sabato 15 dicembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 15.12.2007 Il vero filosofo contro i moralisti. Intervista con Stefano Alberto, Ubaldo Casotto, Il Foglio
2) Padre Cantalamessa: “Giovanni Battista, 'più che un profeta'” - Seconda predica di Avvento al Papa e ai suoi collaboratori
3) IL SENSO DELLA MISSIONE - ANNUNCIO NOSTRO DOVERE DI LIBERTÀ
4) Francia «Sdoganato» il lavoro domenicale Critiche dai gruppi pro-famiglia
5) Privandolo della sua croce, l'egualitarismo sessuale ha trasformato il maschio in un egoista violento - Claudio Risè



15.12.2007, Il vero filosofo contro i moralisti. Intervista con Stefano Alberto, Ubaldo Casotto, Il Foglio



Padre Cantalamessa: “Giovanni Battista, 'più che un profeta'”
Seconda predica di Avvento al Papa e ai suoi collaboratori

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 14 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo il testo integrale della seconda predica di Avvento tenuta questo venerdì, nella Cappella “Redemptoris Mater”, alla presenza di Benedetto XVI, dal Predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap.
Le prediche per l'Avvento di quest'anno ruotano attorno al tema: “Ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Ebrei 1, 2). La prossima si terrà il 21 dicembre, mentre la prima si è tenuta il 7 dicembre.


* * *
P. Raniero Cantalamessa
Seconda Predica di Avvento
Giovanni Battista,
“più che un profeta”



La volta scorsa, partendo dal testo di Ebrei 1,1-3, ho cercato di delineare l’immagine di Gesú quale risulta dal confronto con i profeti. Ma tra il tempo dei profeti e quello di Gesú c’è una figura speciale che fa da cerniera tra i primi e il secondo: Giovanni Battista. Nulla, nel Nuovo Testamento, serve meglio a mettere in luce la novità di Cristo quanto il confronto con il Battista.
Il tema del compimento, della svolta epocale, emerge nitido dai testi in cui Gesú stesso si esprime sul suo rapporto con il Precursore. Oggi gli studiosi riconoscono che i detti che si leggono al riguardo nei vangeli non sono invenzioni o adattamenti apologetici della comunità posteriori alla Pasqua, ma risalgono nella sostanza al Gesú storico. Alcuni di essi diventano, anzi, inspiegabili se attribuiti alla comunità cristiana posteriore1.
Una riflessione su Gesù e il Battista è anche il modo migliore per metterci in sintonia con liturgia dell’Avvento. Il vangelo della seconda e della terza Domenica di Avvento hanno infatti al centro proprio la figura e il messaggio del Precursore. C’è una progressione nell’Avvento: nella prima settimana la voce di spicco è quella del profeta Isaia che annuncia il Messia da lontano; nella seconda e terza settimana è quella del Battista che annuncia il Cristo presente; nell’ultima settimana il profeta e il Precursore lasciano il posto alla Madre che lo porta in grembo.
In questa cappella abbiamo davanti agli occhi il Precursore in due momenti. Nella parete laterale lo vediamo nell’atto di battezzare Gesú, curvo ad arco verso di lui in segno di riconoscimento della sua superiorità; nella parete di fondo, nell’atteggiamento della Deesis tipico della iconografia bizantina.
1. La grande svolta
Il testo più completo in cui Gesú si esprime sul suo rapporto con Giovanni Battista è il brano evangelico che la liturgia ci farà leggere domenica prossima nella Messa. Giovanni, dalla prigione, manda i suoi discepoli a chiedere a Gesú: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2-6; Lc 7, 19-23).
La predicazione del Rabbi di Nazareth che lui stesso aveva battezzato e presentato a Israele sembra a Giovanni andare in una direzione ben diversa da quella fiammeggiante che egli si aspettava. Più che il giudizio imminente di Dio, egli predica la misericordia presente, offerta a tutti, giusti e peccatori.
La cosa più significativa di tutto il testo è l’elogio che Gesù fa del Battista, dopo aver risposto alla sua domanda: “Cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta […]. In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui. Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono. La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, egli è quell'Elia che deve venire. Chi ha orecchi intenda” (Mt 11, 11-15).
Una cosa appare chiara da queste parole: tra la missione di Giovanni Batista e quella di Gesú è avvenuto qualcosa di così decisivo da costituire uno spartiacque tra due epoche. Il baricentro della storia si è spostato: la cosa più importante non è più in un futuro più o meno imminente, ma è “ora e qui”, nel regno che è già operante nella persona di Cristo. Tra le due predicazioni è avvenuto un salto di qualità: il più piccolo del nuovo ordine è superiore al più grande dell’ordine precedente.
Questo tema del compimento e della svolta epocale trova conferma in molti altri contesti del vangelo. Basta ricordare alcune parole di Gesù come: “Ecco, ora qui c'è più di Giona! […]. Ecco, ora qui c'è più di Salomone!” (Mt 12 41-42). “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!” (Mt 13, 16-17). Tutte le cosiddette “parabole del regno”, -si pensi a quelle del tesoro nascosto e della perla preziosa - esprimono, in modo ogni volta diverso e nuovo, la stessa idea di fondo: con Gesú è scoccata l’ora decisiva della storia, davanti a lui si impone la decisione dalla quale dipende la salvezza.
Fu questa constatazione che spinse i discepoli di Bultmann a separarsi dal maestro. Bultmann collocava Gesú nel giudaismo, facendo di lui una premessa del cristianesimo, non ancora un cristiano; attribuiva invece la grande svolta alla fede della comunità post-pasquale. Bornkamm e Conzelmann si resero conto dell’impossibilità di questa tesi: la “svolta epocale” avviene già nella predicazione di Gesú. Giovanni appartiene alle “premesse” e alla preparazione, ma con Gesú siamo già al tempo del compimento.
Nel suo libro Gesú di Nazaret, il Santo Padre conferma questa conquista dell’esegesi più seria e aggiornata. Scrive: “Perché si giungesse a quel contrasto radicale, perché si ricorresse a quel gesto estremo –la consegna ai romani – doveva essere accaduto o essere stato detto qualcosa di drammatico. L’elemento importante e sconvolgente si colloca proprio all’inizio; la Chiesa nascente dovette riconoscerlo solo lentamente in tutta la sua grandezza, afferrarlo poco per volta, accompagnando e penetrando il ricordo con la riflessione […]. L’elemento grande, nuovo ed eccitante proviene proprio da Gesú; nella fede e nella vita della comunità esso viene dispiegato, ma non creato. Anzi, la comunità non si sarebbe neppure formata e non sarebbe sopravvissuta se non fosse stata preceduta da una realtà straordinaria” 2.
Nella teologia di Luca è evidente che Gesú occupa “il centro del tempo”. Con la sua venuta egli ha diviso la storia in due parti, creando un “prima” e un “dopo” assoluti. Oggi sta diventando prassi comune, specie nella stampa laica, quella di abbandonare il modo tradizionale di datare gli eventi “avanti Cristo” o “dopo Cristo” (ante Christum natum e post Christum natum), in favore della formula più neutrale “prima dell’era volgare” e “dell’era volgare”. È una scelta motivata dal desiderio di non urtare la sensibilità di popoli di altre religioni che usano la cronologia cristiana; in tal senso va rispettata, ma per i cristiani resta indiscusso il ruolo “discriminante” della venuta di Cristo per la storia religiosa dell’umanità.
2. Egli vi battezzerà in Spirito Santo
Ora, come sempre, partiamo dalla certezza esegetica e teologica messa in luce per venire all’oggi della nostra vita.
Il confronto tra il Battista e Gesú si cristallizza nel Nuovo Testamento nel confronto tra il battesimo di acqua e il battesimo di Spirito. “Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo” (Mc 1,8; Mt 3,11; Lc 3,16). “Io non lo conoscevo –dice il Battista nel vangelo di Giovanni - , ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo” (Gv 1,33). E Pietro, nella casa di Cornelio: “Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo” (At 11,16).
Che significa dire che Gesú è colui che battezza in Spirito Santo? L’espressione non serve solo a distinguere il battesimo di Gesú da quello di Giovanni; serve a distinguere l’intera persona e opera di Cristo da quelle del Precursore. In altre parole, in tutta la sua opera Gesú è colui che battezza in Spirito Santo. Battezzare ha qui un significato metaforico; vuol dire inondare, avvolgere da tutte le parti, come fa l’acqua con i corpi immersi in essa.
Gesú “battezza in Spirito Santo” nel senso che riceve e da lo Spirito “senza misura” (cf. Gv 3, 34), che “effonde” il suo Spirito (At 2, 33) su tutta l’umanità redenta. L’espressione si riferisce più all’avvenimento di Pentecoste che al sacramento del battesimo. “Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni” (At 1,5), dice Gesú agli apostoli riferendosi evidentemente alla Pentecoste che sarebbe avvenuta di lì a pochi giorni.
L’espressione “battezzare nello Spirito” definisce dunque l’opera essenziale del Messia che già nei profeti dell’Antico Testamento appare orientata a rigenerare l’umanità mediante una grande e universale effusione dello Spirito di Dio (cf. Gl 3, 1 ss.). Applicando tutto ciò alla vita e al tempo della Chiesa, dobbiamo concludere che Gesú risuscitato non battezza in Spirito Santo unicamente nel sacramento del battesimo, ma, in modo diverso, anche in altri momenti: nell’Eucaristia, nell’ascolto della Parola e, in genere, in tutti i mezzi di grazia.
San Tommaso d’Aquino scrive: “C’è una missione invisibile dello Spirito ogni volta che si realizza un progresso nella virtù o un aumento di grazia...; quando qualcuno passa a una nuova attività o a un nuovo stato di grazia”3. La liturgia stessa della Chiesa inculca ciò. Tutte le sue preghiere e i suoi inni allo Spirito Santo cominciano con il grido: “Vieni!”: “Vieni o Spirito Creatore”, “Vieni, Santo Spirito“. Eppure chi prega così ha gia ricevuto una volta lo Spirito. Vuol dire che lo Spirito è qualcosa che abbiamo ricevuto e che dobbiamo ricevere sempre di nuovo.
3. Il battesimo nello Spirito
In questo contesto, bisogna accennare al cosiddetto “battesimo dello Spirito” che da un secolo è divenuto esperienza vissuta da milioni di credenti in quasi tutte le denominazioni cristiane. Si tratta di un rito fatto di gesti di grande semplicità, accompagnati da disposizioni di pentimento e di fede nella promessa di Cristo: “Il Padre darà lo Spirito Santo a chi glielo chiede”.
È un rinnovamento e una attivazione, non solo del battesimo e della cresima, ma di tutti gli eventi di grazia del proprio stato: ordinazione sacerdotale, professione religiosa, matrimonio. L’interessato vi si prepara, oltre che attraverso una buona confessione, partecipando a incontri di catechesi, nei quali è rimesso in un contatto vivo e gioioso con le principali verità e realtà della fede: l’amore di Dio, il peccato, la salvezza, la vita nuova, la trasformazione in Cristo, i carismi, i frutti dello Spirito. Il tutto, in un clima caratterizzato da profonda comunione fraterna.
A volte invece tutto avviene spontaneamente, fuori di ogni schema e si è come “sorpresi” dallo Spirito. Un uomo ha reso questa testimonianza: “Ero sull’aereo e stavo leggendo l’ultimo capitolo di un libro sullo Spirito Santo. A un certo punto, fu come se lo Spirito Santo uscisse dalle pagine del libro ed entrasse nel mio corpo. Lacrime presero a scendere dai miei occhi a ruscelli. Cominciai a pregare. Ero sopraffatto da una forza molto al di sopra di me” 4.
L’effetto più comune di questa grazia è che lo Spirito Santo, da oggetto di fede intellettuale, più o meno astratto, diventa un fatto di esperienza. Karl Rahner ha scritto: “Non possiamo contestare che l’uomo possa fare quaggiù delle esperienze di grazia, le quali gli dànno un senso di liberazione, gli aprono orizzonti del tutto nuovi, si imprimono profondamente in lui, lo trasformano, plasmando, anche per lungo tempo, il suo atteggiamento cristiano più intimo. Nulla vieta di chiamare tali esperienze battesimo dello Spirito”5.
Attraverso quello che viene chiamato, appunto, “battesimo dello Spirito”, si fa esperienza dell’unzione dello Spirito Santo nella preghiera, del suo potere nel ministero pastorale, della sua consolazione nella prova, della sua guida nelle scelte. Prima ancora che nella manifestazione dei carismi, è così che lo si percepisce: come Spirito che trasforma interiormente, dona il gusto della lode di Dio, apre la mente alla comprensione delle Scritture, insegna a proclamare Gesù “Signore” e dà il coraggio di assumersi compiti nuovi e difficili, nel servizio di Dio e del prossimo.
Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario del ritiro da cui ebbe inizio, nel 1967, il Rinnovamento carismatico nella Chiesa cattolica che si stima abbia raggiunto in pochi anni non meno di ottanta milioni di cattolici. Ecco come descriveva gli effetti del battesimo dello Spirito su si sé e sul gruppo, una delle persone che erano presenti a quel primo ritiro:
“La nostra fede è diventata viva; il nostro credere è diventato una sorta di conoscere. Improvvisamente, il soprannaturale è diventato più reale del naturale. In breve, Gesù è una persona viva per noi… La preghiera e i sacramenti sono diventati veramente il nostro pane quotidiano, e non delle generiche ‘pie pratiche’. Un amore per le Scritture che io non avrei mai creduto possibile, una trasformazione delle nostre relazioni con gli altri, un bisogno e una forza di testimoniare al di là di ogni aspettativa: tutto ciò è diventato parte della nostra vita. L’esperienza iniziale del battesimo dello Spirito non ci ha dato particolare emozione esteriore, ma la vita è diventata soffusa di calma, di fiducia, gioia e pace...Abbiamo cantato il Veni creator Spiritus prima di ogni incontro, prendendo sul serio quello che dicevamo e non siamo stati delusi...Siamo anche stati inondati di carismi e tutto ciò ci mette in una perfetta atmosfera ecumenica”6.
Tutti vediamo con chiarezza che queste sono precisamente le cose di cui ha più bisogno oggi la Chiesa per annunciare il vangelo a un mondo divenuto refrattario alla fede e al soprannaturale. Non è detto che tutti siano chiamati a sperimentare la grazia di una nuova Pentecoste in questa modalità. Tutti però siamo chiamati a non rimanere al di fuori di questa “corrente di grazia” che attraversa la Chiesa del dopo Concilio. Giovanni XXIII parlò, a suo tempo, di “una novella Pentecoste”; Paolo VI è andato oltre e ha parlato di “una perenne Pentecoste”, di una Pentecoste continua. Vale la pena riascoltare le parole da lui pronunciate durante una udienza generale:
“Ci siamo chiesti più volte ...quale bisogno avvertiamo, primo ed ultimo, per questa nostra Chiesa benedetta e diletta. Lo dobbiamo dire quasi trepidanti e preganti, perché è il suo mistero e la sua vita, voi lo sapete: lo Spirito, lo Spirito Santo, animatore e santificatore della Chiesa, suo respiro divino, il vento delle sue vele, suo principio unificatore, sua sorgente interiore di luce e di forza, suo sostegno e suo consolatore, sua sorgente di carismi e di canti, sua pace e suo gaudio, suo pegno e preludio di vita beata ed eterna. La Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo...Ha bisogno, la Chiesa, di riacquistare l’ansia, il gusto e la certezza della sua verità...” 7.
Il filosofo Heidegger concludeva la sua analisi della società con il grido allarmato: “Solo un dio ci può salvare”. Questo Dio che ci può salvare, e che ci salverà, noi cristiani lo conosciamo: è lo Spirito Santo! Oggi dilaga la moda della cosiddetta aromaterapia. Si tratta dell’utilizzo degli oli essenziali, che emettono profumo, per il mantenimento della salute o per la terapia di alcuni disturbi. Internet è piena di reclami di aromaterapia. Non ci si accontenta di promettere con essi benessere fisico come la cura dello stress; ci sono anche i ”profumi dell’anima”, per esempio il profumo per ottenere “la pace interiore”.
I medici invitano a diffidare di questa pratica che non è scientificamente accertata e che comporta anzi, in alcuni casi, delle controindicazioni. Ma quello che voglio dire è che esiste una aromaterapia sicura, infallibile, che non comporta alcuna controindicazione: quella fatta con l’aroma speciale, il “sacro crisma dell’anima” che è lo Spirito Santo! Sant’Ignazio di Antiochia ha scritto: “Il Signore ha ricevuto sul suo capo un’unzione profumata (myron) per spirare sulla Chiesa l’incorruttibilità”8. Solo se riceviamo questo “aroma” potremo essere, a nostra volta, “il buon odore di Cristo” nel mondo (2 Cor 2, 15).
Lo Spirito Santo è specialista soprattutto delle malattie del matrimonio e della famiglia che sono i grandi malati di oggi. Il matrimonio consiste nel donarsi l’uno all’altro, è il sacramento del farsi dono. Ora lo Spirito Santo è il dono fatto persona; è il donarsi del Padre al Figlio e del Figlio al Padre. Dove arriva lui rinasce la capacità di farsi dono e con essa la gioia e la bellezza di vivere insieme per gli sposi. L’amore di Dio che egli “effonde nei nostri cuori” ravviva ogni altra espressione di amore e in primo luogo quello coniugale. Lo Spirito Santo può fare davvero della famiglia, “la principale agenzia di pace”, come la definisce il Santo Padre nel messaggio per la prossima giornata mondiale della pace.
Ci sono esempi numerosi di matrimoni morti, risuscitati a nuova vita dall’azione dello Spirito. Ho raccolto proprio in questi giorni la commovente testimonianza di una coppia che penso di far ascoltare nella puntata del mio programma televisivo sul vangelo per la festa del battesimo di Gesú…
Lo Spirito ravviva, naturalmente, anche la vita dei consacrati che consiste nel fare della propria vita un dono e un’oblazione “di soave odore” a Dio per i fratelli (cf. Ef 5,2).
4. La nuova profezia di Giovanni Battista
Tornando a Giovanni Battista, egli ci può illuminare su come assolvere il nostro compito profetico nel mondo d’oggi. Gesú definisce Giovanni Battista “più che un profeta”, ma dov'è la profezia nel suo caso? I profeti annunciavano una salvezza futura; ma il Precursore non è uno che annuncia una salvezza futura; egli indica uno che è presente. In che senso allora si può chiamare profeta? Isaia, Geremia, Ezechiele aiutavano il popolo a oltrepassare la barriera del tempo; Giovanni Battista aiuta il popolo ad oltrepassare la barriera, ancora più spessa, delle apparenze contrarie, dello scandalo, della banalità e povertà con cui l'ora fatidica si manifesta.
E' facile credere a qualcosa di grandioso, di divino, quando si prospetta in un futuro indefinito: "in quei giorni", "negli ultimi giorni", in una cornice cosmica, con i cieli che stillano dolcezza e la terra che si apre per fare germogliare il Salvatore. È più difficile quando si deve dire: "Eccolo! E' qui! E' lui!".
Con le parole: "In mezzo a voi c'è uno che voi non conoscete!" (Gv 1,26), Giovanni Battista ha inaugurato la nuova profezia, quella del tempo della Chiesa, che non consiste nell'annunciare una salvezza futura e lontana, ma nel rivelare la presenza nascosta di Cristo nel mondo. Nello strappare il velo dagli occhi della gente, scuoterne l’indifferenza, ripetendo con Isaia: "C’è una cosa nuova: proprio ora germoglia: non ve ne accorgete?" (cf Is 43,19).
E' vero che ora sono passati venti secoli e noi sappiamo, su Gesú, molte più cose di Giovanni. Ma lo scandalo non è rimosso. Al tempo di Giovanni lo scandalo derivava dal corpo fisico di Gesú, dalla sua carne così simile alla nostra, eccetto il peccato. Anche oggi è il suo corpo, la sua carne a fare difficoltà e a scandalizzare: il suo corpo mistico, così simile al resto dell'umanità, non escluso, ahimé, neppure il peccato.
"La testimonianza di Gesù - si legge nell'Apocalisse - è lo spirito di profezia" (Ap 19,10), cioè, per rendere testimonianza a Gesù si richiede spirito di profezia. C'è questo spirito di profezia nella Chiesa? Lo si coltiva? Lo si incoraggia? O si crede, tacitamente, di poter fare a meno di esso, puntando di più sui mezzi e gli accorgimenti umani?
Giovanni Battista ci insegna che per essere profeti non occorre una grande dottrina e eloquenza. Egli non è un grande teologo; ha una cristologia assai povera e rudimentale. Non conosce ancora i titoli più alti di Gesù: Figlio di Dio, Verbo e neppure quello di Figlio dell'uomo. Ma come riesce a fare sentire la grandezza e unicità di Cristo! Usa immagini semplicissime, da contadino. “Non sono degno di sciogliere i legacci dei suoi sandali”. Il mondo e l'umanità appaiono, dalle sue parole, contenuti dentro un vaglio che egli, il Messia, regge e scuote nelle sue mani. Davanti a lui si decide chi sta e chi cade, chi è grano buono e chi è pula che il vento disperde.
Nel 1992 si tenne un ritiro sacerdotale a Monterrey in Messico, in occasione dei 500 anni dalla prima evangelizzazione dell’America Latina. Erano presenti 1700 sacerdoti e una settantina di vescovi. Durante l’omelia della Messa conclusiva avevo parlato del bisogno urgente che la Chiesa ha di profezia. Dopo la comunione ci fu la preghiera per una nuova Pentecoste in piccoli gruppi sparsi nella grande basilica. Io ero rimasto sul presbiterio. A un certo punto un giovane sacerdote mi si avvicinò in silenzio, mi si inginocchiò davanti e con uno sguardo che non dimenticherò mai mi disse: “Bendígame, Padre, quiero ser profeta de Dios!”. Benedicimi, Padre, voglio essere un profeta di Dio. Mi venne un brivido perché vedevo che era mosso evidentemente dalla grazia.
Potremmo con umiltà fare nostro il desiderio di quel sacerdote: “Voglio essere un profeta per Dio”. Piccolo, sconosciuto da tutti, non importa, ma uno che, come diceva Paolo VI, ha “fuoco nel cuore, parola sulle labbra, profezia nello sguardo”.
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1 Cf. J. D.G. Dunn, Christianity in the Making, I. Jesus remembered, Grand Rapids. Mich. 2003, parte III, cap. 12, trad. ital. Gli albori del Cristianesimo, I, 2, Paideia, Brescia 2006, pp. 485-496.
2 Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli 2007, p. 372.
3 S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I,q.43, a. 6, ad 2.; cf. F. Sullivan, in Dict.Spir. 12, 1045.
4 In “New Covenant”(Ann Arbor, Michigan), Giugno 1984, p.12.
5 K. Rahner, Erfahrung des Geistes. Meditation auf Pfingsten, Herder, Friburgo i. Br. 1977.
6 Testimonianza riportata in P. Gallagher Mansfield, As by a New Pentecost, Steubenville 1992, pp. 25 s.
7 Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).
8 S. Ignazio d’Antiochia, Agli Efesini 17.


IL SENSO DELLA MISSIONE - ANNUNCIO NOSTRO DOVERE DI LIBERTÀ –Avvenire, 15.12.2007
RINO FISICHELLA
La missione propria della Chiesa nel mondo è portare il Vangelo di Gesù Cristo. Nel momen­to in cui questo non è più annunciato secondo il comando del Signore, viene meno l’opera stessa dei cristiani e si appanna la loro presenza nel mon­do. Cercare forme alternative porterebbe fuori stra­da e, probabilmente, servirebbe solo a rimanere tranquilli in casa propria. Niente di più contrario alla fede, tuttavia, è un cristianesimo in pantofo­le. Diverse tendenze teologiche, con ricadute nel­la pastorale e nei comportamenti dei fedeli, insi­nuano oggi che l’esigenza missionaria debba es­sere superata. Si sostiene che dovremmo limitar­ci a esprimere le nostre convinzioni, ma senza chiedere la conversione a Cristo e alla Chiesa cat­tolica. Ognuno, quindi, dovrebbe vivere nella pro­pria religione in maniera coerente; ogni altra for­ma diventerebbe un attentato alla libertà perso­nale e fonte di intolleranza. Se questa mentalità fos­se stata presente nei primi discepoli, probabil­mente, noi oggi non esisteremmo.
L’evangelizzazione non è una delle tante attività dei cristiani: insieme alla celebrazione dell’eucaristia è il fondamento della fede cristiana. Tra i due mo­menti esiste una simbiosi tale che non può esi­stere una senza l’altra. Fin dai primordi del cri­stianesimo, la piccola comunità dei discepoli si è distinta da ogni altro gruppo per questo motivo. La celebrazione della cena del Signore, infatti, ren­deva evidente ciò che la predicazione annuncia­va. Attraverso l’annuncio del Vangelo, la salvezza portata da Gesù raggiungeva i confini più estremi della terra, portando con sé l’anelito di pace, giu­stizia e amore che corri­spondeva al desiderio rac­chiuso nel cuore di ogni per­sona. Con la celebrazione dell’eucaristia, la verità del­la predicazione diventava talmente evidente che o­gnuno aveva certezza di es­sere realmente salvato. «Guai a me se non evange­lizzo », ripeteva l’apostolo Paolo; questa espressione mantiene immutata la sua forza. La nostra storia, dun­que, si racchiude in questa parola; dimenticarlo sareb­be fatale.
La Nota della Congregazio­ne per la Dottrina della fede mentre rileva alcuni aspetti problematici presen­ti nel dibattito teologico, riporta al centro dell’a­zione della Chiesa il compito primario che essa possiede. Il suo linguaggio sobrio e incisivo non si attarda in lunghi ragionamenti tortuosi. Arriva su­bito al cuore del problema e delinea con chiarez­za il compito che da sempre appartiene a ogni bat­tezzato. Quando si perde il senso della missione e si insinuano teorie effimere, allora la fede si inde­bolisce. Si crea un circuito di confusione e si met­te a repentaglio il prezioso lavoro di tanti missio­nari che nel corso dei secoli con passione, fatica e spesso a prezzo della vita hanno annunciato a tut­ti Gesù Cristo e la sua Chiesa. È peculiare di ogni religione l’annuncio missionario; non è tanto un problema di sopravvivenza, ma di certezza per la verità delle proprie scelte. La fede cristiana impli­ca una relazione indissolubile con la verità. Nes­suno vuole essere ingannato nel momento in cui offre la propria vita a un ideale; anzi, lo identifica come l’offerta di senso che corrisponde al suo in­timo desiderio di verità e di libertà. La fede in Ge­sù Cristo e l’appartenenza alla sua Chiesa sono la risposta di libertà che i cattolici sentono. È questa certezza di aver trovato la verità sulla propria vita che li rende missionari, perché la gioia che è stata data loro possa raggiungere quanti incontrano nel loro cammino.
L’evangelizzazione è un’esigenza che nasce dal­l’amore non altrimenti. Solo in questo modo vie­ne percepita anche da chi non crede come rispo­sta alla nostalgia di Dio che è racchiusa nell’inti­mo di ognuno. Se l’esigenza missionaria è sentita nei confronti di quanti non credono o vivono in al­tre religioni, spesso viene fraintesa nell’ambito e­cumenico. È vero, il battesimo ci unisce tutti per la fede nella Trinità e con i fratelli dell’ortodossia celebriamo l’unica santa eucaristia. L’esigenza mis­sionaria che scaturisce dalla pienezza della verità, comunque, deve coinvolgere tutti in un annuncio che oltrepassa i nostri confini. Parlare di proseli­tismo tra cristiani – nel senso negativo che oggi viene dato al termine – è fuorviante.
La verità che Gesù ha affidato alla sua Chiesa ri­chiede, piuttosto, la riscoperta di una collabora­zione piena che mette al centro una sempre rin­novata conversione a lui e una personale respon­sabilità di scegliere in piena libertà. Ricordarlo è un’esigenza vitale, viverlo un obbligo morale.


Francia «Sdoganato» il lavoro domenicale Critiche dai gruppi pro-famiglia
Avvenire, 15.12.2007
DA PARIGI
DANIELE ZAPPALÀ

La Francia ha appena ingra­nato una nuova marcia ver­so la liberalizzazione del la­voro domenicale e la polemica cresce di ora in ora. L’altra notte il Senato ha adottato un emenda­mento che autorizza l’apertura domenicale dei «luoghi di com­mercio al dettaglio d’arredamen­to ». Una definizione abbastanza vaga che sembra poter spianare la strada a interpretazioni molto e­stensive.
L’emendamento, proposto da u­na senatrice neogollista, giunge nella scia di diverse condanne contro grandi magazzini d’arre­damento per “apertura selvaggia” domenicale. Secondo diverse vo­ci critiche, le pressioni da parte dei grandi gruppi interessati avreb­bero orientato il voto della mag­gioranza.
In Francia, si tratta di una nuova tappa nel processo di liberalizza­zione, sostenuto in prima linea dal presidente Nicolas Sarkozy che vede in simili misure una solu­zione efficace per rilanciare il li­vello dei consumi. Il Medef, equi­valente francese della Confindu­­stria, si è espresso a favore, men­tre tutti i principali sindacati fan­no blocco contro il provvedimen­to. Decisiva sarà la “conferenza so­ciale” della settimana prossima.
Il governo prevederebbe una va­sta riforma della legislazione per la prossima primavera, ma le re­sistenze sono multiple e giungo­no anche dalle associazioni di so­stegno alla famiglia. Secondo i sondaggi, poi, la maggioranza dei francesi sono contrari al lavoro domenicale. Il mondo cattolico ha espresso da tempo la propria profonda inquietudine. Il cardi- nale André Vingt-Trois, arcive­scovo di Parigi e da poco eletto presidente della Conferenza epi­scopale, aveva affrontato il tema in modo diretto in occasione del­la messa per il nuovo anno parla­mentare.
Il presule aveva posto in par­ticolare una serie di do­mande: «Ne­gli studi sul lavoro domenicale, si tiene conto in modo sufficiente delle ricadu­te della volatilità del tempo di la­voro sull’equilibrio delle famiglie? Quali possibilità resteranno che tutti, genitori e bambini, possano ritrovarsi assieme un giorno inte- ro e nutrire delle relazioni più ric­che che sotto il vincolo dei giorni di apertura obbligatoria, più ric­che e varie del produrre e del con­sumare? (...) Anche se molte per­sone desidereranno lavorare in queste con­dizioni per migliorare la propria pa­ga, si tratta per questo di una pro­posta ragionevole?». Il cardinale ha poi ricordato che «è legittimo che i cattolici possano vivere la lo­ro religione ed educare i loro figli in questa religione senza dover fa­re delle acrobazie per gestire il lo­ro calendario».
Il Senato ha approvato un emendamento che autorizza l’apertura ai centri commerciali


Privandolo della sua croce, l'egualitarismo sessuale ha trasformato il maschio in un egoista violento - Claudio Risè

[Da «Tempi», num. 50 del 13 dicembre 2007]

Molti lettori sanno che ho dedicato gran parte degli ultimi 20 anni alla psicologia dell'uomo, al padre come iniziatore alla vita, alla relazione tra il maschio, il dono e il sacrificio di sé, alla sua spinta spirituale. Negando la quale è destinato a sprofondare nel fango o a perdersi tra gli oggetti, le cose. Come la metto, allora, con i padri che uccidono mogli e figli, o ne abusano? Coi mariti e i fidanzati che non sanno donare alle loro donne la libertà che pur loro appartiene? Con quelli che minacciano: "Se mi lasci ti uccido", e poi lo fanno? Le lettere che ricevo, a decine, con corredo di atti giudiziari, certificati medici, ricevute dei dormitori pubblici; che raccontano le tragedie del mondo sommerso dei separati, uomini che dopo aver ricevuto l'atto giudiziario della moglie che chiedeva la separazione hanno perso tutto, sposa, figli, beni, lavoro, in situazioni di palesi ingiustizie giuridiche, falsità peritali di illustri professionisti, sciocchezze sottoscritte da operatrici sociali incompetenti o di parte, illustrano solo zone dello sfondo normativo e sociale del malessere maschile, ma non giustificano certo tanto orrore. Né ci avanza nella comprensione della questione il tener conto che, come non solo gli psicologi sanno, alla violenza maschile, più fisica, si contrappone una (sovente assai più sistematica) violenza femminile, psicologica, verbale, intrisa di doppi messaggi, i cui effetti sulla psiche dell'uomo sono spesso devastanti. Tutto ciò è vero, e il fatto che media e dibattito culturale lo tacciano non contribuisce certo a migliorare la situazione.

Il punto centrale è però un altro. Ed è che nel grande bla bla sull'eguaglianza dei sessi e sulla "correttezza politica" che doveva regolarne le relazioni, non si è tenuto conto che l'uomo ha una vocazione sacrificale, da cui passa la sua realizzazione, e la sua felicità. Si è fatto, insomma, finta che Gesù Cristo non fosse un maschio (infatti, anche dal punto di vista teologico, molti hanno detto che non era poi così importante. E provate a trovare un rosario, recente, sul quale la persona sulla croce sia inequivocabilmente un uomo e non una figura androgina come quella dipinta non molti anni fa nella chiesa di San Francesco, ad Assisi). Si è voluto pensare che la Croce, salvifica esperienza certo universalmente umana, non riguardasse in prima istanza proprio l'uomo, il maschile, e la relazione Padre-Figlio. Nella quale il padre amoroso è colui che non evita al figlio l'esperienza della croce e del sacrificio, ma ve l'accompagna, trasmettendogliene il significato.

L'energia maschile, la passione dell'uomo, il suo slancio verso il mondo e verso l'altro, deve attraversare l'esperienza del sacrificio per non ripiegare su se stessa e trasformarsi in egoismo, pretesa infantile, cieca aggressività. Per non ridiventare la funesta "ira del Pelìde Achille", destinata al massacro se - anche lì - una dea, Pallade Atena in persona, non lo convincesse della necessità di contenerla, per trasformarla in qualcosa di più grande. La forza maschile, cari socio-psicologi, pone in realtà un problema religioso: quello della sua trasformazione, in sacrificio e dono transpersonale. Non pensiamo di cavarcela con conferenze e articoli del codice.