martedì 4 dicembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1. LA CROCE E LA SPADA - GIANCO RAVASI
2. La malintesa strada della modernità – Davide Rondoni sulla Spe Salvi
3. NELLA «SPE SALVI » RISPOSTE ALL’ANSIA DI INFINITO Quel desiderio di Itaca che svela la felicità vera
4. Il Papa: «Non la scienza ma l’amore redime l’uomo» Nel primo Angelus d’Avvento ha citato la «Spe salvi»
5. CHAVEZ SCONFITTO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE - Il popolo oscura la stella del caudillo
6. SULLE VIE DELLA FRATERNITÀ - Il «grazie» di Bartolomeo I «Dal Papa un’enciclica che aiuta l’ecumenismo»
7. Staminali, nuovi passi della ricerca
8. Educazione e sviluppo, i due pilastri dell'Avsi, Maria Bianucci, Il Sole 24 Ore
9. SI PARLA DI NOI :: Questo governo penalizza chi fa figli
10. SI PARLA DI NOI :: I cattolici si ribellano



LA CROCE E LA SPADA - GIANCO RAVASI
Avvenire, 4.12.2007
Un impiegato delle poste è pari a un conquistatore, qualora l’uno e l’altro abbiano una coscienza comune.
Tutte le esperienze sono, al riguardo, indifferenti… C’è Dio o il tempo, la croce o la spada. O il mondo ha un senso più alto, o nulla è vero al di fuori di tali agitazioni.
Ricordo ancora il turbamento che provai quando lessi il saggio Il mito di Sisifo che lo scrittore francese Albert Camus pubblicò nel 1942. Da quel libro inquietante estraggo oggi alcune battute.
A prima vista c’è un elemento positivo: se uno segue con autenticità e verità la sua coscienza, ogni professione ha una dignità alta e indiscussa, sia che si tratti di un impiegato delle poste sia che di scena sia un conquistatore. Ma Camus, in realtà, vuole registrare un ben diverso atteggiamento, per altro dominante ai nostri giorni, quando continua affermando che tutte le esperienze sono indifferenti, sia che tu compia un atto modesto e inoffensivo, come inoltrare la corrispondenza, sia che tu esegua massacri per la ragion di stato.
Egli ci pone di fronte a due concezioni della vita e del mondo: o c’è Dio e un senso più alto, oppure c’è solo il fluire del tempo con tutte le nostre agitazioni scomposte. Nel primo caso non è indifferente timbrare buste o uccidere; nel secondo si tratta di atti analoghi, immersi nella poltiglia di un’esistenza senza senso. Camus sceglierà con amarezza questa seconda alternativa che conduce al relativismo nichilista, riconoscendo che la scelta è tra «tutto e nulla». Anche noi ci troviamo davanti a quel bivio, attratti da un’indifferenza comoda anche se drammatica. L’appello che risuona per un senso più alto è costante: riflettiamo prima di lasciarci andare alla deriva sull’altra via.


L’ENCICLICA E UN ARTICOLO DI SCALFARI
La malintesa strada della modernità

Avvenire, 4.12.2007
DAVIDE RONDONI
N on vedevano l’ora di poter titolare così. Lo tenevano a denti stretti.
Ma ce l’avevano sulla punta della lingua, sulla punta della tastiera, della rotativa. E infine ieri hanno mollato. Hanno potuto finalmente scriverlo nella posizione che un titolo così merita: in cima all’editoriale fiume della domenica: 'Il papa che rifiuta il mondo moderno'. L’estensore dell’articolo, Eugenio Scalfari, prima di disquisire sul testo dell’enciclica di Benedetto XVI 'Spe salvi', ci avvisa che il sospetto ce l’aveva da un po’. Lo si era notato, annuncia il giornalista­filosofo- teologo, questo Papa aveva dato qualche segno. E ora finalmente si può dire: è un anti­moderno. Ecco, finalmente la categoria bell’e fatta, lo stampo già pronto. L’articolista se lo aspettava, poiché a suo dire 'il cammino di Benedetto XVI verso la pienezza del suo magistero era stato fin qui piuttosto incerto'. Non si capisce cosa intenda ma la frase fa effetto. E dopo una iniziale 'viva aspettazione' (scrive proprio così, quasi con tocco curiale, invece di una più laica e normale 'aspettativa') il testo di Papa Ratzinger lo ha definitivamente deluso. E convinto che si poteva dare il via al titolo che per i lettori di Repubblica equivale ben più che a una scomunica. Chi è contro il mondo moderno è automaticamente contro tutto ciò che quel quotidiano ritiene di rappresentare.
E invece io che teologo non sono, francamente m’aspettavo dagli esponenti culturali della modernità molto di più. E ancora me lo aspetto, nonostante Repubblica. Scalfari fa quasi tenerezza quando ci rimane male perché il testo dell’Enciclica è rivolto esplcitamente 'Ai vescovi, ai presbiteri, e ai diaconi e a tutti i fedeli laici'.
Voleva che fosse rivolta anche a lui. Come se un’enciclica fosse lo scritto di un grande opinionista. Non si rassegna al fatto che il Papa faccia un mestiere diverso dal suo, e rivolga un documento ex cathedra a coloro che son tenuti a considerare quel documento non un’opinione ma un magistero vincolante. Si sente escluso e assediato Scalfari, e allora si 'rifugia' sul quotidiano secondo più venduto del Paese come se fosse un’ultima piccola trincea di difensori della modernità mentre intorno infuriano orde papaline che vogliono cancellare secoli di storia e di acquisizioni.
Ancora mi aspetto e ho visto altrove da parte di non credenti una maggiore curiosità. E non solo perché il terreno della speranza, come l’Enciclica mette in rilievo, è stato quello del maggior incontro tra cristiani e non, ma anche perché la categoria di modernità - come insegnano Leopardi e Nietszche tra gli altri - è una delle più ambigue e soggette, nella storia della cultura, a fraintendimenti e smentite. E a clamorosi rovesciamenti. In altre parole, è davvero sicuro il fondatore di Repubblica, che nella sua piccola povera trincea sta difendendo la 'modernità'?
Non vede anche lui, come tutti noi, movimenti nella nostra epoca che mettono radicalmente in discussione quanto fino a ieri si presentava presuntuosamente con la patente di moderno?
Solo un esempio dalla cronaca di questi giorni, visto che mi rivolgo a un giornalista: è più moderno l’atteggiamento di coloro che in nome della ricerca scientifica senza ma e senza se sono disposti a sacrificare migliaia di embrioni, o il lavoro della dottoressa Eleonora Porcu che da scienziata (non da bigotta) ha dimostrato che ha ragione chi quel sacrificio condanna poiché sono altre le strade che permettono risultati scientifici e clinici? Ed è più moderno chi liquida il problema della speranza e di Dio in un articolo con poche espressioni acrobatiche e qualche ritrito luogo comune, o chi impegna cento pagine di una riflessione che non ha paura di guardare in faccia la realtà, i mutamenti storici, le inquietudini e le risorse dell’uomo?


NELLA «SPE SALVI » RISPOSTE ALL’ANSIA DI INFINITO
Quel desiderio di Itaca che svela la felicità vera

Avvenire, 4.12.2007
GIACOMO SAMEK LODOVICI
N el paragrafo 30 della magnifica enciclica Spe salvi,
firmata venerdì scorso, Benedetto XVI scrive che «l’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze». Questa soddisfazione, però, è solo temporanea, e ciò verso cui ci sospingeva la nostra speranza finisce per deluderci, più o meno cocentemente: «Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre».
Il Papa ci invita così a riflettere sul sentimento della delusione. L’uomo, in effetti, lo può sperimentare sotto due forme. C’è la delusione per uno scopo mancato: speravo di ottenere un buon lavoro e non l’ho avuto, speravo di avere una bella casa e non l’ho posseduta, di essere amato e non sono stato amato..., e perciò sono insoddisfatto. Ma c’è anche la delusione per uno scopo ottenuto, quella che proviamo perché il suo conseguimento non ci soddisfa come ci eravamo aspettati: speravo di ottenere un buon lavoro e l’ho ottenuto, speravo di avere una bella casa e l’ho posseduta, di essere amato e sono stato amato..., eppure, ogni volta, contrariamente alle mie speranze, pur avendo investito moltissime energie per cogliere questo obiettivo, non sono appagato.
Questo secondo tipo di delusione ci consente di comprendere che l’oggetto del desiderio umano non è rinvenibile in alcuna esperienza finita. Infatti quando raggiungiamo i nostri obiettivi non li apprezziamo più, e desideriamo altre cose.
In questi momenti sperimentiamo che ciò che volevamo veramente non l’abbiamo raggiunto.
Potremmo allora disperare, pensando che l’uomo non possa mai conseguire una soddisfazione definitiva e piena. Ma, al contrario, questa delusione va interpretata diversamente. Invece di farci disperare per l’insaziabilità dell’uomo, essa dev’essere vista come l’indizio che è un’altra la felicità conforme agli esseri umani, che è un’altra la speranza che non delude (Rm 5, 5).
Così, questa delusione mostra che siamo perennemente insoddisfatti non perché abbiamo conseguito questo o quel bene invece di un altro, bensì per via della natura finita di tutti questi beni, incapace di appagare il desiderio umano. Come ha detto Simone Weil «quaggiù ci sentiamo stranieri, sradicati, in esilio; come Ulisse, che si destava in un paese sconosciuto dove i marinai l’avevano trasportato durante il sonno e sentiva il desiderio d’Itaca straziargli l’anima».
Allora – prosegue il passo dell’enciclica – «si rende evidente che può bastargli [all’uomo] solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere».
Nel cuore dell’uomo alberga, insomma, un desiderio radicale che non è il desiderio di qualsivoglia bene finito bensì di un Bene Infinito. L’esperienza di delusione dello scopo conseguito ci fa così comprendere che la soddisfazione del nostro desiderio può darla solo la comunione definitiva e totale con Dio. Solo quella totale, non quella provvisoria e parziale che ci è data nel corso della vita.
Quale sia Itaca per noi ce lo indica Agostino (nel celeberrimo incipit
delle Confessioni, che sicuramente il Papa aveva ben presente quando ha scritto questo paragrafo 30): «Ci hai fatti per te [o Dio], e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in Te».


CHAVEZ SCONFITTO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE - Il popolo oscura la stella del caudillo
Avvenire, 4.12.2007
GEROLAMO FAZZINI
« È stato un esercizio di democrazia». Hugo Chavez ha provato a incassare così, mostrando nonchalance, la sconfitta patita nel referendum costituzionale dell’altroieri.
Ma la verità è che domenica alle urne i cittadini venezuelani hanno affidato un
porque no te callas?
(«perché non stai zitto?») non troppo diverso da quello che a Chavez rivolse il re di Spagna Jaun Carlos, in Cile, poche settimane or sono.
Il risultato del referendum, al di là del dato numerico, sancisce un brusco e inatteso stop nella marcia intrapresa da Chavez verso la definitiva centralizzazione del potere a suo favore. E se anche i «no» al progetto di riforma sono stati di poco superiori ai «sì» (mentre i sondaggi della vigilia prevedevano un tonfo ancor più sonoro per il caudillo), la sconfitta brucia a Chavez, eccome.
Per la prima volta da quando è apparso sulla scena del potere (sono quasi dieci anni, ormai) il leader sin qui incontrastato subisce un’autentica battuta d’arresto. E viene smentito da quella volontà popolare di cui egli si è sempre detto essere supremo interprete. Stavolta, sebbene le urne abbiano fatto registrare un preoccupante 44 per cento di astensionismo, il popolo ha parlato chiaro, bocciando il progetto di modifica costituzionale destinato a intrecciare definitivamente il socialismo di Stato con l’ideologia di stampo bolivariano e, di conseguenza, l’eventualità per il presidente di vedersi rieletto
ad libitum.
«È stato un esercizio di democrazia», dice Chavez. Ma il suo concetto di democrazia è per lo meno discutibile. Nella scorsa primavera, con uno dei colpi di mano che l’hanno reso famoso, il presidente venezuelano aveva introdotto la ley habilitante,
una sorta di normativa d’emergenza che gli avrebbe consentito di governare per decreto nell’arco dei successivi 18 mesi, intervenendo in settori vitali per il Paese. Un passo avanti – si fa per dire – verso l’instaurazione della «dittatura democratica», resa possibile grazie anche a un Parlamento sostanzialmente senza oppositori.
Lo stop di domenica costringerà forse Chavez a ridimensionare le sue pretese e a guardare agli oppositori con altri occhi. È la speranza di tanti, dentro e fuori il Paese. Lo sperano, innanzitutto, i giovani. Gli universitari sono stati fra i più vivaci promotori delle proteste alla vigilia del voto e la storia insegna che molto spesso sono proprio le università (e in generale i movimenti giovanili) gli ambiti in cui si respira il malcontento e si preannunciano rivolgimenti sociali venturi.
Anche la Chiesa locale spera in un cambiamento di rotta e di atteggiamenti. Alla vigilia della consultazione Chavez aveva usato parole durissime contro i vescovi: «Sono il demonio e difendono gli interessi più marci». Minacciando di incarcerarli, perché assai critici circa il suo progetto di riforma costituzionale. Se qualche singolo vescovo mantiene rapporti con il Presidente, con la gran parte della conferenza episcopale Chavez ha rotto da tempo a motivo della sua ideologica irruenza.
L’esito del referendum rappresenta un fatto positivo per un Venezuela che cerca la strada di un riscatto politico, ma che sin qui era stato monopolizzato da un caudillo arrogante. Di più: la battuta d’arresto di Chavez può segnare uno spartiacque per altri Paesi del continente che l’hanno sin qui considerato il nuovo Bolivar, alfiere di una liberazione dai contorni ideologici. Paesi come Bolivia ed Ecuador in queste settimane stanno ridisegnando l’architettura costituzionale. La speranza è che il sussulto del popolo venezuelano serva da lezione contro tentazioni autoritarie e indebite fughe in avanti.


Il Papa: «Non la scienza ma l’amore redime l’uomo» Nel primo Angelus d’Avvento ha citato la «Spe salvi»Avvenire, 4.12.2007
Benedetto XVI – alle 12 di dome­nica – si è affacciato alla finestra del suo studio, nel Palazzo apo­stolico vaticano, per recitare l’An­gelus con i fedeli convenuti a Ro­ma in piazza San Pietro. Dopo l’Angelus ha salutato – in diverse lingue – i gruppi di pellegrini giunti da vari Paesi. «Rivolgo un saluto cordiale ai pellegrini di lin­gua italiana – ha detto al termi­ne – in particolare ai fedeli prove­nienti da Milano, Cava dei Tirre­ni, Battipaglia e Angri». Ecco le parole pronunciate dal Papa nel­l’introdurre la preghiera maria­na.
C ari fratelli e sorelle! Con questa prima domenica di Avvento inizia un nuo­vo anno liturgico: il Popolo di Dio si rimette in cammino, per vive­re il mistero di Cristo nella storia. Cristo è lo stesso ieri, oggi e sem­pre (cfr Eb 13,8); la storia invece muta e chiede di essere costan­temente evangelizzata; ha biso­gno di essere rinnovata dall’in­terno e l’unica vera novità è Cri­sto: è Lui il pieno suo compi­mento, il futuro luminoso del­l’uomo e del mondo. Risorto dai morti, Gesù è il Signore a cui Dio sottometterà tutti i nemici, com­presa la stessa morte (cfr 1 Cor 15,25-28). L’Avvento è pertanto il tempo propizio per risvegliare nei nostri cuori l’attesa di Colui «che è, che era e che viene» ( Ap 1,8).
Il Figlio di Dio è già venuto a Be­tlemme venti secoli or sono, vie­ne in ogni momento nell’anima e nella comunità disposti a rice­verlo, verrà di nuovo alla fine dei tempi, per «giudicare i vivi e i morti». Il credente è perciò sem­pre vigilante, animato dall’inti­ma speranza di incontrare il Si­gnore, come dice il Salmo: «Io spero nel Signore, / l’anima spe­ra nella sua parola. / L’anima mia attende il Signore / più che le sen­tinelle l’aurora» ( Sal 129,5-6).
Q uesta domenica è, dun­que, un giorno quanto mai indicato per offrire alla Chiesa intera e a tut­ti gli uomini di buona volontà la mia seconda enciclica, che ho vo­luto dedicare proprio al tema del­la speranza cristiana. Si intitola Spe salvi, perché si apre con l’e­spressione di san Paolo: « Spe sal­vi facti sumus – Nella speranza siamo stati salvati» ( Rm 8,24). In questo, come in altri passi del Nuovo Testamento, la parola «speranza» è strettamente con­nessa con la parola «fede». È un dono che cambia la vita di chi lo riceve, come dimostra l’espe­rienza di tanti santi e sante.
In che cosa consiste questa spe­ranza, così grande e così «affidabi­le » da farci dire che in essa noi ab­biamo la «salvezza»? Consiste in sostanza nella conoscenza di Dio, nella scoperta del suo cuore di Pa­dre buono e misericordioso. Gesù, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, ci ha rivelato il suo volto, il volto di un Dio talmente grande nell’amore da comunicar­ci una speranza incrollabile, che nemmeno la morte può incrinare, perché la vita di chi si affida a que­sto Padre si apre sulla prospettiva dell’eterna beatitudine.
L o sviluppo della scienza moderna ha confinato sempre più la fede e la spe­ranza nella sfera privata e indivi­duale, così che oggi appare in modo evidente, e talvolta dram­matico, che l’uomo e il mondo hanno bisogno di Dio – del vero Dio! – altrimenti restano privi di speranza. La scienza contribuisce molto al bene dell’umanità, – senza dubbio – ma non è in gra­do di redimerla. L’uomo viene re­dento dall’amore, che rende buo­na e bella la vita personale e sociale.
Per questo la grande speranza, quella piena e definitiva, è garantita da Dio, che è l’amore, dal Dio che in Gesù ci ha visitati e ci ha donato la vita, e in Lui tornerà alla fine dei tempi. È in Cristo che speriamo, è Lui che attendiamo! Con Maria, sua Madre, la Chiesa va incontro allo Sposo: lo fa con le opere della carità, perché la speranza, come la fede, si dimo­stra nell’amore. Buon Avvento a tutti!
Benedetto XVI



SULLE VIE DELLA FRATERNITÀ - Il «grazie» di Bartolomeo I «Dal Papa un’enciclica che aiuta l’ecumenismo» Avvenire, 4.12.2007
DAL NOSTRO INVIATO A ISTANBUL
SALVATORE MAZZA
Il 30 novembre è appena pas­sato. Ma il senso di cosa sia stata, quest’anno, la principa­le festività della Chiesa ortodossa, è destinato a restare nel tempo.
Perché si tratta di un senso «dav­vero molto particolare», per come si sono fusi insieme gli elementi di straordinarietà che l’hanno ca­ratterizzata in una prospettiva marcatamente ecumenica. Con l’enciclica di Benedetto XVI a fare da sintesi, alla fine di tutto, per «aiutarci ad avere un approccio ottimistico al futuro, e in partico­lare al cammino verso l’unità dei cristiani».
La festa di Sant’Andrea 2007 è in archivio da poche ore quando incontriamo nella sede del Fanar Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli. Il quale – un largo sorriso a illuminargli gli occhi – non nasconde i suoi sentimenti. Non ci riesce. Il dono della prima copia autografata della Spe salvi, che Papa Ratzinger gli ha fatto avere attraverso il cardinale Walter Kasper – presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani – ha un peso simbolico difficile da definire. Per il gesto in se stesso, e per quell’essere stata datata proprio al 30 novembre: «Non posso nascondere che questo fatto abbia per noi un significato molto importante – afferma il patriarca – perché fa riferimento al futuro, rispetto al quale noi non perdiamo mai la speranza, nonostante il passato che abbiamo ricevuto in eredità.
Adesso è tempo di guardare avanti con questa speranza, verso un futuro nel quale sarà possibile guarire le nostre divisioni, e superarle. Questa enciclica sicuramente ci aiuterà».
Per Bartolomeo I, quello che si è vissuto quest’anno, dodici mesi dopo la visita al Fanar di Benedetto XVI, è la conferma visibile di quanto espresso dalle parole sottoscritte nella Dichiarazione comune firmata in quell’occasione, perché «noi crediamo sempre che la coesistenza pacifica dei cristiani, in spirito di unità e di concordia, debba costituire la nostra fondamentale preoccupazione».
Conferma e, concretamente, passo ulteriore in quello spirito di «fratellanza, cooperazione e comunione» che deve guidare il progresso del cammino ecumenico.
Qualcosa che i fedeli ortodossi arrivati a Istanbul anche dall’estero, per la celebrazione del 30 novembre, hanno, in qualche modo, «toccato con mano», ritrovando dopo secoli, restituite alla loro venerazione, le reliquie di Sant’Andrea, che lo stesso patriarca ha riportato «a casa» da Amalfi. Per una Chiesa così strettamente legata alla sua storia e alle proprie tradizioni, dove la porta principale della sede patriarcale è sigillata in segno di lutto da quando, nel 1821, al suo architrave fu impiccato il patriarca Gregorio V, come ritorsione all’inizio della guerra d’indipendenza greca, è facile capire perché il ritorno delle reliquie «donate da Sua Santità il Papa è stato davvero una cosa particolare, molto importante – sottolinea Bartolomeo I –. Avere qui le reliquie di sant’Andrea, che è il fondatore del Patriarcato ecumenico, è un segno che rafforza l’amicizia e la fraternità».
Adesso, dunque, è tempo di guardare avanti. E in questo momento «guardare avanti» vuol dire innanzitutto fare riferimento al Documento sottoscritto a Ravenna dalla Commissione teologica mista cattolico­ortodossa lo scorso ottobre, nel quale per la prima volta si riconosce l’esistenza di una Chiesa universale e il ruolo di primato che, in essa, spetta al vescovo di Roma. Certamente «si tratta di un primo passo – osserva Bartolomeo I – e il soggetto è molto difficile, abbiamo ancora tanto da lavorare in futuro».
Tuttavia, aggiunge subito, «l’avere delle basi in comune è fondamentale, ora noi possiamo nutrire anche una speranza in comune per il futuro».
Torna così, prepotente, il tema della speranza. E di nuovo il discorso scivola su come la seconda enciclica di Benedetto XVI davvero suoni anche «e soprattutto» sul piano ecumenico come un invito «ad avere sempre fiducia». Anche rispetto ai problemi che proprio a Ravenna – non sul merito del Documento, ma sull’autonomia della Chiesa apostolica estone, non riconosciuta dai russi – sono sorti tra le Chiese ortodosse, con l’uscita piuttosto clamorosa (e rumorosa), dalla Commissione, dei delegati del Patriarcato di Mosca. Il patriarca non minimizza la questione, né si nasconde dietro un dito. Perché i problemi «senza dubbio ci sono», ma «la speranza che dobbiamo nutrire» è «in particolare e in primo luogo verso di loro». «Quello che abbiamo sperimentato a Ravenna – sottolinea con forza Bartolomeo I – è proprio questo, un segno di speranza, perché siamo riusciti a lavorare insieme su alcune cose molto importanti», su un argomento che «in altri tempi» non sarebbe stato possibile affrontare. Per questo, allora, «sono fiducioso che quei problemi saranno superati». Si è, in effetti, «solo all’inizio» di un qualcosa «completamente nuovo», da costruire «per obbedire al comandamento del Signore, che ha voluto l’unità dei suoi figli, e che è stata spezzata».
Da costruire «con la fiducia di arrivare alla meta». «Con la speranza», ripete un’ultima volta.


Staminali, nuovi passi della ricerca

Avvenire, 4.12.2007
MILANO. A poco meno di due settimane dall’annuncio epocale dato sulle pagine della rivista scientifica 'Cell' sulla riprogrammazione di cellule adulte della pelle ­trasformate, lo ricordiamo, in staminali pluripotenti dalle caratteristiche del tutto simili a quelle embrionali e senza che nel procedimento siano stati distrutti embrioni - il biologo giapponese Shinya Yamanaka ha stupito la comunità scientifica internazionale con un nuovo, altrettanto significativo risultato. In base a quanto riportato nella ricerca pubblicata venerdì scorso su 'Nature Biotechnology', lo scienziato sarebbe infatti riuscito a ottenere le stesse cellule 'riprogrammate' utilizzando solo tre dei quattro geni elencati nel protocollo pubblicato su 'Cell' (e pressoché analogo a quello seguito dal gruppo di ricercatori guidati da James Thomson, che avevano annunciato la scoperta in contemporanea col team dell’università di Kyoto). In particolare, nel processo di ringiovanimento delle cellule umane Yamanaka sarebbe riuscito a escludere l’impiego del gene 'c-Myc', principale responsabile del cancro negli esperimenti condotti sui topi da laboratorio: un esperimento ripetuto con successo anche con cellule adulte di pelle umana.
Enormi le potenzialità della scoperta: proprio nell’annunciare la riuscita della riprogrammazione cellulare,Yamanaka aveva invitato la comunità scientifica ad accogliere i risultati con cautela visto l’alta potenzialità cancerogena dei retrovirus utilizzati nel procedimento.
Un 'punto debole' su cui avevano insistito anche i fautori della ricerca sulle cellule staminali embrionali ­che negli ultimi giorni avevano criticato la svolta 'etica' proposta da Yamanaka sottolineando le maggiori possibilità offerte dalla manipolazione di embrioni - e che oggi sembra definitivamente superato.
Viviana Daloiso



Educazione e sviluppo, i due pilastri dell'Avsi
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Maria Bianucci, Il Sole 24 Ore


04 Dicembre 2007 – Discussione Finanziaria - SI PARLA DI NOI :: Questo governo penalizza chi fa figli

04 Dicembre 2007 - Corriere della sera SI PARLA DI NOI :: I cattolici si ribellano