domenica 2 dicembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1. COSA SIGNIFICA LA BELLISSIMA ENCICLICA DI BENEDETTO XVI SULLA SPERANZA – di Antonio Socci
2. LA SPERANZA DI BENEDETTO XVI - A FIANCO DELL’UOMO OLTRE L’ORIZZONTE DELLE TECNOSCIENZE
3. Benedetto XVI: «Avvento, tempo della speranza»
4. Discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al primo forum delle OGN di matrice cattolica.
5. Perché vinca davvero il popolo deve perdere Chavez
6. Così funziona l’8xmille Una scelta libera per il culto e la carità
7. «Identità di genere, i due nuovi reati sono un’insidia per ogni educatore»



COSA SIGNIFICA LA BELLISSIMA ENCICLICA DI BENEDETTO XVI SULLA SPERANZA
Un testo bellissimo da leggere e meditare… Una bomba. E’ la nuova enciclica di Benedetto XVI, “Spe salvi” dove non c’è neanche una citazione del Concilio (scelta di enorme significato), dove finalmente si torna a parlare dell’Inferno, del Paradiso e del Purgatorio (perfino dell’Anticristo, sia pure in una citazione di Kant), dove si chiamano gli orrori col loro nome (per esempio “comunismo”, parola che al Concilio fu proibito pronunciare e condannare), dove invece di ammiccare ai potenti di questo mondo si riporta la struggente testimonianza dei martiri cristiani, le vittime, dove si spazza via la retorica delle “religioni” affermando che uno solo è il Salvatore, dove si indica Maria come “stella di speranza” e dove si mostra che la fiducia cieca nel (solo) progresso e nella (sola) scienza porta al disastro e alla disperazione.

Benedetto XVI, del Concilio, non cita neanche la “Gaudium et spes”, che pure aveva nel titolo la parola “speranza”, ma spazza via proprio l’equivoco disastrosamente introdotto nel mondo cattolico da questa che fu la principale costituzione conciliare, “La Chiesa nel mondo contemporaneo”. Il Papa invita infatti, al n. 22, a “un’autocritica del cristianesimo moderno”. Specialmente sul concetto di “progresso”. Per dirla con Charles Péguy, “il cristianesimo non è la religione del progresso, ma della salvezza”. Non che il “progresso” sia cosa negativa, tutt’altro e moltissimo esso deve al cristianesimo come dimostrano anche libri recenti (penso a quelli di Rodney Stark, “La vittoria della Ragione” e di Thomas Woods, “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale”). Il problema è l’“ideologia del progresso”, la sua trasformazione in utopia.

Il guaio grave della “Gaudium et spes” e del Concilio fu quello di mutare la virtù teologale della “speranza” nella nozione mondanizzata di ”ottimismo”. Due cose radicalmente antitetiche, perché, come scriveva Ratzinger, da cardinale, nel libro “Guardare Cristo”: “lo scopo dell’ottimismo è l’utopia”, mentre la speranza è “un dono che ci è già stato dato e che attendiamo da colui che solo può davvero regalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storia con Gesù”.

Nella Chiesa del post-Concilio l’“ottimismo” divenne un obbligo e un nuovo superdogma. Il peggior peccato diventò quello di “pessimismo”. A dare il là fu anche l’“ingenuo” discorso di apertura del Concilio fatto da Giovanni XXIII, il quale, nel secolo del più grande macello di cristiani della storia, vedeva rosa e se la prendeva con i cosiddetti “profeti di sventura”: “Nelle attuali condizioni della società umana” disse “essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia… A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo”.

Roncalli fu ritenuto, dall’apologertica progressista, depositario di un vero “spirito profetico”, cosa che si negò – per esempio – alla Madonna di Fatima la quale invece, nel 1917, metteva in guardia da orribili sciagure, annunciando la gravità del momento e il pericolo mortale rappresentato dal comunismo in arrivo (dopo tre mesi) in Russia. Si verificò infatti un oceano di orrore e di sangue. Ma 40 anni dopo, nel 1962, allegramente – mentre il Vaticano assicurava Mosca che al Concilio non sarebbe stato condannato esplicitamente il comunismo e mentre si “condannavano” a mille vessazioni santi come padre Pio – Giovanni XXIII annunciò pubblicamente che la Chiesa del Concilio preferiva evitare “condanne” perché anche se “non mancano dottrine fallaci… ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.

E infatti di lì a poco si ebbe il massimo dell’espansione comunista nel mondo, non solo con regimi che andavano da Trieste alla Cina e poi Cuba e l’Indocina, ma con l’esplosione del ’68 nei Paesi occidentali che per decenni furono devastati dalle ideologie dell’odio. Pochi anni dopo la fine del Concilio Paolo VI tirava il tragico bilancio, per la Chiesa, del ”profetico” ottimismo roncalliano e conciliare: “Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza…L’apertura al mondo è diventata una vera e propria invasione del pensiero secolare nella Chiesa. Siamo stati forse troppo deboli e imprudenti”, “la Chiesa è in un difficile periodo di autodemolizione”, “da qualche parte il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio”.

Per questa leale ammissione, lo stesso Paolo VI fu isolato come “pessimista” dall’establishment clericale per il quale la religione dell’ottimismo “faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione” (oltre a far dimenticare l’enormità dei pericoli che gravano sull’umanità e dogmi quali il peccato originale e l’esistenza di Satana e dell’inferno). Ratzinger, nel libro citato, ha parole di fuoco contro questa sostituzione della “speranza” con l’“ottimismo”. Dice che “questo ottimismo metodico veniva prodotto da coloro che desideravano la distruzione della vecchia Chiesa, con il mantello di copertura della riforma”, “il pubblico ottimismo era una specie di tranquillante… allo scopo di creare il clima adatto a disfare possibilmente in pace la Chiesa e acquisire così dominio su di essa”.

Ratzinger faceva anche un esempio personale. Quando esplose il caso del suo libro intervista con Vittorio Messori, “Rapporto sulla fede”, dove si illustrava a chiare note la situazione della Chiesa e del mondo, fu accusato di aver fatto “un libro pessimistico. Da qualche parte” scriveva il cardinale “si tentò perfino di vietarne la vendita, perché un’eresia di quest’ordine di grandezza semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo”.

Oggi Benedetto XVI, con questa enciclica dal pensiero potente (che valorizza per esempio i “francofortesi”), finalmente mette in soffitta il burroso “ottimismo” roncalliano e conciliare, quell’ideologismo facilone e conformista che ha fatto inginocchiare la Chiesa davanti al mondo e l’ha consegnata a una delle più tremende crisi della sua storia. Così la critica implicita non va più solo al post concilio, alle “cattive interpretazioni” del Concilio, ma anche ad alcune impostazioni del Concilio. Del resto già un teologo del Concilio come fu Henri De Lubac (peraltro citato nell’enciclica) scriveva a proposito della Gaudium et spes: “si parla ancora di ‘concezione cristiana’, ma ben poco di fede cristiana. Tutta una corrente, nel momento attuale, cerca di agganciare la Chiesa, per mezzo del Concilio, a una piccola mondanizzazione”. E persino Karl Rahner disse che lo “schema 13”, che sarebbe divenuto la Gaudium et spes, “riduceva la portata soprannaturale del cristianesimo”. Addirittura Rahner ! Ratzinger visse il Concilio: è l’autore del discorso con cui il cardinale Frings demolì il vecchio S. Uffizio che non pochi danni aveva fatto. E oggi il pontificato di Benedetto XVI si sta qualificando come la chiusura della stagione buia che, facendo tesoro delle cose buone del Concilio, ci ridona la bellezza bimillenaria della tradizione della Chiesa. Non a caso nell’enciclica non è citato il Concilio, ma ci sono S. Paolo e Gregorio Nazianzeno, S. Agostino e S. Ambrogio, S. Tommaso e S. Bernardo. Un’enciclica bella, bellissima. Anche poetica, che parla al cuore dell’uomo, alla sua solitudine e ai suoi desideri più profondi. E’ consigliabile leggerla e meditarla attentamente.

Antonio Socci
Da “Libero”, 1 dicembre 2007




LA SPERANZA DI BENEDETTO XVI - A FIANCO DELL’UOMO OLTRE L’ORIZZONTE DELLE TECNOSCIENZE

ROBERTO COLOMBO
Avvenire, 2.12.2007
Un diffuso stereotipo di alcuni predicatori della emancipazione 'laica' della società moderna da ogni retaggio di storia e di vita religiosa vorrebbe leggere la vicenda del rapporto tra Chiesa, scienze e tecnologie attraverso la sola chiave etico-politica: la prima è inquadrata come «conservatrice per natura» e «moralistica per missione », mentre le seconde sono presentate come «progressiste per statuto» e «libere e liberanti per vocazione». Così, mentre la Chiesa, con le sue distinzioni normative tra il bene e il male, il lecito e l’illecito, continuerebbe a frenare il cammino dell’umanità verso un futuro migliore per qualità e durata della vita e aperto a nuove e imprevedibili opzioni individuali e sociali, le tecnoscienze consegnerebbero finalmente nelle mani dell’uomo il suo destino, rendendo la sua ragione e la sua libertà misura di tutte le cose e artefice di un «coraggioso mondo nuovo», la civiltà della scienza e delle sue macchine.
Benedetto XVI ha affrontato questa critica in un testo incisivo e persuasivo per la ragionevolezza delle sue argomentazioni – l’enciclica Spe salvi –, confrontandosi con essa attraverso l’evidenza della fede e l’esperienza della vita cristiana che non possono venire ridotte a un codice morale di restaurazione dei costumi o a regole di ordinamento della vita sociale e politica. Il cristianesimo ha ben altro respiro. L’avvenimento di Cristo contiene in sé una certezza per il futuro (così definiva San Tommaso la speranza), a partire dalla quale, «e semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti » (§ 1), condotti verso una meta certa e grande, capace non solo di corrispondere alle evidenze e alle esigenze del cuore dell’uomo, ma anche, inverandole, di su­erare ogni prevedibile desiderio o attesa. I 'no' del Papa alla egemonia culturale e sociale delle scienze e delle tecnologie, che vorrebbe imprigionare la speranza dell’uomo entro il vicolo cieco della ragione illuministica (questa 'speranza è fallace', § 25), nascono da un 'sì' all’orizzonte dell’eternità, il solo degno della sete di vita dell’uomo, cui lo spalanca una ragione aperta alla realtà tutta, fino a sfiorare i lembi del Mistero buono da cui tutto proviene e che tutto sostiene.
«La scienza può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però può anche distruggere l’uomo e il mondo» (§ 25) perché, da sola, non «risponde alla domanda più importante per noi: che dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere? – scriveva Max Weber –. E il fatto che non vi risponda è assolutamente incontestabile ». Nelle parole di Benedetto X­VI riecheggia la ragione che fu già di Husserl, quando ricordava che «nella miseria della nostra vita [...] questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i problemi del senso e del non senso dell’esistenza umana nel suo complesso ». Una speranza senza soggetto è una povera speranza, un dramma anonimo, senza protagonista.
Il Papa ha teso la mano agli uomini di scienza, ha spalancato loro la porta del suo cuore di padre, pensoso e attento per il destino di tutti gli uomini, capace di ascoltare le lo­ro domande e le loro attese. Raccogliendo la sfida che fu già di Wittgenstein («noi sentiamo che se pure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati»), Benedetto XVI ricorda che «nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio» (§ 46). In virtù di quest’ultima apertura «noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso » (§ 1), gravati dalla responsabilità che il potere tecnoscientifico ci consegna, ma lietamente certi che «non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore» (§ 25). Lo aveva già intuito un secolo fa Giuseppe Moscati, illustre medico e santo napoletano, quando ripeteva ai suoi allievi: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo».


Benedetto XVI: «Avvento, tempo della speranza» DA ROMA MIMMO MUOLO
Avvenire, 2.12.2007
La speranza «è indelebilmente scritta nel cuore dell’uomo». E a scriverla è stato Dio stes­so. Quel Dio che ha il volto di Gesù Cristo. Perciò non bisogna mai arrendersi al nichilismo che vuole «corroderla», affermando che prima della nascita e dopo la morte non c’è nulla. E per questo l’Avvento, il periodo dedicato all’attesa della nascita di Gesù «è, per eccellen­za, il tempo della speranza».
Nei primi vespri della prima do­menica del periodo che precede il Natale il Papa torna sul tema della sua seconda enciclica, la Spe salvi, pubblicata venerdì, e ne offre egli stesso una chiave di lettura auten­tica. «Sono lieto di offrirla ideal­mente a tutta la Chiesa in questa prima domenica di Avvento – af­ferma all’omelia della celebrazione liturgica che si tiene nella Basilica di San Pietro – affinché, durante la preparazione al Santo Natale, le co­munità e i singoli fedeli possano leggerla e meditarla, per riscoprire la bellezza e la profondità della spe­ranza cristiana».
Le quattro settimane che ci appre­stiamo a trascorrere sono, infatti, ri­corda il Pontefice, «un tempo favo­revole alla riscoperta di una spe­ranza non vaga e illusoria, ma cer­ta e affidabile, perché 'ancorata' in Cristo, Dio fatto uomo, roccia della nostra salvezza».
Benedetto XVI non minimizza, però, le difficoltà che i cristiani devono affrontare oggi, per vivere e testimoniare questa speranza. Difficoltà che traggono alimento da un clima culturale non dissimile da quello in cui si trovavano le prime comunità apostoliche. Il Papa par­la apertamente di «paganesimo dei nostri giorni», in particolare per quanto riguarda il «nichilismo contemporaneo che – sottolinea – corrode la speranza nel cuore dell’uo­mo, inducendolo a pensare che dentro di lui e intorno a lui regni il nulla: nulla prima della nascita, nul­la dopo la morte. In realtà, se man­ca Dio, viene meno la speranza. Tut­to perde di 'spessore'. È come se venisse a mancare la dimensione della profondità ed ogni cosa si ap­piattisse, privata del suo rilievo sim­bolico, della sua 'sporgenza' ri­spetto alla mera materia­lità ». In sostanza, prosegue il Pontefice, «è in gioco il rapporto tra l’esistenza qui ed ora e ciò che chiamiamo 'aldilà': esso non è un luo­go dove finiremo dopo la morte, è invece la realtà di Dio, la pienezza della vita a cui ogni essere umano è, per così dire, proteso. A questa attesa del­l’uomo Dio ha risposto in Cristo con il dono della speranza».
L’Avvento si spiega anche alla luce di tutto ciò. «L’uomo – ricorda Be­nedetto XVI – è l’unica creatura li­bera di dire di sì o di no all’eternità, cioè a Dio. L’essere umano può spe­gnere in se stesso la speranza eli­minando Dio dalla propria vita». «Come può avvenire questo?», si chiede il Papa. E la risposta è che «Dio conosce il cuore dell’uomo. Sa che chi lo rifiuta non ha conosciu­to il suo vero volto, e per questo non cessa di bussare alla nostra porta, come umile pellegrino in cerca di accoglienza. Ecco perché il Signore concede nuovo tempo all’umanità: affinché tutti possano arrivare a co­noscerlo ». Dunque il nuovo anno li­turgico che inizia oggi è «un dono di Dio, il quale vuole nuovamente ri­velarsi nel mistero di Cristo, me­diante la Parola e i Sacramenti». «Al­l’umanità che non ha più tempo per Lui, Dio offre altro tempo, un nuo­vo spazio per rientrare in se stessa, per rimettersi in cammino, per ri­trovare il senso della speranza».
L’iniziativa perciò è sempre di Dio. «La nostra speranza è sempre pre­ceduta dall’attesa che Egli coltiva nei nostri confronti». «Ogni bambi­no che nasce è segno della fiducia di Dio nell’uomo ed è conferma, al­meno implicita, della speranza che l’uomo nutre in un futuro aperto sull’eterno di Dio». Allo stesso mo­do sono segni di speranza «le fatiche degli umili e dei piccoli», i quali «si impegnano ogni giorno a fare del loro meglio, a compiere quel poco di bene che però agli occhi di Dio è tanto: in famiglia, nel posto di lavo­ro, a scuola, nei diversi ambiti della società».
Dunque, conclude Benedetto XVI, «nel cuore dell’uomo è indelebilmente scritta la speranza, perché Dio nostro Padre è vita, e per la vita eterna e beata siamo fatti».



Discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al primo forum delle OGN di matrice cattolica.

La verità sull'uomo garantisce la convivenza tra i popoli
«Spesso il dibattito internazionale appare segnato da una logica relativistica che pare ritenere, come unica garanzia di una convivenza pacifica tra i popoli, il negare cittadinanza alla verità sull'uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale...»


Eccellenze,
Rappresentanti della Santa Sede
presso
gli Organismi Internazionali,
cari amici,
sono lieto di dare il mio benvenuto a tutti voi che siete convenuti a Roma per riflettere insieme sul contributo che le Organizzazioni non Governative (ONG) di ispirazione cattolica possono offrire, in stretta collaborazione con la Santa Sede, alla soluzione delle tante problematiche e sfide che affronta la molteplice attività delle Nazioni Unite e delle altre organizzazioni internazionali e regionali. A ciascuno di voi rivolgo il mio cordiale saluto. Ringrazio in particolare il Sostituto della Segreteria di Stato che si è fatto cortese interprete dei comuni sentimenti, delineandomi nel contempo gli obbiettivi del vostro Forum. Saluto, inoltre, il giovane rappresentante delle Organizzazioni non Governative, qui presente.
Ai lavori di quest'importante riunione prendono parte rappresentanti di realtà nate negli anni in cui sbocciava per la prima volta l'azione del laicato cattolico a livello internazionale, come pure membri di altre associazioni sorte recentemente, di pari passo con l'attuale processo di integrazione globale. Vi è poi chi si dedica prevalentemente all'azione di advocacy, e chi si occupa principalmente della gestione concreta di progetti di cooperazione allo sviluppo. Alcune vostre organizzazioni si configurano nella Chiesa come Associazioni Pubbliche e Private di Fedeli o partecipano al carisma di taluni Istituti di Vita Consacrata, altre hanno solo un riconoscimento giuridico nell'ordine civile e annoverano fra i loro membri anche non cattolici e non cristiani. Tutti, però, vi accomuna l'unica passione per la dignità dell'uomo, quella stessa passione che ispira costantemente l'azione della Santa Sede presso le diverse istanze internazionali. Ed è proprio per questo che si è voluto promuovere l'incontro di questi giorni: per esprimervi cioè gratitudine e apprezzamento per quanto già fate, collaborando attivamente con i Rappresentanti Pontifici presso gli Organismi Internazionali. Allo stesso tempo si intende rendere ancor più stretta e, dunque, più efficace questa comune azione al servizio del bene integrale della persona umana e dell'umanità.
Non bisogna, del resto, dimenticare che questa unità di scopi è possibile realizzarla attraverso ruoli e modalità diverse. Infatti, mentre la diplomazia multilaterale della Santa Sede deve, prevalentemente, affermare i grandi principi fondamentali della vita internazionale, perché il contributo specifico della Gerarchia Chiesa è "servire la formazione della coscienza, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili" (Deus Caritas est, 28, a), dall'altra parte "il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici - nel caso della vita internazionale, dei diplomatici cristiani e dei membri delle ONG - che sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica... a configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità (Ibid., 29).
La cooperazione internazionale tra i Governi, nata già alla fine del secolo XIX e sviluppatasi sempre più nel secolo scorso, nonostante le tragiche interruzioni delle due guerre mondiali, ha contribuito significativamente alla creazione di un ordine internazionale più giusto. A tale riguardo, possiamo osservare con soddisfazione ai risultati ottenuti, quali il riconoscimento universale del primato giuridico e politico dei diritti umani, la fissazione di obiettivi condivisi per il pieno godimento dei diritti economici e sociali da parte di tutti gli abitanti della terra, la promozione della ricerca di un sistema economico mondiale giusto e, ultimamente, la salvaguardia dell'ambiente e la promozione del dialogo interculturale.
Tuttavia, spesso il dibattito internazionale appare segnato da una logica relativistica che pare ritenere, come unica garanzia di una convivenza pacifica tra i popoli, il negare cittadinanza alla verità sull'uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale. Viene così di fatto ad imporsi una concezione del diritto e della politica, in cui il consenso tra gli Stati, ottenuto talvolta in funzione di interessi di corto respiro o manipolato da pressioni ideologiche, risulterebbe essere la sola ed ultima fonte delle norme internazionali. I frutti amari di tale logica relativistica nella vita internazionale sono purtroppo evidenti: si pensi, ad esempio, al tentativo di considerare come diritti dell'uomo le conseguenze di certi stili egoistici di vita, oppure al disinteresse per le necessità economiche e sociali dei popoli più deboli, o al disprezzo del diritto umanitario e ad una difesa selettiva dei diritti umani. Auspico che lo studio e il confronto di questi giorni permetta di individuare modi efficaci e concreti per far recepire a livello internazionale gli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. In tale senso, vi incoraggio ad opporre al relativismo la grande creatività della verità circa l'innata dignità dell'uomo e dei diritti che ne conseguono. Una tale creatività consentirà di dare una risposta più adeguata alle molteplici sfide presenti nell'odierno dibattito internazionale e soprattutto permetterà di promuovere iniziative concrete, che vanno vissute in spirito di comunione e libertà.
Occorre uno spirito di solidarietà che conduca a promuovere uniti quei principi etici non "negoziabili" per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale. Solidarietà intrisa di forte senso di amore fraterno che porti ad apprezzare le iniziative altrui, a facilitarle e a collaborare con esse. In forza di questo spirito non si mancherà, ogni volta che sia utile o necessario, di coordinarsi sia tra le diverse ONG sia con i Rappresentanti della Santa Sede, sempre nel rispetto della diversità di natura, di fini istituzionali e dei metodi operativi. D'altra parte, un autentico spirito di libertà, vissuto nella solidarietà, spingerà l'iniziativa dei membri delle ONG ad espandersi in una vasta pluralità di orientamenti e di soluzioni circa le questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno. Infatti, se vissuti nella solidarietà, il legittimo pluralismo e la diversità non solo non diventano motivo di divisione e concorrenza, ma sono condizione di maggiore efficacia. L'azione delle Organizzazioni che voi rappresentate sarà dunque veramente feconda se resterà fedele al Magistero della Chiesa, ancorata nella comunione con i suoi Pastori e soprattutto con il Successore di Pietro, ed affronterà con un'apertura prudente le sfide dell'ora presente.
Cari amici, vi rinnovo il mio grazie per l'odierna vostra presenza e per il vostro impegno nel promuovere la causa della giustizia e della pace all'interno dell'umana famiglia. Mentre vi assicuro il mio speciale ricordo nella preghiera, invoco su di voi e sulle Organizzazioni che rappresentate la protezione materna di Maria, Regina Mundi, imparto con affetto la mia Benedizione Apostolica a voi, alle vostre famiglie e a quanti sono membri delle vostre Associazioni.
L'Osservatore Romano - 2 dicembre 2007





IL DANTE DI BENIGNI NEI LUOGHI ( E NEI NON LUOGHI) DELL’OGGI
Dateci di questa poesia
GABRIELLA SARTORI
Avvenire, 2 dicembre 2007
Benigni e Dante: non lasciamo cadere l’argomento. È vero che, nella serata del televisiva del 29 novembre, la parte dedicata alla satira politica si è protratta troppo a lungo, che certe battutacce erano scontate (e qualche volta volgarotte). Ma sarebbe fuorviante fermarsi qui. Limiti come questi, nulla tolgono al fatto che la se­rata sia stata infine memorabile. Per vari motivi. Primo, perché la grandezza umana, poetica e cristiana di Dante è stata fatta arrivare direttamente al cuo­re e alla mente di dieci milioni di italia­ni: Roberto Benigni – uno che ha co­minciato come comico, e perfino co­mico di partito – da quando ha incon­trato di nuovo sulla sua strada il nostro massimo poeta, ne è uscito irrimedia­bilmente arricchito, trasformato nel profondo. Come accade a tutti coloro che sono capaci di incontri veri. Defi­nire chi sia oggi il Benigni che – più che leggere, spiegare, recitare – vive Dante nella sua carne di uomo e di personaggio da palcoscenico, è diffici­le; e forse non è neppure importante.
Quello che si può constatare, è che per la rinascita della nostra poesia nazio­nale, e ancor prima, per la sua cono­scenza a livello di massa, il Benigni della Divina Commedia, assistito in questa sua veste, dai migliori dantisti i­taliani, sta facendo molto di più e me­glio di quanto non riescano a fare, da anni, la nostra scuola e la nostra uni­versità. E magari anche molti convegni o happening, più o meno 'letterari', siano essi di accademia o di strada. Per parlare al grande pubblico di poesia, ci vuole già un bel coraggio e ce ne vuole ancora di più per farlo in un clima cul­turale post-moderno, umanamente i­naridito (e tanti casi di cronaca, da Pe­rugia a Garlasco, continuano tragica­mente a ricordacerlo). Riuscire a farlo, poi, attraverso il mezzo televisivo, sempre più spesso usato in modo da costituire la negazione stessa di tutto quello che è pensiero fondante, arte di qualità, emozione alta, diventa quasi un miracolo. E c’è di più. Incontrando dal vivo un credente della statura di Dante, Benigni non può far a meno di imbattersi nel profondo delle 'radici cristiane' e umane della nostra fede.
C’era, la sera di giovedì, nella sua 'performance', il riferimento alto a Tommaso d’Aquino e ad Agostino, due autori che i manuali scolastici «aggior­nati » hanno praticamente cancellato.
C’era, intero e vivo, il nome nuovo che Cristo ha dato a parole fondanti come vita, libertà, amore, bellezza ,verità.
C’era la «pietas» che, non per niente, è «cristiana». C’era l’invito a non «perdere » quell’ «attimo» capace di rivelarti il senso profondo dell’esistenza… Qualcuno, spenta la tv, ha detto: «Mai vista e sentita una catechesi così bella». Esagerato? Forse. Eppure si potrebbe dav­vero provare a tornare all’antico, a quando Dante si leggeva in chiesa (e in certe chiese, già lo si fa, ma pochi lo sanno, pochi ne parlano: anche se la cosa affascina, e il pubblico è sempre folto e molto attento). Avendo un Dvd a disposizione – e qualche amante del genere: un professore in pensione, un giovane di belle speranze, un prete di buoni studi... –, potrebbero riuscirci tante parrocchie. Trovando l’angolo e la 'guida' adatti, si potrebbe provare a proiettarlo, un Benigni come questo, pure in quei non luoghi di cui parla Marc Augé: stazioni ferroviarie e della metro, sale d’aspetto degli aeroporti, i­permercati, discoteche. Là dove si ac­calcano, per riti collettivi senza nome, masse di giovani e non giovani, ai quali nessuno, oggi, dice mai quelle 'parole di vita' che la poesia di Dante sa dire scaldando il cuore. Parole di cui tutti hanno bisogno, magari senza saperlo.


IL REFERENDUM COSTITUZIONALE IN VENEZUELA
Perché vinca davvero il popolo deve perdere Chavez

Avvenire, 2.12.2007
VITTORIO E. PARSI
P iù che l’ultimo epigono di Carlo Marx, Hugo Chavez sembra un riuscito personaggio di Groucho Marx: uno di quei surreali caudillos
sudamericani, dalla favella tanto straripante quanto strampalata, che negli anni Trenta del secolo scorso rappresentavano la maniera stereotipata con la quale Hollywood, anche quella ironica e leggera dei fratelli Marx, guardava alla classe politica del subcontinente. La credibilità di Chavez come leader rivoluzionario sta alla pari della sua gloria militare, quella di un panciuto ex colonnello golpista, che non ha mai combattuto una sola battaglia per il suo Paese. Condizione comune, questa, ai tanti jefes supremos che negli anni hanno governato ora qui ora là in America Latina, con maggiore o minore crudeltà e idiozia: certo è che, guardando Chavez, vien da pensare che, se non altro, Peron era un uomo elegante. Eppure, il 'leader bolivariano' non scherza per nulla e persegue con estrema serietà, senza alcun timore del senso del ridicolo, il suo percorso che lo dovrebbe trasformare in presidente a vita del Venezuela. Qualora dovesse riuscire a vincerlo, il referendum costituzionale che ha indetto per oggi gli consegnerà il Paese praticamente per sempre. La vittoria bolivariana non è per nulla improbabile, considerata l’assoluta sproporzione di mezzi e libertà di espressione tra i sostenitori di Chavez e i suoi oppositori. Se tutto andrà secondo i piani, da domani Hugo Chavez potrà governare libero da qualunque preoccupazione: la legge sarà sempre dalla sua parte, come e più di prima. Il populismo è una malapianta che fin dalle origini infesta la politica latino-americana. Non è certo una sua esclusiva e, a ben guardare, anche democrazie più solide e sperimentate di quella venezuelana non sono esenti da questa sindrome. Per più di un aspetto, le democrazie di massa sono tutte, e oggi più di ieri, esposte al rischio della deriva populista. Sono le Costituzioni rigide, l’indipendenza della magistratura e un sistema pluralista dell’informazione le condizioni minime che consentono ai nostri sistemi politici di evitare che gli eventuali 'raffreddori populisti', saltuari o ricorrenti che siano, si trasformino in polmoniti. Da quando è al potere, Chavez si è mosso per eliminare sistematicamente tutte queste barriere, peraltro già piuttosto fragili in Venezuela. Non c’è dubbio che un’azione anche vigorosa di perequazione sociale fosse necessaria, come lo sarebbe in altri Paesi, dell’America Latina e non. Ma le modalità con cui il presidente sta attuando questa politica, i suoi caratteri di aperta e arrogante illegalità, la natura illiberale e irrispettosa per qualunque diritto di tutti quelli che non la pensano come lui, la sistematica criminalizzazione dell’opposizione hanno un effetto talmente negativo sulla crescita umana che cannibalizza qualunque possibile conseguenza positiva che si possa riscontrare in termini di riduzione della disuguaglianza sociale. I poveri e i diseredati vanno nutrirli e vesti, ma occorre anche insegnare loro a uscire dalla miseria. Almeno questo è il compito che una politica autenticamente responsabile e popolare dovrebbe perseguire.
Guardando alle masse che agitano istericamente le gigantografie del presidente, vien da chiedersi che insegnamento stanno ricevendo: che quando è il tuo turno puoi finalmente far patire agli altri tutte le ingiustizie che hai dovuto subire per secoli? Chavez ha dalla sua le gigantesche riserve petrolifere del Venezuela e un prezzo del greggio ora intorno ai 100 dollari al barile. Per il suo orizzonte temporale è un’assicurazione sufficiente. Ma un giorno tutto questo finirà, la 'manna nera' non sgorgherà più così copiosa e a così alto prezzo. E allora che cosa resterà ai venezuelani? È avvilente veder sprecare, per l’ambizione e la sete di potere di un uomo solo, tante risorse e un’opportunità di riscatto sociale così irripetibile. Per questo si deve sperare che oggi Chavez perda: perché possa cominciare a vincere il popolo venezuelano.


DA SAPERE
Così funziona l’8xmille Una scelta libera per il culto e la carità
Avvenire, 2.12.2007
L’8xmille è nato con la legge 222 del 1985 ed è in vigore dal primo gennaio 1990: si tratta della modalità del nuovo sistema di sostegno economico alla Chiesa. Eliminati i versamenti diretti dello Stato, viene introdotta una forma di contribuzione attraverso le scelte dei cittadini. Ogni anno l’otto per mille del gettito complessivo dell’Irpef è destinato a scopi sociali, religiosi e umanitari. Spetta ai cittadini determinarne la destinazione, scegliendo tra Stato, Chiesa Cattolica e altre confessioni religiose con una firma sulla propria dichiarazione dei redditi.
Come viene ripartito
Ogni anno, durante l’Assemblea Generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), i vescovi determinano la suddivisione dei fondi 8xmille destinati alla Chiesa Cattolica per le tre finalità previste dalla legge: sostentamento del clero, esigenze di culto della popolazione, interventi caritativi in Italia e nel Terzo Mondo. La Chiesa in Italia interviene nel campo del culto e della carità in due forme: (1) con le quote trasferite alle diocesi, e destinate ad attività locali; (2) con le quote destinate ad attività di rilievo nazionale, riservate alla Presidenza della Cei.
Gli interventi caritativi in Italia
Oltre alle numerosissime attività diocesane, la Cei ha stanziato fondi per la Caritas italiana, la Fondazione Migrantes, i Centri di aiuto alla vita, i centri d’accoglienza a studenti stranieri, il coordinamento nazionale delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti, le organizzazioni di volontariato internazionale, i centri sociali e ricreativi per giovani, i centri di soccorso e assistenza ai poveri e ai senza fissa dimora, i centri di sostegno ai giovani disadattati, i centri sociali per marittimi e quelli per il sostegno ai volontari in campo sanitario.
E nei Paesi in via di sviluppo
Sono finora quasi ottomila i progetti approvati e finanziati dalla Cei attraverso l’apposito Comitato per gli interventi caritativi a favore del Terzo Mondo. Opere e progetti per lo sviluppo sociale ed economico, la sanità e l’istruzione sono avviati in Africa, Asia e America Latina. Cospicui sono gli stanziamenti d’urgenza per le catastrofi. Recentemente un milione di euro per il Perù colpito dal terremoto e due milioni per il Bangladesh flagellato dai cicloni.


«Identità di genere, i due nuovi reati sono un’insidia per ogni educatore» Avvenire, 2.12.2007
BOLOGNA. «Una reale insidia per ogni educatore». Così Paolo Cavana, docente alla Lumsa, in un commento pubblicato oggi dal settimanale diocesano 'Bologna Sette' sintetizza i rischi del disegno di legge di iniziativa governativa che punta a introdurre due nuove figure di reato. «Se la norma sugli 'Atti persecutori' fosse approvata», sostiene Cavana, «essa riconoscerebbe di fatto al giudice penale il potere di sindacare ogni relazione di tipo educativo o professionale». Altrettanto gravi le riserve suscitate dalla seconda figura di reato, che mira ad estendere le sanzioni detentive per i reati contro le discriminazioni razziali e religiose a quelle fondate sull’orientamento sessuale. «Se riuscisse il tentativo di introdurre nell’ordinamento italiano un concetto come quello di 'identità di genere'», osserva il giurista, «si aprirebbe la strada ad ulteriori interventi legislativi volti a rendere irrilevante la differenza sessuale anche all’interno della sfera delle relazioni familiari». La disposizione, conclude Cavana, «presenta infine un grave rischio anche per la libertà di espressione, potendo legittimare azioni repressive nei confronti di chiunque esprima anche solo valutazioni morali nella sfera della sessualità».
«Bologna sette»: Cavana (Lumsa) avanza pesanti riserve sulla proposta di legge