Nella rassegna stampa di oggi:
1) I bambini “alla carta” attentano contro l'etica - Avverte monsignor Elio Sgreccia
2) Valori e diritti al confine della vita - Quale etica se l'uomo non è più il centro del mondo? - Nel pomeriggio di martedì 3 marzo si tiene la cerimonia di inaugurazione dell'Anno accademico all'università Lumsa di Roma. Pubblichiamo stralci della prolusione. - di Laura Palazzani – L’Osservatore Romano, 4 marzo 2009
3) A colloquio con il vicedirettore del convegno in corso alla Pontificia Università Gregoriana - La falsa contrapposizione tra darwinismo e Chiesa - di Fabio Colagrande – L’Osservatore Romano, 4 marzo 2009
4) USA/ La guerra contro Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
5) CRISI/ Giannino: fine dell'Ue? La Germania, indiziato numero uno - Oscar Giannino - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
6) LETTURE/ L’ultimo libro di Padre Lepori, l’abate che “dipinge” la realtà - Danilo Zardin - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
7) DAL IV SECOLO SI FA CARICO DI MALATI E PELLEGRINI - Il sapere lungo della Chiesa nella cura e nell’amore alla vita - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 4 marzo 2009
I bambini “alla carta” attentano contro l'etica - Avverte monsignor Elio Sgreccia
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 3 marzo 2009 (ZENIT.org).- La proposta di una clinica della fertilità di Los Angeles (Stati Uniti) di offrire ai futuri genitori la possibilità di scegliere il sesso del loro bambino o alcuni tratti fisici, come il colore dei capelli o degli occhi, rappresenta un grave attentato etico, avverte il Vescovo Elio Sgreccia.
Il presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita ha commentato ai microfoni della “Radio Vaticana” il nuovo affare proposto dal centro medico Fertility Institutes, che coma ha affermato conta già una “mezza dozzina” di proposte, secondo il quotidiano nordamericano “The Wall Street Journal”.
Per avere un bambino “alla carta”, la clinica si baserebbe sulla cosiddetta Diagnosi Genetica Preimpianto (DGP), che consiste nella selezione degli embrioni. Finora era stata applicata per selezionare embrioni che non avevano malattie ereditarie.; gli altri embrioni venivano eliminati. Ora questa tecnica si applica anche ai gusti estetici.
“Non è la prima volta che escono questo tipo di annunci e che hanno lo scopo di moltiplicare la clientela – afferma il presule –. In ogni caso, si tratta, di un’operazione eticamente scorretta e lesiva della dignità della prole, perché diretta a manipolare il corpo, a dominarlo e a trasformarlo secondo i propri gusti”.
“Così come è illecito che un bambino, che presenta o che potrebbe presentare dei difetti, venga eliminato per selezione negativa, così è illecito che si faccia una selezione che obbedisca unicamente ai desideri dei genitori”.
Secondo il Vescovo, si tratta di “un tipico esempio di una scienza che si mette a servizio non del bene, ma dei desideri dei committenti, a carico, in questo caso, dei bambini. Quando si viola una regola della creazione, così delicata, la legge dovrebbe essere interessata in questo campo”.
“E’ ormai possibile constatare che l’istinto manipolatorio – che ai tempi del nazismo era realizzabile fino ad un certo punto, non essendo conosciuto ciò che invece oggi è noto – è passato oltre l’abolizione dei regimi assoluti”, denuncia.
“Poteva sembrare che fosse una tendenza propria della sete di dominio che l’assolutismo politico ha sempre voluto esercitare sulla vita delle persone. Purtroppo, questo tipo di istinto di dominazione è insito negli uomini se non viene frenato dalla morale e della legge, e sopravvive anche nei regimi non più assoluti”, aggiunge.
“E' il medesimo istinto favorito non più da un regime, che vuole risultati di carattere bio-politico, ma dagli interessi di coloro che hanno soldi e capricci per giocare con la vita degli altri”.
Valori e diritti al confine della vita - Quale etica se l'uomo non è più il centro del mondo? - Nel pomeriggio di martedì 3 marzo si tiene la cerimonia di inaugurazione dell'Anno accademico all'università Lumsa di Roma. Pubblichiamo stralci della prolusione. - di Laura Palazzani – L’Osservatore Romano, 4 marzo 2009
Biodiritto come diritto "sulla" vita o "per" la vita? La teorizzazione più estrema è quella di chi sostiene che il diritto non deve intervenire mai nelle questioni bioetiche. È la prospettiva di chi ritiene che in etica non siano conoscibili valori assoluti e universali, che valgono sempre e comunque per tutti (il non cognitivismo etico o "etica senza verità"): è il soggetto, in ultima analisi, che crea autonomamente i valori, decidendo che cosa sia bene e che cosa sia male, sulla base della propria coscienza insindacabile e autoreferenziale. È la prospettiva che ritiene che il pluralismo etico sia, di fatto e di principio, inconciliabile: i valori sono così diversi e contrapposti che, per quanti tentativi si possano fare, l'identificazione di valori comuni non è probabile, nemmeno possibile, anzi addirittura non auspicabile, in quanto ritenuta oppressiva rispetto all'autenticità individuale.
In questo contesto è preferibile l'assenza del diritto rispetto alla presenza del diritto nelle questioni che riguardano la vita e la morte, la salute e la malattia, il benessere e la sofferenza per garantire lo spazio alla libertà individuale e il pronunciamento di valori soggettivi, senza interferenze esterne.
È il modello "astensionista" che, nell'orizzonte antigiuridista e libertario, ritiene il diritto un'ingerenza che soffoca indebitamente l'autodeterminazione del singolo: proprio in bioetica è preferibile uno "spazio libero dal diritto" presupponendo che tutto ciò che non sia né comandato né vietato sia permesso.
È il modello che propone la sottrazione delle problematiche bioetiche al diritto, con la conseguente privatizzazione delle scelte: si ritiene opportuno non legiferare in bioetica o depenalizzare le eventuali leggi esistenti, preferendo all'intervento legislativo le regolamentazioni dei codici deontologici, le deliberazioni dei comitati etici o l'autodisciplina di singoli soggetti e di comunità scientifiche.
Su basi analoghe, ma con argomentazioni diverse, si delinea la teorizzazione del "biodiritto neutrale" nell'ambito dell'orientamento liberale-libertario. È il modello che chiede al biodiritto di amplificare la libertà soggettiva, moltiplicando le possibilità di scelta: si tratta di prendere atto delle nuove richieste emergenti nella società pluralista, istituzionalizzare tutte le alternative prevedibili, senza prendere posizione a favore o a sfavore. In questo senso il biodiritto garantirebbe uno spazio privato alle decisioni morali, nella convinzione che ogni individuo possa fare ciò che vuole - anche nel caso si giudichi il suo comportamento disprezzabile, sconveniente o immorale - nei limiti del rispetto del danno ad altri, ove per danno si intende l'interferenza con l'altrui libertà.
Solo nella misura in cui vi sia un fondato - ma anche solo presumibile - timore per eventuali rischi sulle conseguenze imprevedibili di determinate scelte, sono ammesse regole temporanee per finalità pragmatiche che limitino la libertà individuale, stabilite di volta in volta, utili a tamponare le emergenze sociali. Secondo questo modello è auspicabile un intervento legislativo che regoli in modo procedurale l'autodeterminazione individuale; una biolegislazione minimale che si limiti a registrare le spinte sociali plurali della prassi in modo dinamico e flessibile, elaborando norme svincolate e aperte, norme "a tempo".
Quale alternativa a tale legislazione soft è ammessa (anzi, da alcuni è considerata preferibile) la giurisprudenza discrezionale, adattabile al pluralismo etico e alle trasformazioni sociali, in quanto mai definitiva ma sempre applicata al singolo caso e suscettibile di ripensamento.
Vi è poi la prospettiva "utilitarista" che ritiene che la funzione del biodiritto debba essere quella di massimizzare gli interessi, derivanti dal calcolo piacere/dolore, gioia/sofferenza, felicità/infelicità, del maggior numero di individui. Secondo questo modello la norma giuridica deve beneficiare il maggior numero di individui e danneggiarne il minimo: si tratta di elaborare norme ispirate a criteri di convenienza sociale, rivedibili in funzione del mutare delle circostanze. Il diritto diviene strumento per la ripartizione di risorse secondo il criterio dell'utile collettivo, eliminando o considerando "marginali" coloro che non possiedono o non hanno la probabilità di avere una sufficiente vita con qualità.
Si tratta di prospettive che, seppur in modo diverso, pongono al centro l'autonomia individuale e la qualità della vita per giustificare o l'assenza del diritto o la presenza del diritto "mite". La tecno-scienza tra "non diritto" e "diritto debole" si espone ad alcuni rischi: senza il diritto il rischio è di cadere nel far west bioetico, dove tutto è permesso in quanto nulla vietato; con un diritto debole, il rischio è quello di non orientare ma assecondare la prassi, facendo prevaricare i fatti sui valori, non trovando soluzioni al conflitto tra autonomie private che esprimono visioni etiche opposte e inconciliabili, lasciando spazio alla prevaricazione della volontà del più forte.
Un elemento comune alle prospettive biogiuridiche delineate (libertaria, liberale, utilitarista) è la negazione che la natura umana sia espressione di un valore e il fondamento dei diritti: il fatto di possedere una natura umana non è considerato sufficiente per giustificare un dovere di rispetto e di tutela. Le teorie delineate tematizzano una distinzione tra essere umano quale oggetto della nostra percezione ed essere umano come soggetto di qualificazione etica e giuridica. L'essere umano fattualmente si manifesta in un corpo; il corpo è considerato mera materia organica. La dignità è un'altra cosa: è una categoria etica che può essere conferita o tolta, istantaneamente o gradualmente, in base a come si manifesta la corporeità umana. Embrioni, feti, ma anche bambini hanno corpi biologicamente umani ma non hanno "ancora" dignità; individui in coma, cerebrolesi, dementi, anziani, handicappati, malati in condizioni di grave sofferenza hanno corpi biologicamente umani, ma non hanno "più" dignità.
La separazione nell'uomo tra oggettività e soggettività ripropone il dualismo antropologico già presente nel pensiero occidentale: si pensi alla concezione orfico-platonica del corpo come tomba dell'anima e alla distinzione cartesiana tra res extensa e res cogitans. La soggettività diviene una qualificazione del corpo/oggetto (ridotto alla dimensione quantitativa), che può esserci o non esserci, in base alla fase di sviluppo raggiunta dall'organismo biologico umano, alle proprietà che manifesta e alle capacità che è in grado di esibire. Chi non è ancora o non più autonomo non ha dignità; chi non ha la probabilità di avere o ha perso una minima qualità di vita non ha dignità. Ma, al tempo stesso, alcuni esseri non umani (animali o entità postumane, robot o soggetti cibernetici) possono avere una dignità, se in grado di percepire sensazioni piacevoli o spiacevoli, di avere una vita di sufficiente qualità o di essere autonomi. L'antropocentrismo è messo in discussione dagli orientamenti utilitaristici che estendono ad alcuni animali, in senso interspecifico, la soggettività personale e dalle teorizzazioni post-umane e trans-umane che arrivano a riconoscere lo statuto personale a intelligenze artificiali. L'affermazione della "variabilità" del valore della vita umana (con particolare riferimento ai confini biologici) - implicito negli orientamenti esaminati - apre a una serie di conseguenze: sono negati i doveri diretti di tutela nei confronti della vita umana; rimangono semmai solo doveri prima facie e diritti "indiretti", provvisori, bilanciabili in base alle circostanze, a considerazioni sociali, ad accordi di opportunità o prudenza, di benevolenza o simpatia, ma anche a ragioni simboliche o estetiche. Il biodiritto si configura dunque, in questo modo, come un "diritto sulla vita": ove il diritto è lo strumento dell'esercizio soggettivo dell'autonomia o della garanzia della qualità della vita e la vita è ridotta a materiale biologico. Il diritto ha una precedenza, una priorità e una superiorità rispetto alla vita, che non costituisce un limite o un vincolo per il diritto. È l'individuo che può decidere se sperimentare o non sperimentare su embrioni, se produrli, distruggerli, commerciarli; è l'individuo che decide se e come usare le nuove tecnologie, ricercandone il successo anche al prezzo di disperdere, sovraprodurre o ridurre embrioni; è l'individuo che sceglie le caratteristiche dell'embrione che desidera, scartando individui con difetti genetici, incurabili o semplicemente sgraditi; è l'individuo che decide quando la sua vita vale la pena di essere vissuta, potendo anche imporre la propria volontà su quella del medico e chiedendogli di non iniziare o sospendere le cure, ma anche di praticargli un'iniezione letale. Ma c'è anche un altro modo di intendere il "diritto" e la "vita" e il loro reciproco rapporto, anche in riferimento ai valori. È la prospettiva di chi ritiene che il diritto non sia riducibile a mera tecnica neutrale di organizzazione sociale: il fatto stesso di ritenere il diritto uno strumento di tutela dell'autonomia e della qualità della vita mostra l'assenza di neutralità, e l'implicito riferimento ai valori (siano essi l'autonomia o la vita di qualità). Il diritto non è, non può e non deve essere neutrale: il diritto è chiamato, strutturalmente, a veicolare un'etica minima, non un'etica esterna scelta tra le etiche nel contesto della pluralità che caratterizza il dibattito attuale (tale scelta determinerebbe inevitabilmente l'imposizione e il privilegio di un'etica e la delegittimazione delle altre etiche), ma un'etica interna, l'etica della giustizia. È questa l'etica "minima" (ma non per questo minimalista) condivisibile da parte di tutti gli uomini sul piano della mera razionalità pratica, indipendentemente dalla posizione teoretica, etica o religiosa assunta a livello "massimo".
Giustizia significa "dare a ciascuno il suo", riconoscere a ogni uomo ciò che gli spetta per natura; significa riconoscere l'uguaglianza nel senso di pari dignità, ossia il dovere di trattare ogni uomo in quanto uomo a prescindere da altre considerazioni estrinseche, quali l'appartenenza politica, religiosa, culturale, ma anche la differenza sessuale, cronologica o la diversità nelle condizioni di esistenza sociali e personali (salute/malattia, abilità/disabilità). Il principio di uguaglianza si radica nell'"essere" dell'uomo, indipendentemente dal suo "esistere" o dal suo "agire". La dignità è dunque una condizione ontologica, originaria e invariabile, senza sfumature o gradazioni: ogni uomo ha una dignità da quando inizia a esistere fino a quando cessa di esistere.
Ogni confine della dignità nell'ambito della vita umana non può che essere convenzionale, pertanto arbitrario in quanto stabilito soggettivamente dalla volontà, non riconosciuto oggettivamente nella natura: la vita, dall'inizio (la fecondazione dei gameti) alla fine (la morte cerebrale totale) ha uno sviluppo continuo con solo modificazioni quantitative, senza interruzioni o salti di qualità.
La natura umana ha dunque un rilievo etico per il diritto: il diritto non può rimanere indifferente rispetto alla dignità intrinseca dell'essere umano. Un diritto che si estranei, o pretenda di estraniarsi, radicalmente dai valori apre al pericolo di un uso "dis-umano" del diritto, di un uso del diritto "contro" l'uomo. Nel diritto è importante recuperare quella consapevolezza, che è progressivamente maturata e si è consolidata dopo le atroci esperienze storiche dei totalitarismi: la consapevolezza che il diritto non può divenire mero strumento formale asservito estrinsecamente alla volontà di chi si impone con la forza e non può limitarsi alla registrazione della prassi (quale essa sia). Significa invece identificare nella tutela della natura umana l'orizzonte di senso e la misura critica del diritto, il valore pregiuridico e metagiuridico che dovrebbe costituire l'orientamento per il legislatore e il giudice, nel momento in cui sono chiamati a intervenire nell'ambito della regolamentazione della tecnoscienza.
Il diritto è chiamato a giustificare solo richieste dell'uomo "per" il corpo: anche se all'inizio è quantitativamente impercettibile e alla fine è debole e dipendente dagli altri, è il corpo di un essere umano come qualsiasi altro.
Ritenere che la legislazione biogiuridica debba ispirarsi al criterio della dignità umana intrinseca non significa introdurre una legislazione "pesante", spesso accusata di dogmatismo o confessionalismo. Significa invece fissare un limite razionale vincolante al progresso scientifico al fine di affermare un valore non negoziabile, che va interpretato nel contesto dei singoli problemi emergenti: significa ritenere che la vita umana non sia mai un semplice mezzo (strumentalizzabile), ma sempre anche un fine (da rispettare). Non significa bloccare sempre e comunque il progresso della tecnologia: significa piuttosto bilanciare l'interesse della scienza con il riconoscimento del bene umano fondamentale. Significa ammettere la sperimentazione solo con finalità terapeutica; consentire le tecnologie riproduttive solo se rispettose dello statuto dell'embrione umano, proibendo sovrapproduzione e riduzione embrionaria, bilanciando i desideri riproduttivi e gli interessi del nascituro, garantendogli le condizioni di vita nel contesto di una famiglia bigenitoriale eterosessuale; ammettere diagnosi genetiche senza che automaticamente portino alla selezione eugenetica; sospendere cure sproporzionate, futili, gravose e onerose per il malato, garantendo le cure ordinarie, accompagnando chi sta per morire alleviando il dolore con l'uso delle cure palliative.
(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2009)
A colloquio con il vicedirettore del convegno in corso alla Pontificia Università Gregoriana - La falsa contrapposizione tra darwinismo e Chiesa - di Fabio Colagrande – L’Osservatore Romano, 4 marzo 2009
A un secolo e mezzo dalla pubblicazione de L'origine delle specie di Charles Darwin, considerato la pietra miliare della biologia evoluzionista, e dopo recenti importanti scoperte scientifiche, il tema dell'evoluzione biologica merita una seria riconsiderazione, tanto dal punto di vista scientifico, quanto da una prospettiva filosofica e teologica. Soprattutto per superare le posizioni e le polemiche ideologiche che, a due secoli dalla nascita di Darwin, animano più che mai oggi il dibattito. Si assiste a confusioni strumentali tra teologia e scienza che provocano, da una parte, un evoluzionismo metafisico antireligioso e, dall'altra, estremizzazioni fondamentaliste che portano a un malinteso creazionismo o al così detto Intelligent design. Proprio per questi motivi, la Pontificia Università Gregoriana, in collaborazione con la University of Notre Dame (Indiana, Usa), sotto l'alto patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e nell'ambito del Progetto Stoq (Scienza, Teologia e Ricerca Ontologica), ha organizzato presso la sua sede a Roma una conferenza internazionale sul tema "L'evoluzione biologica: fatti e teorie", che si apre martedì 3 marzo e proseguirà fino a sabato 7
Scopo principale dell'iniziativa sarà considerare il problema dell'evoluzione in una prospettiva più ampia rispetto al neodarwinismo tradizionale, alla luce delle recenti acquisizioni della ricerca. A centocinquanta anni dalla sua nascita, che valore scientifico ha dunque oggi la teoria dell'evoluzione ed è possibile parlare ancora di un'unica teoria? Lo abbiamo chiesto a Gennaro Auletta, docente di Filosofia delle scienze presso la Pontificia Università Gregoriana, direttore scientifico del Progetto Stoq e vicedirettore del convegno. "Ritengo che non esista teoria scientifica che non evolva nel corso del tempo. La migliore garanzia di scientificità del darwinismo e della teoria dell'evoluzione - ha spiegato l'esperto - è nella sua capacità di evolversi dimostrata negli ultimi centocinquanta anni. Oggi direi che non è una teoria monolitica, ma parlare di più teorie dell'evoluzione mi sembrerebbe eccessivo. Credo si debba parlare di un'unica teoria, con una pluralità di approcci, con apporti molto significativi soprattutto da due punti di vista. Da una parte oggi consideriamo i geni non più come una sequenza lineare che codifica l'informazione ma soprattutto come un network: ogni gene, anche quelli codificanti, viene considerato un'unità che può attivare tutta un'altra serie di geni che hanno funzioni regolatrici e che contribuiscono alla formazione dell'organismo globalmente. Questo permette di considerare le mutazioni come fenomeni non isolati. Se modifichiamo uno dei geni di questo network otterremo come conseguenza tutta un'altra serie di mutazioni "a cascata". Questo spiega come tutta una serie di mutazioni possano essere state canalizzate nel corso dell'evoluzione. Quindi, se si tratta di mutazioni certamente casuali nel loro manifestarsi iniziale, i loro effetti non lo sono. L'altro approccio nuovo che caratterizza la teoria di Darwin è la comprensione che l'evoluzione dell'organismo è il risultato di una co-evoluzione, di un co-adattamento. L'organismo e l'ambiente, per così dire, sono una bipolarità in costante interazione. Da questo punto di vista è importante porre l'accento sulla capacità che hanno tutti gli organismi, anche i più semplici, di costruire delle nicchie ambientali. Quindi il rapporto con l'ambiente non è più soltanto dall'ambiente all'organismo, com'era concepito cento o perfino trent'anni fa, ma è anche dall'organismo all'ambiente. Costruendo nicchie ambientali gli organismi sono perciò in grado di modulare gli effetti della selezione naturale su sé stessi e quindi di influenzare, sia pur indirettamente, la loro stessa evoluzione. Nessun organismo può controllare direttamente la propria evoluzione, ma nella costruzione della nicchia ambientale gli organismi contribuiscono nel tempo a determinare delle condizioni che hanno degli effetti di feedback sul loro stesso processo evolutivo.
Qual è stata e qual è oggi la posizione della Chiesa circa il darwinismo?
Direi, molto semplicemente, mai di condanna. È questa una delle ragioni che rendono secondo me superfluo qualsiasi sforzo di recupero o riabilitazione di Darwin, perché né la Chiesa cattolica, né suoi esponenti significativi, hanno mai condannato, né il darwinismo, né la teoria dell'evoluzione. Anzi, c'è stata sempre molta attenzione. Basti ricordare che il cardinale John Henry Newman in Inghilterra fu un chiarissimo sostenitore, fin dai suoi albori, del darwinismo. Direi anzi che a partire dalla famosa presa di posizione di Giovanni Paolo II del 1996, si è passati a una fase di ricognizione.
Alla riflessione filosofica spetta il compito, anche rispetto al cosiddetto darwinismo, di distinguere il piano della scienza da quello della teologia. Due prospettive che oggi sembrano spesso confondersi.
È un segno dei tempi. Nel bene e nel male oggi c'è una maggiore sensibilità nei confronti delle problematiche metafisiche, religiose, spirituali. Questo è il segno di un mutamento molto importante, ma bisogna stare molto attenti perché siamo stati dominati per trecentocinquant'anni anni da un paradigma meccanicistico. Nella scienza meccanica non c'è nulla di sbagliato. La scienza comincia sempre con lo studiare i sistemi più semplici e questi in natura sono proprio quelli di tipo meccanico. Quindi forse era addirittura necessario che la scienza cominciasse da lì. Ma da questo punto di partenza qualcuno ha tratto un paradigma meccanicistico, una sorta di metafisica anti metafisica. E questo paradigma ha dominato per tre secoli e mezzo, rendendo molto difficile per filosofi e teologi discutere di alcuni argomenti con le controparti scientifiche. Oggi la situazione è cambiata ed è dovere della filosofia mettere in chiaro che la teoria dell'evoluzione non soltanto non ha di per sé una carica anti-religiosa, ma nemmeno è una teoria che dal punto di vista epistemologico può "provare che Dio non esiste", come sostenevano, con un salto che definirei illogico, alcuni luminari qualche anno fa su "Le Nouvel Observateur". Ma io sono anche convinto che non è nell'interesse di nessuno promuovere un concordismo esagerato. Non penso che i risultati della scienza e quelli della filosofia e della teologia debbano sempre o possano sempre andare d'accordo. Ritengo che, a volte, un confronto aspro sia anzi salutare, perché è così che si va avanti. Ma, quando si sono chiarite certe distinzioni, andare a vedere se ci sono delle convergenze significative, o delle lezioni significative che la scienza può dare alla teologia o alla filosofia, credo sia allo stesso modo molto utile.
L'idea di un disegno provvidenziale di Dio nella Creazione, di "una materia strutturata in modo intelligente dallo Spirito" - ricordata recentemente dal Papa - rappresenta una "teoria scientifica" che può essere in contrasto con altre?
Sono molto sensibile a questa definizione. Nel 2004, infatti, invitai alla Gregoriana il cardinale Georges Marie Martin Cottier per discutere un aspetto molto interessante. Come studioso di meccanica quantistica, ho sempre ritenuto che i sistemi quantistici vadano intesi in ultima analisi come "informazione". Non sto dicendo che i processi cognitivi più avanzati si possano ridurre a informazione. Ma, già a livello puramente fisico, esistono fenomeni come lo scambio d'informazione, l'acquisizione d'informazione, che suggeriscono come nel nostro universo la materia non sia soltanto un'accozzaglia casuale di elementi, ma una struttura che potremmo definire, se non "intelligente", almeno "intelligibile". Lo scopo della discussione con il teologo Cottier era dimostrare come la meccanica quantistica suggerisca un'oggettiva intelligibilità del cosmo e della materia, che era esattamente ciò che sosteneva la scolastica di san Tommaso. Si badi bene che questa non è una teoria scientifica. Mi limito ad affermare che esistono teorie scientifiche, come la meccanica quantistica, ma anche la teoria dell'evoluzione, che suggeriscono punti di vista molto interessanti se sviluppati sul piano filosofico e teologico. Un altro punto che mi preme sottolineare però è che, quando si parla di disegno provvidenziale nella creazione, bisogna stare molto attenti a evitare il discorso dell'Intelligent design, che non è una teoria scientifica, anche se si spaccia come tale. Questa tesi, inoltre, ha il grave difetto di considerare ancora la teoria dell'evoluzione com'era trenta o quarant'anni fa. Ma se volessimo ritenere che c'è un finalismo, non di tipo teologico/religioso, ma un finalismo interno stesso all'evoluzione che possa essere constato empiricamente, correremmo il rischio di considerare sostanze prime, per usare un linguaggio scolastico, quelle che sono sostanze seconde, e cioè di trasformare le specie e i generi biologici in soggetti ontologici del tipo dell'organismo individuale, perché per parlare di un fine di qualcosa debbo avere qualcosa. Non dico però che l'evoluzione sia qualcosa che procede in modo cieco. Anche se non ha un finalismo intrinseco, l'evoluzione va, nel tempo, nel senso di un maggior esercizio di controllo da parte degli organismi sull'informazione ambientale. Se si osserva il passaggio dal batterio all'essere umano, attraverso le varie fasi, si assiste a un incremento significativo dei canali e delle forme con cui questi organismi accedono alle informazioni ambientali, attraverso canali sensoriali, modalità concettuali e cognitive sempre più sofisticate, esercitando così un sempre maggiore controllo sull'ambiente. E questo è un punto chiave, perché vuol dire che l'intelligenza è qualcosa che è promossa dall'evoluzione, perché è un fenomeno adattivo. Quindi, se è vero che l'essere umano è anche un prodotto contingente dell'evoluzione biologica, se consideriamo un tempo sufficientemente lungo dell'evoluzione è lecito aspettarsi che un essere intelligente emerga, perché l'intelligenza è qualcosa che va nel senso dell'evoluzione. Per meccanismi intrinseci alla stessa evoluzione, si crea un fenomeno di promozione di un maggiore controllo dell'informazione, e quindi di promozione dell'intelligenza, pur non essendo la stessa evoluzione, per quello che ne sappiamo sul piano scientifico, indirizzata a un fine determinato. Ovviamente questo non è un discorso direttamente teologico, ma solo scientifico/filosofico. Ma ciò dimostra che sarebbe sciagurato far discendere dal discorso teologico sul disegno provvidenziale un finalismo forte. Invece, tale discorso filosofico/teologico non è affatto in discordanza con una guida indiretta della creazione, recuperando un'altra istanza medievale, ossia la distinzione tra Causa prima (Dio) e cause seconde (gli essere finiti): Dio, nelle sue modalità di azione, non sopprime le cause seconde.
Quali sono dunque le vostre attese per il convegno della Gregoriana?
Ritengo che il compito del filosofo, ma anche dello scienziato, più che quello di fornire risposte, sia quello di chiarire esattamente quali sono i problemi. Quindi, poiché la teoria dell'evoluzione è sul piano scientifico una teoria vitale, mi aspetto che questo convegno possa individuare quali sono i suoi aspetti ancora problematici. Ma anche che metta in chiaro quali problemi ci sono, se eventualmente ci sono, tra questa teoria e il pensiero teologico e filosofico. Magari, quello che accadrà, e sarebbe interessante che accadesse, è scoprire che i problemi sono molto diversi da quelli che abbiamo immaginato fino a ora. Si parla spesso d'incompatibilità tra cattolicesimo e teoria dell'evoluzione, del rischio di ridurre l'essere umano a un aggregato di cellule o alla pura dimensione animale, ma forse questi sono solo miti da sfatare e i problemi sono altrove. Ecco vorrei che il prossimo convegno della Gregoriana, oltre a essere una chiara testimonianza del fatto che le istituzioni e le università ecclesiastiche e il Progetto Stoq prendono molto sul serio la teoria dell'evoluzione, servisse a individuare le questioni aperte.
(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2009)
USA/ La guerra contro Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
La battaglia è cominciata. Da un lato, il presidente Obama e i Democratici (ma non tutti): sono stati loro a lanciare la dichiarazione di guerra, e cioè la proposta di Obama del budget per gli anni a venire. Se approvata dal Congresso così come è stata presentata, questa proposta introdurrà un cambiamento reale nel modo di vivere americano e cancellerà la rivoluzione reaganiana iniziata nel 1980. Sull’altro lato, ci sono i Repubblicani di oggi (non tutti) guidati da... da chi? Chi guida il Partito Repubblicano? Questa è stata la questione politica della settimana negli Stati Uniti.
Il qualcosa più vicino a un “capo” del Partito Repubblicano è il recentemente eletto presidente del Comitato Nazionale Repubblicano: Michael Steele, l’afroamericano sulla cui elezione ho già scritto qualche settimana fa, che sembra indicare il desiderio dei leader repubblicani di estendere la base del partito oltre “i conservatori culturali”, enfatizzando la responsabilità in materia di imposizione.
Tuttavia, non è stato Steele a emergere questa settimana come possibile voce del partito, ma Rush Limbaugh, un personaggio dei talk radiofonici, un conduttore con la capacità carismatica di affascinare, smuovere e stimolare tutti i conservatori, e che ha lanciato un forte attacco contro Obama dicendo del tutto apertamente di sperare che falliscano gli sforzi del presidente per venire a capo della crisi economica.
Limbaugh, cui viene attribuita la guida della resistenza repubblicana agli sforzi di Bill Clinton di portare il paese fuori dalla filosofia conservatrice di Reagan, è senza dubbio pronto a fare la stessa cosa contro Obama, questa volta anche con maggior intensità. La battaglia non è tra Democratici e Repubblicani, afferma, ma tra conservatori e progressisti radicali, e prevede che i membri conservatori del Partito Democratico si uniranno all’attacco contro Obama e i suoi seguaci.
A differenza dei Repubblicani più “moderati”, Limbaugh propone una difesa filosoficamente coerente del conservatorismo che non lascia spazio per ambiguità sull’impossibilità di compromessi. Se il Partito Repubblicano vorrà unirsi a questa controrivoluzione conservatrice, dice, molto bene; se non lo vorrà non vinceranno nessuna elezione.
I leader repubblicani sono preoccupati per la leadership di Limbaugh e si chiedono se, consentendogli di essere la voce del partito, non ci si alieni quella netta maggioranza di americani che hanno votato per un deciso cambiamento rispetto agli anni a guida repubblicana.
Limbaugh e i suoi sostenitori replicano che gli americani nei loro cuori sono d’accordo con i principi conservatori e che, ora che Obama ha mostrato la sua vera visione del futuro dell’America, appoggeranno la controrivoluzione conservatrice. Il presidente Obama, sostiene, ha “bastardizzato” la Costituzione che si è impegnato a difendere e le sue opinioni riflettono non il modo di vivere americano, bensì il “socialismo europeo”.
I Democratici sono talmente convinti che la filosofia di Rush Limbaugh, e soprattutto il suo stile, finiranno per allontanare i molti americani che stanno realmente soffrendo per il collasso economico e trovano irresponsabile l’augurio di fallimento per il piano di ripresa presentato da Obama. Il presidente si è limitato a dire di essere pronto alla battaglia. Questa settimana nessun accenno ad alcunché di bipartisan.
CRISI/ Giannino: fine dell'Ue? La Germania, indiziato numero uno - Oscar Giannino - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Quando Milton Friedman e Martin Feldstein, negli anni Novanta, vaticinarono che l’euro appariva come una grande impresa, ma che al contempo correva anche a loro giudizio il rischio di saltare alla prima grande tempesta dei mercati, il 99% degli interlocutori europei fecero spallucce, e sorrisero accusando i monetaristi americani di essere spaventapasseri fuori dal tempo. Venerdì della settimana scorsa, in un meeting riservato a Londra, è stato l’ex governatore della Bundesbank Karl Otto Poehl, un uomo di rigore e prudenza da cento carati che alla nascita dell’euro ha conferito il marchio dell’ortodossia degli interessi del marco e della sua Germania, a dichiarare - nello stupore e nella preoccupazione generale - di non essere in grado di escludere tassativamente che, così continuando, l’euro non entri in crisi nel 2009 o nel 2010. L’unico giornale europeo a riportare la notizia è stato il Daily Telegraph, in un commento di Ambrose Pritchard Evans che ha fatto fare un salto sulla seggiola a un bel po’ di banchieri e finanzieri in mezzo mondo.
Anche l’ex banchiere centrale tedesco ha descritto la situazione alla quale faceva riferimento ieri Carlo Pelanda. Gli spread sul Bund dei Paesi più a rischio dell’euroarea, Grecia Irlanda e Spagna, potrebbero conoscere picchi sconosciuti in presenza di default di Paesi come le tre repubbliche baltiche, o esterni all’euroarea ma a forte delocalizzazione europea nei Balcani e nell’Est Europa, e per effetto dell’impossibilità di Paesi in avvicinamento all’euro, come Polonia e Ungheria, di persistere nel sentiero previsto di stabilizzazione dei propri aggregati in vista dell’aggancio definitivo all’euro.
Vi sono almeno due problemi di ordine e impatto diverso. Le banche più esposte in quei Paesi, a cominciare da quelle austriache fino a Unicredit che vi realizza oltre il 30% dei propri ricavi, rischiano di veder svalutati nominalmente i propri asset in un ordine di grandezza tra il 40 e il 60%, per il solo effetto di un eventuale deprezzamento delle valute locali. Inoltre, analoghi effetti si potrebbero produrre per tutte le imprese che hanno delocalizzato in quei Paesi, con impatti sui loro bilanci patrimoniali e non solo sul conto economico.
In Italia, in particolare mi consta personalmente al ministero dell’Economia, questi scenari appaiono troppo catastrofici. In definitiva, è vero che al Consiglio europeo di domenica scorsa la Germania ha fatto passare ancora una volta il principio del “niente programmi comuni di aiuto”, e del “a ogni paese a seconda delle sue condizioni e virtù”. Ma negli ultimi due mesi il Fmi ha già impegnato circa 25 miliardi di dollari, a sostegno di quelle economie. E se il Fmi chiede – e otterrà verosimilmente entro il prossimo G20 di aprile – di raddoppiare la propria capacità di prestiti straordinari da 250 a 500 miliardi di dollari, in larga misura questa maggior capienza è proprio in preparazione di eventi di tale portata.
Tuttavia questo appartiene all’ordine del possibile, esattamente come una crisi generale di quei Paesi appartiene anch’essa all’ordine del possibile. Il commissario Almunia ieri ha dovuto rapidamente correggersi, quando prima ha accennato all’ipotesi di un default di qualcuno di quei Paesi come eventualità concreta, poi di fronte allo sfascio che provocava sui mercati ha dovuto aggiungere che l’eventualità verrebbe scongiurata da interventi d’emergenza.
L’interrogativo di fondo che da ottobre in avanti ha preso a manifestarsi nelle cancellerie europee non è quello della possibilità di aiuti straordinari, siano essi realizzati dai governi oppure dalle banche dell’eurosistema, o dalla collaborazione tra questi due attori con fori internazionali come il Fmi. L’ipotesi che ha dell’impensabile è un’altra. E cioè che la Germania, il Paese che ha dettato forme e modi dell’euro – anche per spartire i costi della sua unificazione – possa nutrire con crescente forza nel tempo un retropensiero sempre più temibile, per noi tutti. Preferire la tutela diretta tedesca per quei sistemi e Paesi anche esterni all’euro in cui la Germania appunto ha delocalizzato di più, alla condivisione di oneri e sforzi volti a “reggere insieme” l’intera euroarea, compresi paesi come l’Italia – che per la Germania è il più temibile concorrente europeo nella manifattura – la Spagna, la Grecia, e la stessa Gran Bretagna che, in prospettiva, potrebbe bussare alle porte dell’euro.
È più di un interrogativo. È un’ipotesi inquietante. L’Italia e la Francia devono tenerne conto. Ed essere pronte ad azioni comuni. L’impensabile può avvenire. E chi non lo mette in conto, non ha capito nulla della crisi epocale regalataci della finanza “all’americana”.
LETTURE/ L’ultimo libro di Padre Lepori, l’abate che “dipinge” la realtà - Danilo Zardin - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
L’esile silhouette di una figura slanciata, contro un cielo carico di colori, solcato di striature che risaltano per il loro biancore: non semplici vuoti, ma varchi tenuti aperti, quasi trasparenze che rimandano come segni alla Presenza nascosta che si cela immediatamente al di là di quanto appare alla nostra vista superficiale. È questo uno dei soggetti preferiti degli acquerelli che infiorano l’ultima raccolta di omelie dell’abate cistercense di Hauterive, p. Mauro-Giuseppe Lepori: La vita si è manifestata. Omelie sull’attesa, l’avvenimento e la manifestazione dell’Incarnazione del Signore. Illustrate da acquerelli dell’autore, Genova-Milano, Marietti, 2008.
L’immagine-simbolo evoca subito la dimensione dell’uomo che sta di fronte alla vastità del Mistero che lo sovrasta. La veste è lunga sino ai piedi, le mani appena abbozzate si protendono nel gesto umile e antico della preghiera. È chiaramente l’icona del monaco immerso nel silenzio di una vita concentrata sull’essenziale. Ma nello stesso tempo è la metafora del mendicante che ognuno di noi può diventare, quando si raccoglie nella coscienza che lo costituisce al fondo come persona, davanti alla sovrabbondanza dell’Essere che lo fa esistere e lo avvolge da ogni lato, strappandolo dal nulla in cui rischierebbe di franare la nostra esistenza, abbandonata alla sua orgogliosa presunzione di autonomia.
Il mendicante è l’uomo assetato di desiderio, che riconosce di non potersi fare da sé, e per questo si affida e si lascia abbracciare dalla realtà del Tutto che lo precede, di cui si sente ospite inadeguato, sproporzionato, eppure irresistibilmente voluto bene. La sproporzione si spalanca proprio perché la povertà dell’uomo che vive nel bisogno è un dialogo aperto con un Tu da cui si scopre di dipendere: io sono “Tu che mi fai”, come tante volte abbiamo sentito ripetere. In effetti, è il senso di una oggettività che incombe quello che domina tutta la più genuina mistica cristiana, dalle sue prime scaturigini, neotestamentarie e patristiche, fino alle vette degli “spirituali” dei nostri tempi moderni. E un Tu oggettivo che suscita, accoglie e fa muovere l’io dell’uomo alla ricerca della sua pienezza è anche il vero protagonista centrale di La vita si è manifestata. L’accento è posto sulla logica inesorabile di questa Vita che emerge dagli abissi del mistero di Dio, facendosi incontro al cuore dell’uomo, prima e anche al di là della piena lucidità della sua domanda lanciata verso gli orizzonti sconfinati del destino ultimo che salva la vita. Siamo resi spettatori del dispiegarsi di una storia di salvezza che non ci siamo creati da soli, che ci raggiunge nella terra di Betlemme della nostra condizione di uomini, e di cui l’avvenimento dell’incarnazione è il sussulto già trionfale che, dalla notte dei secoli, attraversa lo spazio del nostro universo.
La proposta meditativa dell’abate di Hauterive è impregnata di questo realismo ancorato alla logica dell’oggettività. L’incarnazione di Cristo non è altro che il venire prepotentemente alla luce del movimento della grazia di Dio. È ciò in cui si riversa, per il suo interno dinamismo, senza che noi lo abbiamo voluto e tantomeno meritato, l’«amore gratuito di Dio», «invincibile e infinito», l’«amore misericordioso del Signore». Nel segno assolutamente fragile ed equivocabile del Bambino adorato dai pastori nella grotta del presepio, dentro il germe a prima vista insignificante di una realtà umana investita dal divino, si addensa la «manifestazione suprema della misericordia di Dio». Gesù (il Signore salva), che nasce in mezzo al fluire delle generazioni umane, è il dono supremo della «gratuità infinita dell’amore di Dio». Non a caso, il simbolismo di linguaggio che ritorna più frequentemente per alludere a questo prendere forma concreta della misericordia di Dio è quello, molto fisico e precisamente luminoso, dell’«irradiamento». La grazia che salva rovesciandosi nella compassione per l’uomo malato e peccatore è come l’espansione materiale della carità che germoglia dal circuito di relazioni della Trinità. È un amore che si dilata, o come scrive spesso p. Lepori che «fluisce», inondando la realtà della storia che si modella secondo i ritmi del nostro tempo umano da redimere.
Nessun immobilismo evasivo è autorizzato da questa impostazione del dialogo tra noi mendicanti di infinito e la grande Presenza nascosta che fonda la nostra vera speranza. Anche noi «siamo invitati a entrare in questo movimento infinito di Amore trinitario», di cui il Natale ci ha aiutato a fare memoria. L’Amore misericordioso che si china sulla realtà povera del mondo «sta alla porta e bussa». Proprio perché è una realtà oggettiva da riconoscere, sotto i segni umani di cui si riveste per lasciarsi incontrare, noi siamo chiamati ad «accoglierlo». Ce lo mostrano in modo esemplare i gesti di adorazione dei pastori nella Notte Santa, la visita dei Magi, prima ancora la tenace pazienza del servizio materno di Maria. Nell’umiltà semplicissima di questa accettazione si pone l’inizio che può fiorire nel legame, tenero e appassionato, di quello che p. Lepori identifica, molto concretamente, con la densità umana di una «relazione». L’umanità in cui risplende la presenza sensibile di Cristo si prolunga fino a noi e ci tocca, là dove si svolge la nostra esistenza abbracciata dalla realtà della Chiesa vivente. In quanto realtà umana di un Corpo in cui si viene innestati, l’amore per il segno che lo rivela genera da sé una «relazione di amore e di obbedienza», fondata su una «fede fiduciosa» come quella che la Madre di Cristo ha lasciato crescere in lei stando di fronte al Figlio portato nel proprio grembo, «adorandolo» nella semplicità di una carità che investiva tutta la sua esistenza, fino ai suoi risvolti più quotidiani e materiali.
La bellezza di questa «relazione» coinvolgente sta nella positività umana che trascina con sé come promessa. Al fluire della grazia che raggiunge l’uomo attraverso l’offerta di Cristo per la nostra salvezza corrisponde l’eco perfettamente consonante del registro affettivo della «gioia»: la sobria e composta letizia cristiana. Lo sfondo su cui muove la dinamica del rapporto tra l’uomo e Dio è sempre e soltanto la «gioia di essere salvati»: la «salvezza è la nostra vera gioia». La promessa, alla fine, è quella di una realtà umana ricondotta al suo ordine vero, al suo fine e al suo destino, dentro una pace che rimette a posto le cose e restituisce dignità e significato anche alla fatica e alla sopportazione del limite che non si può estirpare. La vita del cristiano trasfigurata dalla carità di Dio è una luce che si irradia a sua volta nello spazio del mondo. Da qui nasce la missione: come una «sovrabbondanza di gioia» che trabocca e rifluisce in una carità aperta a tutti, senza confini, a partire da ciò che è più comune e ci rende familiari all’intero nostro prossimo: il lavoro, la casa, la convivenza nella società. La «riconciliazione, l’amore fraterno, la comunione» tra i cristiani sono il primo grande segno dell’irradiamento contagioso dell’adorazione di Cristo, senza il quale la missione della Chiesa è privata della sua sostanza umana più persuasiva e illanguidisce. Stando «davanti a Cristo, la saggezza che adora si riposa e s’infiamma nella carità».
DAL IV SECOLO SI FA CARICO DI MALATI E PELLEGRINI - Il sapere lungo della Chiesa nella cura e nell’amore alla vita - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 4 marzo 2009
L’ assistenza sanitaria per il popolo e i luoghi del ricovero e della cura sono sorti e cresciuti con il cristianesimo. Nell’antichità non esisteva che l’intraprendenza di singoli terapeuti, 'liberi professionisti' a pagamento e disponibili solo a pochi fortunati. Il Concilio di Nicea (325 d.C.) stabilì che ogni vescovato e monastero istituisse ospizi (xenodochi) aperti a tutti i pellegrini, i poveri e i malati. Più tardi, l’ospedale nascerà come 'Hotel-Dieu' o 'Ca’ Granda', casa di accoglienza e assistenza 'per l’amor di Dio e del prossimo'. Quando ancora non erano disponibili terapie efficaci per guarire, il 'prendersi cura' evangelico del samaritano ha anticipato e aperto la strada alla medicina moderna. Fosse solo per questo, la Chiesa, che nei secoli ha dedicato innumerevoli donne e uomini e cospicui mezzi per curare gli infermi, avrebbe buon titolo per parlare della malattia e della fine della vita. Se la Chiesa è 'esperta in umanità', essa lo è, a maggior forza, in umanità malata e sofferente. A partire da questa esperienza e attraverso l’esercizio della ragione illuminata dalla fede, la Chiesa ha anche sviluppato un pensiero organico e ragionevole sul valore individuale e sociale della vita umana, il senso della salute e della malattia, e i diritti e doveri nella relazione pazientemedico. Nell’arduo compito di servire il bene comune, quello di ognuno e di tutti, la Chiesa ha custodito ed educato uno sguardo vero sulla vita dell’uomo, che di essa non censura alcun fattore, tanto meno la dimensione costitutiva della responsabilità personale di fronte alla vita e alla morte. Quando chi parla autenticamente a nome della Chiesa italiana invita a considerare con attenzione la 'verità etica' che 'togliere l’alimentazione e l’idratazione ad una persona, per di più malata, è determinarla verso un inaccettabile epilogo eutanasico', non esprime un giudizio di ragione pratica solo personale o frutto di una consultazione di circostanza. Le sue parole danno voce all’esperienza e all’intelligenza della cura dei malati, anche (e un tempo quasi tutti) non guaribili, la cui lunga tradizione di amorevole accoglienza ha istruito la Chiesa e fatto scaturire il suo magistero. Un tesoro di esperienza e di sapienza da cui estrarre 'cose antiche' e 'cose nuove', certo, ma che merita anzitutto di essere compreso appieno nella sue ragioni e nella storia che gli è stata maestra.
Così facendo si scoprirebbe che la cura del corpo del malato, la forma elementare ma imprescindibile dell’amore alla sua persona, ha preceduto di molti secoli i tentativi di restituirgli la salute attraverso una terapia. Da sempre, il gesto più concreto verso i poveri e gli ammalati è stato quello di dare loro un tetto, un letto e del cibo. E quando non potevano portarlo da solo alla bocca, le prime, rudimentali nozioni apprese da medici e infermieri erano quelle di come aiutarlo a non disidratarsi e perdere le sue forze, perché questo lo avrebbe portato a morte certa e anzitempo. Il resto, fino ai potenti mezzi ordinari e straordinari della terapia farmacologica, radiologica e chirurgica odierna, si è aggiunto in seguito, nulla togliendo al valore imprescindibile e originario della cura, senza la quale non vi è amore concreto alla vita della persona malata. La scelta dei mezzi terapeutici per affrontare la malattia è affidata al medico e al suo rapporto personale con il paziente, e la rinuncia ad essi può essere lecita, o addirittura doverosa, qualora si configuri un inaccettabile accanimento terapeutico. Il magistero recente, pur evidenziando le insidie dell’uso sproporzionato delle moderne terapie, ha più volte sottolineato come non si 'può giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e propria eutanasia per omissione' (Giovanni Paolo II, 2004). Terapia, cura e amore alla vita del malato si fondono nel vissuto quotidiano della medicina.
Mentre la prima è legata alle condizioni del paziente, la seconda non può mai venire meno senza che si perda l’ultima ma fondamentale dimensione dell’atto medico in quanto atto umano.
1) I bambini “alla carta” attentano contro l'etica - Avverte monsignor Elio Sgreccia
2) Valori e diritti al confine della vita - Quale etica se l'uomo non è più il centro del mondo? - Nel pomeriggio di martedì 3 marzo si tiene la cerimonia di inaugurazione dell'Anno accademico all'università Lumsa di Roma. Pubblichiamo stralci della prolusione. - di Laura Palazzani – L’Osservatore Romano, 4 marzo 2009
3) A colloquio con il vicedirettore del convegno in corso alla Pontificia Università Gregoriana - La falsa contrapposizione tra darwinismo e Chiesa - di Fabio Colagrande – L’Osservatore Romano, 4 marzo 2009
4) USA/ La guerra contro Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
5) CRISI/ Giannino: fine dell'Ue? La Germania, indiziato numero uno - Oscar Giannino - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
6) LETTURE/ L’ultimo libro di Padre Lepori, l’abate che “dipinge” la realtà - Danilo Zardin - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
7) DAL IV SECOLO SI FA CARICO DI MALATI E PELLEGRINI - Il sapere lungo della Chiesa nella cura e nell’amore alla vita - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 4 marzo 2009
I bambini “alla carta” attentano contro l'etica - Avverte monsignor Elio Sgreccia
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 3 marzo 2009 (ZENIT.org).- La proposta di una clinica della fertilità di Los Angeles (Stati Uniti) di offrire ai futuri genitori la possibilità di scegliere il sesso del loro bambino o alcuni tratti fisici, come il colore dei capelli o degli occhi, rappresenta un grave attentato etico, avverte il Vescovo Elio Sgreccia.
Il presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita ha commentato ai microfoni della “Radio Vaticana” il nuovo affare proposto dal centro medico Fertility Institutes, che coma ha affermato conta già una “mezza dozzina” di proposte, secondo il quotidiano nordamericano “The Wall Street Journal”.
Per avere un bambino “alla carta”, la clinica si baserebbe sulla cosiddetta Diagnosi Genetica Preimpianto (DGP), che consiste nella selezione degli embrioni. Finora era stata applicata per selezionare embrioni che non avevano malattie ereditarie.; gli altri embrioni venivano eliminati. Ora questa tecnica si applica anche ai gusti estetici.
“Non è la prima volta che escono questo tipo di annunci e che hanno lo scopo di moltiplicare la clientela – afferma il presule –. In ogni caso, si tratta, di un’operazione eticamente scorretta e lesiva della dignità della prole, perché diretta a manipolare il corpo, a dominarlo e a trasformarlo secondo i propri gusti”.
“Così come è illecito che un bambino, che presenta o che potrebbe presentare dei difetti, venga eliminato per selezione negativa, così è illecito che si faccia una selezione che obbedisca unicamente ai desideri dei genitori”.
Secondo il Vescovo, si tratta di “un tipico esempio di una scienza che si mette a servizio non del bene, ma dei desideri dei committenti, a carico, in questo caso, dei bambini. Quando si viola una regola della creazione, così delicata, la legge dovrebbe essere interessata in questo campo”.
“E’ ormai possibile constatare che l’istinto manipolatorio – che ai tempi del nazismo era realizzabile fino ad un certo punto, non essendo conosciuto ciò che invece oggi è noto – è passato oltre l’abolizione dei regimi assoluti”, denuncia.
“Poteva sembrare che fosse una tendenza propria della sete di dominio che l’assolutismo politico ha sempre voluto esercitare sulla vita delle persone. Purtroppo, questo tipo di istinto di dominazione è insito negli uomini se non viene frenato dalla morale e della legge, e sopravvive anche nei regimi non più assoluti”, aggiunge.
“E' il medesimo istinto favorito non più da un regime, che vuole risultati di carattere bio-politico, ma dagli interessi di coloro che hanno soldi e capricci per giocare con la vita degli altri”.
Valori e diritti al confine della vita - Quale etica se l'uomo non è più il centro del mondo? - Nel pomeriggio di martedì 3 marzo si tiene la cerimonia di inaugurazione dell'Anno accademico all'università Lumsa di Roma. Pubblichiamo stralci della prolusione. - di Laura Palazzani – L’Osservatore Romano, 4 marzo 2009
Biodiritto come diritto "sulla" vita o "per" la vita? La teorizzazione più estrema è quella di chi sostiene che il diritto non deve intervenire mai nelle questioni bioetiche. È la prospettiva di chi ritiene che in etica non siano conoscibili valori assoluti e universali, che valgono sempre e comunque per tutti (il non cognitivismo etico o "etica senza verità"): è il soggetto, in ultima analisi, che crea autonomamente i valori, decidendo che cosa sia bene e che cosa sia male, sulla base della propria coscienza insindacabile e autoreferenziale. È la prospettiva che ritiene che il pluralismo etico sia, di fatto e di principio, inconciliabile: i valori sono così diversi e contrapposti che, per quanti tentativi si possano fare, l'identificazione di valori comuni non è probabile, nemmeno possibile, anzi addirittura non auspicabile, in quanto ritenuta oppressiva rispetto all'autenticità individuale.
In questo contesto è preferibile l'assenza del diritto rispetto alla presenza del diritto nelle questioni che riguardano la vita e la morte, la salute e la malattia, il benessere e la sofferenza per garantire lo spazio alla libertà individuale e il pronunciamento di valori soggettivi, senza interferenze esterne.
È il modello "astensionista" che, nell'orizzonte antigiuridista e libertario, ritiene il diritto un'ingerenza che soffoca indebitamente l'autodeterminazione del singolo: proprio in bioetica è preferibile uno "spazio libero dal diritto" presupponendo che tutto ciò che non sia né comandato né vietato sia permesso.
È il modello che propone la sottrazione delle problematiche bioetiche al diritto, con la conseguente privatizzazione delle scelte: si ritiene opportuno non legiferare in bioetica o depenalizzare le eventuali leggi esistenti, preferendo all'intervento legislativo le regolamentazioni dei codici deontologici, le deliberazioni dei comitati etici o l'autodisciplina di singoli soggetti e di comunità scientifiche.
Su basi analoghe, ma con argomentazioni diverse, si delinea la teorizzazione del "biodiritto neutrale" nell'ambito dell'orientamento liberale-libertario. È il modello che chiede al biodiritto di amplificare la libertà soggettiva, moltiplicando le possibilità di scelta: si tratta di prendere atto delle nuove richieste emergenti nella società pluralista, istituzionalizzare tutte le alternative prevedibili, senza prendere posizione a favore o a sfavore. In questo senso il biodiritto garantirebbe uno spazio privato alle decisioni morali, nella convinzione che ogni individuo possa fare ciò che vuole - anche nel caso si giudichi il suo comportamento disprezzabile, sconveniente o immorale - nei limiti del rispetto del danno ad altri, ove per danno si intende l'interferenza con l'altrui libertà.
Solo nella misura in cui vi sia un fondato - ma anche solo presumibile - timore per eventuali rischi sulle conseguenze imprevedibili di determinate scelte, sono ammesse regole temporanee per finalità pragmatiche che limitino la libertà individuale, stabilite di volta in volta, utili a tamponare le emergenze sociali. Secondo questo modello è auspicabile un intervento legislativo che regoli in modo procedurale l'autodeterminazione individuale; una biolegislazione minimale che si limiti a registrare le spinte sociali plurali della prassi in modo dinamico e flessibile, elaborando norme svincolate e aperte, norme "a tempo".
Quale alternativa a tale legislazione soft è ammessa (anzi, da alcuni è considerata preferibile) la giurisprudenza discrezionale, adattabile al pluralismo etico e alle trasformazioni sociali, in quanto mai definitiva ma sempre applicata al singolo caso e suscettibile di ripensamento.
Vi è poi la prospettiva "utilitarista" che ritiene che la funzione del biodiritto debba essere quella di massimizzare gli interessi, derivanti dal calcolo piacere/dolore, gioia/sofferenza, felicità/infelicità, del maggior numero di individui. Secondo questo modello la norma giuridica deve beneficiare il maggior numero di individui e danneggiarne il minimo: si tratta di elaborare norme ispirate a criteri di convenienza sociale, rivedibili in funzione del mutare delle circostanze. Il diritto diviene strumento per la ripartizione di risorse secondo il criterio dell'utile collettivo, eliminando o considerando "marginali" coloro che non possiedono o non hanno la probabilità di avere una sufficiente vita con qualità.
Si tratta di prospettive che, seppur in modo diverso, pongono al centro l'autonomia individuale e la qualità della vita per giustificare o l'assenza del diritto o la presenza del diritto "mite". La tecno-scienza tra "non diritto" e "diritto debole" si espone ad alcuni rischi: senza il diritto il rischio è di cadere nel far west bioetico, dove tutto è permesso in quanto nulla vietato; con un diritto debole, il rischio è quello di non orientare ma assecondare la prassi, facendo prevaricare i fatti sui valori, non trovando soluzioni al conflitto tra autonomie private che esprimono visioni etiche opposte e inconciliabili, lasciando spazio alla prevaricazione della volontà del più forte.
Un elemento comune alle prospettive biogiuridiche delineate (libertaria, liberale, utilitarista) è la negazione che la natura umana sia espressione di un valore e il fondamento dei diritti: il fatto di possedere una natura umana non è considerato sufficiente per giustificare un dovere di rispetto e di tutela. Le teorie delineate tematizzano una distinzione tra essere umano quale oggetto della nostra percezione ed essere umano come soggetto di qualificazione etica e giuridica. L'essere umano fattualmente si manifesta in un corpo; il corpo è considerato mera materia organica. La dignità è un'altra cosa: è una categoria etica che può essere conferita o tolta, istantaneamente o gradualmente, in base a come si manifesta la corporeità umana. Embrioni, feti, ma anche bambini hanno corpi biologicamente umani ma non hanno "ancora" dignità; individui in coma, cerebrolesi, dementi, anziani, handicappati, malati in condizioni di grave sofferenza hanno corpi biologicamente umani, ma non hanno "più" dignità.
La separazione nell'uomo tra oggettività e soggettività ripropone il dualismo antropologico già presente nel pensiero occidentale: si pensi alla concezione orfico-platonica del corpo come tomba dell'anima e alla distinzione cartesiana tra res extensa e res cogitans. La soggettività diviene una qualificazione del corpo/oggetto (ridotto alla dimensione quantitativa), che può esserci o non esserci, in base alla fase di sviluppo raggiunta dall'organismo biologico umano, alle proprietà che manifesta e alle capacità che è in grado di esibire. Chi non è ancora o non più autonomo non ha dignità; chi non ha la probabilità di avere o ha perso una minima qualità di vita non ha dignità. Ma, al tempo stesso, alcuni esseri non umani (animali o entità postumane, robot o soggetti cibernetici) possono avere una dignità, se in grado di percepire sensazioni piacevoli o spiacevoli, di avere una vita di sufficiente qualità o di essere autonomi. L'antropocentrismo è messo in discussione dagli orientamenti utilitaristici che estendono ad alcuni animali, in senso interspecifico, la soggettività personale e dalle teorizzazioni post-umane e trans-umane che arrivano a riconoscere lo statuto personale a intelligenze artificiali. L'affermazione della "variabilità" del valore della vita umana (con particolare riferimento ai confini biologici) - implicito negli orientamenti esaminati - apre a una serie di conseguenze: sono negati i doveri diretti di tutela nei confronti della vita umana; rimangono semmai solo doveri prima facie e diritti "indiretti", provvisori, bilanciabili in base alle circostanze, a considerazioni sociali, ad accordi di opportunità o prudenza, di benevolenza o simpatia, ma anche a ragioni simboliche o estetiche. Il biodiritto si configura dunque, in questo modo, come un "diritto sulla vita": ove il diritto è lo strumento dell'esercizio soggettivo dell'autonomia o della garanzia della qualità della vita e la vita è ridotta a materiale biologico. Il diritto ha una precedenza, una priorità e una superiorità rispetto alla vita, che non costituisce un limite o un vincolo per il diritto. È l'individuo che può decidere se sperimentare o non sperimentare su embrioni, se produrli, distruggerli, commerciarli; è l'individuo che decide se e come usare le nuove tecnologie, ricercandone il successo anche al prezzo di disperdere, sovraprodurre o ridurre embrioni; è l'individuo che sceglie le caratteristiche dell'embrione che desidera, scartando individui con difetti genetici, incurabili o semplicemente sgraditi; è l'individuo che decide quando la sua vita vale la pena di essere vissuta, potendo anche imporre la propria volontà su quella del medico e chiedendogli di non iniziare o sospendere le cure, ma anche di praticargli un'iniezione letale. Ma c'è anche un altro modo di intendere il "diritto" e la "vita" e il loro reciproco rapporto, anche in riferimento ai valori. È la prospettiva di chi ritiene che il diritto non sia riducibile a mera tecnica neutrale di organizzazione sociale: il fatto stesso di ritenere il diritto uno strumento di tutela dell'autonomia e della qualità della vita mostra l'assenza di neutralità, e l'implicito riferimento ai valori (siano essi l'autonomia o la vita di qualità). Il diritto non è, non può e non deve essere neutrale: il diritto è chiamato, strutturalmente, a veicolare un'etica minima, non un'etica esterna scelta tra le etiche nel contesto della pluralità che caratterizza il dibattito attuale (tale scelta determinerebbe inevitabilmente l'imposizione e il privilegio di un'etica e la delegittimazione delle altre etiche), ma un'etica interna, l'etica della giustizia. È questa l'etica "minima" (ma non per questo minimalista) condivisibile da parte di tutti gli uomini sul piano della mera razionalità pratica, indipendentemente dalla posizione teoretica, etica o religiosa assunta a livello "massimo".
Giustizia significa "dare a ciascuno il suo", riconoscere a ogni uomo ciò che gli spetta per natura; significa riconoscere l'uguaglianza nel senso di pari dignità, ossia il dovere di trattare ogni uomo in quanto uomo a prescindere da altre considerazioni estrinseche, quali l'appartenenza politica, religiosa, culturale, ma anche la differenza sessuale, cronologica o la diversità nelle condizioni di esistenza sociali e personali (salute/malattia, abilità/disabilità). Il principio di uguaglianza si radica nell'"essere" dell'uomo, indipendentemente dal suo "esistere" o dal suo "agire". La dignità è dunque una condizione ontologica, originaria e invariabile, senza sfumature o gradazioni: ogni uomo ha una dignità da quando inizia a esistere fino a quando cessa di esistere.
Ogni confine della dignità nell'ambito della vita umana non può che essere convenzionale, pertanto arbitrario in quanto stabilito soggettivamente dalla volontà, non riconosciuto oggettivamente nella natura: la vita, dall'inizio (la fecondazione dei gameti) alla fine (la morte cerebrale totale) ha uno sviluppo continuo con solo modificazioni quantitative, senza interruzioni o salti di qualità.
La natura umana ha dunque un rilievo etico per il diritto: il diritto non può rimanere indifferente rispetto alla dignità intrinseca dell'essere umano. Un diritto che si estranei, o pretenda di estraniarsi, radicalmente dai valori apre al pericolo di un uso "dis-umano" del diritto, di un uso del diritto "contro" l'uomo. Nel diritto è importante recuperare quella consapevolezza, che è progressivamente maturata e si è consolidata dopo le atroci esperienze storiche dei totalitarismi: la consapevolezza che il diritto non può divenire mero strumento formale asservito estrinsecamente alla volontà di chi si impone con la forza e non può limitarsi alla registrazione della prassi (quale essa sia). Significa invece identificare nella tutela della natura umana l'orizzonte di senso e la misura critica del diritto, il valore pregiuridico e metagiuridico che dovrebbe costituire l'orientamento per il legislatore e il giudice, nel momento in cui sono chiamati a intervenire nell'ambito della regolamentazione della tecnoscienza.
Il diritto è chiamato a giustificare solo richieste dell'uomo "per" il corpo: anche se all'inizio è quantitativamente impercettibile e alla fine è debole e dipendente dagli altri, è il corpo di un essere umano come qualsiasi altro.
Ritenere che la legislazione biogiuridica debba ispirarsi al criterio della dignità umana intrinseca non significa introdurre una legislazione "pesante", spesso accusata di dogmatismo o confessionalismo. Significa invece fissare un limite razionale vincolante al progresso scientifico al fine di affermare un valore non negoziabile, che va interpretato nel contesto dei singoli problemi emergenti: significa ritenere che la vita umana non sia mai un semplice mezzo (strumentalizzabile), ma sempre anche un fine (da rispettare). Non significa bloccare sempre e comunque il progresso della tecnologia: significa piuttosto bilanciare l'interesse della scienza con il riconoscimento del bene umano fondamentale. Significa ammettere la sperimentazione solo con finalità terapeutica; consentire le tecnologie riproduttive solo se rispettose dello statuto dell'embrione umano, proibendo sovrapproduzione e riduzione embrionaria, bilanciando i desideri riproduttivi e gli interessi del nascituro, garantendogli le condizioni di vita nel contesto di una famiglia bigenitoriale eterosessuale; ammettere diagnosi genetiche senza che automaticamente portino alla selezione eugenetica; sospendere cure sproporzionate, futili, gravose e onerose per il malato, garantendo le cure ordinarie, accompagnando chi sta per morire alleviando il dolore con l'uso delle cure palliative.
(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2009)
A colloquio con il vicedirettore del convegno in corso alla Pontificia Università Gregoriana - La falsa contrapposizione tra darwinismo e Chiesa - di Fabio Colagrande – L’Osservatore Romano, 4 marzo 2009
A un secolo e mezzo dalla pubblicazione de L'origine delle specie di Charles Darwin, considerato la pietra miliare della biologia evoluzionista, e dopo recenti importanti scoperte scientifiche, il tema dell'evoluzione biologica merita una seria riconsiderazione, tanto dal punto di vista scientifico, quanto da una prospettiva filosofica e teologica. Soprattutto per superare le posizioni e le polemiche ideologiche che, a due secoli dalla nascita di Darwin, animano più che mai oggi il dibattito. Si assiste a confusioni strumentali tra teologia e scienza che provocano, da una parte, un evoluzionismo metafisico antireligioso e, dall'altra, estremizzazioni fondamentaliste che portano a un malinteso creazionismo o al così detto Intelligent design. Proprio per questi motivi, la Pontificia Università Gregoriana, in collaborazione con la University of Notre Dame (Indiana, Usa), sotto l'alto patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e nell'ambito del Progetto Stoq (Scienza, Teologia e Ricerca Ontologica), ha organizzato presso la sua sede a Roma una conferenza internazionale sul tema "L'evoluzione biologica: fatti e teorie", che si apre martedì 3 marzo e proseguirà fino a sabato 7
Scopo principale dell'iniziativa sarà considerare il problema dell'evoluzione in una prospettiva più ampia rispetto al neodarwinismo tradizionale, alla luce delle recenti acquisizioni della ricerca. A centocinquanta anni dalla sua nascita, che valore scientifico ha dunque oggi la teoria dell'evoluzione ed è possibile parlare ancora di un'unica teoria? Lo abbiamo chiesto a Gennaro Auletta, docente di Filosofia delle scienze presso la Pontificia Università Gregoriana, direttore scientifico del Progetto Stoq e vicedirettore del convegno. "Ritengo che non esista teoria scientifica che non evolva nel corso del tempo. La migliore garanzia di scientificità del darwinismo e della teoria dell'evoluzione - ha spiegato l'esperto - è nella sua capacità di evolversi dimostrata negli ultimi centocinquanta anni. Oggi direi che non è una teoria monolitica, ma parlare di più teorie dell'evoluzione mi sembrerebbe eccessivo. Credo si debba parlare di un'unica teoria, con una pluralità di approcci, con apporti molto significativi soprattutto da due punti di vista. Da una parte oggi consideriamo i geni non più come una sequenza lineare che codifica l'informazione ma soprattutto come un network: ogni gene, anche quelli codificanti, viene considerato un'unità che può attivare tutta un'altra serie di geni che hanno funzioni regolatrici e che contribuiscono alla formazione dell'organismo globalmente. Questo permette di considerare le mutazioni come fenomeni non isolati. Se modifichiamo uno dei geni di questo network otterremo come conseguenza tutta un'altra serie di mutazioni "a cascata". Questo spiega come tutta una serie di mutazioni possano essere state canalizzate nel corso dell'evoluzione. Quindi, se si tratta di mutazioni certamente casuali nel loro manifestarsi iniziale, i loro effetti non lo sono. L'altro approccio nuovo che caratterizza la teoria di Darwin è la comprensione che l'evoluzione dell'organismo è il risultato di una co-evoluzione, di un co-adattamento. L'organismo e l'ambiente, per così dire, sono una bipolarità in costante interazione. Da questo punto di vista è importante porre l'accento sulla capacità che hanno tutti gli organismi, anche i più semplici, di costruire delle nicchie ambientali. Quindi il rapporto con l'ambiente non è più soltanto dall'ambiente all'organismo, com'era concepito cento o perfino trent'anni fa, ma è anche dall'organismo all'ambiente. Costruendo nicchie ambientali gli organismi sono perciò in grado di modulare gli effetti della selezione naturale su sé stessi e quindi di influenzare, sia pur indirettamente, la loro stessa evoluzione. Nessun organismo può controllare direttamente la propria evoluzione, ma nella costruzione della nicchia ambientale gli organismi contribuiscono nel tempo a determinare delle condizioni che hanno degli effetti di feedback sul loro stesso processo evolutivo.
Qual è stata e qual è oggi la posizione della Chiesa circa il darwinismo?
Direi, molto semplicemente, mai di condanna. È questa una delle ragioni che rendono secondo me superfluo qualsiasi sforzo di recupero o riabilitazione di Darwin, perché né la Chiesa cattolica, né suoi esponenti significativi, hanno mai condannato, né il darwinismo, né la teoria dell'evoluzione. Anzi, c'è stata sempre molta attenzione. Basti ricordare che il cardinale John Henry Newman in Inghilterra fu un chiarissimo sostenitore, fin dai suoi albori, del darwinismo. Direi anzi che a partire dalla famosa presa di posizione di Giovanni Paolo II del 1996, si è passati a una fase di ricognizione.
Alla riflessione filosofica spetta il compito, anche rispetto al cosiddetto darwinismo, di distinguere il piano della scienza da quello della teologia. Due prospettive che oggi sembrano spesso confondersi.
È un segno dei tempi. Nel bene e nel male oggi c'è una maggiore sensibilità nei confronti delle problematiche metafisiche, religiose, spirituali. Questo è il segno di un mutamento molto importante, ma bisogna stare molto attenti perché siamo stati dominati per trecentocinquant'anni anni da un paradigma meccanicistico. Nella scienza meccanica non c'è nulla di sbagliato. La scienza comincia sempre con lo studiare i sistemi più semplici e questi in natura sono proprio quelli di tipo meccanico. Quindi forse era addirittura necessario che la scienza cominciasse da lì. Ma da questo punto di partenza qualcuno ha tratto un paradigma meccanicistico, una sorta di metafisica anti metafisica. E questo paradigma ha dominato per tre secoli e mezzo, rendendo molto difficile per filosofi e teologi discutere di alcuni argomenti con le controparti scientifiche. Oggi la situazione è cambiata ed è dovere della filosofia mettere in chiaro che la teoria dell'evoluzione non soltanto non ha di per sé una carica anti-religiosa, ma nemmeno è una teoria che dal punto di vista epistemologico può "provare che Dio non esiste", come sostenevano, con un salto che definirei illogico, alcuni luminari qualche anno fa su "Le Nouvel Observateur". Ma io sono anche convinto che non è nell'interesse di nessuno promuovere un concordismo esagerato. Non penso che i risultati della scienza e quelli della filosofia e della teologia debbano sempre o possano sempre andare d'accordo. Ritengo che, a volte, un confronto aspro sia anzi salutare, perché è così che si va avanti. Ma, quando si sono chiarite certe distinzioni, andare a vedere se ci sono delle convergenze significative, o delle lezioni significative che la scienza può dare alla teologia o alla filosofia, credo sia allo stesso modo molto utile.
L'idea di un disegno provvidenziale di Dio nella Creazione, di "una materia strutturata in modo intelligente dallo Spirito" - ricordata recentemente dal Papa - rappresenta una "teoria scientifica" che può essere in contrasto con altre?
Sono molto sensibile a questa definizione. Nel 2004, infatti, invitai alla Gregoriana il cardinale Georges Marie Martin Cottier per discutere un aspetto molto interessante. Come studioso di meccanica quantistica, ho sempre ritenuto che i sistemi quantistici vadano intesi in ultima analisi come "informazione". Non sto dicendo che i processi cognitivi più avanzati si possano ridurre a informazione. Ma, già a livello puramente fisico, esistono fenomeni come lo scambio d'informazione, l'acquisizione d'informazione, che suggeriscono come nel nostro universo la materia non sia soltanto un'accozzaglia casuale di elementi, ma una struttura che potremmo definire, se non "intelligente", almeno "intelligibile". Lo scopo della discussione con il teologo Cottier era dimostrare come la meccanica quantistica suggerisca un'oggettiva intelligibilità del cosmo e della materia, che era esattamente ciò che sosteneva la scolastica di san Tommaso. Si badi bene che questa non è una teoria scientifica. Mi limito ad affermare che esistono teorie scientifiche, come la meccanica quantistica, ma anche la teoria dell'evoluzione, che suggeriscono punti di vista molto interessanti se sviluppati sul piano filosofico e teologico. Un altro punto che mi preme sottolineare però è che, quando si parla di disegno provvidenziale nella creazione, bisogna stare molto attenti a evitare il discorso dell'Intelligent design, che non è una teoria scientifica, anche se si spaccia come tale. Questa tesi, inoltre, ha il grave difetto di considerare ancora la teoria dell'evoluzione com'era trenta o quarant'anni fa. Ma se volessimo ritenere che c'è un finalismo, non di tipo teologico/religioso, ma un finalismo interno stesso all'evoluzione che possa essere constato empiricamente, correremmo il rischio di considerare sostanze prime, per usare un linguaggio scolastico, quelle che sono sostanze seconde, e cioè di trasformare le specie e i generi biologici in soggetti ontologici del tipo dell'organismo individuale, perché per parlare di un fine di qualcosa debbo avere qualcosa. Non dico però che l'evoluzione sia qualcosa che procede in modo cieco. Anche se non ha un finalismo intrinseco, l'evoluzione va, nel tempo, nel senso di un maggior esercizio di controllo da parte degli organismi sull'informazione ambientale. Se si osserva il passaggio dal batterio all'essere umano, attraverso le varie fasi, si assiste a un incremento significativo dei canali e delle forme con cui questi organismi accedono alle informazioni ambientali, attraverso canali sensoriali, modalità concettuali e cognitive sempre più sofisticate, esercitando così un sempre maggiore controllo sull'ambiente. E questo è un punto chiave, perché vuol dire che l'intelligenza è qualcosa che è promossa dall'evoluzione, perché è un fenomeno adattivo. Quindi, se è vero che l'essere umano è anche un prodotto contingente dell'evoluzione biologica, se consideriamo un tempo sufficientemente lungo dell'evoluzione è lecito aspettarsi che un essere intelligente emerga, perché l'intelligenza è qualcosa che va nel senso dell'evoluzione. Per meccanismi intrinseci alla stessa evoluzione, si crea un fenomeno di promozione di un maggiore controllo dell'informazione, e quindi di promozione dell'intelligenza, pur non essendo la stessa evoluzione, per quello che ne sappiamo sul piano scientifico, indirizzata a un fine determinato. Ovviamente questo non è un discorso direttamente teologico, ma solo scientifico/filosofico. Ma ciò dimostra che sarebbe sciagurato far discendere dal discorso teologico sul disegno provvidenziale un finalismo forte. Invece, tale discorso filosofico/teologico non è affatto in discordanza con una guida indiretta della creazione, recuperando un'altra istanza medievale, ossia la distinzione tra Causa prima (Dio) e cause seconde (gli essere finiti): Dio, nelle sue modalità di azione, non sopprime le cause seconde.
Quali sono dunque le vostre attese per il convegno della Gregoriana?
Ritengo che il compito del filosofo, ma anche dello scienziato, più che quello di fornire risposte, sia quello di chiarire esattamente quali sono i problemi. Quindi, poiché la teoria dell'evoluzione è sul piano scientifico una teoria vitale, mi aspetto che questo convegno possa individuare quali sono i suoi aspetti ancora problematici. Ma anche che metta in chiaro quali problemi ci sono, se eventualmente ci sono, tra questa teoria e il pensiero teologico e filosofico. Magari, quello che accadrà, e sarebbe interessante che accadesse, è scoprire che i problemi sono molto diversi da quelli che abbiamo immaginato fino a ora. Si parla spesso d'incompatibilità tra cattolicesimo e teoria dell'evoluzione, del rischio di ridurre l'essere umano a un aggregato di cellule o alla pura dimensione animale, ma forse questi sono solo miti da sfatare e i problemi sono altrove. Ecco vorrei che il prossimo convegno della Gregoriana, oltre a essere una chiara testimonianza del fatto che le istituzioni e le università ecclesiastiche e il Progetto Stoq prendono molto sul serio la teoria dell'evoluzione, servisse a individuare le questioni aperte.
(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2009)
USA/ La guerra contro Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
La battaglia è cominciata. Da un lato, il presidente Obama e i Democratici (ma non tutti): sono stati loro a lanciare la dichiarazione di guerra, e cioè la proposta di Obama del budget per gli anni a venire. Se approvata dal Congresso così come è stata presentata, questa proposta introdurrà un cambiamento reale nel modo di vivere americano e cancellerà la rivoluzione reaganiana iniziata nel 1980. Sull’altro lato, ci sono i Repubblicani di oggi (non tutti) guidati da... da chi? Chi guida il Partito Repubblicano? Questa è stata la questione politica della settimana negli Stati Uniti.
Il qualcosa più vicino a un “capo” del Partito Repubblicano è il recentemente eletto presidente del Comitato Nazionale Repubblicano: Michael Steele, l’afroamericano sulla cui elezione ho già scritto qualche settimana fa, che sembra indicare il desiderio dei leader repubblicani di estendere la base del partito oltre “i conservatori culturali”, enfatizzando la responsabilità in materia di imposizione.
Tuttavia, non è stato Steele a emergere questa settimana come possibile voce del partito, ma Rush Limbaugh, un personaggio dei talk radiofonici, un conduttore con la capacità carismatica di affascinare, smuovere e stimolare tutti i conservatori, e che ha lanciato un forte attacco contro Obama dicendo del tutto apertamente di sperare che falliscano gli sforzi del presidente per venire a capo della crisi economica.
Limbaugh, cui viene attribuita la guida della resistenza repubblicana agli sforzi di Bill Clinton di portare il paese fuori dalla filosofia conservatrice di Reagan, è senza dubbio pronto a fare la stessa cosa contro Obama, questa volta anche con maggior intensità. La battaglia non è tra Democratici e Repubblicani, afferma, ma tra conservatori e progressisti radicali, e prevede che i membri conservatori del Partito Democratico si uniranno all’attacco contro Obama e i suoi seguaci.
A differenza dei Repubblicani più “moderati”, Limbaugh propone una difesa filosoficamente coerente del conservatorismo che non lascia spazio per ambiguità sull’impossibilità di compromessi. Se il Partito Repubblicano vorrà unirsi a questa controrivoluzione conservatrice, dice, molto bene; se non lo vorrà non vinceranno nessuna elezione.
I leader repubblicani sono preoccupati per la leadership di Limbaugh e si chiedono se, consentendogli di essere la voce del partito, non ci si alieni quella netta maggioranza di americani che hanno votato per un deciso cambiamento rispetto agli anni a guida repubblicana.
Limbaugh e i suoi sostenitori replicano che gli americani nei loro cuori sono d’accordo con i principi conservatori e che, ora che Obama ha mostrato la sua vera visione del futuro dell’America, appoggeranno la controrivoluzione conservatrice. Il presidente Obama, sostiene, ha “bastardizzato” la Costituzione che si è impegnato a difendere e le sue opinioni riflettono non il modo di vivere americano, bensì il “socialismo europeo”.
I Democratici sono talmente convinti che la filosofia di Rush Limbaugh, e soprattutto il suo stile, finiranno per allontanare i molti americani che stanno realmente soffrendo per il collasso economico e trovano irresponsabile l’augurio di fallimento per il piano di ripresa presentato da Obama. Il presidente si è limitato a dire di essere pronto alla battaglia. Questa settimana nessun accenno ad alcunché di bipartisan.
CRISI/ Giannino: fine dell'Ue? La Germania, indiziato numero uno - Oscar Giannino - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Quando Milton Friedman e Martin Feldstein, negli anni Novanta, vaticinarono che l’euro appariva come una grande impresa, ma che al contempo correva anche a loro giudizio il rischio di saltare alla prima grande tempesta dei mercati, il 99% degli interlocutori europei fecero spallucce, e sorrisero accusando i monetaristi americani di essere spaventapasseri fuori dal tempo. Venerdì della settimana scorsa, in un meeting riservato a Londra, è stato l’ex governatore della Bundesbank Karl Otto Poehl, un uomo di rigore e prudenza da cento carati che alla nascita dell’euro ha conferito il marchio dell’ortodossia degli interessi del marco e della sua Germania, a dichiarare - nello stupore e nella preoccupazione generale - di non essere in grado di escludere tassativamente che, così continuando, l’euro non entri in crisi nel 2009 o nel 2010. L’unico giornale europeo a riportare la notizia è stato il Daily Telegraph, in un commento di Ambrose Pritchard Evans che ha fatto fare un salto sulla seggiola a un bel po’ di banchieri e finanzieri in mezzo mondo.
Anche l’ex banchiere centrale tedesco ha descritto la situazione alla quale faceva riferimento ieri Carlo Pelanda. Gli spread sul Bund dei Paesi più a rischio dell’euroarea, Grecia Irlanda e Spagna, potrebbero conoscere picchi sconosciuti in presenza di default di Paesi come le tre repubbliche baltiche, o esterni all’euroarea ma a forte delocalizzazione europea nei Balcani e nell’Est Europa, e per effetto dell’impossibilità di Paesi in avvicinamento all’euro, come Polonia e Ungheria, di persistere nel sentiero previsto di stabilizzazione dei propri aggregati in vista dell’aggancio definitivo all’euro.
Vi sono almeno due problemi di ordine e impatto diverso. Le banche più esposte in quei Paesi, a cominciare da quelle austriache fino a Unicredit che vi realizza oltre il 30% dei propri ricavi, rischiano di veder svalutati nominalmente i propri asset in un ordine di grandezza tra il 40 e il 60%, per il solo effetto di un eventuale deprezzamento delle valute locali. Inoltre, analoghi effetti si potrebbero produrre per tutte le imprese che hanno delocalizzato in quei Paesi, con impatti sui loro bilanci patrimoniali e non solo sul conto economico.
In Italia, in particolare mi consta personalmente al ministero dell’Economia, questi scenari appaiono troppo catastrofici. In definitiva, è vero che al Consiglio europeo di domenica scorsa la Germania ha fatto passare ancora una volta il principio del “niente programmi comuni di aiuto”, e del “a ogni paese a seconda delle sue condizioni e virtù”. Ma negli ultimi due mesi il Fmi ha già impegnato circa 25 miliardi di dollari, a sostegno di quelle economie. E se il Fmi chiede – e otterrà verosimilmente entro il prossimo G20 di aprile – di raddoppiare la propria capacità di prestiti straordinari da 250 a 500 miliardi di dollari, in larga misura questa maggior capienza è proprio in preparazione di eventi di tale portata.
Tuttavia questo appartiene all’ordine del possibile, esattamente come una crisi generale di quei Paesi appartiene anch’essa all’ordine del possibile. Il commissario Almunia ieri ha dovuto rapidamente correggersi, quando prima ha accennato all’ipotesi di un default di qualcuno di quei Paesi come eventualità concreta, poi di fronte allo sfascio che provocava sui mercati ha dovuto aggiungere che l’eventualità verrebbe scongiurata da interventi d’emergenza.
L’interrogativo di fondo che da ottobre in avanti ha preso a manifestarsi nelle cancellerie europee non è quello della possibilità di aiuti straordinari, siano essi realizzati dai governi oppure dalle banche dell’eurosistema, o dalla collaborazione tra questi due attori con fori internazionali come il Fmi. L’ipotesi che ha dell’impensabile è un’altra. E cioè che la Germania, il Paese che ha dettato forme e modi dell’euro – anche per spartire i costi della sua unificazione – possa nutrire con crescente forza nel tempo un retropensiero sempre più temibile, per noi tutti. Preferire la tutela diretta tedesca per quei sistemi e Paesi anche esterni all’euro in cui la Germania appunto ha delocalizzato di più, alla condivisione di oneri e sforzi volti a “reggere insieme” l’intera euroarea, compresi paesi come l’Italia – che per la Germania è il più temibile concorrente europeo nella manifattura – la Spagna, la Grecia, e la stessa Gran Bretagna che, in prospettiva, potrebbe bussare alle porte dell’euro.
È più di un interrogativo. È un’ipotesi inquietante. L’Italia e la Francia devono tenerne conto. Ed essere pronte ad azioni comuni. L’impensabile può avvenire. E chi non lo mette in conto, non ha capito nulla della crisi epocale regalataci della finanza “all’americana”.
LETTURE/ L’ultimo libro di Padre Lepori, l’abate che “dipinge” la realtà - Danilo Zardin - mercoledì 4 marzo 2009 – ilsussidiario.net
L’esile silhouette di una figura slanciata, contro un cielo carico di colori, solcato di striature che risaltano per il loro biancore: non semplici vuoti, ma varchi tenuti aperti, quasi trasparenze che rimandano come segni alla Presenza nascosta che si cela immediatamente al di là di quanto appare alla nostra vista superficiale. È questo uno dei soggetti preferiti degli acquerelli che infiorano l’ultima raccolta di omelie dell’abate cistercense di Hauterive, p. Mauro-Giuseppe Lepori: La vita si è manifestata. Omelie sull’attesa, l’avvenimento e la manifestazione dell’Incarnazione del Signore. Illustrate da acquerelli dell’autore, Genova-Milano, Marietti, 2008.
L’immagine-simbolo evoca subito la dimensione dell’uomo che sta di fronte alla vastità del Mistero che lo sovrasta. La veste è lunga sino ai piedi, le mani appena abbozzate si protendono nel gesto umile e antico della preghiera. È chiaramente l’icona del monaco immerso nel silenzio di una vita concentrata sull’essenziale. Ma nello stesso tempo è la metafora del mendicante che ognuno di noi può diventare, quando si raccoglie nella coscienza che lo costituisce al fondo come persona, davanti alla sovrabbondanza dell’Essere che lo fa esistere e lo avvolge da ogni lato, strappandolo dal nulla in cui rischierebbe di franare la nostra esistenza, abbandonata alla sua orgogliosa presunzione di autonomia.
Il mendicante è l’uomo assetato di desiderio, che riconosce di non potersi fare da sé, e per questo si affida e si lascia abbracciare dalla realtà del Tutto che lo precede, di cui si sente ospite inadeguato, sproporzionato, eppure irresistibilmente voluto bene. La sproporzione si spalanca proprio perché la povertà dell’uomo che vive nel bisogno è un dialogo aperto con un Tu da cui si scopre di dipendere: io sono “Tu che mi fai”, come tante volte abbiamo sentito ripetere. In effetti, è il senso di una oggettività che incombe quello che domina tutta la più genuina mistica cristiana, dalle sue prime scaturigini, neotestamentarie e patristiche, fino alle vette degli “spirituali” dei nostri tempi moderni. E un Tu oggettivo che suscita, accoglie e fa muovere l’io dell’uomo alla ricerca della sua pienezza è anche il vero protagonista centrale di La vita si è manifestata. L’accento è posto sulla logica inesorabile di questa Vita che emerge dagli abissi del mistero di Dio, facendosi incontro al cuore dell’uomo, prima e anche al di là della piena lucidità della sua domanda lanciata verso gli orizzonti sconfinati del destino ultimo che salva la vita. Siamo resi spettatori del dispiegarsi di una storia di salvezza che non ci siamo creati da soli, che ci raggiunge nella terra di Betlemme della nostra condizione di uomini, e di cui l’avvenimento dell’incarnazione è il sussulto già trionfale che, dalla notte dei secoli, attraversa lo spazio del nostro universo.
La proposta meditativa dell’abate di Hauterive è impregnata di questo realismo ancorato alla logica dell’oggettività. L’incarnazione di Cristo non è altro che il venire prepotentemente alla luce del movimento della grazia di Dio. È ciò in cui si riversa, per il suo interno dinamismo, senza che noi lo abbiamo voluto e tantomeno meritato, l’«amore gratuito di Dio», «invincibile e infinito», l’«amore misericordioso del Signore». Nel segno assolutamente fragile ed equivocabile del Bambino adorato dai pastori nella grotta del presepio, dentro il germe a prima vista insignificante di una realtà umana investita dal divino, si addensa la «manifestazione suprema della misericordia di Dio». Gesù (il Signore salva), che nasce in mezzo al fluire delle generazioni umane, è il dono supremo della «gratuità infinita dell’amore di Dio». Non a caso, il simbolismo di linguaggio che ritorna più frequentemente per alludere a questo prendere forma concreta della misericordia di Dio è quello, molto fisico e precisamente luminoso, dell’«irradiamento». La grazia che salva rovesciandosi nella compassione per l’uomo malato e peccatore è come l’espansione materiale della carità che germoglia dal circuito di relazioni della Trinità. È un amore che si dilata, o come scrive spesso p. Lepori che «fluisce», inondando la realtà della storia che si modella secondo i ritmi del nostro tempo umano da redimere.
Nessun immobilismo evasivo è autorizzato da questa impostazione del dialogo tra noi mendicanti di infinito e la grande Presenza nascosta che fonda la nostra vera speranza. Anche noi «siamo invitati a entrare in questo movimento infinito di Amore trinitario», di cui il Natale ci ha aiutato a fare memoria. L’Amore misericordioso che si china sulla realtà povera del mondo «sta alla porta e bussa». Proprio perché è una realtà oggettiva da riconoscere, sotto i segni umani di cui si riveste per lasciarsi incontrare, noi siamo chiamati ad «accoglierlo». Ce lo mostrano in modo esemplare i gesti di adorazione dei pastori nella Notte Santa, la visita dei Magi, prima ancora la tenace pazienza del servizio materno di Maria. Nell’umiltà semplicissima di questa accettazione si pone l’inizio che può fiorire nel legame, tenero e appassionato, di quello che p. Lepori identifica, molto concretamente, con la densità umana di una «relazione». L’umanità in cui risplende la presenza sensibile di Cristo si prolunga fino a noi e ci tocca, là dove si svolge la nostra esistenza abbracciata dalla realtà della Chiesa vivente. In quanto realtà umana di un Corpo in cui si viene innestati, l’amore per il segno che lo rivela genera da sé una «relazione di amore e di obbedienza», fondata su una «fede fiduciosa» come quella che la Madre di Cristo ha lasciato crescere in lei stando di fronte al Figlio portato nel proprio grembo, «adorandolo» nella semplicità di una carità che investiva tutta la sua esistenza, fino ai suoi risvolti più quotidiani e materiali.
La bellezza di questa «relazione» coinvolgente sta nella positività umana che trascina con sé come promessa. Al fluire della grazia che raggiunge l’uomo attraverso l’offerta di Cristo per la nostra salvezza corrisponde l’eco perfettamente consonante del registro affettivo della «gioia»: la sobria e composta letizia cristiana. Lo sfondo su cui muove la dinamica del rapporto tra l’uomo e Dio è sempre e soltanto la «gioia di essere salvati»: la «salvezza è la nostra vera gioia». La promessa, alla fine, è quella di una realtà umana ricondotta al suo ordine vero, al suo fine e al suo destino, dentro una pace che rimette a posto le cose e restituisce dignità e significato anche alla fatica e alla sopportazione del limite che non si può estirpare. La vita del cristiano trasfigurata dalla carità di Dio è una luce che si irradia a sua volta nello spazio del mondo. Da qui nasce la missione: come una «sovrabbondanza di gioia» che trabocca e rifluisce in una carità aperta a tutti, senza confini, a partire da ciò che è più comune e ci rende familiari all’intero nostro prossimo: il lavoro, la casa, la convivenza nella società. La «riconciliazione, l’amore fraterno, la comunione» tra i cristiani sono il primo grande segno dell’irradiamento contagioso dell’adorazione di Cristo, senza il quale la missione della Chiesa è privata della sua sostanza umana più persuasiva e illanguidisce. Stando «davanti a Cristo, la saggezza che adora si riposa e s’infiamma nella carità».
DAL IV SECOLO SI FA CARICO DI MALATI E PELLEGRINI - Il sapere lungo della Chiesa nella cura e nell’amore alla vita - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 4 marzo 2009
L’ assistenza sanitaria per il popolo e i luoghi del ricovero e della cura sono sorti e cresciuti con il cristianesimo. Nell’antichità non esisteva che l’intraprendenza di singoli terapeuti, 'liberi professionisti' a pagamento e disponibili solo a pochi fortunati. Il Concilio di Nicea (325 d.C.) stabilì che ogni vescovato e monastero istituisse ospizi (xenodochi) aperti a tutti i pellegrini, i poveri e i malati. Più tardi, l’ospedale nascerà come 'Hotel-Dieu' o 'Ca’ Granda', casa di accoglienza e assistenza 'per l’amor di Dio e del prossimo'. Quando ancora non erano disponibili terapie efficaci per guarire, il 'prendersi cura' evangelico del samaritano ha anticipato e aperto la strada alla medicina moderna. Fosse solo per questo, la Chiesa, che nei secoli ha dedicato innumerevoli donne e uomini e cospicui mezzi per curare gli infermi, avrebbe buon titolo per parlare della malattia e della fine della vita. Se la Chiesa è 'esperta in umanità', essa lo è, a maggior forza, in umanità malata e sofferente. A partire da questa esperienza e attraverso l’esercizio della ragione illuminata dalla fede, la Chiesa ha anche sviluppato un pensiero organico e ragionevole sul valore individuale e sociale della vita umana, il senso della salute e della malattia, e i diritti e doveri nella relazione pazientemedico. Nell’arduo compito di servire il bene comune, quello di ognuno e di tutti, la Chiesa ha custodito ed educato uno sguardo vero sulla vita dell’uomo, che di essa non censura alcun fattore, tanto meno la dimensione costitutiva della responsabilità personale di fronte alla vita e alla morte. Quando chi parla autenticamente a nome della Chiesa italiana invita a considerare con attenzione la 'verità etica' che 'togliere l’alimentazione e l’idratazione ad una persona, per di più malata, è determinarla verso un inaccettabile epilogo eutanasico', non esprime un giudizio di ragione pratica solo personale o frutto di una consultazione di circostanza. Le sue parole danno voce all’esperienza e all’intelligenza della cura dei malati, anche (e un tempo quasi tutti) non guaribili, la cui lunga tradizione di amorevole accoglienza ha istruito la Chiesa e fatto scaturire il suo magistero. Un tesoro di esperienza e di sapienza da cui estrarre 'cose antiche' e 'cose nuove', certo, ma che merita anzitutto di essere compreso appieno nella sue ragioni e nella storia che gli è stata maestra.
Così facendo si scoprirebbe che la cura del corpo del malato, la forma elementare ma imprescindibile dell’amore alla sua persona, ha preceduto di molti secoli i tentativi di restituirgli la salute attraverso una terapia. Da sempre, il gesto più concreto verso i poveri e gli ammalati è stato quello di dare loro un tetto, un letto e del cibo. E quando non potevano portarlo da solo alla bocca, le prime, rudimentali nozioni apprese da medici e infermieri erano quelle di come aiutarlo a non disidratarsi e perdere le sue forze, perché questo lo avrebbe portato a morte certa e anzitempo. Il resto, fino ai potenti mezzi ordinari e straordinari della terapia farmacologica, radiologica e chirurgica odierna, si è aggiunto in seguito, nulla togliendo al valore imprescindibile e originario della cura, senza la quale non vi è amore concreto alla vita della persona malata. La scelta dei mezzi terapeutici per affrontare la malattia è affidata al medico e al suo rapporto personale con il paziente, e la rinuncia ad essi può essere lecita, o addirittura doverosa, qualora si configuri un inaccettabile accanimento terapeutico. Il magistero recente, pur evidenziando le insidie dell’uso sproporzionato delle moderne terapie, ha più volte sottolineato come non si 'può giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e propria eutanasia per omissione' (Giovanni Paolo II, 2004). Terapia, cura e amore alla vita del malato si fondono nel vissuto quotidiano della medicina.
Mentre la prima è legata alle condizioni del paziente, la seconda non può mai venire meno senza che si perda l’ultima ma fondamentale dimensione dell’atto medico in quanto atto umano.