Vauchez, che è d’accordo con me, risulta chiaramente che questo non è vero.
Quindi è solamente una raccolta di fandonie storiche?
No, è un ottimo studio finché si concentra sul personaggio in questione, Giacomo da Venezia, e sulle sue traduzioni di Aristotele. È uno studio che mancava, anche se l’idea non era proprio nuova. Il personaggio è ben conosciuto infatti in ambito accademico, ma lo studioso francese ha avuto senz’altro il merito di aver risistemato le conoscenze intorno a questo monaco. È quindi, tutto sommato, uno studio più che buono. Ovviamente gli specialisti riveleranno errori e lacune, che comunque ci sono sempre e dappertutto per ogni studio di questo tipo.
Allora che cos’è che proprio non le va giù in merito a questo saggio?
Il capitolo finale, in cui palesemente Gouguenheim afferma che l’Occidente non deve nulla all’Islam. E non solo, ma anche che l’Occidente cristiano è strettamente legato senza soluzione di continuità con il mondo greco. Prima di tutto Aristotele in Occidente è stato conosciuto a partire dal XII secolo da una quantità molto più elevata di opere trascritte di quelle di Giacomo Veneto. Che poi tra i trascrittori ci fossero non solo degli arabi musulmani, ma anche cristiani è perfettamente vero, ma questo non prova e non aggiunge niente. San Giovanni Damasceno, uno dei principali santi della chiesa ortodossa, era un arabo siriano che stava alla corte del Sultano, un suo funzionario. Ma era anche vescovo della comunità cristiana di Damasco e nessun musulmano gli diede mai noia, nessuno gli ha mai fatto nulla, nonostante egli scrivesse peste e corna del profeta Maometto. Occorre capire che all’epoca in questione non c’era fra cristiani e musulmani quel tipo di tensione che in fondo oggi alcuni storici vogliono far credere. Dico questo per dimostrare la perfetta sinergia culturale che caratterizzò il periodo considerato.
Gouguenheim sostiene però che fu l’Occidente a saper interloquire con vera efficacia con la conoscenza classica
Questa è una tesi che sostengono molti storici che hanno apprezzato il lavoro di Gouguenheim coprendolo di lodi e recandogli, a mio avviso, danno. Infatti da lì è cominciata a serpeggiare l’idea che lo storico abbia scritto quest’opera con l’intento di realizzare un best seller per i teocon. È un’accusa che personalmente trovo molto antipatica e non vera. Comunque, per tornare alla domanda, il fatto che Aristotele sia stato scritto e tradotto da Giacomo Veneto è verissimo come non è meno vero che i codici trascritti sono un numero considerevole, ma ciò non toglie che questo monaco fosse poco noto fuori della cerchia dei suoi confratelli di Mont Saint-Michel. Mentre tutta l’Europa, le università europee, le scuole di medicina, hanno sempre, e direi quasi esclusivamente, letto Aristotele attraverso la traduzione araba, poi tradotta in latino, e il commento di Averroé.
Ora, siccome Averroé è un grosso filosofo dell’islam spagnolo del XIII secolo, conosciuto in tutto il mondo anche di allora, è evidente che all’Islam si devono la tradizione e la traduzione di Aristotele, che poi è diventata il pane quotidiano delle Università.
Ravvisa una certa influenza ideologica dietro l’impostazione dello studio di Gouguenheim?
Quello che mi fa sospettare di una certa dose di disonestà intellettuale è il fatto che Gouguenheim sa benissimo che attraverso l’arabo, e attraverso anche il persiano, è passata la cultura greca in Europa non solo per quanto riguarda Aristotele, ma anche per una serie di altri autori, per esempio Platone. Per non parlare del vasto numero di trattatisti di fisica, di matematica, di medicina. Lo stesso Pitagora è stato tramandato da testi arabi. Quindi la problematica aristotelica non esaurisce il debito che l’Occidente ha nei confronti dell’Islam. Anche ammesso e assolutamente non concesso che noi dovessimo la conoscenza di Aristotele a Giacomo da Venezia e non ad Averroé resterebbe tutto il resto a cominciare dalle opere mediche di Avicenna che sono state insegnate in tutte le università europee fino al 1700. Questa cosa, Gouguenheim essendo un medievista serio, non la può ignorare.
Oltre alla tradizione e traduzione delle opere classiche ha notato altri “vizi” nell’opera in questione?
Un’ultima cosa riguarda il collegamento stretto che Gouguenheim fa, questo sì un vero “cavallo di battaglia” teocon, fra il mondo greco antico e il mondo cristiano. Ma ci immaginiamo dei monaci ortodossi alle prese con la Lisistrata di Aristofane? È impensabile che i monaci bizantini abbiano conservato un’opera praticamente “pornografica” come questa. Lo dico per fare un esempio. C’è stata una rottura fra la morale antica e la morale cristiana, e testi di questo tipo sono stati conservati da trascrittori islamici. Dico questo perché uno dei capisaldi del capitolo finale del libro di Gouguenheim è rappresentato proprio dalla continuità fra mondo classico e cristiano. Questo ultimo capitolo, mediante il quale Gouguenheim vuole tirare le somme, rovina dunque uno studio che in realtà sarebbe stato, non certo sconvolgente, ma interessante.
OGNUNO MONADE CHE VIVE PER SÉ - LA FOLLIA DECLINATA NELL’OCCIDENTE DEL 2009 - MARINA CORRADI – Avvenire, 12 marzo 2009
Delle immagini da Stoccarda quella che più sbalordisce non è la scuola circondata da teste di cuoio, né la colonna di ambulanze accorse inutilmente. Invece ti trafigge la foto di un bambino sui dodici anni, con i capelli corti; un bambino sorridente che brandisce un trofeo vinto nel torneo di ping pong, a scuola, cinque anni fa. E che quel bambino felice sia Tim Kretschmer, 17 anni, il ragazzo che ha massacrato dieci compagni della sua vecchia scuola e altre cinque persone prima d’essere ucciso, è il segno di quanto sia profondo il mistero di un uomo; un abisso, in cui nemmeno padre e madre e fratelli a volte riescono a scandagliare.
Il secondo elemento che quasi inquieta, nella tragedia tedesca, è l’ordine del quartiere e della scuola del massacro. A Winninden, satellite di Stoccarda, la Albertville Reichschule pare un istituto modello, così nuovo e circondato da un verde ben curato. Il sito on line del quotidiano
Bild si sofferma sui pavimenti tirati a lucido, sull’ordine dell’aula d’informatica. Gli altri, i compagni, còlti dai flash mentre se ne scappano a casa atterriti, hanno facce poco più che da bambini. Da quale antro sbuca allora la brama di nulla che ha spinto un ragazzo, uscito da quella scuola l’anno scorso, a presentarsi un mattino vestito di nero e armato da giustiziere, come in un film, Elephant,
che forse aveva visto?
Follia, certo. Solo una psicosi può spiegare che un adolescente covi un simile odio, e una mattina, freddo, passi all’azione. Un folle, come folle anche quel Michael da Kinston, Alabama, che nelle stesse ore ha ucciso sua madre e nove altri, prima di spararsi. Ma proprio la coincidenza del giorno, e della ferocia, simmetrica ai due capi del mondo, provoca: follia, d’accordo, ma in quale humus si abbevera una simile ansia di morte? Nell’orizzonte di decorose villette che fa da sfondo a entrambi massacri, di cosa si era nutrita finora la forza oscura che covava in quei due, apparentemente normali?
Solo, a Stoccarda, un elemento come una nota stonata. I genitori di Kretschmer tenevano in casa diciotto armi. Regolarmente denunciate. E però, diciotto armi sono un museo in casa, una presenza incombente. Stava a osservare, il ragazzo, quelle canne lucenti, ben pulite? Cose custodite con cura, maneggiate con cautela e compiacimento. Non ne era forse affascinato, il bambino? Strano ragazzo, pareva che crescendo qualcosa gli pesasse addosso; forse una ostinata sensazione di solitudine, forse la precoce sensazione di essere in qualche modo diverso, con diversi pensieri. Gli amici che avvertono l’alterità, e ti evitano; la parola umiliante di una ragazza, magari, l’unica che ti sta a cuore. E cova, cova il male, e cresce. Perché un giorno la tristezza, coltivata e già gonfia di rabbia, si è soffermata su quelle pistole? Già, le pistole. Le armi, almeno, sono cosa semplice: basta premere il grilletto. È facile. Tanto è paziente il lavoro di crescere un bambino, e farne un uomo, tanto è rapido e semplice sparare. Non c’è bisogno neanche di essere forti. Spari, e l’altro è cancellato. («Non siete ancora tutti morti?», ha urlato Tim in un’aula, quasi stizzito). E quante volte quel folle progetto avrà nella sua stanza, la sera, al buio immaginato? Non un amico a dirgli: cosa fai lì, vieni, non uno sguardo in casa a accorgersi dell’abisso che si allargava. Il tarlo della follia, nel silenzio scava indisturbato. Nessuno, in quelle vie ordinate, nel lungo inverno e fra vicini borghesemente intenti a badare ai fatti propri, nessuno che veda.
La quarta strage in una scuola in pochi anni, in Germania – in America, hanno perso il conto. Cos’è? Forse la follia declinata nell’Occidente del 2009: decorose città, legioni di villette graziose. Ognuno dentro solo davanti a un computer, ognuno monade che vive per sé. E la malattia di un ragazzo che in questa anonimia si installa, padrona, e divora.
matita blu - di Tommaso Gomez - Di passaggio, verso l’eutanasia - Filippo Facci è un giornalista che nella biro non ha inchiostro ma Tnt e sul computer ha il tasto ctrl+spingarda. – Avvenire, 12 marzo 2009
Sul Giornale del 7 marzo se la prende pure con noi e i nostri timori di una deriva pro-eutanasia: «C’è qualcuno che la chiede?». Lo spazio è limitato ma desideriamo ugualmente segnalare a Facci i principali reperti delle ultime ore. Sullo stesso Giornale, il 10 marzo, sembra replicargli Michele Brambilla (titolo: «Una fine meravigliosa. Gli spot giulivi pro eutanasia»).
Brambilla cita un servizio di Times sull’associazione inglese «Amici alla fine», che «dispensa consigli pratici a coloro che vogliono farla finita restando a casa propria» e presenta testimonianze entusiaste: «È in atto una campagna, e marketing e pubblicità hanno le loro esigenze di comunicazione: quando si deve vendere un prodotto, bisogna farlo desiderare».
Brambilla cita l’ampio servizio apparso il 7 marzo su Repubblica, dal titolo: «Morire in
Icoppia nella clinica dell’eutanasia. La scelta del miliardario Duff e della moglie. Suicidio assistito nella struttura svizzera 'Dignitas'».
Peter e Penelope Duff, 80 e 70 anni, erano entrambi malati di cancro. Per la verità, sia pure su un solo cauto colonnino, lo stesso giorno la notizia è data anche dal Corriere della Sera.
l 4 marzo, invece, il Foglio racconta i guai giudiziari di «Final Exit», che negli Usa «non esegue iniezioni letali» ma «dispensa consigli pratici e spirituali, spedisce libretti ausiliari, «sostiene moralmente», sfrutta il fatto che «'non è reato trovarsi nel luogo di un suicidio'». Facci potrebbe fare una chiacchierata con Jerry Dincin (che il correttore di Word, provocatoriamente, si ostina a voler scrivere Cincin...), vicepresidente di «Final Exit», secondo il quale «il diritto di morire diventerà il diritto umano del XXI secolo». Oppure con il fondatore, Derek Humphrey: «Stiamo cercando di rovesciare duemila anni di tradizione cristiana».
Sono americani? Ecco gli italiani. Unità di ieri, 11 marzo. Titolo: «L’appello: ora si discuta di eutanasia e suicidio assistito». Tra i firmatari: Maurizio Mori, Mario Riccio, Carlo Flamigni, Carlo Augusto Viano e Sergio Bartolommei.
L’Unità riassume così il loro appello: «Sì a una buona legge sul testamento biologico e allo sviluppo delle cure palliative, 'passaggi essenziali per raggiungere l’obiettivo della buona morte'». Chiaro? La legge sul fine-vita è un semplice «passaggio». Lo scrivono loro, non ce lo inventiamo noi.
Ma se a Facci non basta, può fare due chiacchiere con il sociologo Marzio Barbagli. Anche il Venerdì di Repubblica presenta, in ben tre pagine, il suo libro
Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente. Paola Zanuttini ricorda i sondaggi: 62 italiani su cento sono contrari all’eutanasia in ogni caso. Domanda: «Ancora l’influenza della Chiesa?». Risposta: «Evidentemente». Ah, questi italiani che «si suicidano molto meno che altrove: 6,1 casi per centomila abitanti, contro un tasso del 17,3 in Francia, del 16,9 in Austria e del 26 in Ungheria». Colpa, «evidentemente», della Chiesa e della sua indebita ingerenza. E chi lo dice a Filippo Facci, senza beccarsi una bordata di crtl+spngrd?