Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il papa si confessa. Un cardinale lo spiega - Nella lettera in cui ha difeso la revoca della scomunica ai lefebvriani, Benedetto XVI ha confermato gli obiettivi irrinunciabili del suo pontificato. Il cardinale Ruini li ha analizzati a uno a uno. Ecco quali sono e perché - di Sandro Magister
2) Salviamo il Darfur - Mario Mauro - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
3) TEOLOGIA/ Inos Biffi: la grande ed umile avventura di “dire Dio” nel medioevo - INT. Inos Biffi - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
4) LEFEBVRIANI/ Ecco come il Papa ha riaperto il cuore dei cristiani - Mons. Massimo Camisasca - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
5) Mons. Fisichella sulla vicenda della bambina brasiliana violentata
Il papa si confessa. Un cardinale lo spiega - Nella lettera in cui ha difeso la revoca della scomunica ai lefebvriani, Benedetto XVI ha confermato gli obiettivi irrinunciabili del suo pontificato. Il cardinale Ruini li ha analizzati a uno a uno. Ecco quali sono e perché - di Sandro Magister
ROMA, 16 marzo 2009 – L'impressionante lettera che Benedetto XVI ha scritto sei giorni fa ai vescovi di tutto il mondo è molto più che un'occasionale risposta alla "valanga di proteste" contro la sua decisione di revocare la scomunica ai lefebvriani.
È una lettera che ricorda quelle di Paolo e dei Padri apostolici. Non a caso il papa vi ha citato la lettera ai Galati (nell'illustrazione, il suo inizio in un papiro egiziano dell'anno 200). Erano testi rivolti a comunità cristiane concrete, di cui prendevano di petto le debolezze e le lacerazioni. Ma anche andavano dritti ai fondamenti della fede, dicevano ciò per cui la Chiesa sta o cade.
Benedetto XVI ha fatto lo stesso. Nella sua lettera non ha taciuto nulla delle contestazioni che l'hanno colpito. Ma ha anche scritto ciò che per lui vale più di ogni cosa, in queste poche righe fulminanti:
"Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l'unità dei credenti".
La lettera del 10 marzo 2009 è quindi un testo capitale per capire il pontificato di Joseph Ratzinger. Segna la strada che egli sta percorrendo deciso, senza deflettere in nulla sotto i colpi della contestazione.
Proprio nei giorni in cui Benedetto XVI stava scrivendo la sua lettera, c'è stato un cardinale che ha provato, di sua iniziativa, a decifrare il senso profondo di questo pontificato, a individuarne le "priorità" e a spiegarle a una platea di ascoltatori, in una conferenza pubblica.
"La prima e maggiore priorità è Dio stesso", ha esordito, quasi con le stesse parole di Benedetto XVI nella sua lettera.
La stupefacente sintonia tra l'analisi del cardinale e la confessione che il papa ha fatto di sé, nella lettera, induce a leggere per esteso il testo della conferenza.
Il cardinale è Camillo Ruini, che fino a un anno fa è stato il vicario di Benedetto XVI nel reggere la diocesi di Roma.
Ha tenuto la conferenza il 1 marzo 2009 a Vicenza, nella scuola di cultura cattolica "Mariano Rumor".
Le priorità del pontificato di Benedetto XVI
di Camillo Ruini
Nell'omelia di inizio del pontificato, Benedetto XVI affermava di non avere un proprio programma, se non quello che ci viene dal Signore Gesù Cristo. Era questo un chiaro richiamo a ciò che è essenziale nel cristianesimo. Il nuovo pontificato si poneva inoltre nella continuità sostanziale con quello di Giovanni Paolo II, di cui Joseph Ratzinger era stato, per i contenuti decisivi, il primo collaboratore.
In questo quadro non è difficile individuare alcune priorità del pontificato di Benedetto XVI.
La prima e maggiore priorità è Dio stesso, quel Dio che troppo facilmente viene messo al margine della nostra vita, protesa al "fare", soprattutto mediante la "tecno-scienza", e al godere-consumare. Quel Dio, anzi, che è espressamente negato da una "metafisica" evoluzionistica che riduce tutto alla natura, cioè alla materia-energia, al caso (le mutazioni casuali) e alla necessità (la selezione naturale), o più frequentemente è dichiarato non conoscibile in base al principio che "latet omne verum", ogni verità è nascosta, in conseguenza della restrizione degli orizzonti della nostra ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile, secondo la linea oggi prevalente. Quel Dio, infine, di cui è stata proclamata la "morte", con l'affermarsi del nichilismo e con la conseguente caduta di tutte le certezze.
Il primo impegno del pontificato è dunque riaprire la strada a Dio: non però facendosi dettare l'agenda da coloro che in Dio non credono e contano soltanto su se stessi. Al contrario, l'iniziativa appartiene a Dio e questa iniziativa ha un nome, Gesù Cristo: Dio si rivela in qualche modo a noi nella natura e nella coscienza, ma in maniera diretta e personale si è rivelato ad Abramo, a Mosè, ai profeti dell'Antico Testamento, e in maniera inaudita si è rivelato nel Figlio, nell'incarnazione, croce e risurrezione di Cristo. Vi sono dunque due vie, quella della nostra ricerca di Dio e quella di Dio che viene alla ricerca di noi, ma soltanto quest'ultima ci permette di conoscere il volto di Dio, il suo mistero intimo, il suo atteggiamento verso di noi.
Giungiamo così alla seconda priorità del pontificato: la preghiera. Non soltanto quella personale ma anche e soprattutto quella "nel" e "del" popolo di Dio e corpo di Cristo, ossia la preghiera liturgica della Chiesa.
Nella prefazione al primo volume delle sue "Opera omnia", uscito da poco in lingua tedesca, Benedetto XVI scrive: "La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l'attività centrale della mia vita ed è diventata anche il centro del mio lavoro teologico". Possiamo aggiungere che oggi è il centro del suo pontificato.
Arriviamo così a un punto controverso, specialmente dopo il motu proprio che consente l'uso della liturgia preconciliare e ancor più dopo la remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Già in precedenza però Joseph Ratzinger aveva chiarito questo punto molto bene. Egli è stato uno dei grandi sostenitori del movimento liturgico che ha preparato il Concilio e uno dei protagonisti del Vaticano II, e tale è sempre rimasto. Fin dall'attuazione della riforma liturgica nei primi anni del dopo-Concilio, egli aveva contestato però la proibizione dell'uso del messale di San Pio V, vedendovi una causa di sofferenza non necessaria per tante persone amanti di quella liturgia, oltre che una rottura rispetto alla prassi precedente della Chiesa che, in occasione delle riforme della liturgia succedutesi nella storia, non aveva proibito l'uso delle liturgie fino allora in uso. Da pontefice ha pertanto ritenuto di dover rimediare a questo inconveniente consentendo più facilmente l'uso del rito romano nella sua forma preconciliare. Lo spingeva a questo anche il suo dovere fondamentale di promotore dell'unità della Chiesa. Si muoveva inoltre nella linea già iniziata da Giovanni Paolo II. In questo spirito la remissione della scomunica è stata concessa per facilitare il ritorno dei lefebvriani, ma non certamente per rinunciare alla condizione decisiva di questo ritorno, che è la piena accettazione del Concilio Vaticano II, compresa la validità della messa celebrata secondo il messale di Paolo VI.
In positivo Benedetto XVI ha precisato l'interpretazione del Vaticano II nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, prendendo le distanze da una "ermeneutica della rottura", che ha due forme: una prevalente, in base alla quale il Concilio costituirebbe una novità radicale e sarebbe importante "lo spirito del Concilio" ben più della lettera dei suoi testi; l'altra, contrapposta, per la quale conterebbe soltanto la tradizione precedente al Concilio, rispetto a cui il Concilio avrebbe rappresentato una rottura densa di conseguenze funeste, come sostengono appunto i lefebvriani.
Benedetto XVI propone invece l'"ermeneutica della riforma", ossia della novità nella continuità, sostenuta già da Paolo VI e Giovanni Paolo II: il Concilio costituisce cioè una grande novità ma nella continuità dell'unica tradizione cattolica. Soltanto questo tipo di ermeneutica è teologicamente sostenibile e pastoralmente fruttuoso.
Abbiamo messo a fuoco così un'ulteriore priorità del pontificato: promuovere l'attuazione del Concilio, sulla base di questa ermeneutica.
Nella medesima prospettiva, possiamo parlare di una "priorità cristologica" o "cristocentrica" del pontificato. Essa si esprime in particolare nel libro "Gesù di Nazaret", impegno non consueto per un papa, al quale Benedetto XVI dedica "tutti i momenti liberi". Gesù Cristo infatti è la via a Dio Padre, è la sostanza del cristianesimo, è il nostro unico Salvatore.
Perciò è terribilmente pericoloso il distacco tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, distacco che è frutto di un'assolutizzazione unilaterale del metodo storico-critico e più precisamente di un impiego di questo metodo sulla base del presupposto che Dio non agisca nella storia. Un tale presupposto, già da solo, rappresenta infatti la negazione dei Vangeli e del cristianesimo. Anche in questo caso si tratta di allargare gli spazi della razionalità, dando credito a una ragione aperta, e non chiusa, alla presenza di Dio nella storia. Questo libro ci mette in contatto con Gesù e così ci introduce nella sostanza, nella profondità e novità del cristianesimo: leggerlo è un impegno che costa un po' di fatica ma che ripaga abbondantemente.
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A questo punto possiamo ritornare alla prima priorità, Dio, per prendere in considerazione l'impegno anche razionale e culturale di Benedetto XVI al fine di allargare a Dio la ragione contemporanea e di fare spazio a Dio nei comportamenti e nella vita personale e sociale, pubblica e privata: sono particolarmente importanti qui il discorso di Ratisbona, quello più recente di Parigi e anche quello di Verona del 2006.
Quanto alla ragione contemporanea, Benedetto XVI sviluppa una "critica dall'interno" della razionalità scientifico-tecnologica, che oggi esercita una leadership culturale. La critica non riguarda questa razionalità in se stessa, che ha anzi grande valore e grandi meriti, dato che ci fa conoscere la natura e noi stessi come mai era stato possibile prima e ci permette di migliorare enormemente le condizioni pratiche della nostra vita. Riguarda invece la sua assolutizzazione, come se questa razionalità costituisse l'unica conoscenza valida della realtà.
Tale assolutizzazione non proviene dalla scienza come tale, né dai grandi uomini di scienza, che ben conoscono i limiti della scienza stessa, bensì da una "vulgata" oggi molto diffusa e influente, che però non è la scienza ma una sua interpretazione filosofica, piuttosto vecchia e superficiale. La scienza infatti deve i suoi successi alla sua rigorosa limitazione metodologica a ciò che è sperimentabile e calcolabile. Se però questa limitazione viene universalizzata, applicandola non solo alla ricerca scientifica ma alla ragione e alla conoscenza umana come tali, essa diventa insostenibile e disumana, dato che ci impedirebbe di interrogarci razionalmente sulle domande decisive della nostra vita, che riguardano il senso e lo scopo per cui esistiamo, l'orientamento da dare alla nostra esistenza, e ci costringerebbe ad affidare la risposta a queste domande soltanto ai nostri sentimenti o a scelte arbitrarie, distaccate dalla ragione. È questo, forse il problema più profondo e anche il dramma della nostra attuale civiltà.
Joseph Ratzinger-Benedetto XVI fa un passo in più, mostrando che la riflessione sulla struttura stessa della conoscenza scientifica apre la strada verso Dio.
Una caratteristica fondamentale di tale conoscenza è infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: si ottengono così i risultati giganteschi e sempre crescenti che la scienza mette a nostra disposizione. La matematica è però un frutto puro e "astratto" della nostra razionalità, che si spinge al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare e rappresentare sensibilmente: così avviene in particolare nella fisica quantistica – dove una medesima formulazione matematica corrisponde all'immagine di un'onda e al tempo stesso di un corpuscolo – e nella teoria della relatività, che implica l'immagine della "curvatura" dello spazio. La corrispondenza tra matematica e strutture reali dell'universo, senza la quale le nostre previsioni scientifiche non si avvererebbero e le tecnologie non funzionerebbero, implica dunque che l'universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la ragione che è in noi e la ragione "oggettivata" nella natura, ossia intrinseca alla natura stessa. Dobbiamo chiederci però come questa corrispondenza sia possibile: emerge così l'ipotesi di un'Intelligenza creatrice, che sia l'origine comune della natura e della nostra razionalità. L'analisi, non scientifica ma filosofica, delle condizioni che rendono possibile la scienza ci riporta dunque verso il "Logos", il Verbo di cui parla san Giovanni all'inizio del suo Vangelo.
Benedetto XVI non è però un razionalista, conosce bene gli ostacoli che oscurano la nostra ragione, la "strana penombra" in cui viviamo. Perciò, anche a livello filosofico, non propone il ragionamento che abbiamo visto come una dimostrazione apodittica, ma come "l'ipotesi migliore", che richiede da parte nostra "di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell'ascolto umile": il contrario dunque di quell'atteggiamento oggi diffuso che viene chiamato "scientismo".
Allo stesso modo non può essere presentata come "scientifica" la riduzione dell'uomo a un prodotto della natura, in ultima analisi omogeneo agli altri, negando quella differenza qualitativa che caratterizza la nostra intelligenza e la nostra libertà. Una simile riduzione costituisce in realtà il capovolgimento totale del punto di partenza della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione del soggetto umano, della sua ragione e della sua libertà.
Perciò, come Benedetto XVI ha detto a Verona, la fede cristiana proprio oggi si pone come il "grande sì" all'uomo, alla sua ragione e alla sua libertà, in un contesto socio-culturale nel quale la libertà individuale viene enfatizzata sul piano sociale facendone il criterio supremo di ogni scelta etica e giuridica, in particolare nell'"etica pubblica", salvo però negare la libertà stessa come realtà a noi intrinseca, cioè come nostra capacità personale di scegliere e di decidere, al di là dei condizionamenti ed automatismi biologici, psicologici, ambientali, esistenziali.
Proprio il ristabilimento di un genuino concetto di libertà è un'altra priorità del pontificato, l'ultima di cui parlerò.
Essa riguarda la vita personale e sociale, le strutture pubbliche come i comportamenti personali. Benedetto XVI contesta cioè quell'etica e quella concezione del ruolo dello Stato e della sua laicità che egli stesso ha definito "dittatura del relativismo", per la quale non esisterebbe più qualcosa che sia bene o male in se stesso, oggettivamente, ma tutto dovrebbe subordinarsi alle nostre scelte personali, che diventano automaticamente "diritti di libertà". Vengono escluse così, almeno a livello pubblico, non solo le norme etiche del cristianesimo e di ogni altra tradizione religiosa, ma anche le indicazioni etiche che si fondano sulla natura dell'uomo, cioè sulla realtà profonda del nostro essere. È questa una cesura radicale, un autentico taglio, rispetto alla storia dell'umanità: una cesura che isola l'Occidente secolarizzato dal resto del mondo.
In realtà la libertà personale è intrinsecamente relativa alle altre persone e alla realtà, è libertà non solo "da" ma "con" e "per", è libertà condivisa che si realizza soltanto unitamente alla responsabilità. In concreto, Benedetto XVI è talvolta accusato di insistere unilateralmente sui temi antropologici e bioetici, come la famiglia e la vita umana, ma in realtà egli insiste analogamente sui temi sociali ed ecologici (certamente senza indulgere ad "inquinamenti ideologici"). Proprio ai temi sociali sarà dedicata la sua terza enciclica ormai imminente. La radice comune di questa duplice insistenza è il "sì" di Dio all'uomo in Gesù Cristo, e in concreto è l'etica cristiana dell'amore del prossimo, a cominciare dai più deboli.
Concludo tornando all'inizio. Parlando a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger invitava tutti, anche quegli uomini di buona volontà che non riescono a credere, a vivere "veluti si Deus daretur", come se Dio esistesse. Ma al tempo stesso affermava la necessità di uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio e in base a questo sguardo si comportino nella vita. Soltanto così infatti Dio potrà tornare nel mondo. È questo il senso e lo scopo dell'attuale pontificato.
Salviamo il Darfur - Mario Mauro - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
«È una liberazione che premia uno sforzo comune, uno sforzo di tutte le autorità, anche locali, che ovviamente hanno lavorato sin dal primo minuto».
La notizia della liberazione dei quattro membri di Medici Senza Frontiere Belgio rapiti mercoledì scorso nel Nord Darfur annunciata sabato dal Ministro degli Esteri Franco Frattini riempie di fiducia tutta la comunità internazionale nella difficile prospettiva di voltare pagina e incominciare una nuova politica per il Darfur che rappresenta una delle più gravi, e purtroppo ignorate, tragedie umanitarie in corso nel continente africano.
Lo ha sottolineato già qualche giorno fa Barack Obama: è «inaccettabile» l’espulsione dal Darfur delle Ong da parte del Sudan, frutto del mandato di arresto che la Corte Penale Internazionale dell'Aia (Cpi) ha inviato conto il presidente sudanese Omar Al Bashir, per crimini di guerra e contro l'umanità commessi nella regione. Per questo «è importante dalla nostra prospettiva inviare un messaggio internazionale forte e unito che non è accettabile mettere a rischio le vite di molte persone, che dobbiamo essere in grado di far tornare sul terreno queste organizzazioni umanitarie».
Siamo di fronte al rischio concreto di una catastrofe umanitaria, se facciamo solo una passo indietro la crisi nel Darfur si dimostrerà di proporzioni immani e milioni di persone continueranno a vivere quotidianamente nel terrore della fame e della morte. È più che mai necessaria l’azione di tutti per contrastare il fanatismo politico e religioso dei seguaci di Al Bashir.
Anche il Parlamento europeo su iniziativa di 10 membri del Ppe ha approvato una Risoluzione nella quale ribadisce come dopo l'emissione del mandato di arresto, il governo del Sudan ha ripetutamente rifiutato di cooperare con il Tpi e ha anzi moltiplicato gli atti di sfida nei confronti del Tribunale e della comunità internazionale, condanna fermamente l'espulsione di 13 agenzie umanitarie da Khartum in reazione al mandato di arresto internazionale emesso dal Tpi contro il presidente del Sudan Omar Hassan Al-Bashir il 4 marzo 2009, ribadisce di sostenere e rispettare pienamente il Tpi e il suo ruolo chiave nella promozione della giustizia internazionale, nel superamento del clima di impunità per i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra e nel rispetto del diritto umanitario internazionale, nonché alla luce della sua decisione di emettere un mandato di arresto contro il presidente del Sudan Omar Hassan Al-Bashir, accusato di aver commesso crimini contro l'umanità e crimini di guerra in Darfur, esprime profonda preoccupazione per l'impatto immediato di tali espulsioni sulla fornitura di aiuti umanitari vitali per centinaia di migliaia di persone, esige che il governo del Sudan annulli con effetto immediato la sua decisione di espellere le 13 agenzie umanitarie e consenta a queste ultime di proseguire le loro attività, essenziali per la sopravvivenza delle popolazioni vulnerabili del Darfur; invita il Consiglio e la Commissione a intensificare gli sforzi nei confronti dell'Unione africana, della Lega araba e della Cina perché convincano il governo sudanese a procedere in tal senso.
La Risoluzione chiede inoltre all'Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite e al Tpi, qualora il Sudan non proceda all'annullamento della decisione di espellere le agenzie umanitarie, di valutare se tale decisione implichi una violazione dei diritti umani fondamentali e possa essere considerata come un crimine di guerra.
Molto importante poi il passaggio in cui chiede al procuratore del Tpi di precisare che, qualora in Darfur vengano commessi atti di violenza nei confronti di membri delle forze di pace, agenzie umanitarie o campi, il Tpi indagherà sui responsabili, che rischieranno di essere accusati di crimini di guerra al pari di Al-Bashir.
La Risoluzione si conclude con l’esortazione al governo del Sudan sia ad adottare misure concrete per garantire che i difensori dei diritti umani in Sudan non siano perseguitati qualora esprimano il proprio sostegno alla decisione del Tpi, sia ad astenersi da qualunque angheria o intimidazione nei loro confronti.
Non un passo indietro quindi rispetto alla decisione di condannare il criminale di guerra Al Bashir. Allo stesso tempo la riapertura di centri per la riabilitazione delle vittime di violenza e il ritorno delle Ong deve costituire la nostra priorità.
Le agenzie umanitarie in Darfur stanno gestendo la più grande operazione umanitaria del mondo: secondo i dati delle Nazioni Unite, 4,7 milioni di persone, tra cui 2,7 milioni di sfollati interni, necessitano di assistenza, l'espulsione delle agenzie umanitarie porterebbe a un incremento della mortalità e della morbosità a causa dell'interruzione dei servizi di assistenza sanitaria e di epidemie di malattie infettive come dissenteria e malattie respiratorie.
Anche il Governo sudanese deve comprendere che questo sporco ricatto è in realtà soltanto una condanna a morte per milioni di sudanesi innocenti, per questo prima di tutto un atto di ignoranza politica, oltre che autolesionismo.
TEOLOGIA/ Inos Biffi: la grande ed umile avventura di “dire Dio” nel medioevo - INT. Inos Biffi - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
È appena uscito il quarto volume della serie Figure del pensiero medievale. Storia della teologia e della filosofia dalla tarda antichità alle soglie dell’umanesimo (coedizione Jaca Book-Città Nuova), intitolato La nuova razionalità. L’opera, dedicata al XIII secolo e composta da saggi dei maggiori specialisti del periodo, tratta della riscoperta di Aristotele in occidente, del pensiero arabo ed ebraico, delle scuole di Parigi e Oxford, dell’impostazione domenicana e francescana, per concludersi con un ampio studio su Tommaso d’Aquino. Nell’introduzione i due curatori, Inos Biffi e Costante Marabelli, citano proprio la risposta di san Tommaso alla domanda se sia lecito e rispettoso «dire Dio», cioè fare teologia: «Dio viene onorato con il silenzio non perché di lui non si dica nulla, o non si indaghi nulla, ma perché, qualunque cosa diciamo o indaghiamo su di lui, siamo consapevoli che abbiamo fallito nella nostra comprensione».
Dunque, chiediamo a Inos Biffi, una ragione consapevole al contempo delle sue potenzialità e dei suoi limiti. È così? Potrebbe spiegare meglio questo nesso così cruciale a partire dal contenuto di questo volume?
Esattamente: una ragione che Dio ha creato, a immagine del Verbo, perché comprenda e quindi perche da un lato trovi le orme di Lui nel creato e dall’altro accolga la Sua Parola, nella consapevolezza delle proprie risorse e del proprio limite. Dio sta sempre oltre l’orizzonte aperto all’intelligenza dell’uomo, ma questo, non che deprimere, stimola la passione dell’uomo per Lui, il desiderio di dirlo, quasi di “balbettarlo”. La teologia è questo desiderio e tentativo di “dire” Dio, a motivo dell’amore che si ha per lui, come risposta al dono della sua Rivelazione, di “dirlo” con la povertà, ma anche con la ricchezza del linguaggio e della forma umana, quasi proseguendo quella narrazione di Dio che è stata fatta dal Figlio suo Gesù Cristo nella storia della sua incarnazione. Per questo il teologo è umile e audace; anzi umile perché audace. E la stessa umiltà e audacia contrassegnano il filosofo, che, grazie alla ragione, si sforza di leggere le tracce di Dio nel mondo. Del resto Tommaso d’Aquino afferma che la ragione è quanto Dio ama di più tra quanto ha creato nell’uomo.
Che lezione viene al cristianesimo attuale dalla posizione appena ricordata. Mi riferisco in particolare alla frase con cui si conclude l’introduzione: «Quando la fede e la ragione si scolleranno, l’umanesimo non avrà da rallegrarsi». Quali le sembrano oggi i sintomi di tale scollamento?
L’accoglienza della Parola di Dio nella fede non è un rifiuto o uno spegnimento della risorsa intellettiva dell’uomo. La Parola di Dio è rivola all’uomo perché conviva in lui, e vi corrisponda con tutto il suo essere e quindi anzitutto con la sua facoltà intellettiva, che si trova risanata e promossa dalla Rivelazione stessa. La ragione fa parte dello stesso progetto unitario che tutto ha creato in Cristo e nella grazia. Chi crede non pensa di meno, ma di più; e chi pensa non crede di meno, ma dispone la sua ragione all’accoglienza. Tommaso dice che in particolare il filosofo – ma anche il teologo – deve evitare la presunzione (praesumptio), che è la madre di tutti gli errori. Se la ragione e la fede si oppongono, la ragione si chiuderebbe in questa presunzione e la fede perderebbe la sua destinazione antropologica. Una ragione “debole” pregiudicherebbe sia il pensare sia l’“intelligenza della fede”. Questa opposizione o debolezza mi pare segnino la nostra epoca culturale.
Questo libro si inserisce in un vasto progetto in sei volumi, di cui era già uscito il secondo, dedicato ai secoli X-XII (La fioritura della dialettica). Quindi attendiamo gli altri quattro che completano «il percorso che va da Agostino all’umanesimo».Qual è l’impostazione di fondo che anima questa monumentale impresa?
L’impostazione di fondo di quella che chiama “monumentale impresa”, alla quale hanno concorso pensatori e storici di tutto il mondo, è quelle di cogliere esattamente l’intelligenza della fede nella relazione alla varietà delle culture in tutto l’immenso spazio dell’epoca medievale – supposto che abbia senso parlare di “medio evo” –. In tal modo si possono avvertire le varie forme assunte dalla teologia (intellettiva, affettiva, estetica, ecc.) e la promozione molteplice ricevuta dalla filosofia stessa e in generale dalla cultura, “liberata” e incentivata a traguardi originali e fecondi.Da questo profilo la storia della teologia è un’avvincente e storia e della filosofia e della cultura.
LEFEBVRIANI/ Ecco come il Papa ha riaperto il cuore dei cristiani - Mons. Massimo Camisasca - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Nella lettera del papa a tutti vescovi della Chiesa Cattolica vi sono due fuochi. Il primo riguarda i fatti più recenti, l’incomprensione del suo atto di misericordia verso i quattro vescovi lefebvriani e tutte le polemiche che ne sono seguite. Amaramente il papa nota di essere stato più capito da alcuni ebrei che da certi suoi figli. C’è una sottile distanza in alcuni settori della Chiesa dallo spirito che muove le decisioni del papa.
Vi è poi un secondo fuoco, ancora più importante, in tutta la lettera. Riguarda la realtà intera della Chiesa e del mondo, la realtà dell’uomo. È una lettura in questo momento storico dei segni dei tempi, come aveva invitato a fare papa Giovanni, riprendendo peraltro una indicazione di Gesù. Può sembrare una lettura pessimista. Nasce invece dalla accorata sollecitudine del padre che vuole guidare la Chiesa verso una nuova pagina della sua missione.
Due mi sembrano le affermazioni centrali: «La fede è nel pericolo di spegnersi, come una fiamma che non ha più nutrimento»; «Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini», e così l’umanità cade in una totale mancanza di orientamento.
Non c’è nessuna preoccupazione di parte in queste parole, non uno spirito clericale, una tesi dogmatica, ma la pura e semplice passione per l’uomo. Il cuore dell’uomo si è raffreddato e il papa desidera che esso possa tornare a riscaldarsi, cioè ad aprirsi a quegli orizzonti che possono illuminare il cammino e permettere di affrontare i drammi del dolore, della morte, della solitudine, ma anche che permettono di gioire della creazione e degli altri doni di Dio.
Il cuore del papa è certamente ferito, ma non vuole rassegnarsi al male. Non ha comandamenti da imporre, censure da operare: vuole riaprire i cuori degli uomini alla promessa, indicare ai cristiani il dovere di testimoniare anche attraverso la loro unità il volto di quel Dio che li ha scelti.
Mons. Fisichella sulla vicenda della bambina brasiliana violentata
ROMA, domenica, 15 marzo 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo per la rubrica di Bioetica l'intervento dell'Arcivescovo Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, sul caso della bambina brasiliana violentata e che ha poi abortito, pubblicato da "L'Osservatore Romano" nella sua edizione del 15 marzo.
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Dalla parte della bambina brasiliana
Il dibattito su alcune questioni si fa spesso serrato e le differenti prospettive non sempre permettono di considerare quanto la posta in gioco sia veramente grande. È questo il momento in cui si deve guardare all'essenziale e, per un attimo, lasciare in disparte ciò che non tocca direttamente il problema. Il caso nella sua drammaticità è semplice. C'è una bambina di soli nove anni - la chiameremo Carmen - che dobbiamo guardare fisso negli occhi senza distrarre lo sguardo neppure un attimo, per farle capire quanto le si vuole bene. Carmen, a Recife, in Brasile, viene violentata ripetutamente dal giovane patrigno, rimane incinta di due gemellini e non avrà più una vita facile. La ferita è profonda perché la violenza del tutto gratuita l'ha distrutta dentro e difficilmente le permetterà in futuro di guardare agli altri con amore.
Carmen rappresenta una storia di quotidiana violenza e ha guadagnato le pagine dei giornali solo perché l'arcivescovo di Olinda e Recife si è affrettato a dichiarare la scomunica per i medici che l'hanno aiutata a interrompere la gravidanza. Una storia di violenza che, purtroppo, sarebbe passata inosservata, tanto si è abituati a subire ogni giorno fatti di una gravità ineguagliabile, se non fosse stato per lo scalpore e le reazioni suscitate dall'intervento del vescovo. La violenza su una donna, già grave di per sé, assume una valenza ancora più deprecabile quando a subirla è una bambina, con l'aggravante della povertà e del degrado sociale in cui vive. Non c'è linguaggio corrispondente per condannare tali episodi, e i sentimenti che ne derivano sono spesso una miscela di rabbia e di rancore che si assopiscono solo quando viene fatta realmente giustizia e la pena inflitta al delinquente di turno ha certezza di essere scontata.
Carmen doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata con dolcezza per farle sentire che eravamo tutti con lei; tutti, senza distinzione alcuna. Prima di pensare alla scomunica era necessario e urgente salvaguardare la sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri. Così non è stato e, purtroppo, ne risente la credibilità del nostro insegnamento che appare agli occhi di tanti come insensibile, incomprensibile e privo di misericordia. È vero, Carmen portava dentro di sé altre vite innocenti come la sua, anche se frutto della violenza, e sono state soppresse; ciò, tuttavia, non basta per dare un giudizio che pesa come una mannaia.
Nel caso di Carmen si sono scontrate la vita e la morte. A causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie la sua vita era in serio pericolo per la gravidanza in atto. Come agire in questi casi? Decisione ardua per il medico e per la stessa legge morale. Scelte come questa, anche se con una casistica differente, si ripetono quotidianamente nelle sale di rianimazione e la coscienza del medico si ritrova sola con se stessa nell'atto di dovere decidere cosa sia meglio fare. Nessuno, comunque, arriva a una decisione di questo genere con disinvoltura; è ingiusto e offensivo il solo pensarlo.
Il rispetto dovuto alla professionalità del medico è una regola che deve coinvolgere tutti e non può consentire di giungere a un giudizio negativo senza prima aver considerato il conflitto che si è creato nel suo intimo. Il medico porta con sé la sua storia e la sua esperienza; una scelta come quella di dover salvare una vita, sapendo che ne mette a serio rischio una seconda, non viene mai vissuta con facilità. Certo, alcuni si abituano alle situazioni così da non provare più neppure l'emozione; in questi casi, però, la scelta di essere medico viene degradata a solo mestiere vissuto senza entusiasmo e subito passivamente. Fare di tutta un'erba un fascio, tuttavia, oltre che scorretto sarebbe ingiusto.
Carmen ha riproposto un caso morale tra i più delicati; trattarlo sbrigativamente non renderebbe giustizia né alla sua fragile persona né a quanti sono coinvolti a diverso titolo nella vicenda. Come ogni caso singolo e concreto, comunque, merita di essere analizzato nella sua peculiarità, senza generalizzazioni. La morale cattolica ha principi da cui non può prescindere, anche se lo volesse. La difesa della vita umana fin dal suo concepimento appartiene a uno di questi e si giustifica per la sacralità dell'esistenza. Ogni essere umano, infatti, fin dal primo istante porta impressa in sé l'immagine del Creatore, e per questo siamo convinti che debbano essergli riconosciuti la dignità e i diritti di ogni persona, primo fra tutti quello della sua intangibilità e inviolabilità.
L'aborto provocato è sempre stato condannato dalla legge morale come un atto intrinsecamente cattivo e questo insegnamento permane immutato ai nostri giorni fin dai primordi della Chiesa. Il concilio Vaticano ii nella Gaudium et spes - documento di grande apertura e accortezza in riferimento al mondo contemporaneo - usa in maniera inaspettata parole inequivocabili e durissime contro l'aborto diretto. La stessa collaborazione formale costituisce una colpa grave che, quando è realizzata, porta automaticamente al di fuori della comunità cristiana. Tecnicamente, il Codice di diritto canonico usa l'espressione latae sententiae per indicare che la scomunica si attua appunto nel momento stesso in cui il fatto avviene.
Non c'era bisogno, riteniamo, di tanta urgenza e pubblicità nel dichiarare un fatto che si attua in maniera automatica. Ciò di cui si sente maggiormente il bisogno in questo momento è il segno di una testimonianza di vicinanza con chi soffre, un atto di misericordia che, pur mantenendo fermo il principio, è capace di guardare oltre la sfera giuridica per raggiungere ciò che il diritto stesso prevede come scopo della sua esistenza: il bene e la salvezza di quanti credono nell'amore del Padre e di quanti accolgono il vangelo di Cristo come i bambini, che Gesù chiamava accanto a sé e stringeva tra le sue braccia dicendo che il regno dei cieli appartiene a chi è come loro.
Carmen, stiamo dalla tua parte. Condividiamo con te la sofferenza che hai provato, vorremmo fare di tutto per restituirti la dignità di cui sei stata privata e l'amore di cui avrai ancora più bisogno. Sono altri che meritano la scomunica e il nostro perdono, non quanti ti hanno permesso di vivere e ti aiuteranno a recuperare la speranza e la fiducia. Nonostante la presenza del male e la cattiveria di molti.
1) Il papa si confessa. Un cardinale lo spiega - Nella lettera in cui ha difeso la revoca della scomunica ai lefebvriani, Benedetto XVI ha confermato gli obiettivi irrinunciabili del suo pontificato. Il cardinale Ruini li ha analizzati a uno a uno. Ecco quali sono e perché - di Sandro Magister
2) Salviamo il Darfur - Mario Mauro - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
3) TEOLOGIA/ Inos Biffi: la grande ed umile avventura di “dire Dio” nel medioevo - INT. Inos Biffi - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
4) LEFEBVRIANI/ Ecco come il Papa ha riaperto il cuore dei cristiani - Mons. Massimo Camisasca - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
5) Mons. Fisichella sulla vicenda della bambina brasiliana violentata
Il papa si confessa. Un cardinale lo spiega - Nella lettera in cui ha difeso la revoca della scomunica ai lefebvriani, Benedetto XVI ha confermato gli obiettivi irrinunciabili del suo pontificato. Il cardinale Ruini li ha analizzati a uno a uno. Ecco quali sono e perché - di Sandro Magister
ROMA, 16 marzo 2009 – L'impressionante lettera che Benedetto XVI ha scritto sei giorni fa ai vescovi di tutto il mondo è molto più che un'occasionale risposta alla "valanga di proteste" contro la sua decisione di revocare la scomunica ai lefebvriani.
È una lettera che ricorda quelle di Paolo e dei Padri apostolici. Non a caso il papa vi ha citato la lettera ai Galati (nell'illustrazione, il suo inizio in un papiro egiziano dell'anno 200). Erano testi rivolti a comunità cristiane concrete, di cui prendevano di petto le debolezze e le lacerazioni. Ma anche andavano dritti ai fondamenti della fede, dicevano ciò per cui la Chiesa sta o cade.
Benedetto XVI ha fatto lo stesso. Nella sua lettera non ha taciuto nulla delle contestazioni che l'hanno colpito. Ma ha anche scritto ciò che per lui vale più di ogni cosa, in queste poche righe fulminanti:
"Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l'unità dei credenti".
La lettera del 10 marzo 2009 è quindi un testo capitale per capire il pontificato di Joseph Ratzinger. Segna la strada che egli sta percorrendo deciso, senza deflettere in nulla sotto i colpi della contestazione.
Proprio nei giorni in cui Benedetto XVI stava scrivendo la sua lettera, c'è stato un cardinale che ha provato, di sua iniziativa, a decifrare il senso profondo di questo pontificato, a individuarne le "priorità" e a spiegarle a una platea di ascoltatori, in una conferenza pubblica.
"La prima e maggiore priorità è Dio stesso", ha esordito, quasi con le stesse parole di Benedetto XVI nella sua lettera.
La stupefacente sintonia tra l'analisi del cardinale e la confessione che il papa ha fatto di sé, nella lettera, induce a leggere per esteso il testo della conferenza.
Il cardinale è Camillo Ruini, che fino a un anno fa è stato il vicario di Benedetto XVI nel reggere la diocesi di Roma.
Ha tenuto la conferenza il 1 marzo 2009 a Vicenza, nella scuola di cultura cattolica "Mariano Rumor".
Le priorità del pontificato di Benedetto XVI
di Camillo Ruini
Nell'omelia di inizio del pontificato, Benedetto XVI affermava di non avere un proprio programma, se non quello che ci viene dal Signore Gesù Cristo. Era questo un chiaro richiamo a ciò che è essenziale nel cristianesimo. Il nuovo pontificato si poneva inoltre nella continuità sostanziale con quello di Giovanni Paolo II, di cui Joseph Ratzinger era stato, per i contenuti decisivi, il primo collaboratore.
In questo quadro non è difficile individuare alcune priorità del pontificato di Benedetto XVI.
La prima e maggiore priorità è Dio stesso, quel Dio che troppo facilmente viene messo al margine della nostra vita, protesa al "fare", soprattutto mediante la "tecno-scienza", e al godere-consumare. Quel Dio, anzi, che è espressamente negato da una "metafisica" evoluzionistica che riduce tutto alla natura, cioè alla materia-energia, al caso (le mutazioni casuali) e alla necessità (la selezione naturale), o più frequentemente è dichiarato non conoscibile in base al principio che "latet omne verum", ogni verità è nascosta, in conseguenza della restrizione degli orizzonti della nostra ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile, secondo la linea oggi prevalente. Quel Dio, infine, di cui è stata proclamata la "morte", con l'affermarsi del nichilismo e con la conseguente caduta di tutte le certezze.
Il primo impegno del pontificato è dunque riaprire la strada a Dio: non però facendosi dettare l'agenda da coloro che in Dio non credono e contano soltanto su se stessi. Al contrario, l'iniziativa appartiene a Dio e questa iniziativa ha un nome, Gesù Cristo: Dio si rivela in qualche modo a noi nella natura e nella coscienza, ma in maniera diretta e personale si è rivelato ad Abramo, a Mosè, ai profeti dell'Antico Testamento, e in maniera inaudita si è rivelato nel Figlio, nell'incarnazione, croce e risurrezione di Cristo. Vi sono dunque due vie, quella della nostra ricerca di Dio e quella di Dio che viene alla ricerca di noi, ma soltanto quest'ultima ci permette di conoscere il volto di Dio, il suo mistero intimo, il suo atteggiamento verso di noi.
Giungiamo così alla seconda priorità del pontificato: la preghiera. Non soltanto quella personale ma anche e soprattutto quella "nel" e "del" popolo di Dio e corpo di Cristo, ossia la preghiera liturgica della Chiesa.
Nella prefazione al primo volume delle sue "Opera omnia", uscito da poco in lingua tedesca, Benedetto XVI scrive: "La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l'attività centrale della mia vita ed è diventata anche il centro del mio lavoro teologico". Possiamo aggiungere che oggi è il centro del suo pontificato.
Arriviamo così a un punto controverso, specialmente dopo il motu proprio che consente l'uso della liturgia preconciliare e ancor più dopo la remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Già in precedenza però Joseph Ratzinger aveva chiarito questo punto molto bene. Egli è stato uno dei grandi sostenitori del movimento liturgico che ha preparato il Concilio e uno dei protagonisti del Vaticano II, e tale è sempre rimasto. Fin dall'attuazione della riforma liturgica nei primi anni del dopo-Concilio, egli aveva contestato però la proibizione dell'uso del messale di San Pio V, vedendovi una causa di sofferenza non necessaria per tante persone amanti di quella liturgia, oltre che una rottura rispetto alla prassi precedente della Chiesa che, in occasione delle riforme della liturgia succedutesi nella storia, non aveva proibito l'uso delle liturgie fino allora in uso. Da pontefice ha pertanto ritenuto di dover rimediare a questo inconveniente consentendo più facilmente l'uso del rito romano nella sua forma preconciliare. Lo spingeva a questo anche il suo dovere fondamentale di promotore dell'unità della Chiesa. Si muoveva inoltre nella linea già iniziata da Giovanni Paolo II. In questo spirito la remissione della scomunica è stata concessa per facilitare il ritorno dei lefebvriani, ma non certamente per rinunciare alla condizione decisiva di questo ritorno, che è la piena accettazione del Concilio Vaticano II, compresa la validità della messa celebrata secondo il messale di Paolo VI.
In positivo Benedetto XVI ha precisato l'interpretazione del Vaticano II nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, prendendo le distanze da una "ermeneutica della rottura", che ha due forme: una prevalente, in base alla quale il Concilio costituirebbe una novità radicale e sarebbe importante "lo spirito del Concilio" ben più della lettera dei suoi testi; l'altra, contrapposta, per la quale conterebbe soltanto la tradizione precedente al Concilio, rispetto a cui il Concilio avrebbe rappresentato una rottura densa di conseguenze funeste, come sostengono appunto i lefebvriani.
Benedetto XVI propone invece l'"ermeneutica della riforma", ossia della novità nella continuità, sostenuta già da Paolo VI e Giovanni Paolo II: il Concilio costituisce cioè una grande novità ma nella continuità dell'unica tradizione cattolica. Soltanto questo tipo di ermeneutica è teologicamente sostenibile e pastoralmente fruttuoso.
Abbiamo messo a fuoco così un'ulteriore priorità del pontificato: promuovere l'attuazione del Concilio, sulla base di questa ermeneutica.
Nella medesima prospettiva, possiamo parlare di una "priorità cristologica" o "cristocentrica" del pontificato. Essa si esprime in particolare nel libro "Gesù di Nazaret", impegno non consueto per un papa, al quale Benedetto XVI dedica "tutti i momenti liberi". Gesù Cristo infatti è la via a Dio Padre, è la sostanza del cristianesimo, è il nostro unico Salvatore.
Perciò è terribilmente pericoloso il distacco tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, distacco che è frutto di un'assolutizzazione unilaterale del metodo storico-critico e più precisamente di un impiego di questo metodo sulla base del presupposto che Dio non agisca nella storia. Un tale presupposto, già da solo, rappresenta infatti la negazione dei Vangeli e del cristianesimo. Anche in questo caso si tratta di allargare gli spazi della razionalità, dando credito a una ragione aperta, e non chiusa, alla presenza di Dio nella storia. Questo libro ci mette in contatto con Gesù e così ci introduce nella sostanza, nella profondità e novità del cristianesimo: leggerlo è un impegno che costa un po' di fatica ma che ripaga abbondantemente.
***
A questo punto possiamo ritornare alla prima priorità, Dio, per prendere in considerazione l'impegno anche razionale e culturale di Benedetto XVI al fine di allargare a Dio la ragione contemporanea e di fare spazio a Dio nei comportamenti e nella vita personale e sociale, pubblica e privata: sono particolarmente importanti qui il discorso di Ratisbona, quello più recente di Parigi e anche quello di Verona del 2006.
Quanto alla ragione contemporanea, Benedetto XVI sviluppa una "critica dall'interno" della razionalità scientifico-tecnologica, che oggi esercita una leadership culturale. La critica non riguarda questa razionalità in se stessa, che ha anzi grande valore e grandi meriti, dato che ci fa conoscere la natura e noi stessi come mai era stato possibile prima e ci permette di migliorare enormemente le condizioni pratiche della nostra vita. Riguarda invece la sua assolutizzazione, come se questa razionalità costituisse l'unica conoscenza valida della realtà.
Tale assolutizzazione non proviene dalla scienza come tale, né dai grandi uomini di scienza, che ben conoscono i limiti della scienza stessa, bensì da una "vulgata" oggi molto diffusa e influente, che però non è la scienza ma una sua interpretazione filosofica, piuttosto vecchia e superficiale. La scienza infatti deve i suoi successi alla sua rigorosa limitazione metodologica a ciò che è sperimentabile e calcolabile. Se però questa limitazione viene universalizzata, applicandola non solo alla ricerca scientifica ma alla ragione e alla conoscenza umana come tali, essa diventa insostenibile e disumana, dato che ci impedirebbe di interrogarci razionalmente sulle domande decisive della nostra vita, che riguardano il senso e lo scopo per cui esistiamo, l'orientamento da dare alla nostra esistenza, e ci costringerebbe ad affidare la risposta a queste domande soltanto ai nostri sentimenti o a scelte arbitrarie, distaccate dalla ragione. È questo, forse il problema più profondo e anche il dramma della nostra attuale civiltà.
Joseph Ratzinger-Benedetto XVI fa un passo in più, mostrando che la riflessione sulla struttura stessa della conoscenza scientifica apre la strada verso Dio.
Una caratteristica fondamentale di tale conoscenza è infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: si ottengono così i risultati giganteschi e sempre crescenti che la scienza mette a nostra disposizione. La matematica è però un frutto puro e "astratto" della nostra razionalità, che si spinge al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare e rappresentare sensibilmente: così avviene in particolare nella fisica quantistica – dove una medesima formulazione matematica corrisponde all'immagine di un'onda e al tempo stesso di un corpuscolo – e nella teoria della relatività, che implica l'immagine della "curvatura" dello spazio. La corrispondenza tra matematica e strutture reali dell'universo, senza la quale le nostre previsioni scientifiche non si avvererebbero e le tecnologie non funzionerebbero, implica dunque che l'universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la ragione che è in noi e la ragione "oggettivata" nella natura, ossia intrinseca alla natura stessa. Dobbiamo chiederci però come questa corrispondenza sia possibile: emerge così l'ipotesi di un'Intelligenza creatrice, che sia l'origine comune della natura e della nostra razionalità. L'analisi, non scientifica ma filosofica, delle condizioni che rendono possibile la scienza ci riporta dunque verso il "Logos", il Verbo di cui parla san Giovanni all'inizio del suo Vangelo.
Benedetto XVI non è però un razionalista, conosce bene gli ostacoli che oscurano la nostra ragione, la "strana penombra" in cui viviamo. Perciò, anche a livello filosofico, non propone il ragionamento che abbiamo visto come una dimostrazione apodittica, ma come "l'ipotesi migliore", che richiede da parte nostra "di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell'ascolto umile": il contrario dunque di quell'atteggiamento oggi diffuso che viene chiamato "scientismo".
Allo stesso modo non può essere presentata come "scientifica" la riduzione dell'uomo a un prodotto della natura, in ultima analisi omogeneo agli altri, negando quella differenza qualitativa che caratterizza la nostra intelligenza e la nostra libertà. Una simile riduzione costituisce in realtà il capovolgimento totale del punto di partenza della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione del soggetto umano, della sua ragione e della sua libertà.
Perciò, come Benedetto XVI ha detto a Verona, la fede cristiana proprio oggi si pone come il "grande sì" all'uomo, alla sua ragione e alla sua libertà, in un contesto socio-culturale nel quale la libertà individuale viene enfatizzata sul piano sociale facendone il criterio supremo di ogni scelta etica e giuridica, in particolare nell'"etica pubblica", salvo però negare la libertà stessa come realtà a noi intrinseca, cioè come nostra capacità personale di scegliere e di decidere, al di là dei condizionamenti ed automatismi biologici, psicologici, ambientali, esistenziali.
Proprio il ristabilimento di un genuino concetto di libertà è un'altra priorità del pontificato, l'ultima di cui parlerò.
Essa riguarda la vita personale e sociale, le strutture pubbliche come i comportamenti personali. Benedetto XVI contesta cioè quell'etica e quella concezione del ruolo dello Stato e della sua laicità che egli stesso ha definito "dittatura del relativismo", per la quale non esisterebbe più qualcosa che sia bene o male in se stesso, oggettivamente, ma tutto dovrebbe subordinarsi alle nostre scelte personali, che diventano automaticamente "diritti di libertà". Vengono escluse così, almeno a livello pubblico, non solo le norme etiche del cristianesimo e di ogni altra tradizione religiosa, ma anche le indicazioni etiche che si fondano sulla natura dell'uomo, cioè sulla realtà profonda del nostro essere. È questa una cesura radicale, un autentico taglio, rispetto alla storia dell'umanità: una cesura che isola l'Occidente secolarizzato dal resto del mondo.
In realtà la libertà personale è intrinsecamente relativa alle altre persone e alla realtà, è libertà non solo "da" ma "con" e "per", è libertà condivisa che si realizza soltanto unitamente alla responsabilità. In concreto, Benedetto XVI è talvolta accusato di insistere unilateralmente sui temi antropologici e bioetici, come la famiglia e la vita umana, ma in realtà egli insiste analogamente sui temi sociali ed ecologici (certamente senza indulgere ad "inquinamenti ideologici"). Proprio ai temi sociali sarà dedicata la sua terza enciclica ormai imminente. La radice comune di questa duplice insistenza è il "sì" di Dio all'uomo in Gesù Cristo, e in concreto è l'etica cristiana dell'amore del prossimo, a cominciare dai più deboli.
Concludo tornando all'inizio. Parlando a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger invitava tutti, anche quegli uomini di buona volontà che non riescono a credere, a vivere "veluti si Deus daretur", come se Dio esistesse. Ma al tempo stesso affermava la necessità di uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio e in base a questo sguardo si comportino nella vita. Soltanto così infatti Dio potrà tornare nel mondo. È questo il senso e lo scopo dell'attuale pontificato.
Salviamo il Darfur - Mario Mauro - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
«È una liberazione che premia uno sforzo comune, uno sforzo di tutte le autorità, anche locali, che ovviamente hanno lavorato sin dal primo minuto».
La notizia della liberazione dei quattro membri di Medici Senza Frontiere Belgio rapiti mercoledì scorso nel Nord Darfur annunciata sabato dal Ministro degli Esteri Franco Frattini riempie di fiducia tutta la comunità internazionale nella difficile prospettiva di voltare pagina e incominciare una nuova politica per il Darfur che rappresenta una delle più gravi, e purtroppo ignorate, tragedie umanitarie in corso nel continente africano.
Lo ha sottolineato già qualche giorno fa Barack Obama: è «inaccettabile» l’espulsione dal Darfur delle Ong da parte del Sudan, frutto del mandato di arresto che la Corte Penale Internazionale dell'Aia (Cpi) ha inviato conto il presidente sudanese Omar Al Bashir, per crimini di guerra e contro l'umanità commessi nella regione. Per questo «è importante dalla nostra prospettiva inviare un messaggio internazionale forte e unito che non è accettabile mettere a rischio le vite di molte persone, che dobbiamo essere in grado di far tornare sul terreno queste organizzazioni umanitarie».
Siamo di fronte al rischio concreto di una catastrofe umanitaria, se facciamo solo una passo indietro la crisi nel Darfur si dimostrerà di proporzioni immani e milioni di persone continueranno a vivere quotidianamente nel terrore della fame e della morte. È più che mai necessaria l’azione di tutti per contrastare il fanatismo politico e religioso dei seguaci di Al Bashir.
Anche il Parlamento europeo su iniziativa di 10 membri del Ppe ha approvato una Risoluzione nella quale ribadisce come dopo l'emissione del mandato di arresto, il governo del Sudan ha ripetutamente rifiutato di cooperare con il Tpi e ha anzi moltiplicato gli atti di sfida nei confronti del Tribunale e della comunità internazionale, condanna fermamente l'espulsione di 13 agenzie umanitarie da Khartum in reazione al mandato di arresto internazionale emesso dal Tpi contro il presidente del Sudan Omar Hassan Al-Bashir il 4 marzo 2009, ribadisce di sostenere e rispettare pienamente il Tpi e il suo ruolo chiave nella promozione della giustizia internazionale, nel superamento del clima di impunità per i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra e nel rispetto del diritto umanitario internazionale, nonché alla luce della sua decisione di emettere un mandato di arresto contro il presidente del Sudan Omar Hassan Al-Bashir, accusato di aver commesso crimini contro l'umanità e crimini di guerra in Darfur, esprime profonda preoccupazione per l'impatto immediato di tali espulsioni sulla fornitura di aiuti umanitari vitali per centinaia di migliaia di persone, esige che il governo del Sudan annulli con effetto immediato la sua decisione di espellere le 13 agenzie umanitarie e consenta a queste ultime di proseguire le loro attività, essenziali per la sopravvivenza delle popolazioni vulnerabili del Darfur; invita il Consiglio e la Commissione a intensificare gli sforzi nei confronti dell'Unione africana, della Lega araba e della Cina perché convincano il governo sudanese a procedere in tal senso.
La Risoluzione chiede inoltre all'Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite e al Tpi, qualora il Sudan non proceda all'annullamento della decisione di espellere le agenzie umanitarie, di valutare se tale decisione implichi una violazione dei diritti umani fondamentali e possa essere considerata come un crimine di guerra.
Molto importante poi il passaggio in cui chiede al procuratore del Tpi di precisare che, qualora in Darfur vengano commessi atti di violenza nei confronti di membri delle forze di pace, agenzie umanitarie o campi, il Tpi indagherà sui responsabili, che rischieranno di essere accusati di crimini di guerra al pari di Al-Bashir.
La Risoluzione si conclude con l’esortazione al governo del Sudan sia ad adottare misure concrete per garantire che i difensori dei diritti umani in Sudan non siano perseguitati qualora esprimano il proprio sostegno alla decisione del Tpi, sia ad astenersi da qualunque angheria o intimidazione nei loro confronti.
Non un passo indietro quindi rispetto alla decisione di condannare il criminale di guerra Al Bashir. Allo stesso tempo la riapertura di centri per la riabilitazione delle vittime di violenza e il ritorno delle Ong deve costituire la nostra priorità.
Le agenzie umanitarie in Darfur stanno gestendo la più grande operazione umanitaria del mondo: secondo i dati delle Nazioni Unite, 4,7 milioni di persone, tra cui 2,7 milioni di sfollati interni, necessitano di assistenza, l'espulsione delle agenzie umanitarie porterebbe a un incremento della mortalità e della morbosità a causa dell'interruzione dei servizi di assistenza sanitaria e di epidemie di malattie infettive come dissenteria e malattie respiratorie.
Anche il Governo sudanese deve comprendere che questo sporco ricatto è in realtà soltanto una condanna a morte per milioni di sudanesi innocenti, per questo prima di tutto un atto di ignoranza politica, oltre che autolesionismo.
TEOLOGIA/ Inos Biffi: la grande ed umile avventura di “dire Dio” nel medioevo - INT. Inos Biffi - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
È appena uscito il quarto volume della serie Figure del pensiero medievale. Storia della teologia e della filosofia dalla tarda antichità alle soglie dell’umanesimo (coedizione Jaca Book-Città Nuova), intitolato La nuova razionalità. L’opera, dedicata al XIII secolo e composta da saggi dei maggiori specialisti del periodo, tratta della riscoperta di Aristotele in occidente, del pensiero arabo ed ebraico, delle scuole di Parigi e Oxford, dell’impostazione domenicana e francescana, per concludersi con un ampio studio su Tommaso d’Aquino. Nell’introduzione i due curatori, Inos Biffi e Costante Marabelli, citano proprio la risposta di san Tommaso alla domanda se sia lecito e rispettoso «dire Dio», cioè fare teologia: «Dio viene onorato con il silenzio non perché di lui non si dica nulla, o non si indaghi nulla, ma perché, qualunque cosa diciamo o indaghiamo su di lui, siamo consapevoli che abbiamo fallito nella nostra comprensione».
Dunque, chiediamo a Inos Biffi, una ragione consapevole al contempo delle sue potenzialità e dei suoi limiti. È così? Potrebbe spiegare meglio questo nesso così cruciale a partire dal contenuto di questo volume?
Esattamente: una ragione che Dio ha creato, a immagine del Verbo, perché comprenda e quindi perche da un lato trovi le orme di Lui nel creato e dall’altro accolga la Sua Parola, nella consapevolezza delle proprie risorse e del proprio limite. Dio sta sempre oltre l’orizzonte aperto all’intelligenza dell’uomo, ma questo, non che deprimere, stimola la passione dell’uomo per Lui, il desiderio di dirlo, quasi di “balbettarlo”. La teologia è questo desiderio e tentativo di “dire” Dio, a motivo dell’amore che si ha per lui, come risposta al dono della sua Rivelazione, di “dirlo” con la povertà, ma anche con la ricchezza del linguaggio e della forma umana, quasi proseguendo quella narrazione di Dio che è stata fatta dal Figlio suo Gesù Cristo nella storia della sua incarnazione. Per questo il teologo è umile e audace; anzi umile perché audace. E la stessa umiltà e audacia contrassegnano il filosofo, che, grazie alla ragione, si sforza di leggere le tracce di Dio nel mondo. Del resto Tommaso d’Aquino afferma che la ragione è quanto Dio ama di più tra quanto ha creato nell’uomo.
Che lezione viene al cristianesimo attuale dalla posizione appena ricordata. Mi riferisco in particolare alla frase con cui si conclude l’introduzione: «Quando la fede e la ragione si scolleranno, l’umanesimo non avrà da rallegrarsi». Quali le sembrano oggi i sintomi di tale scollamento?
L’accoglienza della Parola di Dio nella fede non è un rifiuto o uno spegnimento della risorsa intellettiva dell’uomo. La Parola di Dio è rivola all’uomo perché conviva in lui, e vi corrisponda con tutto il suo essere e quindi anzitutto con la sua facoltà intellettiva, che si trova risanata e promossa dalla Rivelazione stessa. La ragione fa parte dello stesso progetto unitario che tutto ha creato in Cristo e nella grazia. Chi crede non pensa di meno, ma di più; e chi pensa non crede di meno, ma dispone la sua ragione all’accoglienza. Tommaso dice che in particolare il filosofo – ma anche il teologo – deve evitare la presunzione (praesumptio), che è la madre di tutti gli errori. Se la ragione e la fede si oppongono, la ragione si chiuderebbe in questa presunzione e la fede perderebbe la sua destinazione antropologica. Una ragione “debole” pregiudicherebbe sia il pensare sia l’“intelligenza della fede”. Questa opposizione o debolezza mi pare segnino la nostra epoca culturale.
Questo libro si inserisce in un vasto progetto in sei volumi, di cui era già uscito il secondo, dedicato ai secoli X-XII (La fioritura della dialettica). Quindi attendiamo gli altri quattro che completano «il percorso che va da Agostino all’umanesimo».Qual è l’impostazione di fondo che anima questa monumentale impresa?
L’impostazione di fondo di quella che chiama “monumentale impresa”, alla quale hanno concorso pensatori e storici di tutto il mondo, è quelle di cogliere esattamente l’intelligenza della fede nella relazione alla varietà delle culture in tutto l’immenso spazio dell’epoca medievale – supposto che abbia senso parlare di “medio evo” –. In tal modo si possono avvertire le varie forme assunte dalla teologia (intellettiva, affettiva, estetica, ecc.) e la promozione molteplice ricevuta dalla filosofia stessa e in generale dalla cultura, “liberata” e incentivata a traguardi originali e fecondi.Da questo profilo la storia della teologia è un’avvincente e storia e della filosofia e della cultura.
LEFEBVRIANI/ Ecco come il Papa ha riaperto il cuore dei cristiani - Mons. Massimo Camisasca - lunedì 16 marzo 2009 – ilsussidiario.net
Nella lettera del papa a tutti vescovi della Chiesa Cattolica vi sono due fuochi. Il primo riguarda i fatti più recenti, l’incomprensione del suo atto di misericordia verso i quattro vescovi lefebvriani e tutte le polemiche che ne sono seguite. Amaramente il papa nota di essere stato più capito da alcuni ebrei che da certi suoi figli. C’è una sottile distanza in alcuni settori della Chiesa dallo spirito che muove le decisioni del papa.
Vi è poi un secondo fuoco, ancora più importante, in tutta la lettera. Riguarda la realtà intera della Chiesa e del mondo, la realtà dell’uomo. È una lettura in questo momento storico dei segni dei tempi, come aveva invitato a fare papa Giovanni, riprendendo peraltro una indicazione di Gesù. Può sembrare una lettura pessimista. Nasce invece dalla accorata sollecitudine del padre che vuole guidare la Chiesa verso una nuova pagina della sua missione.
Due mi sembrano le affermazioni centrali: «La fede è nel pericolo di spegnersi, come una fiamma che non ha più nutrimento»; «Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini», e così l’umanità cade in una totale mancanza di orientamento.
Non c’è nessuna preoccupazione di parte in queste parole, non uno spirito clericale, una tesi dogmatica, ma la pura e semplice passione per l’uomo. Il cuore dell’uomo si è raffreddato e il papa desidera che esso possa tornare a riscaldarsi, cioè ad aprirsi a quegli orizzonti che possono illuminare il cammino e permettere di affrontare i drammi del dolore, della morte, della solitudine, ma anche che permettono di gioire della creazione e degli altri doni di Dio.
Il cuore del papa è certamente ferito, ma non vuole rassegnarsi al male. Non ha comandamenti da imporre, censure da operare: vuole riaprire i cuori degli uomini alla promessa, indicare ai cristiani il dovere di testimoniare anche attraverso la loro unità il volto di quel Dio che li ha scelti.
Mons. Fisichella sulla vicenda della bambina brasiliana violentata
ROMA, domenica, 15 marzo 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo per la rubrica di Bioetica l'intervento dell'Arcivescovo Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, sul caso della bambina brasiliana violentata e che ha poi abortito, pubblicato da "L'Osservatore Romano" nella sua edizione del 15 marzo.
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Dalla parte della bambina brasiliana
Il dibattito su alcune questioni si fa spesso serrato e le differenti prospettive non sempre permettono di considerare quanto la posta in gioco sia veramente grande. È questo il momento in cui si deve guardare all'essenziale e, per un attimo, lasciare in disparte ciò che non tocca direttamente il problema. Il caso nella sua drammaticità è semplice. C'è una bambina di soli nove anni - la chiameremo Carmen - che dobbiamo guardare fisso negli occhi senza distrarre lo sguardo neppure un attimo, per farle capire quanto le si vuole bene. Carmen, a Recife, in Brasile, viene violentata ripetutamente dal giovane patrigno, rimane incinta di due gemellini e non avrà più una vita facile. La ferita è profonda perché la violenza del tutto gratuita l'ha distrutta dentro e difficilmente le permetterà in futuro di guardare agli altri con amore.
Carmen rappresenta una storia di quotidiana violenza e ha guadagnato le pagine dei giornali solo perché l'arcivescovo di Olinda e Recife si è affrettato a dichiarare la scomunica per i medici che l'hanno aiutata a interrompere la gravidanza. Una storia di violenza che, purtroppo, sarebbe passata inosservata, tanto si è abituati a subire ogni giorno fatti di una gravità ineguagliabile, se non fosse stato per lo scalpore e le reazioni suscitate dall'intervento del vescovo. La violenza su una donna, già grave di per sé, assume una valenza ancora più deprecabile quando a subirla è una bambina, con l'aggravante della povertà e del degrado sociale in cui vive. Non c'è linguaggio corrispondente per condannare tali episodi, e i sentimenti che ne derivano sono spesso una miscela di rabbia e di rancore che si assopiscono solo quando viene fatta realmente giustizia e la pena inflitta al delinquente di turno ha certezza di essere scontata.
Carmen doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata con dolcezza per farle sentire che eravamo tutti con lei; tutti, senza distinzione alcuna. Prima di pensare alla scomunica era necessario e urgente salvaguardare la sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri. Così non è stato e, purtroppo, ne risente la credibilità del nostro insegnamento che appare agli occhi di tanti come insensibile, incomprensibile e privo di misericordia. È vero, Carmen portava dentro di sé altre vite innocenti come la sua, anche se frutto della violenza, e sono state soppresse; ciò, tuttavia, non basta per dare un giudizio che pesa come una mannaia.
Nel caso di Carmen si sono scontrate la vita e la morte. A causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie la sua vita era in serio pericolo per la gravidanza in atto. Come agire in questi casi? Decisione ardua per il medico e per la stessa legge morale. Scelte come questa, anche se con una casistica differente, si ripetono quotidianamente nelle sale di rianimazione e la coscienza del medico si ritrova sola con se stessa nell'atto di dovere decidere cosa sia meglio fare. Nessuno, comunque, arriva a una decisione di questo genere con disinvoltura; è ingiusto e offensivo il solo pensarlo.
Il rispetto dovuto alla professionalità del medico è una regola che deve coinvolgere tutti e non può consentire di giungere a un giudizio negativo senza prima aver considerato il conflitto che si è creato nel suo intimo. Il medico porta con sé la sua storia e la sua esperienza; una scelta come quella di dover salvare una vita, sapendo che ne mette a serio rischio una seconda, non viene mai vissuta con facilità. Certo, alcuni si abituano alle situazioni così da non provare più neppure l'emozione; in questi casi, però, la scelta di essere medico viene degradata a solo mestiere vissuto senza entusiasmo e subito passivamente. Fare di tutta un'erba un fascio, tuttavia, oltre che scorretto sarebbe ingiusto.
Carmen ha riproposto un caso morale tra i più delicati; trattarlo sbrigativamente non renderebbe giustizia né alla sua fragile persona né a quanti sono coinvolti a diverso titolo nella vicenda. Come ogni caso singolo e concreto, comunque, merita di essere analizzato nella sua peculiarità, senza generalizzazioni. La morale cattolica ha principi da cui non può prescindere, anche se lo volesse. La difesa della vita umana fin dal suo concepimento appartiene a uno di questi e si giustifica per la sacralità dell'esistenza. Ogni essere umano, infatti, fin dal primo istante porta impressa in sé l'immagine del Creatore, e per questo siamo convinti che debbano essergli riconosciuti la dignità e i diritti di ogni persona, primo fra tutti quello della sua intangibilità e inviolabilità.
L'aborto provocato è sempre stato condannato dalla legge morale come un atto intrinsecamente cattivo e questo insegnamento permane immutato ai nostri giorni fin dai primordi della Chiesa. Il concilio Vaticano ii nella Gaudium et spes - documento di grande apertura e accortezza in riferimento al mondo contemporaneo - usa in maniera inaspettata parole inequivocabili e durissime contro l'aborto diretto. La stessa collaborazione formale costituisce una colpa grave che, quando è realizzata, porta automaticamente al di fuori della comunità cristiana. Tecnicamente, il Codice di diritto canonico usa l'espressione latae sententiae per indicare che la scomunica si attua appunto nel momento stesso in cui il fatto avviene.
Non c'era bisogno, riteniamo, di tanta urgenza e pubblicità nel dichiarare un fatto che si attua in maniera automatica. Ciò di cui si sente maggiormente il bisogno in questo momento è il segno di una testimonianza di vicinanza con chi soffre, un atto di misericordia che, pur mantenendo fermo il principio, è capace di guardare oltre la sfera giuridica per raggiungere ciò che il diritto stesso prevede come scopo della sua esistenza: il bene e la salvezza di quanti credono nell'amore del Padre e di quanti accolgono il vangelo di Cristo come i bambini, che Gesù chiamava accanto a sé e stringeva tra le sue braccia dicendo che il regno dei cieli appartiene a chi è come loro.
Carmen, stiamo dalla tua parte. Condividiamo con te la sofferenza che hai provato, vorremmo fare di tutto per restituirti la dignità di cui sei stata privata e l'amore di cui avrai ancora più bisogno. Sono altri che meritano la scomunica e il nostro perdono, non quanti ti hanno permesso di vivere e ti aiuteranno a recuperare la speranza e la fiducia. Nonostante la presenza del male e la cattiveria di molti.