domenica 22 marzo 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 22/03/2009 11:49 - VATICANO-AFRICA - Papa: solo la luce di Dio può vincere le “grandi tenebre” portate da guerra e cupidigia - Nel corso della messa celebrata a Luanda davanti a un milione di persone Benedetto XVI parla di una preghiera per la riconciliazione e la pace che, dall’Africa abbraccia il mondo intero ed esorta gli uomini del mondo intero a pregare per “questo grande Continente così colmo di speranza, ma ancora così assetato di giustizia, di pace, di un sano e integrale sviluppo che possa assicurare al suo popolo un futuro di progresso e di pace”. Il ricordo delle due giovani morte ieri nella calca allo stadio.
2) 22/03/2009 8.24.21 – Benedetto XVI incontra i giovani angolani: "osate decisioni definitive, il Signore non vi lascerà mai soli!" – Radio Vaticana
3) Chiesa e aids - La cifra della verità - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 22 Marzo 2009
4) Colloquio con fratel Giusti da trenta anni in Uganda - Contro l'Hiv più che il preservativo vince l'educazione – L’Osservatore Romano, 22 Marzo 2009
5) Ricerca biomedica e sperimentazione clinica - Una cavia in gabbia chiamata uomo - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 22 Marzo 2009
6) I mostri del Cottolengo - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 21 marzo 2009 - Raramente sono state scritte parole tanto infamanti contro la dignità dell’essere umano come quelle apparse sull’ultimo numero de “L’Espresso” a firma Giorgio Bocca.
7) “Fides et ratio” - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 20 marzo 2009
8) Verità scomode - bugie comode - Autore: Mattioli, Vitaliano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 20 marzo 2009 (ovvero: l’utopia del sesso sicuro)
9) Una vita spericolata - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 20 marzo 2009 - Dalla conferenza nazionale sulle droghe a Trieste alla riemergenza
10) L'aborto non è “salute riproduttiva”, afferma il Papa
11) Brasile, ucciso il prete dei ragazzi - DA RIO DE JANEIRO – Avvenire, 21 marzo 2009
12) DIALOGHI. Fede e ragione, violenza e libertà: dopo il caso Eluana faccia a faccia a Padova fra il cardinale Scola e il filosofo Severino - La morte contesa - DAL NOSTRO INVIATO A PADOVA LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 21 marzo 2009
13) L’AFRICA AGLI AFRICANI - DESTINO RICOMPRESO DALL’INTERNO DI TUTTA UNA STORIA - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 22 marzo 2009
14) L’Italia alla «scuola» di san Benedetto - Così ieri, nel giorno che ne ricorda la morte, i luoghi che rappre­sentano per così dire il cuore della sua spiritualità, hanno celebrato il patrono d’Europa. - Montecassino - Bagnasco: «Umanesimo cristiano per dare ancora futuro all’Europa» - Avvenire, 22 marzo 2009


22/03/2009 11:49 - VATICANO-AFRICA - Papa: solo la luce di Dio può vincere le “grandi tenebre” portate da guerra e cupidigia - Nel corso della messa celebrata a Luanda davanti a un milione di persone Benedetto XVI parla di una preghiera per la riconciliazione e la pace che, dall’Africa abbraccia il mondo intero ed esorta gli uomini del mondo intero a pregare per “questo grande Continente così colmo di speranza, ma ancora così assetato di giustizia, di pace, di un sano e integrale sviluppo che possa assicurare al suo popolo un futuro di progresso e di pace”. Il ricordo delle due giovani morte ieri nella calca allo stadio.
Luanda (AsiaNews) – Solo la luce di Dio può vincere le “grandi tenebre” che ci sono “in tante parti del mondo”, il male rappresentato dalle guerre e dalle violenze tribali, ma anche dall’egosimo degli uomini che sfruttano gli altri uomini e che porta a quell’edonismo padre dell’evasione nella droga, della “irresponsabilità sessuale”, della distruzione delle famiglie e di vite umane innocenti mediante l’aborto. E’ un invito alla riconciliazione e alla speranza quello che Benedetto XVI ha rivolto oggi all’Africa intera e al mondo dalla grande spianata di Cimangola, a Luanda, in Angola, dove un milione di persone si è riunito per partecipare alla grande celebrazione che in certo modo conclude il primo viaggio di Benedetto XVI in Africa, da dove ripartirà domani mattina.
“La nostra preghiera – dice all’Angelus - sale oggi dall’Angola, dall’Africa, ed abbraccia il mondo intero. A loro volta gli uomini e le donne di ogni parte del mondo che si uniscono alla nostra preghiera, volgano i loro occhi all’Africa, a questo grande Continente così colmo di speranza, ma ancora così assetato di giustizia, di pace, di un sano e integrale sviluppo che possa assicurare al suo popolo un futuro di progresso e di pace”.
Pace, riconciliazione e giustizia, che saranno il tema del Sinodo per l’Africa del prossimo ottobre, assumono una risonanza particolare in questo Paese ove 27 anni di guerra civile hanno lasciato più di una mina antiuomo per ognuno dei 13 milioni di abitanti e dove le enormi ricchezze naturali – dal petrolio ai diamanti – stanno dando vita a uno sviluppo economico dominato dalla Cina - che non si “intromette” in questioni come il rispetto dei diritti umani – con profondissime diseguaglianze sociali.
Alla guerra fa riferimento anche il Papa. Prendendo spunto dalle letture della messa dice che “la vivace descrizione della distruzione e della rovina causata dalla guerra rispecchia l’esperienza personale di tante persone in questo Paese durante le terribili devastazioni della guerra civile. Com’è vero che la guerra può "distruggere tutto ciò che ha valore" (cfr 2 Cr 36,19): famiglie, intere comunità, il frutto della fatica degli uomini, le speranze che guidano e sostengono le loro vite e il loro lavoro! Questa esperienza è fin troppo familiare all’Africa nel suo insieme: il potere distruttivo della guerra civile, il precipitare nel vortice dell’odio e della vendetta, lo sperpero degli sforzi di generazioni di gente perbene. Quando la Parola del Signore – una Parola che mira all’edificazione dei singoli, delle comunità e dell’intera famiglia umana – è trascurata, e quando la Legge di Dio è ‘ridicolizzata, disprezzata e schernita’ (cfr ibid., v. 16), il risultato può essere solo distruzione ed ingiustizia: l’umiliazione della nostra comune umanità e il tradimento della nostra vocazione ad essere figli e figlie del Padre misericordioso, fratelli e sorelle del suo Figlio diletto”.
“Quanto grandi – ha aggiunto - sono le tenebre in tante parti del mondo! Tragicamente, le nuvole del male hanno ottenebrato anche l’Africa, compresa questa amata nazione di Angola. Pensiamo al flagello della guerra, ai frutti feroci del tribalismo e delle rivalità etniche, alla cupidigia che corrompe il cuore dell’uomo, riduce in schiavitù i poveri e priva le generazioni future delle risorse di cui hanno bisogno per creare una società più solidale e più giusta – una società veramente ed autenticamente africana nel suo genio e nei suoi valori. E che dire di quell’ insidioso spirito di egoismo che chiude gli individui in se stessi, divide le famiglie e, soppiantando i grandi ideali di generosità e di abnegazione, conduce inevitabilmente all’edonismo, all’evasione in false utopie attraverso l’uso della droga, all’irresponsabilità sessuale, all’indebolimento del legame matrimoniale, alla distruzione delle famiglie e all’eliminazione di vite umane innocenti mediante l’aborto?”.
A questo Paese e all’Africa intera, qui rappresentata da vescovi e fedeli venuti da tutti i Paesi vicini, il messaggio del Papa è quello di divenire “uomini nuovi” grazie alla fede. Dio, dice, ci ha “donati i suoi comandamenti, non come un fardello, ma come una fonte di libertà: della libertà di diventare uomini e donne pieni di saggezza, maestri di giustizia e di pace, gente che ha fiducia negli altri e cerca il loro vero bene. Dio ci ha creati per vivere nella luce e per essere luce per il mondo intorno a noi”. Il “dono” del Vangelo, aggiunge, “può confermare, purificare e nobilitare i profondi valori umani presenti nella vostra cultura nativa e nelle vostre tradizioni: famiglie unite, profondo senso religioso, gioiosa celebrazione del dono della vita, apprezzamento della saggezza degli anziani e delle aspirazioni dei giovani”.
Ai giovani che in questo continente sono la magggioranza della popolazine e che, ieri, aveva esortato ad avere il coraggio delle decisioni definitive, di assumere impegni per tutta la vita, oggi ha chiesto di diventare “amici di Gesù”. “Cercate la sua volontà su di voi, ascoltando quotidianamente la sua parola e permettendo alla sua legge di modellare la vostra vita e le vostre relazioni. In questo modo diventerete profeti saggi e generosi dell’amore salvifico di Dio; diventerete evangelizzatori dei vostri stessi compagni, guidandoli con il vostro esempio personale ad apprezzare la bellezza e la verità del Vangelo e verso la speranza di un futuro plasmato dai valori del Regno di Dio. La Chiesa ha bisogno della vostra testimonianza! Non abbiate paura – ha ripetuto - di rispondere generosamente alla chiamata di Dio a servirlo sia come sacerdoti, religiose o religiosi, sia come genitori cristiani o in tante altre forme di servizio che la Chiesa vi propone”.
Dei giovani, il Papa aveva parlato già all’inizio della messa, quando ha espresso il suo dolore per la morte di due ragazze ieri allo stadio di Luanda ed ha fatto gli auguri ai 40 giovani rimasti feriti per la calca all’entrata dello stadio. “Desidero includere in questa eucarestia – le sue parole - un suffragio particolare per le due giovani che ieri hanno perso la vita allo stadio Dos Coqueiros. Affidiamole - ha proseguito - a Gesù, che le accolga nel suo regno. Ai loro familiari e amici esprimo la mia solidarietà e la mie più profonde condoglianze anche perché venivano per incontrarmi. Allo stesso tempo prego per i feriti augurando loro una pronta guarigione. Affidiamoci - ha concluso - ai disegni insondabili di Dio”.


22/03/2009 8.24.21 – Benedetto XVI incontra i giovani angolani: "osate decisioni definitive, il Signore non vi lascerà mai soli!" – Radio Vaticana
Ieri pomeriggio migliaia di giovani hanno ricambiato l’abbraccio di Benedetto XVI nello stadio luandese di dos Coqueiros. Il Papa, in un clima di forte emozione e grande gioia - poi purtroppo funestato dalla notizia della morte delle due giovani - ha portato la parola di Cristo ribadendo “voi siete un seme gettato da Dio nella terra”, “voi siete il futuro”. E parlando del matrimonio e della consacrazione ha spronato: “non abbiate paura di prendere decisioni definitive” di fronte ad una “cultura dominante che non aiuta a vivere la Parola di Gesù”. Di seguito il testo integrale del discorso del Papa:

Carissimi amici!
Siete venuti in gran numero, in rappresentanza di molti altri spiritualmente a voi uniti, per incontrare il Successore di Pietro e, insieme a me, proclamare davanti a tutti la gioia di credere in Gesù Cristo e rinnovare l’impegno di essere suoi fedeli discepoli in questo nostro tempo. Un identico incontro ha avuto luogo in questa stessa città, in data 7 giugno 1992, con l’amato Papa Giovanni Paolo II. Con lineamenti un po’ diversi, ma con lo stesso amore nel cuore, ecco davanti a voi l’attuale Successore di Pietro, che vi abbraccia tutti in Gesù Cristo, che “è lo stesso ieri, oggi e per sempre” (Eb 13,8).
Prima di tutto, voglio ringraziarvi per questa festa che voi mi fate, per questa festa che voi siete, per la vostra presenza e la vostra gioia. Rivolgo un saluto affettuoso ai venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio e ai vostri animatori. Di cuore ringrazio e saluto quanti hanno preparato quest’Incontro e, in particolare, la Commissione episcopale per la Gioventù e le Vocazioni con il suo Presidente, Mons. Kanda Almeida, che ringrazio per le cordiali parole di benvenuto rivoltemi. Saluto tutti i giovani, cattolici e non cattolici, alla ricerca di una risposta per i loro problemi, alcuni dei quali sicuramente riferiti dai vostri Rappresentanti, le cui parole ho ascoltato con gratitudine. L’abbraccio che ho scambiato con loro vale naturalmente per tutti voi.
Incontrare i giovani fa bene a tutti! Essi hanno a volte tante difficoltà, ma portano con sé tanta speranza, tanto entusiasmo, tanta voglia di ricominciare. Giovani amici, voi custodite in voi stessi la dinamica del futuro. Vi invito a guardarlo con gli occhi dell’apostolo Giovanni: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra (…) e anche la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini”» (Ap 21, 1-3). Carissimi amici, Dio fa la differenza. A cominciare dalla serena intimità fra Dio e la coppia umana nel giardino dell’Eden, passando alla gloria divina che irradiava dalla Tenda della Riunione in mezzo al popolo d’Israele durante la traversata del deserto, fino all’incarnazione del Figlio di Dio che si è indissolubilmente unito all’uomo in Gesù Cristo. Questo stesso Gesù riprende la traversata del deserto umano passando attraverso la morte e arriva alla risurrezione, trascinando con sé verso Dio l’intera umanità. Ora Gesù non si trova più confinato in un luogo e in un tempo determinato, ma il suo Spirito, lo Spirito Santo, emana da Lui e entra nei nostri cuori, unendoci così con Gesù stesso e con Lui al Padre – con il Dio uno e trino.
Sì, miei cari amici! Dio fa la differenza… Di più! Dio ci fa differenti, ci fa nuovi. Tale è la promessa che Egli stesso ci fa: «Ecco io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21, 5). Ed è vero! Ce lo dice l’apostolo san Paolo: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con se mediante Cristo» (2 Cr 5, 17-18). Essendo salito al Cielo ed essendo entrato nell’eternità, Gesù Cristo è diventato Signore di tutti i tempi. Perciò, può farsi nostro compagno nel presente, portando il libro dei nostri giorni nella sua mano: in essa sostiene fermamente il passato, con le sorgenti e le fondamenta del nostro essere; in essa custodisce gelosamente il futuro, lasciandoci intravedere l’alba più bella di tutta la nostra vita che da lui irradia, ossia la risurrezione in Dio. Il futuro dell’umanità nuova è Dio; proprio un iniziale anticipo di ciò è la sua Chiesa. Quando ne avrete la possibilità, leggetene con attenzione la storia: potrete rendervi conto che la Chiesa, nello scorrere degli anni, non invecchia; anzi diventa sempre più giovane, perché cammina incontro al Signore, avvicinandosi ogni giorno di più alla sola e vera sorgente da dove scaturisce la gioventù, la rigenerazione, la forza della vita.
Amici che mi ascoltate, il futuro è Dio. Come abbiamo ascoltato poc’anzi, Egli «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21, 4). Nel frattempo, vedo qui presenti alcuni delle migliaia di giovani angolani mutilati in conseguenza della guerra e delle mine, penso alle innumerevoli lacrime che tanti di voi hanno versato per la perdita dei familiari, e non è difficile immaginare le nubi grigie che coprono ancora il cielo dei vostri sogni migliori… Leggo nel vostro cuore un dubbio, che voi rivolgete a me: «Questo è ciò che abbiamo. Quello che tu ci dici non si vede! La promessa ha la garanzia divina – e noi vi crediamo –, ma Dio quando si alzerà per rinnovare ogni cosa?». La risposta di Gesù è la stessa che Egli ha dato ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, vi avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto?» (Gv 14, 1-2). Ma voi, carissimi giovani, insistete: «D’accordo! Ma quando accadrà questo?» Ad una domanda simile fatta dagli apostoli, Gesù rispose: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni (…) fino agli estremi confini della terra» (At 1, 7-8). Guardate che Gesù non ci lascia senza risposta; ci dice chiaramente una cosa: il rinnovamento inizia dentro; riceverete una forza dall’Alto. La forza dinamica del futuro si trova dentro di voi.
Si trova dentro… ma come? Come la vita è dentro un seme: così ha spiegato Gesù, in un’ora critica del suo ministero. Era iniziato – il suo ministero - con grande entusiasmo, poiché la gente vedeva i malati guariti, i demoni cacciati, il Vangelo annunziato; ma, per il resto, il mondo andava avanti come prima: i romani dominavano ancora; la vita era difficile nel susseguirsi dei giorni, nonostante ci fossero quei segni, quelle belle parole. E l’entusiasmo si era andato spegnendo, fino al punto che parecchi discepoli avevano abbandonato il Maestro (cfr Gv 6, 66), che predicava ma non cambiava il mondo. E tutti si domandavano: In fondo che valore ha questo messaggio? Cosa ci porta questo Profeta di Dio? Allora Gesù parlò di un seminatore che semina nel campo del mondo, e spiegò poi che il seme è la sua Parola (cfr Mc 4, 3-20), sono le guarigioni operate: davvero poca cosa se paragonate con le enormi carenze e “macas” [difficoltà] della realtà di ogni giorno. Eppure nel seme è presente il futuro, perché il seme porta dentro di sé il pane di domani, la vita di domani. Il seme sembra quasi niente, ma è la presenza del futuro, è promessa presente già oggi; quando cade in terra buona fruttifica trenta, sessanta ed anche cento volte tanto.
Amici miei, voi siete un seme gettato da Dio nella terra; esso porta nel cuore una forza dell’Alto, la forza dello Spirito Santo. Tuttavia per passare dalla promessa di vita al frutto, la sola via possibile è offrire la vita per amore, è morire per amore. Lo ha detto lo stesso Gesù: «Se il seme caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (cfr Gv 12, 24-25). Così ha parlato Gesù, e così ha fatto: la sua crocifissione sembra il fallimento totale, ma non lo è! Gesù, animato dalla forza di «uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9, 14). E in questo modo, caduto cioè in terra, Egli ha potuto dar frutto in ogni tempo e lungo tutti i tempi. E in mezzo a voi si trova il nuovo Pane, il Pane della vita futura, la Santissima Eucaristia che ci alimenta e fa sbocciare la vita trinitaria nel cuore degli uomini.
Giovani amici, sementi dotate della forza del medesimo Spirito eterno, sbocciate al calore dell’Eucaristia, nella quale si realizza il testamento del Signore: Lui si dona a noi e noi rispondiamo donandoci agli altri per amore suo. Questa è la via della vita; ma sarà possibile percorrerla alla sola condizione di un dialogo costante con il Signore e di un dialogo vero tra voi. La cultura sociale dominante non vi aiuta a vivere la Parola di Gesù e neppure il dono di voi stessi a cui Egli vi invita secondo il disegno del Padre. Carissimi amici, la forza si trova dentro di voi, come era in Gesù che diceva: «Il Padre che è in me compie le sue opere. (…) Anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne fará di più grandi, perché io vado al Padre» (Gv 14, 10.12). Perciò non abbiate paura di prendere decisioni definitive. Generosità non vi manca – lo so! Ma di fronte al rischio di impegnarsi per tutta la vita, sia nel matrimonio che in una vita di speciale consacrazione, provate paura: «Il mondo vive in continuo movimento e la vita è piena di possibilità. Potrò io disporre in questo momento della mia vita intera ignorando gli imprevisti che essa mi riserva? Non sarà che io, con una decisione definitiva, mi gioco la mia libertà e mi lego con le mie stesse mani?». Tali sono i dubbi che vi assalgono e l’attuale cultura individualistica e edonista li esaspera. Ma quando il giovane non si decide, corre il rischio di restare un eterno bambino!
Io vi dico: Coraggio! Osate decisioni definitive, perché in verità queste sono le sole che non distruggono la libertà, ma ne creano la giusta direzione, consentendo di andare avanti e di raggiungere qualcosa di grande nella vita. Non c’è dubbio che la vita ha valore soltanto se avete il coraggio dell’avventura, la fiducia che il Signore non vi lascerà mai soli. Gioventù angolana, libera dentro di te lo Spirito Santo, la forza dall’Alto! Con fiducia in questa forza, come Gesù, rischia questo salto per così dire nel definitivo e, con ciò, offri una possibilità alla vita! Così verranno a crearsi tra voi delle isole, delle oasi e poi grandi superfici di cultura cristiana, in cui diventerà visibile quella «città santa che scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo». Questa è la vita che merita di essere vissuta e che di cuore vi auguro. Viva la gioventù di Angola!


Chiesa e aids - La cifra della verità - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 22 Marzo 2009
Certamente la cifra della missione di Benedetto XVI è la verità. E lo è per tutto, anche per il problema dell'aids e dei preservativi, un tema scottante che - si poteva facilmente immaginare - sarebbe stato toccato nel corso del suo viaggio in Africa. In mezzo alle polemiche suscitate dalle sue parole, uno dei più prestigiosi quotidiani europei, il britannico "Daily Telegraph", ha avuto il coraggio di scrivere che, sul tema dei preservativi, il Papa ha ragione. "Certo l'aids - si legge nell'articolo - pone il tema della fragilità umana e da questo punto di vista tutti dobbiamo interrogarci su come alleviare le sofferenze. Ma il Papa è chiamato a parlare della verità dell'uomo. È il suo mestiere: guai se non lo facesse". Il problema dell'aids si è presentato subito, da quando la malattia si è manifestata negli Stati Uniti nei primi anni Ottanta, non solo dal punto di vista medico, ma anche da quello culturale: lo scoppio dell'epidemia colse di sorpresa una società che credeva di avere sconfitto tutte le malattie infettive, e fin dall'inizio ha toccato un ambito, quello dei rapporti sessuali, che era appena stato "liberato" dalla rivoluzione appunto sessuale. Con una malattia che metteva in discussione il "progresso" appena raggiunto e che si diffondeva rapidamente grazie anche a quella ondata di cosmopolitismo che si stava realizzando con i nuovi veloci mezzi di trasporto. Fu subito chiaro che quella patologia era frutto di una modernità avanzata e di una profonda trasformazione dei costumi, e che forse la lotta per prevenirla avrebbe dovuto tenere presente anche tali aspetti. Invece, nel mondo occidentale, le campagne di prevenzione sono state basate esclusivamente sull'uso del preservativo, dando per scontato l'obbligo di non esercitare alcuna interferenza sui comportamenti delle persone. Il "progresso" non si doveva mettere in discussione; neppure in Africa, dove era evidente - e dove tuttora è evidente, se solo si leggessero con onestà i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità sulla diffusione dell'aids - che la distribuzione di preservativi non serve da sola ad arginare l'epidemia. Il preservativo, in Africa, non è usato nel modo "perfetto" - l'unico che garantisce il 96 per cento di difesa dall'infezione - ma nel modo "tipico", e cioè con un utilizzo non continuato e non appropriato, che offre solo un 87 per cento di difesa, e per di più dà una sicurezza che può essere pericolosa nel mettersi in rapporto con gli altri: come si sa, l'aids non si trasmette solo attraverso il rapporto sessuale, ma anche per via ematica; basta quindi un'abrasione, un po' di sangue, per aprire la possibilità di contagio. Bisogna anche ricordare, come è scritto sulle puntigliose istruzioni d'uso delle scatole di preservativi, che questi si possono danneggiare facilmente con il caldo - sono di lattice! - e se vengono toccati con mani non lisce, come quelle di coloro che fanno lavori manuali. Ma le industrie farmaceutiche, tanto precise nel segnalare questi pericoli, sono poi le stesse che appoggiano la leggenda secondo cui la diffusione dei preservativi può salvare la popolazione africana dall'epidemia: e si può facilmente immaginare che ogni idea per diffonderne l'uso sia accolta con vero giubilo dai loro uffici commerciali.
L'unico Paese dell'Africa che ha ottenuto risultati buoni nella lotta all'epidemia è l'Uganda, con il metodo Abc, in cui A sta per astinenza, B per fedeltà e C per condom, un metodo certo non del tutto aderente alle indicazioni della Chiesa. Persino la rivista "Science" ha riconosciuto nel 2004 che la parte più riuscita del programma è stata il cambiamento di comportamento sessuale, con una riduzione del 60 per cento delle persone che dichiaravano di avere avuto più rapporti sessuali e l'aumento della percentuale dei giovani fra i 15 e i 19 anni che si astenevano dal sesso, tanto da scrivere: "Questi dati suggeriscono che la riduzione del numero dei partner sessuali e l'astinenza fra i giovani non sposati anziché l'uso del condom sono stati i fattori rilevanti nella riduzione dell'incidenza all'Hiv". Molti Paesi occidentali non vogliono riconoscere la verità delle parole dette da Benedetto XVI sia per motivi economici - i preservativi costano, mentre l'astinenza e la fedeltà sono ovviamente gratuite - sia perché temono che dare ragione alla Chiesa su un punto centrale del comportamento sessuale possa significare un passo indietro in quella fruizione del sesso puramente edonistica e ricreativa che è considerata un'importante acquisizione della nostra epoca. Il preservativo viene esaltato al di là delle sue effettive capacità di arrestare l'aids perché permette alla modernità di continuare a credere in se stessa e nei suoi principi, e perché sembra ristabilire il controllo della situazione senza cambiare niente. È proprio perché toccano questo punto nevralgico, questa menzogna ideologica, che le parole del Papa sono state tanto criticate. Ma Benedetto XVI, che lo sapeva benissimo, è rimasto fedele alla sua missione, quella di dire la verità.
(©L'Osservatore Romano - 22 marzo 2009)


Colloquio con fratel Giusti da trenta anni in Uganda - Contro l'Hiv più che il preservativo vince l'educazione – L’Osservatore Romano, 22 Marzo 2009
Nella regione subsahariana risiede il 10 per cento della popolazione mondiale. E il 66 per cento degli infetti dall'Hiv di tutto il mondo. Cifre impressionanti. Tuttavia, negli ultimi anni, in alcuni Paesi dell'area è stato notato un calo deciso della frequenza delle infezioni negli adulti. Il modello abc, basato su una campagna che promuove l'astinenza sessuale, in particolare per i più giovani, la fedeltà nella coppia, e solo come ultima risorsa l'uso dei preservativi, si è dimostrato vincente. Come spiegano i medici Filippo Ciantia e Pier Alberto Bertazzi in un articolo apparso sul quotidiano online ilsussidiario.net, in Uganda, in particolare, la frequenza di infezioni Hiv nella popolazione è scesa dal 15 per cento nel 1991 al 5 per cento nel 2001. Il metodo è stato studiato con interesse negli ultimi anni e discusso su riviste internazionali come "The Lancet", "Science", "British Medical Journal". Il comboniano fratel Daniele Giovanni Giusti, è medico con un'esperienza trentennale in Uganda. Ha lavorato per vent'anni in vari ospedali del Paese. Negli ultimi dieci anni è stato incaricato del coordinamento dei servizi sanitari della Chiesa cattolica ugandese. Un testimone oculare di quanto sta accadendo in quella regione africana.

Dunque è questa l'unica valida strategia nella lotta contro l'Aids in Africa?

Il preservativo ha funzionato in epidemie focalizzate e tra gruppi particolari: prostitute, omosessuali e drogati. Non così in altri casi. Dire che il preservativo è la strategia vincente in epidemie mature, cioè diffuse tra la popolazione generale, è fuorviante. Si deve tener conto dell'esperienza particolare fatta in Uganda, citata da tutti come una delle vittorie nella lotta contro l'Aids. La campagna di coscientizzazione si è focalizzata sul modello abc. Si è chiesta l'astinenza a chi non è maturo per esprimere la sua sessualità (adolescenti e giovani), si è sostenuta la fedeltà nel rapporto con il partner contro la promiscuità per chi è sessualmente attivo, e - per chi non segue le prime due - l'uso del preservativo come ripiego. Il Governo ugandese ha sostenuto questa campagna nonostante le molte pressioni. Ciò ha permesso di vincere questa sfida. Chi sostiene che i risultati sono stati ottenuti con l'uso dei preservativi dice il falso. L'esperienza sul campo dice il contrario. Il fattore principale di questo successo è il frutto dell'educazione e del cambiamento di comportamento.
Quale è stata la risposta della popolazione?
Abbiamo visto un innalzamento dell'età del debutto sessuale nella popolazione giovane, e una diminuzione del numero di partner tra i sessualmente attivi. Questo ha causato l'abbassamento della prevalenza, cioè il virus si trasmette di meno tra la popolazione. Il preservativo è stato sì usato, ma con una copertura irrisoria, e quindi non ha influenzato significativamente i risultati ottenuti.
In sostanza è l'educazione la vera risposta all'epidemia?
L'educazione trasmette un concetto di persona umana che aiuta il cambiamento. Ci si basa sulla fiducia e sulla ragionevolezza della persona. Si spiega che cosa comporta il rischio, cosa lo riduce e cosa lo elimina. L'astinenza annulla il rischio per quanto riguarda i casi di trasmissione per via sessuale. Questa è la strategia più forte. Se il messaggio dato ai giovani è consistente, questi cambiano il loro comportamento sessuale. La fedeltà nel rapporto sessuale riduce il rischio. Se ambedue i partner sono fedeli, il rischio è notevolmente ridotto. L'uso del preservativo riduce il rischio, ma non lo elimina.

Cosa dicono le grandi agenzie internazionali coinvolte nella lotta contro l'Aids?
Nel passato, le agenzie internazionali avevano sposato la linea dell'uso del preservativo. Oggi, anche se in sordina, si sta cambiando strategia. L'esperienza sul campo ha dimostrato che nei Paesi dove si è puntato tutto sul preservativo, non si sono ottenuti - tra la popolazione generale - risultati soddisfacenti come quelli ugandesi. Propagandare l'uso del preservativo non tiene conto della mentalità della popolazione e di come questa recepisce i messaggi.
(©L'Osservatore Romano - 22 marzo 2009)


Ricerca biomedica e sperimentazione clinica - Una cavia in gabbia chiamata uomo - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 22 Marzo 2009
Nel gennaio 1963, dalle pagine del "British Medical Journal", uno studioso americano osservava: "I criminali dei nostri penitenziari rappresentano un eccezionale materiale da esperimento, e sono molto meno costosi degli scimpanzé". Quarant'anni dopo sappiamo ormai molto di quanto vi fosse dietro tale affermazione: negli Stati Uniti, insieme a disabili, indigenti, analfabeti e orfani, anche i detenuti sono stati a lungo oggetto di sperimentazioni di vario genere. Tra le strutture più note in questa "specializzazione", la Holmesburg: storica prigione di Philadelphia dove, dal 1951 al 1974, sono stati effettuati migliaia di esperimenti sui carcerati. Buona parte dei programmi è stata gestita dal dermatologo Albert M. Kligman, piuttosto conosciuto nella comunità scientifica internazionale - un suo studio del 1969 ha dimostrato l'infondatezza del binomio cioccolata-acne.
Kligman venne invitato per la prima volta nel penitenziario cittadino nel 1951 per curare un'improvvisa epidemia di piede d'atleta. "Tutto ciò che riuscii a vedere", ha poi raccontato, "furono ettari ed ettari di pelle davanti a me": è la terra di Bengodi, il dermatologo impazzisce di gioia "come un contadino che per la prima volta vede la terra fertile che gli spetta". Kligman comprende subito la portata della sua "scoperta", le ghiotte implicazioni dell'aver a disposizione un materiale umano sterminato, e decisamente non problematico in termini etici e giuridici. Se la triste vicenda è stata già ripercorsa in diversi saggi - tra i più recenti, Acres of Skin e Medical Apartheid - il volume Senteced to science di Allen M. Hornblum (Philadelphia University Press, 2007) muove dalla prospettiva della vittima, raccontando spesso in prima persona one black man's story of imprisonment in America - come precisa il sottotitolo. Il black man è Edward "Butch" Anthony, detenuto tipo: nato nel 1943 ultimo di nove figli, da ragazzino rimane soggiogato dal richiamo della strada, nonostante la sua severa famiglia. A tredici anni comincia ad assumere droghe sempre più pesanti, finendo ben presto avviluppato nel circolo vizioso dei furti e dello spaccio. È, così, una continua altalena tra fuori e dentro la prigione. Ma già dopo il primo soggiorno dietro le sbarre, Butch non sarà più la stessa persona. Il ragazzo che esce dal carcere nei primi anni Sessanta è un uomo dalla salute fisica e psichica ormai irrimediabilmente compromessa: in prigione i soldi sono indispensabili per sopravvivere, e a Holmesburg nel ventennio pre 1974 v'è un solo modo per guadagnare rapidamente e facilmente: abbandonarsi alle sperimentazioni.
La scelta di diventare una cavia umana non è una rarità: generazioni di detenuti afro-americani hanno "volontariamente" prestato il loro corpo alla scienza, quanto meno dall'inizio del Novecento. E ovviamente nessuno si è posto il problema del reale consenso in persone che, in cambio di denaro, miglioramenti nelle condizioni carcerarie o sconti di pena, si sono più o meno consapevolmente trasformati in topi da esperimento - è quello che Saviano racconta in Gomorra: i clan usano i Visitors, cioè gli eroinomani, come cavie umane per sperimentare i tagli ("le prove allergiche"), "provare se un taglio è dannoso, che reazione genera, sin dove possono spingersi ad allungare la polvere". Quello che cambia, però, negli Stati Uniti, nel corso del xx secolo, è che dalla fine anni Cinquanta le cavie umane non sono più solo al soldo della ricerca pubblica. Ora, infatti, sono direttamente coinvolte anche industrie mediche, farmaceutiche, cosmetiche e di altra natura, onde mettere a punto cosmetici, saponi o deodoranti, oltre a testare droghe, isotopi radioattivi e diossina. Ovviamente, il tema rimane estremamente delicato anche nel xxi secolo. In particolare riguardo alla situazione italiana, si è svolta a Roma una giornata di studio sugli "Aspetti etici della ricerca biomedica e della sperimentazione clinica", organizzata dal Comitato etico dell'Istituto Superiore di Sanità. Il nodo è complesso poiché si tratta di conciliare le esigenze del progresso scientifico con la necessità di evitare, come ha affermato Maria Pia Baccari, che l'uomo venga "reificato", trattato cioè alla stregua di una res. Tra gli altri aspetti, alcune relazioni si sono soffermate su due categorie di soggetti particolarmente delicati ai fini della sperimentazione, e cioè i bambini - relatrice Adriana Ceci - e le donne - Laura Palazzani. Sebbene sia molto più conveniente, in termini economici e organizzativi, testare farmaci e ritrovati tecnologici sui maschi adulti, applicando poi indifferentemente i risultati a tutti i pazienti, non si può continuare a fingere che non esistano differenze tra età pediatrica, adulta o geriatrica; che non vi siano varietà etniche o sessuali, che producono reazioni molto diverse in termini di metabolizzazione del farmaco, di assimilazione e così via. Molto interessante è anche la questione delle metodologie di sperimentazione su soggetti con capacità di consenso o di comprensione ridotta: problema destinato ad assumere un ruolo sempre maggiore con l'invecchiamento della popolazione. Se n'è occupato il bioeticista Carlo Petrini, il quale ha sottolineato la necessità di un equilibrio nel difficile bilanciamento tra la tutela di soggetti estremamente vulnerabili e il loro diritto di godere dei benefici derivanti dalla partecipazione alla ricerca. Un aspetto centrale nel contesto attuale è quindi quello delle biobanche, rispetto alle quali - come è emerso dalle parole di Giuliano D'Agnolo - è sempre più avvertita la necessità di una rete mondiale. Il problema, infatti, è che la raccolta del materiale biologico avviene per lo più sulla base dell'interesse del singolo ricercatore, questo fa sì che i campioni - recepiti e raccolti con criteri del tutto diversi tra loro - non siano poi confrontabili, il che li rende molto spesso inutilizzabili ai fini della ricerca. Una scelta importante è inoltre quella di definire a chi debba spettare la proprietà dei campioni una volta che siano entrati nella banca. Debbono rimanere pertinenza del soggetto - come nel modello italiano? o è opportuno che la proprietà passi allo Stato - come nel sistema francese? Ovviamente, pur mutando nelle due ipotesi i valori sottesi, è anche vero che sarebbe auspicabile, in ogni caso, una ricerca veramente "degna" della fiducia dei cittadini.
(©L'Osservatore Romano - 22 marzo 2009)


I mostri del Cottolengo - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 21 marzo 2009 - Raramente sono state scritte parole tanto infamanti contro la dignità dell’essere umano come quelle apparse sull’ultimo numero de “L’Espresso” a firma Giorgio Bocca.
Raramente sono state scritte parole tanto infamanti contro la dignità dell’essere umano come quelle apparse sull’ultimo numero de “L’Espresso” a firma Giorgio Bocca.
Parole con cui l’impietosa penna laicista si scaglia contro il «culto della vita a ogni costo che lascia perplessi i visitatori della Piccola casa della divina Provvidenza, la pia istituzione del Cottolengo, dove tengono in vita esseri mostruosi e deformi».
Parole degne delle farneticazioni eugenetiche di Karl Binding, di Alfred Hoche, di Heinrich Wilhelm Kranz (quello per cui gli “esseri mostruosi e deformi” di Bocca erano «veri e propri parassiti, scorie dell'umanità»), o dei coniugi Myrdal (quelli che nella Svezia socialdemocratica propugnavano l’eliminazione delle persone «difettose», cioè degli esseri umani «di tipo B») o dei deliri di Marie Stopes.
Non si comprende davvero questo ignobile attacco ad una delle più alte e sublimi espressioni di amore per l’Uomo che la civiltà occidentale sia riuscita a raggiungere grazie all’opera ostinata ed indefessa di un prete diventato santo: Giuseppe Benedetto Cottolengo.
Non stupisce però da chi provenga l’attacco.
Se una “attenuante” si può concedere al cinico e sprezzante giudizio di Bocca è la coerenza del suo autore. Il Giorgio Bocca che si è scagliato contro gli esseri mostruosi e deformi del Cottolengo è infatti lo stesso Giorgio Bocca che il 14 agosto 1942 scriveva su «La Provincia grande - Sentinella d'Italia - Foglio d'ordini settimanale della Federazione dei Fasci di Combattimento di Cuneo» (Anno II, numero 33, 14 agosto 1942, XX E. F.): «A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l'idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei? (…) Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».
Ancora una volta – come spesso accade per questo esimio giornalista – l’ideologia ha prevalso sull’intelligenza. Proprio un briciolo di intelligenza – oltre che di buon gusto – avrebbe evitato a Bocca di farsi rinfacciare il suo vergognoso passato razzista ed eugenetico.
Noi sappiamo che a liberare l’uomo dalla spietata logica spartana del Monte Taigeto (matrice dell’eugenetica nazionalsocialista), e dalla barbara crudeltà verso tutti i più deboli, gli ultimi, i paria, gli incurabili della Terra è apparso nella Storia dell’umanità il cristianesimo. L’antidoto a quella barbara crudeltà si chiama amore. E’ quella carità cristiana che pare ancora sconosciuta a vari Bocca.
Non siamo così ingenui, però, da non capire che anche questo infausto intervento de “L’Espresso” si inserisce in un’evidente strategia manipolativa dell’opinione pubblica finalizzata a sdoganare l’eutanasia come una normale procedura medica per ridare “dignità” alla vita umana.
Noi ci batteremo con tutte le forze per evitare che nella cultura del nostro Paese possano trovare spazio follie giuridiche come la «Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie» (14 luglio 1933) o la legge per «La salvaguardia della salute ereditaria del popolo tedesco» (8 ottobre 1935), o tutti gli altri abominevoli provvedimenti normativi (tanto cari alla cultura di Bocca) che nella Germania nazista hanno concesso la “Gnadentod” (morte per grazia) a migliaia di quegli “esseri mostruosi e deformi” che invece venivano – e vengono ancora oggi – amorevolmente accuditi nel Piccola Casa della Divina Provvidenza.
E finché nel nostro Paese la ragione continuerà a prevalere contro i veri mostri, le aberrazioni eugenetiche resteranno, fortunatamente, soltanto un disgustoso piacere intellettuale per tutto coloro che la pensano come Bocca.


“Fides et ratio” - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 20 marzo 2009
Dieci anni fa Giovanni Paolo II ha offerto a tutti gli uomini di buona volontà l’enciclica “Fides et ratio”. Un caposaldo per chiunque voglia con onestà contribuire allo sviluppo del pensiero filosofico contemporaneo. In essa il Papa affermava che ciò che alimenta il desiderio di conoscere è una “ragione carica di interrogativi”, impegnata con le domande radicali dell’esistenza. Nella seconda parte, invece, si dedicava alla lettura del pensiero contemporaneo e alla considerazione, oggi pressoché dominante, che “il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato”. Il desiderio della verità, “proprietà nativa della ragione”, viene così negato e l’uomo condannato “a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso”. Gli effetti di questo sistema di pensiero sull’esistenza sono sotto gli occhi di tutti. Si riconoscono nell’insoddisfazione, acuta fino alla disperazione cieca che opprime senza distinzione di età. Le immagini della stragi ad opera di due ragazzini nella scuola di Stoccarda e in Alabama l’hanno tristemente ricordato. Leggevo in classe il XVI canto del Purgatorio. Dante si trova impegnato a capire gli effetti del libero arbitrio e ci offre un’immagine bellissima della condizione umana. L’anima esce dalle mani del suo Fattore come una fanciulletta che pargoleggia, avendo un unico desiderio, tornare a Lui. Non conosce ancora nulla delle attrattive del mondo, alcune di queste potranno portarla fuori strada, per questo le occorre una guida. La libertà e la verità devono restare unite altrimenti ci si perde per strada, non si può illudersi di fare da sé. Le ragioni di una nuova evangelizzazione di cui tanto parlò Giovanni Paolo II e ora Papa Benedetto, sono iscritte proprio nella profondità dell’esperienza umana, nel suo incessante porsi le grandi domande dell’esistenza: che senso ha la vita, perché il dolore e la morte? Domande cui non possiamo rispondere da soli ma cui è offerta una risposta. L’affermazione che solo Dio è la risposta al bisogno integrale dell’essere umano non è arbitraria ma corrispondente alle esigenze del cuore. Il fallimento dell’alternativa nichilista o relativista l’abbiamo davanti agli occhi. Manca solo l’onestà di riconoscere l’evidenza. Abbiamo bisogno di essere salvati. Ma la debolezza che costituisce il nostro essere è insieme strada per la scoperta della nostra grandezza. Riconoscere la nostra creaturalità significa infatti riconoscere in noi l’immagine del Creatore. “Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l’animo e disira; perché di giugner lui ciascun contende” (Dante, Pg. XVII).


Verità scomode - bugie comode - Autore: Mattioli, Vitaliano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 20 marzo 2009 (ovvero: l’utopia del sesso sicuro)
L’Europa ogni giorno scopre maggiormente il suo volto. L’ultima manifestazione è stata la falsa interpretazione dell’intervista che Benedetto XVI ha concesso ai giornalisti in aereo verso il Camerun. Riporto innanzitutto il testo originale:
Domanda: Santità, tra i molti mali che travagliano l’Africa, vi è anche e in particolare quello della diffusione dell’Aids. La posizione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro di esso viene spesso considerata non realistica e non efficace. Lei affronterà questo tema, durante il viaggio? Papa: Io direi il contrario: penso che la realtà più efficiente, più presente sul fronte della lotta contro l’Aids sia proprio la Chiesa Cattolica, con i suoi movimenti, con le sue diverse realtà. Penso alla Comunità di Sant’Egidio che fa tanto, visibilmente e anche invisibilmente, per la lotta contro l’Aids, ai Camilliani, a tutte le Suore che sono a disposizione dei malati… Direi che non si può superare questo problema dell’Aids solo con slogan pubblicitari. Se non c’è l’anima, se gli africani non si aiutano, non si può risolvere il flagello con la distribuzione di profilattici: al contrario, il rischio è di aumentare il problema. La soluzione può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro, e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, ad essere con i sofferenti. E questi sono i fattori che aiutano e che portano visibili progressi. Perciò, direi questa nostra duplice forza di rinnovare l’uomo interiormente, di dare forza spirituale e umana per un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e di quello dell’altro, e questa capacità di soffrire con i sofferenti, di rimanere presente nelle situazioni di prova. Mi sembra che questa sia la giusta risposta, e la Chiesa fa questo e così offre un contributo grandissimo ed importante. Ringraziamo tutti coloro che lo fanno.

Sembra che la parola preservativo sulla bocca di un Papa abbia fatto scandalo.
Molti politici europei hanno addirittura accusato il Pontefice di essere un seminatore di morte perché ha detto che l’uso del profilattico non è la vera soluzione all’aids.
Nell’intervista sopra riportata, il Papa indica la vera soluzione, che può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro, e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, ad essere con i sofferenti.
A questo punto emerge la vera cultura che già da tempo si sta tentando di introdurre in Europa. L’esercizio caotico e capriccioso in tutte le salse della sessualità (direi meglio della genitalità, perché la sessualità è qualcosa di più sublime), e contemporaneamente la pretesa di evitare malattie assumendo il preservativo.
La dottrina cattolica, sostenuta dal buon senso e dalla concezione personalistica, invece la pensa esattamente al contrario. Per debellare completamente l’aids l’unica soluzione è ritornare ad una vita sessuale vissuta razionalmente e non caoticamente.
Purtroppo la codificazione ufficiale della concezione materialistica è stata attuata nella tristemente famosa Conferenza del Cairo (5-13 settembre 1994) nella quale sono stati del tutto difesi e legittimati i c.d. diritti sessuali.
Il messaggio emerso è il seguente: Tu hai il diritto di vivere la tua sessualità come ti pare; nessuno te lo deve impedire perché è un tuo diritto. Quindi spazio libero ad ogni capricciosità. La tua maturità non consiste nell’equilibrio delle tue facoltà ma nella capacità di evitare da una parte gravidanze indesiderate e dall’altra parte malattie come l’aids.
Da quel momento il mondo è stato invaso di preservativi, anche distribuiti gratis nel carnevale di Rio e nelle olimpiadi in Germania. Si possono trovare nelle gettoniere; in alcuni bar è omaggiato insieme al caffè. Con tanta gioia delle lobby farmaceutiche ed industrie che possono fare soldi a palate e dei benpensanti i quali ormai si sentono autorizzati a dare spazio a qualsiasi tipo di comportamento e guai a chi obietta: si dice che sono bacchettoni e vanno contro un loro sacrosanto diritto.
A questo punto sorge una ovvia domanda: dato che il mondo è stato inondato di preservativi e se è vero che sono la vera panacea ai mali, l’aids dovrebbe essere stato debellato da tempo. Come mai invece è in crescita? Vuol dire che qualche cosa non ha funzionato.
E’ proprio questo che Benedetto XVI ha voluto chiarire. L’unico vero rimedio è il ritorno ad una umanizzazione della sessualità.
Ma questo non è solo il pensiero di un Papa, ma corrisponde al magistero secolare della Chiesa. Inoltre non è necessario essere cattolici (veri) per capire questo elementare principio. Ci sono operatori sanitari, attivisti delle Ong, pensatori, gente comune, ma specialmente medici seri di qualunque credo religioso che sono dello stesso parere. Del resto non è necessario essere istruiti per capire un principio così elementare; basta avere un po’ di buon senso e specialmente di onestà.
Come esempio riporto semplicemente una notizia letta su Avvenire del 19 marzo 2009 pag. 6. Il medico dell’Avsi, Filippo Ciantia, in una intervista concessa a questo giornale, sostiene che l’aids si può vincere soltanto modificando i comportamenti a rischio e investendo sull’educazione. Questo medico che da anni lavora in Uganda ci informa che “il governo ugandese ha laicamente lanciato con successo la strategia dell’ABC”. E spiega: “Alle persone viene consigliata l’astensione dai rapporti (Abstinence), la fedeltà al partner (Being faithful) e – in casi molto particolari e solo per certe, limitate categorie di persone – l’uso corretto del profilattico (Condom use). Risultato? La prevalenza dell’Hiv è passata dal 15% del 1002 al 5% del 2004. E sa quale è stato il costo dei programmi avviati per favorire la modifica degli stili di vita? 23 centesimi di dollaro a testa. Ha ragione il Papa: siamo di fronte a una tragedia che non può essere vinta solo con i soldi. Serve una strategia multilaterale che metta al centro il bene della persona”.
Penso che a questo punto le accuse si invertono: non è il Papa che condanna il Continente africano alla morte ma è l’unico che ha il coraggio, anche a rischio di mostrarsi impopolare, di indicare la vera via della vita; invece i veri operatori di morte sono quelle lobby farmaceutiche ed industrie che pur di far soldi vogliono continuare ad inondare il mondo di preservativi indifferenti al fatto che questi non garantiscono il sesso sicuro e quindi sono più facilmente veicoli di morte e quei politici che per difendere i loro comportamenti sessualmente dubbi e per guadagnarsi voti vogliono cavalcare la bestia del populismo, non pensando al tradimento verso quelle stesse persone che probabilmente li voteranno.


Una vita spericolata - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 20 marzo 2009 - Dalla conferenza nazionale sulle droghe a Trieste alla riemergenza
Una vita spericolata, un eufemismo, una semplicizzazione, che non aiuta a venire a capo del problema, una esistenza bruciata, calpestata, eppure quanti giovani in quel “voglio una vita spericolata” hanno trovato un inizio senza più fine, senza più arrivo, l’illusione di una meta raggiunta quando invece si trattava di un punto di partenza.
Con l’imprudenza di una canna, il respiro attraente di una sniffata, una alzata di spalle alla pazienza, un palcoscenico virtuale, scompaiono i valori importanti, la fiducia in se stessi e negli altri.
Ogni volta che violenza e disattenzione miscelano un futuro senza paletti a difesa, ogni volta che accade qualcosa di brutto a un ragazzo, e il mondo adulto rimane indietro rispetto al pianeta degli adolescenti, e fenomeni come bullismo, droga, devianza, scardinano le certezze in bella fila, su piedistalli di cartone, è un comando a dare veramente una mano, ad incontrare il male con il bene della coerenza, quella che non dà il fianco alle interpretazioni, alle giustificazioni, alle facili conclusioni.
Alla Comunità Casa del Giovane vengono a trovarci studenti, associazioni, esperti e uomini politici, è nostra consuetudine svolgere un tour negli spazi adibiti a laboratori, nei corridoi delle strutture di nuova generazione, accompagnando gli occhi e il cuore verso dimensioni umane che occorre ritrovare, non solo nei riguardi degli utenti ospitati, ma di coloro che intendono crescere insieme attraverso una presenza utile e dignitosa.
Quando la realtà soccombe all’immaginazione e l’incredulità non consente sollievo, l’impatto con la scoperta di avere un figlio preso in mezzo dalla violenza esercitata da un bullo, dal gruppo dei pari che ricerca emozioni forti, rompendo e distruggendo, senza disporre di alcuna uscita di emergenza, è proprio nelle stanze della Casa del Giovane che sovvengono alcune risposte mancanti, interrogandoci sull’ascolto di storie clandestine che sottovoce raccontano di un giorno vissuto svogliatamente, nel rinculo rabbioso che offre lo sballo, l’annullamento di ogni più intimo colloquio, di ogni sofferenza e di ogni salita da affrontare.
Forse non sono più sufficienti i tanti cinque in condotta di cui sentiamo parlare, le sospensioni e le sanzioni comminate, per rendere plausibile il valore della civicità, dell’educazione, adesso è giunto il momento di alzare il viso e lo sguardo in alto, nei riguardi di un mondo giovanile sempre più inondato di notizie e sempre meno consapevolizzato, sempre più spintonato verso un mercato delle deleghe, dei diritti acquisiti senza sudore.
Di fronte a un giovanissimo che sceglie di curare il proprio delirio di onnipotenza con la droga, il gruppo schierato a difesa del fortino che non c’è, con il freddo di una lama tra le dita, per tenere lontano il mondo percepito come avversario da odiare e colpire, sarà bene non rimandare un intervento educativo che ricomponga un equilibrio, riporti ordine nella relazione da mantenere e custodire.
E’ auspicabile invitare le nuove generazioni a mettere il naso e i piedi nei corridoi di una comunità per rendersi conto che la realtà è che la persona incontra la droga, perché spinta da qualcuno a consumarla, e che non esiste droga come esperienza positiva in una botta di nulla che esclude ottusamente.
Nei silenzi di questa comunità c’è intenso l’incontro con la riemergenza dalle situazioni più difficili e superficialmente concluse senza speranza.


L'aborto non è “salute riproduttiva”, afferma il Papa
Facendosi portavoce della sofferenza delle famiglie a causa della povertà


LUANDA, venerdì, 20 marzo 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha affermato questo venerdì nella capitale angolana che l'aborto rappresenta la soppressione di una persona, motivo per il quale non può essere mascherato da strumento di “salute riproduttiva”.
Il Papa si è trasformato in un portavoce delle difficoltà che attraversano le famiglie africane a causa della povertà nel discorso che ha pronunciato nel Palazzo del Popolo, residenza del Presidente dell'Angola, José Eduardo dos Santos, alla presenza delle autorità angolane e dei rappresentanti del corpo diplomatico a Luanda.
La famiglia, ha denunciato il Santo Padre, è sottoposta a molte pressioni: “ansia e umiliazione causate dalla povertà, disoccupazione, malattia, esilio, per menzionarne solo alcune”.
Per il Vescovo di Roma, “particolarmente sconvolgente è il giogo opprimente della discriminazione sulle donne e ragazze, senza parlare della innominabile pratica della violenza e dello sfruttamento sessuale che causa loro tante umiliazioni e traumi”.
Allo stesso modo, ha affermato che “un'ulteriore area di grave preoccupazione” è rappresentata dalle “politiche di coloro che, col miraggio di far avanzare 1’'edificio sociale', minacciano le sue stesse fondamenta”.
“Quanto amara è l'ironia di coloro che promuovono l'aborto tra le cure della salute 'materna'!”, ha esclamato.
“Quanto sconcertante la tesi di coloro secondo i quali la soppressione della vita sarebbe una questione di salute riproduttiva”, ha aggiunto citando il Protocollo di Maputo (art. 14).
Da parte sua, la Chiesa sarà sempre “per volontà del suo divino Fondatore accanto ai più poveri di questo continente”.
“Posso assicurarvi che essa, attraverso iniziative diocesane e innumerevoli opere educative, sanitarie e sociali dei diversi Ordini religiosi, programmi di sviluppo delle Caritas e di altre organizzazioni, continuerà a fare tutto ciò che le è possibile per sostenere le famiglie – comprese quelle colpite dai tragici effetti dell'AIDS – e per promuovere l’uguale dignità di donne e uomini sulla base di un'armoniosa complementarità”, ha concluso.


Brasile, ucciso il prete dei ragazzi - DA RIO DE JANEIRO – Avvenire, 21 marzo 2009
Un solo colpo di fu­cile al petto spara­to da un motoci­clista- killer. È terminata così, nel modo più tragi­co, l’esperienza pastorale in Brasile di don Ramiro Ludeña Y Amigo, sacerdo­te spagnolo che operava nel Paese latino-america­no dal 1971. L’esecuzione, avvenuta a Recife, capita­le dello Stato del Pernam­buco, non ha ancora col­pevole e movente. Secon­do la polizia, infatti, è da e­scludere il tentativo di ra­pina. L’ipotesi più proba­bile è quella della vendet- ta o rappresaglia da parte di qualcuno degli adole­scenti che don Ramiro a­veva seguito. Il sacerdote operava da anni nella Ong Mamer (nata per aiutare i ragazzi di strada). Sessantaquat­tro anni, di formazione sa­lesiana, Don Ramiro era «un sacerdote dotato di grande sensibilità sociale – spiega monsignor Geni­val Saraiva, vescovo della diocesi di Palmares in cui don Ramiro operava – e cercava di strappare i bambini e gli adolescenti dalla povertà e dalla ten­tazione di entrare nella criminalità».
Violenza e narcotraffico sono infatti tra i problemi principali della regione, si­tuata nella parte più po­vera del Brasile, il Nord E­st. Il presidente della Ong Mamer, Rose Guareschi, ha dichiarato che in 20 an­ni di attività, pur lavoran­do con adolescenti diffici­li, non erano mai avvenu­ti fatti del genere. «Ma – sottolinea ancora Monsi­gnor Saraiva – il lavoro di padre Ramiro si scontra­va con gli interessi del narcotraffico e con i sen­timenti degli ex-alunni che erano tornati in quel mondo di violenza cui il sacerdote aveva tentato di strapparli». ( G.Mil.)


DIALOGHI. Fede e ragione, violenza e libertà: dopo il caso Eluana faccia a faccia a Padova fra il cardinale Scola e il filosofo Severino - La morte contesa - DAL NOSTRO INVIATO A PADOVA LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 21 marzo 2009
Se è vero, come ha scritto Adorno, che dopo Auschwitz non ha più senso scrivere poesie, potremmo dire che in Italia, dopo il caso di Eluana Englaro, tutti siamo costretti a parlare della morte in modo diverso da prima. Forse è finita la stagione moderna che ha voluto rimuovere quel che Eliot chiamava «La Straniera», ma il guaio è che il dibattito è diventato sempre più confuso. A riportare la questione nell’ambito strettamente filosofico e teologico ci ha pensato l’università di Padova con il convegno «Morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto», apertosi ieri con una tavola rotonda in cui si sono confrontati il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, ed il filosofo Emanuele Severino. Un incontro culturale d’altissimo livello tra un porporato che ha molto a cuore la questione antropologica ed un pensatore radicalmente anti­cristiano che però cita spesso il Vangelo. Per il cardinale Scola il problema centrale è dato dal «rapporto, a prima vista contraddittorio, tra libertà e morte».
La sua riflessione parte dalla domanda che solitamente il malato fa al medico: «fammi vivere, cioè fammi durare». Ma la durata non è solo quello che intende l’utopia salutista, in realtà «la domanda di salute è domanda di salvezza». In questo senso la morte, ogni morte, suona sempre come «una condanna a morte».
Per Severino non ha senso il gran discutere di queste settimane sull’inizio e sulla fine della vita, «un dibattito dove ci si dimentica che l’esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano». Secondo il filosofo che ha legato il proprio nome alla serrata critica dell’intera tradizione metafisica occidentale non ha senso voler stabilire quando finisce la vita altrui perché non sappiamo chi sia «l’altro» (ed anche per chi lo considera evangelicamente «il nostro prossimo» è qualcosa di creduto, di voluto, e quindi di discutibile). Ed ancor meno possiamo parlare della morte come annientamento, perché di questo non facciamo esperienza.
Chi conosce gli scritti di questo pensatore, complesso e paradossale, non si stupirà di simili affermazioni.
Perentoria la sua conclusione: la ragione e la fede si trovano entrambe accomunate nella visione pessimistica della morte come annientamento. Il concetto cristiano di resurrezione della carne è una metafora del «destino della verità» dell’uomo, ma è una metafora sviante perché afferma una seconda creazione e così nega «l’incontrovertibile eternità dell’essere». Così parlò il Parmenide del XXI secolo che proprio pochi giorni fa ha compiuto ottant’anni.
Nei confronti dell’anziano professore, di cui è stato giovane allievo alla Cattolica di Milano, Scola si mostra molto deferente. Ma preferisce seguire un’altra strada, quella indicata dal suo vero e grande maestro, il teologo svizzero von Balthasar, per il quale la resurrezione non è certo una metafora. «Valutata in termini umani la morte è un puro e semplice passivo venir portato via. La follia del cristianesimo consiste nel fare di questo confine una specie di centro». Commenta il patriarca di Venezia: «Quella di Gesù Cristo è una forma del tutto speciale di morte che combatte e vince il duello con la forma comune, quella della nostra morte». Ne deriva che «libertà e morte non si escludono più reciprocamente». Concetto provocatorio, in quanto l’esperienza del morire sembra coincidere con l’assoluta impossibilità di scegliere qualcosa d’altro. Ma, spiega il cardinale Scola, «la libertà non si riduce alla semplice capacità di scelta. Ci sono altri due elementi essenziali: la datità delle sue condizioni e l’evento assoluto. Nell’atto della morte la libertà si lascia alle spalle l’imperfetta libertà di scelta per inoltrarsi verso il suo compimento.
Nulla più della mia morte chiama in causa la mia libertà. Nessuno me la può sottrarre, neanche l’uomo­bomba che mi sorprendesse del tutto inatteso mentre bevo un caffè al bar».
E’ chiaro allora che tutte le dispute sul fine-vita (eufemismo per non guardare in faccia la morte) ruotano attorno al concetto di libertà. Se viene ridotta a pura e semplice auto­determinazione allora posso anche decidere della disponibilità o meno della vita. La lotta che si sta ingaggiando su questo terreno, secondo Emanuele Severino, non è altro che «uno scontro tra due forme di violenza», quella che si definisce laica e quella cattolica. Vincerà il più forte, non chi ha ragione. Anche perchè, per il filosofo parmenideo, non ce l’ha nessuno dei due. Pronta la risposta del cardinale: nessuna violenza, solo una posizione di tranquilla e serena ragionevolezza, quella che «in caso di dubbio, privilegia il favor vitae ». Invece gran parte del dibattito sul fine vita si può ricondurre al concetto, già espresso da Nietzsche, del «risentimento», cioè l’insopportabilità di fronte a situazioni di terribile limitazione e gravità. Un turbamento che, confessa il patriarca di Venezia, ha provato lui stesso pochi giorni fa visitando un giovane padre di tre bambini, malato di Sla e accudito amorevolmente dalla moglie. Può muovere solo le palpebre superiori degli occhi coi quali comunica tramite un computer.
«Eminenza, io sono contento di vivere», ha scritto sullo schermo.
Terribile violenza o straordinaria manifestazione di libertà?
Il pensatore parmenideo: «L’esistenza della vita altrui è un arcano, si scontrano due forme di violenza, laica e cattolica». Il patriarca di Venezia: «La libertà non si riduce alla capacità di scelta. C’è un compimento più alto»


L’AFRICA AGLI AFRICANI - DESTINO RICOMPRESO DALL’INTERNO DI TUTTA UNA STORIA - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 22 marzo 2009
«Lo Spirito Santo invero è il pro­tagonista di tutta la missione ecclesiale e la sua opera rifulge nella missione ad Gentes». Sono queste pa­role, ricavate dall’enciclica Redemp­toris Missio (21) e tutt’altro che astratte o evanescenti, quelle forse più indi­cate per cogliere appieno il senso e il significato della visita pastorale che Benedetto XVI sta compiendo in que­sti giorni in terra angolana. Come già avvenuto in Camerun, Papa Ratzin­ger ha avvertito l’esigenza anche ieri, nel corso della sua omelia, durante la Messa celebrata con i vescovi, i sa­cerdoti, i religiosi, i movimenti eccle­siali e i catechisti nella chiesa di san Paolo a Luanda, di ribadire l’urgenza dell’impegno personale e comunita­rio nell’annuncio e nella testimo­nianza del Vangelo. Prendendo lo spunto dall’Anno Pao­lino, che com’è noto cade nel bimil­lenario della nascita dell’apostolo dei Gentili, il Papa ha auspicato una mag­giore conoscenza della figura del Cri­sto Redentore, «venuto nel mondo per salvare i peccatori». Infatti solo se­guendo le sue orme è possibile entra­re nella «luce» vera del mondo, ac­quistando quell’autorevolezza spiri­tuale indispensabile per essere araldi del Vangelo. Sta di fatto che se oggi la Chiesa cattolica è radicata nel conti­nente africano, di cui la realtà ango­lana è davvero un’espressione em­blematica, è proprio perché la grazia di Dio, attraverso un’abnegazione dis­seminata lungo i secoli da tanti apo­stoli, ha consentito ai popoli del con­tinente «di entrare in questa proces­sione dei tempi per farci avanzare ver­so il futuro». Un movimento della Pa­rola, Verbo forte di Dio, capace di ri­generare l’esistenza umana. Si tratta, secondo il Pontefice, di un processo di «cristificazione» per opera e grazia dello Spirito di Dio lungo i sentieri del­la storia, aprendola così all’universa­lità della salvezza. Interessante a questo proposito, il ri­ferimento fatto dal Papa alle vicende che caratterizzarono gli inizi dell’e­vangelizzazione in Angola: «indietro di cinquecento anni, ossia agli anni 1506 e seguenti, quando in queste ter­re, allora visitate dai portoghesi, ven­ne costituito il primo Regno cristiano sub-sahariano, grazie alla fede e alla determinazione del Re Dom Alfonso I Mbemba-a-Nzinga» che visse fino al 1543. Un regno che tra alterne vicen­de rimase cattolico tra il XVI e il XVIII secolo, riuscendo peraltro a mettere insieme nel nome del Vangelo «due etnie tanto diverse – quella banta e quella lusiade – che trovarono pro­prio nella religione cristiana una piat­taforma d’intesa». Il battesimo, ha ri­cordato Benedetto XVI, «fa sì che tut­ti i credenti siano uno in Cristo». Si delinea pertanto ancora una volta nel corso di questo primo viaggio africa­no di papa Ratzinger lo specifico del ministero petrino, quello cioè di con­fermare nella fede i fratelli a tutte le la­titudini, promuovendo lo spirito del­la cattolicità intesa proprio come «glo­balizzazione perspicace» di Dio.
Viene così affermata quell’unità dei popoli che, specialmente in Africa, rappresenta l’unico antidoto contro la dissoluzione sociale e ogni forma di divisione. In questo continente vi sono 900 etnie, con tradizioni e cul­ture ancestrali che, sia nel corso del­l’epoca coloniale, come anche in tem­pi recenti, hanno sperimentato nu­merose vicissitudini, in alcuni casi manifestatesi addirittura in aperta conflittualità. Ecco perché occorre vi­vere la missione: «per fare tutti insie­me la sua volontà» ha detto Benedet­to XVI, «andando in tutto il mondo in­sieme a predicare il Vangelo ad ogni creatura» (cfr Mc, 16,15). Solo così sarà possibile realizzare il sogno di Dio, un sogno di pace, giustizia e riconcilia­zione che le chiese africane non vo­gliono disattendere.


L’Italia alla «scuola» di san Benedetto - Così ieri, nel giorno che ne ricorda la morte, i luoghi che rappre­sentano per così dire il cuore della sua spiritualità, hanno celebrato il patrono d’Europa. - Montecassino - Bagnasco: «Umanesimo cristiano per dare ancora futuro all’Europa» - Avvenire, 22 marzo 2009
DAL NOSTRO INVIATO A CASSINO (FROSINONE)
SALVATORE MAZZA
S ono i santi che «fanno la sto­ria ». Uomini e donne che «ol­tre a gustare la gioia di un’u­manità realizzata nell’incontro a­moroso con Cristo», hanno saputo travasarla nella concretezza del quo­tidiano. Come san Benedetto, che a Montecassino «ha avviato un’espe­rienza di vita che non cessa di con­tagiare e attirare ancora oggi». E­sperienza preziosa, dal cui «ceppo solido e florido» si manifesta e raffor­za «una civiltà umanistica che fa scuola in tutta Europa, e alla quale ci auguriamo che essa ritorni con con­vinzione grata per il futuro, e per servire l’umanità secondo il genio cristiano che le è proprio da due­mila anni». Tanto preziosa da poter di­re che, nell’Abbazia fondata da san Be­nedetto, c’è «l’anima dell’Europa... un’a­nima sconfinata ed aperta ad acco­gliere come sintesi tutto quello che di vero, di nobile e di buono si rea­lizza ». È stato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episco­pale italiana, a riproporre in questi termini la centralità del cristianesi­mo nel formarsi della cultura euro­pea. Lo ha fatto nell’omelia della Messa Pontificale presieduta, nel giorno in cui la Chiesa celebra il pa­trono d’Europa, nella millenaria Ab­bazia fondata dal santo da Norcia. Un’occasione «davvero speciale», come ha detto nel salutarlo all’inizio della celebrazione l’abate Pietro Vit­torelli in una chiesa piena di fedeli, presenti tra gli altri il ministro per le politiche europee Andrea Ronchi, il presidente della Regione Lazio Pie­ro Marrazzo e gli ambasciatori del­l’Unione europea. Occasione, ha ag­giunto Vittorelli, per celebrare il grande santo ma, anche, «per ac­compagnare con la preghiera il Pa­pa Benedetto XVI, pellegrino in A­frica ». Nella sua omelia, tutta centrata sul­le beatitudini, Bagnasco ha osserva­to come sia «sempre emozionante salire su questo monte che non si fa­tica ad identificare come uno dei luoghi che hanno fatto la storia reli­giosa e civile del nostro Paese e del Continente Europeo». Per questo, ha aggiunto, «si resta ogni volta attoni­ti e pensosi guar­dando alla 'città collocata sul mon­te', dalla quale in un tempo di crisi e di dissipazione, per tanti versi simile al nostro, si liberarono forze così vive da formare lentamente un mondo nuovo».
Questa «possibilità di una vita nuova, quando tutto all’esterno sembrava congiurare verso la fine e il falli­mento », nasceva allora da un’espe­rienza che, appunto, partiva dalle beatitudini, ovvero dal guardare «a come Dio si rapporta con gli uomi­ni ». È questo, per il cardinale, il «pa­radosso cristiano»; il quale, come sottolineato di recente da papa Rat­zinger, deve spingere i credenti «a rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’ac­cesso a Dio»; tanto più oggi, quan­do «Dio sparisce dall’orizzonte de­gli uomini, e con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di o­rientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più».
Nella millenaria sede benedettina, accolto dall’abate Vittorelli, il presidente della Cei ieri mattina ha presieduto la Messa: «I santi fanno la storia»