Nella rassegna stampa di oggi:
1) Amore e senso della vita – S.E. Card. Carlo Caffarra
2) BILANCIO DEL CULTO DELL’ATEISMO
3) Il coraggio di Benedetto XVI
4) ANALISI ACUTA SUL NOSTRO OGGI - PAURA DEL PARADISO, DICE IL PAPA
5) Ruini: il Papa porta a Cristo l’uomo di oggi
6) LEGGE 194, QUANDO LA TATTICA SI MANGIA LA VERITA'
7) ALFABETO BIFFIANO
8) Denunciata la tossicità della Ru486
9) Una piccola donna al centro della storia - Davide Rondoni
10) La sussidiarietà è libertà e serve anche nel fisco - Maurizio Lupi
Amore e senso della vita
S.E. Card. Carlo Caffarra
Cesena, 3 dicembre 2007
Forse la più profonda affermazione che il Concilio Vaticano II ha fatto sull’uomo è la seguente: "… l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso il dono sincero di sé" [Cost. past. Gaudium et spes 24,3; EV 1/1395].
In questo testo conciliare sono espresse due verità circa l’uomo: la persona umana nell’universo in cui viviamo è "qualcosa" di unico poiché è stata voluta da Dio per se stessa, la prima; la persona umana "trova se stessa" solo nel dono di sé, la seconda. L’essere finalizzata a se stessa è la originalità dell’uomo; l’auto-donazione è la modalità della realizzazione della persona.
Ambedue queste verità circa l’uomo hanno a che fare con l’amore, come precisamente cercherò di mostrarvi. E lo farò attraverso la risposta a due domande fondamentali. La prima: che accade in una persona quando ama? Nel primo punto cercherò di narrare l’avvenimento dell’amore. La seconda: che cosa accade quando dentro i rapporti fra le persone accade l’avvenimento dell’amore cristiano? Nel secondo punto cercherò di narrare l’avvenimento dell’amore cristiano.
1. L’avvenimento dell’amore
Proviamo a fare molta attenzione a noi stessi quando compiamo un atto di amore, cercando di rispondere ad alcune semplici domande.
Che cosa noi vediamo immediatamente in un atto d’amore? Che cosa avviene realmente in ciascuno di noi quando compiamo un atto d’amore? Affermiamo la persona dell’altro nella sua unicità irripetibile. Quando compiamo un atto di amore, noi, per così dire "estraiamo" la persona dell’altro da una serie, e la guardiamo e l’affermiamo come unica.
Quando andate a comperare il giornale, voi vi accontentate di dire all’edicolante il titolo: volete una copia di quella testata, indifferentemente. È … la serie la testata cioè che vi interessa, non una copia piuttosto che un’altra. L’atto d’amore ha tutto un’altra logica. Un uomo che paga la prostituta, vuole una donna. È l’atto più contrario all’amore, perché non afferma e non riconosce che amare una persona significa guardarla come unica nell’universo dell’essere. Il buon pastore quando si accorge che manca una pecora, non pensa che alla fine una su cento non è poi una grave perdita. La va a cercare. La persona non è numerabile, perché ogni persona vale in sé e per sé.
Voglio aiutarvi a percepire questo ancora con un altro esempio. Se uno vi chiede se diecimila euro è la somma grande o piccola, voi non siete in grado di rispondere fino a quando non la ponete in rapporto con altre somme. In rapporto a dieci euro è grande; in rapporto a un miliardo di euro è piccola. Se voi chiedete che valore ha una sola persona, non potete dire che in rapporto a tre ha un valore, ma non in rapporto a diecimila. La persona non è numerabile perché vale in sé e per sé.
Chi ama, chi almeno una volta ha compiuto un atto di amore, sa che le cose stanno così. Lo sa lo/a sposo/a che ama la sposa/o; lo sa il genitore che ama ogni figlio; lo sa il pastore che ama ogni fedele; lo sa la vergine consacrata che cura la miseria dell’uomo che le chiede aiuto.
Proviamo ora ad analizzare un poco questo vissuto [un atto di amore] per vedere che cosa esso porta dentro di sé. Solo così noi possiamo renderci conto del "mistero dell’amore", ed esserne più profondamente conquistati.
Che cosa in realtà significa la proposizione "cogliere la persona nella sua irripetibile unicità"? ricordate l’esempio del giornale: purché sia della stessa testata, una copia vale l’altra. Ricordate la prostituzione: purché sia una donna, l’una vale l’altra. Riflettete bene.
Se mi rapporto ad una realtà – cosa o persona – in vista di qualcosa d’altro; se istituisco cioè un rapporto strumentale, ciò che vale e mi attrae è lo scopo e quindi uno strumento può essere sostituito con l’altro quando non è più in grado di farmi raggiungere lo scopo. La persona è precisamente ciò che esiste in se stesso e per se stesso, ed esige di essere considerata e trattata come tale: sempre cioè come un fine, mai solamente come un mezzo.
Quando noi compiamo un atto di amore, noi quindi viviamo l’esperienza che esiste la persona, di "che cosa è" una persona; entriamo cioè nell’universo delle persone; affermiamo non teoricamente ma in realtà che l’universo dell’essere è diviso in due grandi regioni: il mondo delle persone, il mondo delle non persone. Chi abita il primo non è interscambiabile: non ha prezzo, perché ha una dignità. Chi abita il secondo è scambiabile: ha un prezzo, perché è privo di dignità. Il vissuto dell’amore ci fa vivere la peculiarità propria della sostanza personale rispetto a ciò che è impersonale. Chi ama, afferma che la persona esiste in se stessa e per se stessa.
Ma il vissuto dell’amore non afferma solo l’altro come persona; non è solo percezione della verità dell’essere – persona dell’altro. Ma in esso – nel vissuto dell’amore – colui che compie l’atto di amore, afferma in grado eminente anche se stesso. Sembra essere una contraddizione, ma se prestiamo attenzione a ciò che accade in noi quando amiamo, vediamo che amando, noi realizziamo noi stessi nel modo più elevato.
Iniziamo col farci una domanda: quale delle nostre facoltà è messa soprattutto in azione quando compiamo un atto di amore?
Certamente la nostra intelligenza. Tuttavia a guardare le cose un po’ in profondità, ci rendiamo conto che l’esercizio della nostra intelligenza è una, anzi la condizione dell’amore. Già gli antichi dicevano "ignoti nulla cupido". Tuttavia rasenta la banalità, ma è la verità, il dire che tu puoi conoscere una persona e odiarla profondamente. I demoni – dice S. Giacomo – conoscono l’esistenza di Dio, e tremano. L’intelligenza quindi è in gioco quando amiamo, ma più come condizione perché sia possibile amare. La ragione non ama.
Non c’è dubbio che nell’atto di amore entra in gioco la dimensione passionale della nostra persona. "Passione" ha qui il significato originario, correlativo e contrario ad "azione". La passione è l’essere mossi, l’essere attratti senza aver deciso di essere mossi, senza aver deciso di essere attratti. L’amore è anche normalmente passione. Tutti i grandi maestri parlano di "sensi spirituali", che sembra una contraddizione in termini, ma non lo è. Agostino voleva parlare di questo quando scrisse profondamente che da Cristo "non solo siamo attratti con la volontà, ma anche con l’affetto".
Guardando però le cose più in profondità, vediamo che nel vissuto di un atto di amore si ha anche e soprattutto la più alta espressione della propria libertà, proprio in ragione del fatto che l’amore implica la decisione di affermare l’altro in se stesso e per se stesso. È la suprema forma di uscita da se stesso, che si compie solo mediante la propria libertà.
Ci sono forme di amore il cui atto consiste nel donare ciò che abbiamo: si pensi all’atto d’amore che è l’elemosina. E ci sono forme di amore il cui atto consiste nel donare se stessi: si pensi all’atto dell’amore coniugale, oppure al fatto che Gesù chiede ai pastori il dono della vita per il loro gregge. Ma non si può donare ciò che non si possiede. La più alta espressione dell’amore, l’atto di auto-donazione, implica quindi un auto-possesso vero: un tenere a disposizione di se stessi, se stessi. Ma questa è la definizione di libertà. La persona prende in mano se stessa e ne fa dono all’altra. È la forma più alta di libertà. L’atto di amore è soprattutto un atto di libertà.
Possiamo capire meglio questo rapporto amore-libertà considerando la fedeltà. La fedeltà è profondamente connessa coll’amore: con ogni forma di amore, non solo quello coniugale. Fate bene attenzione: non è un dovere morale generale ciò di cui ora parlo, come quando diciamo "sii fedele ai comandamenti di Dio". È una fedeltà sui generis: è fedeltà ad un legame che abbiamo liberamente istituito mediante il dono di se stessi, e che potevamo anche non istituire. Nessuno ti obbliga a sposarti ed ancor meno con quella persona; o a consacrarti nella verginità.
Il dono di sé per sua natura stessa è senza termine. La libertà che istituisce un tale legame è giunta ad un tale grado di possesso della persona che questa semplicemente decide di se stessa interamente; cioè per sempre. Sto parlando soprattutto delle tre forme principali dell’amore: coniugale, verginale, pastorale. Il matrimonio, la professione religiosa, il sacerdozio presuppongono la capacità di dare alla propria vita, indipendentemente da ogni accadimento imprevedibile, una forma vivendi che decide una volta per sempre il modo di reagire a quanto accade ["nella buona e nella cattiva sorte"…], rendendosi così superiori alla casualità. La fedeltà è la rivelazione più chiara della libertà, perché è la modalità più alta con cui noi ci liberiamo dall’essere esposti alla casualità.
Raccogliamo per un momento le nostre idee. L’amore, l’atto dell’amore è la più alta realizzazione della propria persona perché in esso viene esercitata col grado più intenso la propria libertà.
Più precisamente. Nell’atto dell’amore si ha la convergenza dei tre fondamentali dinamismi della propria persona. L’intelligenza, la passione, la libertà.
L’intelligenza perché non c’è amore senza accesso alla realtà dell’altro, ed è l’intelligenza che ci fa accedere alla realtà. La passione perché "non possiamo darci l’amore, anche se lo vogliamo. Non sta in nostro potere porre liberamente una tale risposta del cuore, come una risposta della volontà, né comandarla come fosse un atto" [D. von Hildebrand]. La nostra libertà poiché l’atto di amore è veramente della persona solo nel momento in cui il movimento del cuore è stato fatto proprio dalla libertà. L’atto d’amore è il punto in cui convergono tutti i dinamismi della persona: è la suprema e completa espressione e attuazione della persona.
Siamo dunque arrivati a due conclusioni. La prima: l’amore, l’atto di amore afferma-riconosce l’altro in se stesso e per se stesso, cioè come persona. La seconda: l’amore, l’atto d’amore afferma-realizza in grado eminente la persona che ama.
Proviamo ora a mettere insieme queste due conclusioni, ed entreremo nel "mistero dell’amore"; entreremo nel mistero dell’uomo e nella sua grandezza. La persona umana realizza se stesa nella relazione d’amore con l’altra persona: è se stessa nella relazione d’amore con l’altra trova se stessa nel dono di se stessa. L’essenza dell’uomo ci è svelata dall’essenza dell’amore.
Abbiamo verificato la verità di quanto dice il Concilio sulla persona umana.
Vorrei concludere questo primo punto deducendo una conseguenza da quanto ho detto. Se la libertà si esprime in grado eminente quando la persona dona se stessa, il suo esercizio non è ordinato all’affermazione di se stesso e alla ricerca del proprio bene prescindendo dal bene dell’altro o a spese del bene dell’altro. La libertà o è una libertà condivisa o è una libertà che si rivolge contro chi la esercita: l’amore è la vera liberazione della libertà. Una libertà solo per se stessi diventa un’orribile prigione.
2. L’avvenimento dell’amore cristiano.
Come avrete notato, finora vi ho chiesto di fare attenzione solo a voi stessi, di verificare che cosa accade in noi quando compiamo un atto di amore.
Ora vi chiedo di elevarvi ad un atto di intelligenza circa la verità dell’amore infinitamente superiore, perché guidati non solo dalla nostra esperienza, ma dalla luce della fede cristiana. Prima di cominciare a rispondere, devo dirvi subito che cambia anche il vocabolario dell’amore. Parleremo da ora in poi di carità.
Partiamo da una domanda molto simile a quella da cui siamo partiti prima; che cosa accade nel mondo quando avviene l’amore cristiano?
E fin dall’inizio della risposta ci imbattiamo in una novità sconvolgente. Non si parla più in primo luogo di noi. Si parla di Dio.
La S. Scrittura dice: "Dio è carità" [1Gv 4,16]. Quando noi parliamo di carità noi parliamo dunque dello stesso mistero di Dio. In che senso? Nel senso che alla domanda: "che cosa è la carità"; la risposta è: "è il comportamento e la radice del comportamento di Dio verso l’uomo". L’esposizione di questo comportamento e la sua narrazione è fatta nella S. Scrittura, ed il momento perfetto di questa rivelazione è Gesù.
Possiamo dunque dire che la risposta alla nostra domanda è la storia di Gesù, dalla sua origine alla sua fine, e ciò che caratterizza il credente nei confronti del non-credente è l’intelligenza del fatto che nella persona e nella vita di Gesù si svela che Dio è carità.
Possiamo esprimere la stessa risposta alla domanda che cosa è la carità, percorrendo un’altra strada. Gesù ha detto di Se stesso: "io sono la Verità", cioè: "io – la mia persona, la mia vita e la mia morte, le mie parole – sono la rivelazione perfetta, la manifestazione completa del mistero di Dio all’uomo" e del suo progetto di salvezza. Il contenuto di questa rivelazione, il "che cosa" essa rivela e manifesta è la carità di Dio. Nella rivelazione cristiana dunque Verità e Carità coincidono.
Come avrete notato, stiamo parlando non dell’uomo, ma di Dio e del suo comportamento verso l’uomo. Il discorso cristiano sulla carità ha come soggetto non l’uomo, ma Dio stesso che in Cristo si manifesta come carità. La carità di cui si parla - "Dio è carità" - è in primo luogo l’agire di Dio, manifestazione d’amore. Dicendo "Dio è carità", si parla di ciò che c’è in Dio di più propriamente suo, e di ciò che Egli desidera noi sappiamo di Lui.
Tuttavia un tale discorso divino, – è fatto da Dio; riguarda Dio – non avrebbe nessuna possibilità di farsi capire dall’uomo se non parlasse la lingua dell’uomo. L’amore di Dio deve rivelarsi mediante il linguaggio umano dell’amore. Così infatti è accaduto. Dio ha detto il suo amore servendosi del linguaggio dell’amore coniugale, dell’amore paterno-materno, dell’amore amichevole. Non abbiamo ora il tempo di leggere tutti questi linguaggi.
Dobbiamo invece fermarci a considerare una questione che a prima vista può sembrare per addetti ai lavori, ma in realtà è decisiva per tutti.
Se noi facciamo un poco di attenzione al modo di amare proprio dell’uomo, noi vediamo che chi ama non si accontenta di … amare, ma desidera anche essere amato. Fate bene attenzione. Ho usato una parola un po’ … pericolosa nel discorso che stiamo facendo: "desiderio". Perché pericolosa? Perché sembra che essa sia estranea alla dinamica dell’amore. Desiderio significa bisogno; il bisogno scatena una ricerca di ciò che lo soddisfa. In una parola: mentre la dinamica propria dell’amore è di natura oblativa ed estatica verso l’altro, la dinamica del desiderio è di natura captativa e diretta verso se stessi. Agape ed eros.
Se guardiamo le cose però più in profondità vediamo che questa separazione è un poco rozza. Le cose sono più profonde.
Che chi ama desideri di essere riamato, è nella logica dell’amore come tale. Il desiderio di essere corrisposto è dovuto alla forza dell’amore stesso, che non esperimenta la perfezione del suo atto se non nell’unione colla persona amata, nel superamento di ogni estraneità dell’uno all’altro.
Ritorniamo ora al nostro discorso teologico. La cosa che stupisce maggiormente nella narrazione che la Scrittura fa della carità di Dio in Cristo, è che Dio desidera essere corrisposto. La Scrittura usa un termine incredibile: parla di gelosia di Dio. Dio è geloso. Alcuni Padri della Chiesa dicono che Dio prova una passione per l’uomo.
Concludendo dobbiamo dire che quando il cristianesimo parla di carità, parla in primo luogo di Dio che in Cristo rivela che Egli ama l’uomo; di Dio che desidera che l’uomo corrisponda a questo amore, cioè a sua volta ami Dio.
Come vedete, il discorso sul "desiderio" ci ha portati all’uomo. Ed infatti quando il cristianesimo parla di carità, parla in secondo luogo della carità con cui l’uomo ama Dio: parla della carità dell’uomo che è risposta alla carità di Dio. "Noi amiamo" dice la Scrittura "perché Egli ci ha amati per primo" [1Gv 4,19].
Ma è possibile per l’uomo corrispondere all’amore che Dio ha per lui e gli ha dimostrato in Cristo? Non diamo per scontata la risposta, poiché entriamo in un grande mistero.
Partiamo da un esempio molto semplice. Un bambino può certo corrispondere all’amore di sua madre, e vi corrisponde. Tuttavia nessuno vorrà negare che la sua risposta è diversa da quella che darà quando sarà cresciuto in età. Allora egli conoscerà sacrifici, dedizione dell’amore materno, e quindi la corrispondenza sarà di qualità superiore.
Questo esempio ci aiuta a capire una legge fondamentale della vita: solo quando la risposta è adeguata alla misura dell’oggetto, essa è tale, cioè vera riposta. Se tu non rispondi all’amore di Dio con un amore corrispondente al "valore" di Dio, la tua non è una risposta vera. In breve: o tu ami Dio come Dio ama o tu non lo ami; o tu ami divinamente o non lo ami. Ma l’uomo è capace di amare solo umanamente. Non c’è allora altra soluzione che questa: che sia Dio ad amare nell’uomo; che l’uomo partecipi dello stesso amore con cui Dio ama. Questo è accaduto: è questo l’avvenimento cristiano.
In che modo l’uomo diventa capace di amare divinamente Dio, e quindi di rispondere adeguatamente all’amore che Dio ha per noi?
Ce lo rivela S. Paolo con un testo mirabile della lettera ai Romani: "La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" [5,5]. L’amore di Dio è l’amore con cui Dio ci ama. Di esso la persona umana fa esperienza perché "è stato effuso", cioè ha penetrato il cuore dell’uomo: l’uomo "si sente" amato da Dio. In che modo? Mediante la persona divina dello Spirito Santo che viene donato al credente e rimane in esso. Lo Spirito Santo è il "mezzo" attraverso cui l’uomo sente di essere amato da Dio, ma nello stesso tempo, rimanendo nel cuore del credente, lo stesso Spirito pervade l’io dell’uomo; ispira e vivifica dal profondo la sua azione, e lo rende capace di amare Dio stesso.
È il dono dello Spirito Santo che, da una parte, ci dona la certezza e l’esperienza dell’amore con cui Dio ci ama in Cristo, e, dall’altra, muove ed ispira la persona umana ad amare Dio come Dio merita di essere amato.
Se c’è però un richiamo che ricorre costantemente nella S. Scrittura è alla carità verso il prossimo. Fino al punto che i due "oggetti" dell’amore – Dio e il prossimo – sono così strettamente legati nella dinamica della carità, che l’uno non può essere amato senza l’altro. Perché questo legame?
S. Tommaso spiega molto bene questo fatto. Egli scrive: "Per la stessa ragione per cui amiamo qualcuno per se stesso, amiamo tutti i suoi famigliari, i suoi parenti, i suoi amici, in ragione del legame che hanno colla persona amata [per se stessa]. Allo stesso modo si deve dire che la carità ama Dio per se stesso, e a causa di questo ama tutti gli altri in quanto sono ordinati a Dio; pertanto la carità ama Dio in ogni prossimo" [Q. disp. un. De charitate a.4]. L’amore con cui ami il prossimo è lo stesso amore con cui ami Dio. Nessuno aveva mai detto questo! L’amore cristiano del prossimo è qualcosa di unico nel mondo.
"Nell’amore cristiano al prossimo si dà sempre un elevarsi fino alla realtà ultima del mondo di Dio – un far saltare il mondo quotidiano puramente terreno con tutti i suoi legami; mentre il voler bene naturalmente resta totalmente nell’ambito di una sfera terrena interpersonale, nell’amore cristiano al prossimo spira il soffio di una libertà vittoriosa" [D. von Hildebrand, Essenza dell’amore, Bompiani, Milano 2003, 727]. È questo splendore che ci rapisce di fronte ai santi della carità.
Un grande teologo ha scritto: "Nel momento in cui Dio stringe una comunione con tutti gli uomini attraverso il suo amore, l’umanità stessa diventa unità, ricevendo la forma di una comunione intrinseca che si esprime nell’amore al prossimo" [L. Scheffczyk, Il mondo della fede cattolica. Verità e forma, V&P, Milano 2007, 291].
La fede ci fa capire con una profondità unica il legame che unisce la naturale capacità dell’uomo di amare e la carità. Ancora una volta lo esprime in modo mirabile il Concilio Vaticano II: "Il Signore Gesù quando prega il Padre, perché "tutti siano una cosa sola come io e te siamo una cosa sola" [Gv 17,21-22] mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità" [Cost. past. Gaudium et spes, 24 ].
Ci eravamo chiesti: che cosa accade in un uomo credente quando compie un atto di carità? La risposta è: vive della stessa vita divina; ciò che è essenzialmente divino [la vita intratrinitaria] entra in ciò che è essenzialmente umano. Il segno che questo è accaduto ed accade è la verginità cristiana, la quale è la manifestazione eminente dell’evento cristiano.
Vedete che l’amore umano, quello di cui ho parlato nella prima parte, "riceve il centuplo" nella carità cristiana: è elevato alla centesima potenza.
Conclusione
Mi piace concludere con un testo di K. Woitila, tratto dalla sua opera Raggi di paternità.
"Ancora se guardo con ammirazione il Figlio non riesco a trasformarmi in Lui. Lo guardo davvero con ammirazione. In Lui quale immensa pienezza di umanità. È il vivente contrario d’ogni solitudine. Sapessi tuffarmi in Lui, sapessi innestarmi in Lui, potrei trarre da me l’amore di cui Egli ha la pienezza…: quanto si adopera per ogni uomo, come per il tesoro più grande, per un bene irripetibile, come un amante per l’amata" [Tutte le opere letterarie, cit. pag. 961].
Alla fine la risposta intera alla questione dell’amore è questa: è Cristo la sua pienezza ed è in Lui che noi possiamo imparare l’amore. L’unica scienza assolutamente necessaria.
BILANCIO DEL CULTO DELL’ATEISMO
Perché il Papa parla delle “più grandi crudeltà e violazioni della giustizia”…
di Francesco Agnoli
L’enciclica del Papa sulla speranza e sulle malvagità dell’ateismo, è destinata sicuramente a fare rumore. Eppure, senza bisogno di un Papa, l’avrebbe potuta scrivere, almeno in alcune sue parti, qualsiasi storico onesto e scrupoloso. Perché il concetto di fondo, e cioè la nascita delle più grandi tragedie della storia dall’ateismo è un dato di fatto difficilmente smentibile. L’ateismo di cui parla il Papa, non è certo l’ateismo “tragico”, come lo avrebbe definito Augusto Del Noce, proprio ad esempio di tanti uomini dell’Ottocento, da Baudelaire a Verlaine, passando per Huysmans, Oscar Wilde, Giovanni Pascoli, Eugenio Montale, Ungaretti eccetera. Questo “ateismo”, ancora esistente, come è ovvio, è in realtà la ricerca di un senso, la volontà di “capire” e di penetrare nelle profondità della vita, senza riuscirci, o forse, meglio, senza riuscirci interamente. Nasce da domande fondamentali, impossibili da evadere, che potevano magari rimanere senza risposta, ma che non cessavano comunque di “torturare” il cuore, come dimostrano le crisi religiose di tutti questi personaggi, alcuni dei quali approdati poi a una fede forte e convinta.
Questi grandi autori che ho citato rappresentano la crisi delle certezze religiose di un tempo, ma non la sostituzione di esse con una ideologia, atea nell’apparenza, perché negatrice di Dio, ma religiosa nei modi e nelle manifestazioni. L’ateismo di cui parla il Papa e di cui lo storico dovrebbe analizzare i risultati, come ha fatto ad esempio recentemente Michael Burleigh nel suo “In nome di Dio” (Rizzoli), è l’ateismo assoluto che nega Dio e che cerca di organizzare il mondo senza di lui, costruendo, come possibile, già qui il paradiso sulla terra. E’ l’ateismo, per intenderci, del comunismo e del nazismo e di tutte le ideologie atee nate a partire dal Settecento, cioè dalla crisi della fede. L’ateismo, insomma, che assume connotati tali da diventare una vera e propria religione civile, secolare, con i suoi dogmi e la sua ortodossia, una religione di salvezza, terrena e non soprannaturale. Da questo sistema di pensiero nascono i più grandi dittatori della storia: Lenin, Stalin, Hitler, Mussolini, le cui radici sono tutte nell’ateismo socialista da lui rivendicato per moltissimi anni, Pol Pot, Mao, Ceausescu, Hoxha, Tito, Milosevic…
E’ innegabile: il Novecento, anzitutto, è il secolo dell’ateismo assoluto, ed è, non a caso, il secolo degli stermini di massa, delle guerre mondiali, e delle più grandi catastrofi umane della storia.
L’ateismo così come si viene a configurare tra Ottocento e Novecento è, a ben vedere, una forma di religiosità immanente, che ha generato uno a uno tutti gli ingredienti delle dittature totalitarie: il razzismo biologico (religione della razza), il nazionalismo (religione della patria), il social-darwinismo, l’eugenetica, e il social-comunismo. Prendete questi ingredienti – accomunati tutti dalla negazione più o meno esplicita di un Dio trascendente, dell’uomo come sua creatura, dotata di un’anima immortale, e del peccato originale come limite dell’uomo – mescolateli e avrete le ideologie di morte del secolo appena concluso. Tutte incredibilmente simili. Cambiano solamente i dosaggi: un po’ meno socialismo e un po’ più razzismo ed eugenetica nel nazionalsocialismo, analoghe dosi di nazionalismo e un po’ meno eugenetica, nel comunismo, ovunque la politica e lo stato al di sopra di tutto, al posto di Dio. Sempre, a fondamento, un’idea, la negazione della Caduta originaria e la mondanizzazione della Redenzione: l’uomo può fare senza Dio, per costruire un mondo razzialmente puro, economicamente giusto, eugeneticamente sano, socialmente equilibrato… un mondo perfetto, divino, utopico, paradisiaco.
Si vede bene, insomma, che di una fede si tratta: una fede tanto più intransigente e totalitaria quanto più concentrata sul qui e ora, e cioè esigente nell’immediato. Non c’è spazio per il perdono, dinanzi all’ingiustizia; né per la rassegnazione e la sopportazione, in quanto questi valori religiosi sottintendono una giustizia superiore, divina: il regno della giustizia è di questo mondo, e il potere si assume il compito di realizzarla, interamente. Così la gramigna non verrà separata dal buon grano, come nella parabola evangelica, alla fine dei tempi, come in ogni concezione di una giustizia trascendente, ma subito, appena possibile, dal dittatore di turno.
L’uomo, per fare un altro riferimento a un dogma religioso, non solo cattolico, non è macchiato dal peccato originale, che giustifica l’esistenza dell’imperfezione, dell’ingiustizia, e quindi anche della necessità della misericordia, sulla terra, ma è chiamato alla perfezione assoluta nell’aldiquà, e può raggiungerla, a patto che l’ideologia incaricata di farlo venga realizzata politicamente, economicamente, socialmente, a qualsiasi costo. Se il paradiso è a portata di mano, infatti, non là, ma qua, sarebbe delittuoso non realizzarlo. Se il compimento del desiderio dell’uomo di Bene e di Giustizia è attuabile solo e soltanto, in toto, in questa vita, è da pazzi non perseguirlo con ogni mezzo.
L’uomo, le masse ideologizzate e secolarizzate del Novecento chiedono dunque alla politica, al partito, allo stato, al dittatore, ciò che chiedevano, un tempo, a Dio, anzi di più: tutto, ma subito.
La creazione del mondo perfetto, dell’“uomo nuovo”, per le ideologie, dunque, urge, incalza, preme: necessita al più presto l’eliminazione, tramite ghigliottine, gulag, lager e polizie segrete, Ovra, Gestapo, Ceka e Kgb, di coloro che ostano, che impediscono, che non comprendono, che complottano, che conducono la “controrivoluzione”, che, secondo l’articolo 58 del Codice penale sovietico, riedizione della “legge dei sospetti” di Danton, sono solo sospettati di farlo…: in una parola di quanti meritano l’inferno, anch’esso, come il paradiso, trasferito paradossalmente nell’aldiquà. E’ per questo, per fare un esempio, che la guerra – o la violenza, che è lo stesso – sempre considerata un male, per quanto talora inevitabile (guerra di difesa), diviene un bene in se stessa: il vento che spazza lo stagno, di Hegel, la guerra che porrà fine alle guerre, per alcuni interventisti italiani della Prima guerra, “la sola igiene del mondo” per i futuristi, una esigenza di natura, per i socialdarwinisti, uno splendido cozzare di popoli, per i nazionalisti, la fine del passato oscuro e l’inizio di una nuova era, per tutti i rivoluzionari, da Mussolini a Mao.
Sempre per lo stesso motivo, ogni ideologia si afferma come un “mondo nuovo”, un “ordine nuovo”, un’era diversa, che data la sua origine non dall’evento salvifico della nascita di Cristo, ma, come avviene dalla Rivoluzione francese in poi, passando per il fascismo e il nazismo, dall’ascesa al potere, essa sì salvifica, dell’ideologia ateistica di turno. Al culmine del delirio, sotto l’ateissimo regime comunista di Pol Pot, causa di due milioni di morti su sette milioni di abitanti, in poco più di tre anni (1975- 1979), si arriverà a ordinare per legge non solo il rogo dei libri del passato, ma financo delle fotografie dei privati, affinché fosse cancellato anche il ricordo fotografico di come era il mondo prima dell’avvento del regime comunista dell’Angkar.
In questo senso, evidentemente, la religiosità ateistica, profondamente secolare, temporale, non ha nulla a che vedere con quella autentica, che non è essenzialmente azione ma contemplazione; non manipolazione ma rispetto; non insofferenza e distruzione dei limiti ma loro riconoscimento e accettazione; non trasformazione della società, tramite una alchimistica tecnica politica, ma tramite la conversione dei cuori; non tensione alla eliminazione del male e del peccato, in generale, ma soluzione di un particolare male storico, o individuale. Ma come la religiosità trascendente è totale, nel senso che orienta tutto l’uomo, la sua anima, le sue azioni, a Dio, rimettendo ogni cosa terrena al suo posto, dalla ricchezza, al potere, al dolore, dando a ognuna il suo peso, assolutamente relativo, così la religiosità immanente è tentativamente totalitaria: avendo negato a priori l’essenza dell’uomo, l’anima, e Dio, identifica tutto l’esistente in ciò che è materiale e terreno e quindi coerentemente ritiene come soluzione di tutto la sola politica, che tutto controlla: la politica totalitaria dei regimi totalitari. Ha scritto giustamente Eric Voegelin: “Tutti i movimenti gnostici (tra cui anche comunismo e nazismo, ndr) mirano a recidere i legami dell’essere con la sua origine, cioè con l’essere divino e trascendente, per proporre un ordine dell’essere immanente al mondo, la cui perfezione sarebbe a portata dell’azione umana. Si tratta di modificare la struttura del mondo (avvertita come inadeguata) in maniera così radicale che da quella modifica emerga un mondo nuovo, di piena soddisfazione… Il mondo tuttavia resta quale a noi è dato e non rientra nelle facoltà umane la possibilità di cambiarne la struttura” (“Il mito del mondo nuovo”).
Similmente Augusto del Noce affermava: “Per varie che possano essere le forme rivoluzionarie… il loro lato comune è la correlazione tra l’elevazione della politica a religione e la negazione del soprannaturale… alla liberazione religiosa si sostituisce la liberazione politica… il problema del male viene trasposto dal piano psicologico e teologico a quello politico e sociologico: i dogmi della Caduta e della Redenzione vengono trasferiti sul piano dell’esperienza storica” (“Il problema dell’ateismo”). Ma analizziamo brevemente il nazismo, che delle ideologie totalitarie può essere considerato, insieme al comunismo, il vertice e il compimento. Scomponiamo brevemente i fattori che lo hanno contraddistinto. Anzitutto il nazionalismo, responsabile anche dello scoppio della Prima guerra mondiale, che con i suoi dieci milioni di morti, venti milioni di feriti, mutilati e nevrotici, e sette milioni di prigionieri e dispersi, rappresenta la più grande tragedia della storia sino a quel momento, senza alcuna possibilità di confronto.
Ebbene il nazionalismo è un figlio della Rivoluzione francese, antitetico alla concezione cattolica, e cioè universale, che aveva caratterizzato l’Europa dell’Antico Regime. Nel Sacro Romano Impero, infatti, popoli diversi convivevano insieme, con lingue, storie e costumi differenti, in nome della comunità di ideali religiosi: cattolico a ogni popolo e ad ogni razza.
E’ a tutti noto che la Prima guerra mondiale nacque dalle frizioni tra i nazionalismi tedesco, inglese, serbo, russo, inglese…
Mi limiterò, per brevità, a qualche cenno al nazionalismo italiano, che fu interpretato da personaggi assolutamente nemici della chiesa, e di ogni religiosità, come Francesco Crispi, alla fine dell’Ottocento, e Benito Mussolini, anticlericale anarchico e socialista, ai primi del Novecento, e poi duce del fascismo, di quella concezione dello stato, cioè, per la quale “tutto è nello stato e nulla di umano e di spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato” (evidente parodia laica del “Credo”). Gli interventisti, contro cui Benedetto XV si battè in ogni modo, prima con la diplomazia e poi denunciando “l’inutile strage”, furono tutti uomini delle élites, avversi alla visione cattolica dominante nel paese: il già citato Mussolini, Gabriele D’Annunzio, il socialista nazionalisteggiante Cesare Battisti, i nazionalisti Giovanni Papini ed Enrico Corradini, i futuristi di Marinetti, che predicavano lo “svaticanamento” d’Italia… Molti di questi, esattamente come nel resto d’Europa, utilizzarono il socialdarwinismo materialista per sacralizzare la selezione naturale e la lotta per la vita come legge della storia. Scrive Hagen Schulze, nel suo “Aquile e leoni. Stato e nazione in Europa”: “Alla base di tale concezione c’era la legge della natura, secondo la quale la lotta era di tutti contro tutti, la pace una illusione dei deboli, nel migliore dei casi un momento di respiro nel conflitto perenne per l’esistenza; a sopravvivere sono destinati solo gli esseri moralmente e fisicamente superiori. Per tutti i raggruppamenti politici e sociali valeva l’assioma che l’umanità non aveva come scopo la pace; ciò era vero per il concetto marxista (cioè ateo, ndr) della lotta di classe, come per l’idea nazional-popolare di un eterno antagonismo tra popoli e per la nuova ideologia emergente del conflitto tra le razze… politica vuol dire guerra, e la guerra è necessaria per bruciare i mali dell’epoca… non si tratta di una visione estremistica, ma è quanto si ricava dalla lettura di giornali e periodici, sia seri che a larga diffusione, pubblicati nell’arco di tempo tra il 1880 e il 1914 e che offrono al moderno osservatore una fonte inesauribile di dati relativi alla struttura fondamentalmente darwinistico-sociale del nazionalismo popolare del tempo nell’area anglosassone, in Francia, in Germania o in Italia. Quando, durante la guerra contro i boeri il maresciallo britannico Roberts dichiarava che la lotta spietata tra le nazioni non era altro che una necessità biologica… ciò non era che un’eco di quanto scrivevano numerosi altri autori del tempo”, spesso biologi darwinisti prestati alla politica, come ha ben raccontato il celebre paleontologo evoluzionista Stephen Jay Gould nel suo “I pilastri del tempo”.
Per tornare in Italia, Giovanni Papini, prima che la vita lo portasse a convertirsi e a rinnegare il suo passato, sulla rivista nazionalista Lacerba, nel 1914 scriveva: “Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima delle anime per la ripulitura della terra… Siamo troppi. La guerra è una operazione maltusiana. C’è un troppo di qua e un troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla tavola”. Ed Enrico Corradini, interpretando la stessa concezione ateistica e socialdarwinista, sul Regno del 28 febbraio 1904, allo scoppio del conflitto russo giapponese, descriveva la guerra come “un grandioso e terribile fenomeno della natura, un cozzo di forze avverse primordiali ed eterne, irrefrenabili. E tali sono appunto le forze che conducono alle guerre le nazioni e le razze. Perciò dinanzi ad esse l’uomo civile è abolito e ritorna l’uomo sincero allo stato di natura”.
I frutti del nazionalismo, già condannato da diversi Papi, inutilmente, nelle loro encicliche, avrebbe dunque portato dapprima alla guerra e poi, nel dopoguerra, al fascismo, al nazismo e al “socialismo nazionalista” di Stalin, secondo la celebre definizione di Trotzkij.
L’altra componente del nazionalsocialismo fu il razzismo. Non è qui il luogo per ripercorrere una ideologia che è comunque basata, essenzialmente, sul materialismo biologico: “Sangue e suolo” era lo slogan dei nazisti, proprio a significare una prevalenza degli elementi naturali, materiali, fisici, sull’anima immortale (che veniva esplicitamente negata). Effettivamente il razzismo non era mai esistito nella storia dell’Europa cattolica, prima delle rivoluzioni culturali. Come ha ben raccontato Leo Poliakov nel suo “Il mito ariano” (Editori Riuniti), vi è una stretta correlazione tra il pensiero materialista e la genesi del razzismo; correlazione fondamentale tra negazione della comune figliolanza degli uomini, tutti creati da Dio, e l’idea che gli uomini siano invece originati da ceppi diversi, più o meno “nobili”, più o meno evoluti. Mentre lo scienziato cattolico Louis Pasteur, alla fine dell’Ottocento, rivendicava l’uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, loro creatore, le ideologie atee sostenevano che la storia Adamo ed Eva, con le sue implicazioni logiche, e cioè la fratellanza universale in senso cattolico, era una evidente falsità, perché in realtà la scienza dimostrerebbe l’ineguaglianza delle razze in base alla misurazione dei crani, degli arti, e al tentativo di ridurre l’uomo alla sua fisicità.
Basti pensare a Voltaire, il famoso “apostolo della tolleranza”. Secondo costui l’idea cattolica secondo cui l’umanità deriva tutta da Adamo ed Eva, per cui siamo tutti “fratelli”, è una emerita sciocchezza assolutamente antiscientifica. Al monogenismo biblico, che esclude di per sé qualsiasi razzismo, sostituì il poligenismo, cioè l’idea “secondo cui i diversi gruppi umani discendevano da numerosi e differenti antenati” (Francesco Maria Feltri).
Il razzismo si nutrirà, anche dopo queste prime teorizzazioni, di una visione assolutamente atea, teoricamente o praticamente, della vita, una visione in cui non vi è alcuno spazio per un Dio creatore di tutti i popoli, ma solo per l’esistenza di popoli “superiori” e di popoli “inferiori”, di sangue, di luoghi, di colore della pelle, di predisposizioni naturali e genetiche e di ambienti operanti sull’uomo al di sopra della sua libertà. Lo storico Gianni Gentile, parlando dell’imperialismo, afferma: “La cultura scientifica di stampo positivistico (cioè ateo, ndr) nella seconda metà dell’Ottocento aveva elaborato una teoria delle razze, secondo la quale a ogni razza venivano attribuite diverse basi biologiche che determinavano i vari comportamenti, anche dal punto di vista morale e dei costumi. Questa impostazione pseudoscientifica consentiva di stabilire una gerarchia che poneva la razza bianca al di sopra delle altre razze”.
Strettamente connessa al razzismo, troviamo l’eugenetica, che altro non è che l’antico sogno, utopico, e cioè ateistico, di creare una umanità perfetta, assolutamente sana, senza macchia, che evidentemente non ha bisogno di un Dio salvatore e di una Redenzione. L’eugenetica è presente già nella Repubblica ideale, sostanzialmente comunista, di Platone, nella “Città del sole” di Tommaso Campanella, anch’essa organizzata secondo criteri comunisti; nel sogno di alcuni maghi del Cinquecento, che credevano di poter applicare la selezione adottata per i cavalli, anche all’uomo. Soprattutto, l’eugenetica moderna, riporta ancora al nome del sedicente scienziato, ateo, Francis Galton, che nel 1883 coniò la parola “eugenics”, spiegando al mondo che tramite matrimoni selettivi e sterilizzazioni forzate si sarebbe creato l’“uomo nuovo”, sano e felice.
Non tanti anni più tardi Adolf Hitler, nel “Mein Kampf”, dopo aver spiegato che “lo stato, la nazione, dovrà impedire ai malati o ai difettosi” di procreare, aggiungeva: “Basterebbe per seicento anni non permettere di procreare ai malati di corpo e di spirito per salvare l’umanità da una immane sfortuna e portarla a una condizione di sanità oggi pressoché incredibile”. Del resto Rudolf Hess era solito definire il nazismo una “biologia applicata”, mentre lo studioso Lifton ha definito il nazismo come una “biocrazia”: “Il progetto nazista si ispirava a una visione di controllo assoluto del processo evolutivo sul futuro umano biologico. Facendo ampio uso del termine darwiniano ‘selezione’ i nazisti cercarono di arrogarsi le funzioni della natura (selezione naturale) e di Dio nell’orchestrare le proprie selezioni, la loro versione della evoluzione umana”.
Infine, in questa breve analisi, non si possono trascurare le radici anche socialiste, sia del fascismo, sia del nazionalsocialismo, sia, evidentemente del comunismo. Il marxismo ateo, che influenzò tutti i tre i totalitarismi, con gradazioni diverse (ma non è questo il luogo per analizzare questo punto), rappresenta anch’esso, come ha giustamente scritto Karl Löwith, una “forma secolarizzata del pensiero biblico”: “La lotta finale dei due campi ostili della borghesia e del proletariato corrisponde alla fede cristiana in una lotta finale tra Cristo e l’Anticristo nell’ultima epoca della storia, il compito del proletariato corrisponde alla missione storica del popolo eletto, la funzione redentrice universale della classe più degradata è concepita sul modello religioso della Croce e della Resurrezione, la trasformazione ultima del regno della necessità nel regno della libertà corrisponde alla trasformazione della città terrena nella città di Dio”. Cosa abbia partorito la religione atea del marxismo, lo sappiamo tutti: dalla Russia, alla Cina, alla Cambogia, al Vietnam, ai paesi dell’America latina, si parla, almeno , di cento milioni di morti, secondo cifre, quelle del “Libro nero del comunismo” assolutamente prudenziali. Robert Conquest, nel suo “Il grande terrore”, accenna a venti milioni di vittime solo durante il periodo staliniano, guerra esclusa. Gino Rocca, nel suo “Stalin”, parla di cinque milioni di morti solo nelle grandi purghe staliniane tra il 1937 e il 1938; Aleksandr Solzenitsyn parla di sessantasei milioni di morti in Russia tra il 1917 e il 1959, nel suo “Arcipelago gulag”. Per nessuna epoca della storia, prima dell’affermarsi dell’ateismo assoluto, si possono solo lontanamente pensare le stragi e le malvagità create da nazismo e comunismo, e dalle loro appendici ideologiche (razzismo, eugenetica, socialdarwinismo). E’ una evidenza storica che nessuno può negare.
IL FOGLIO 4 dicembre 2007
Il coraggio di Benedetto XVI
di Renato Farina
Settimanale Tempi - 6 dicembre 2007
Caro Direttore,
Vorrei parlare con te e i tuoi lettori di una persona che ci sta molto a cuore. Lo faccio su Tempi perché so che qui mi capirete di più. Ho paura che provino presto a eliminarlo. Non penso soltanto moralmente, ma proprio fisicamente. Nessuno come lui aveva mai osato tanto. Non si è messo soltanto contro i cattivi, ma anche contro i capi dei buoni. Quest’uomo si chiama Josef Ratzinger.
Non scrivo il Papa o Benedetto XVI, sia chiaro, lo riconosco per tale. Dico grazie a Dio che ce lo ha dato, e scaglierei fulmini e anatemi su quanti ce lo vogliono togliere. Però qui invito a vederlo spogliato dalla sua veste bianca, dalla sua autorità di pontefice e dalle solennità vaticane. Oggi egli è inerme, abbandonato da tutti. Stanno contando tutte le sue ossa. Egli è davvero «l’alter Cristus», il povero di cui parla il Vangelo e profetizzava Isaia. L’uomo postmoderno, che è stato guarito dalla lebbra e torna festante da Gesù come un mendicante contento a ringraziarlo. E mette tutta la sua fede in Lui. Conosce Cristo, gli è amico. Nulla si può desiderare di più. Per questo rischia. Conosce l’umanità di Cristo, la sua pietà per il popolo, lo ha visto piangere per la donna di Naim e per la folla in riva al lago, senza pastore; per Gerusalemme, per Lazzaro, e poi ridere ai bambini e a Zaccheo.
Josef Ratzinger si comporta come il pescatore di Galilea. Il papa è un uomo, non un simbolo. Pietro era un semplice uomo, allo stesso modo che Dio non è un concetto sopra le nubi, ma un uomo ferito, nel cui costato un tale incredulo ha infilato la sua mano. Ratzinger vede la realtà avendo negli occhi lo stesso sguardo che ha sentito e sente amoroso su di sé. Egli ripete, argomentando e pungendo, due parole su Cristo, incarnazione di Dio, amore e speranza! Dopodichè vede il nemico di questo Amore, di questa Speranza, e lo indica, gli leva la maschera.
Certo, quel nemico lavora dentro ciascuno di noi, fa leva su quella debolezza dovuta al peccato originale. Con voi di Tempi posso parlare senza troppi giri di parole. Coincide con l’apparenza della forza. È l’orgoglio! È la presunzione di salvarsi da soli! Lo si fa per non disperarsi, ma è la faccia proterva della disperazione. Sono due sorelle, la superbia e la disperazione. Queste due essenze mortifere hanno oggi una incarnazione impensabile, secondo la profezia di Soloviov, nell’Anticristo. Nel potere più buono e dolce, rispettoso e umano che sia. (Le due figure di anticristo tracciate da Soloviof e da Benson sono figure di pacifisti e benefattori dell’umanità. Nnota di p. Livio). Esso ha stabilito il suo trono su una specie di blocco di marmo alto un chilometro. Un parallelepipedo immacolato, i cui lati e le cui linee d’oro si chiamano «diritti dell’uomo». Pretende di salvare gli uomini eliminando Dio, posto fuori della ragione, perciò reso insignificante. Allo stesso modo ama adornarsi del nome di Cristo, trastullando magari con il suo nome, ma pretende di isolarlo nelle sfere private o come sottosezione nazzarena della croce o mezza luna, o stella di Davide rossa, tanto è uguale. Conta lei, conta l’ONU! L’Onu con tutta la schiera di massime associazioni soprannazionali e sovraumane, come è Amnesty International. E la congrega dei difensori della purezza della terra e della scienza.
Così Josef Ratzinger ha accusato l’Onu e gli organismi sovrastatali, dove ormai si concentra il massimo potere sulle coscienze, di peccato contro lo Spirito Santo, il più grave e irredimibile. Negare, non la verità, non solo essa, ma la possibilità stessa che ci sia, sostituendola con le tavole delle convenzioni universali e progressiste. È l’offesa più grande! Priva Dio e gli uomini del dramma della libertà e di rivelarsi, di accogliere o rifiutare la rivelazione, perché essa, secondo questo anticristo, semplicemente non può essere. (La mentalità che si diffonde da queste organizzazioni, ma non solo da esse, è quella dell’ uomo che crede di salvare se stesso e addita se stesso come dio. Questo è il volto nuovo dell’Anticristo. Giovanni Paolo II aveva chiamato questa
mentalità come un nuovo totalitarismo e Benedetto XVI l’ha chiamata «dittatura del relativismo e il Catechismo della Chiesa cattolica chiama «impostura anticristica». Nota di p. Livio).
Nessuno mai è stato così grande e coraggioso come Ratzinger (Si può dire che questo Papa si muove sulla linea di Giovanni Paolo II e che Ratzinger è stato il suo grande amico e ispiratore), lui che non ha l’ampiezza dei gesti e la magnifica teatralità del suo amatissimo predecessore, ha osato andare più in là. Non se l’è presa con la mafia, non ha attaccato gli spacciatori di droga e i terroristi. L’ha già fatto. Non si dimentica di questi delitti e delle loro centrali infami, ma c’è un pericolo maggiore: il monopolio delle coscienze in nome delle cause buone..
Nei suoi interventi di fine novembre e nella risposta tra l’irato e l’impacciato dell’Onu e di Amnesty, oltre che dei loro schierami italiani, ho visto il ripetersi del gesto di Davide che affronta Golia. Ma stavolta a Golia si è riattaccata la testa. Davide vinse, fu re. Adesso è più dura. In Ratzinger si è vista l’umiltà di Giovanni il Battista davanti a Erode. Non poteva tacere la verità. Non esiste che la si taccia! Non è possibile che in nome dell’equilibrio del potere la menzogna abbia la corona sulla testa! Erode tagliò allora la testa a Giovanni Battista. Non si dice di nessuna parola di ribellione. Lui doveva diminuire perché Qualcun altro crescesse.
Non c’era nulla di tracotante nel Ratzinger di queste dichiarazioni. La sua voce è gentile, la logica candida e mite, ma le sue parole senza urla entrano negli interessi, negli interstizi delle corazze di questa cultura assassina che ci domina e la scardinano! (Giovanni Paolo II, quando parlava di questa cultura, parlava di «cultura di morte». È una cultura della morte in nome della «pietà». Si dice che si può ammazzare per «amore». Capito? Nota di p. Livio) Chi indossa questa armatura non sopporta. Capisce che si squaglia. Allora reagisce. Il Papa ha riaffermato quello che sta dicendo da tempo: la dittatura del relativismo ha preso possesso di ogni stanza di comando: università, giornali, tv, stati, soprastati.
È l’idea per cui l’unica verità – ammessa e assoluta – è che non c’è verità. Nessuno ne deve avere l’ardire, neanche Cristo! Condizione perché chi si dice cristiano sia sopportato e non sia annoverato fra i fondamentalisti, e che costui si limiti a proclamare verità private, buone per chi si vuole iscrivere al suo club. L’unica vera «religione» universale deve essere quella dei «diritti umani». Sarebbe bello, peccato siano però selezionati secondo l’ideologia e il comodo di chi li ha elaborati: la filosofia alternativa al mistero cristiano. Anzi, sua nemica giurata, tanto da volerlo morto, azzerato!
Ratzinger non si è limitato a condannare il relativismo etico, ha indicato i vertici dove si annida nascostamente, e lo ha criticato non in nome di un’altra etica, ma di una verità sperimentabile nella storia, umiliata e vilipesa, ma risorta. Il nome lo sapete, non oso più ripeterlo, non ne sono degno, ma è Lui. Lui è fantastico! E questo Ratzinger è meraviglioso che sia papa, e sia vestito di bianco, e non dica queste cose perché ricopra un ruolo o perché sia ritenuto autorità morale, lo fa semplicemente perché è un uomo, e nato dove è nato, gli anni che ha, e crede, crede lietamente, senza paura, anche se io ho paura per lui. E invito tutti a vigilare, ad esser le sue scolte, di Assisi, di Roma, di Milano, di Quarto Oggiaro, dovunque ci sia accesa la lampada rossa del Sacramento e un uomo si raduni con un altro in nome suo.
Nei giorni scorsi ho incontrato il Cardinale Biffi. Era sereno come sempre. Mi ha spiegato che differenza c’era fra Don Luigi Giussani e tutti gli altri, che pur credevano e amavano le stesse cose nel seminario di Venegono – tra cui lui, Biffi medesimo - «Don Giussani – diceva Biffi – non sopportava che gli altri uomini non conoscessero chi è davvero Gesù Cristo, verità della loro vita e della loro storia. Noi stavamo in seminario, lui saliva su un treno e non poteva non parlare ai ragazzi degli scompartimenti. Tornava e diceva: «Cristo è sconosciuto! Non possiamo star seduti!». Ribolliva!». Così ribolle oggi Ratzinger, con il suo sorriso candido. Ha aggiunto biffi: «Mai, mai a mia memoria c’è stato un accanimento così protervo contro Cristo, la Chiesa e il Papa». (Capito? Poi c’è qualcuno che si lamenta che ho scritto un libro dal titolo «Non prevalebunt», (Manuale di resistenza cristiana), Nota di P. Livio). Non bisogna avere paura. Cristo è un avvenimento. Nessuno può estirparlo. Ma questo attacco è tremendo!
ANALISI ACUTA SUL NOSTRO OGGI - PAURA DEL PARADISO, DICE IL PAPA
MARINA CORRADI
Avvenire, 7.12.2007
« Vogliamo noi davvero vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile ».
Paura del Paradiso, potrebbe essere il titolo di queste righe. Paura del Paradiso di una generazione educata a vivere nel presente, a vivere qui e ora, e incline a rifiutare con inquietudine le promesse che impegnino 'per sempre'. Il sempre, l’eternità spaventano gli uomini abituati al nostro tempo di precari affettivi e lavorativi, dove nulla è garantito, ma, anche, tutto ogni volta è da rifare, secondo le esigenze e il gusto del momento. Il culto dell’attimo fuggente, dell’emozione da cogliere e sfruttare prima che scivoli via, lascia poco spazio alla promessa cristiana di vita eterna. Il Paradiso? Deve essere oggi, ora, subito, risponderebbero molti dei ragazzi in giro per le nostre città il sabato sera, se qualcuno glielo domandasse.
Ma la cosa singolare è che quelle righe in cui si accenna all’eternità vissuta come una condanna le scrive Benedetto XVI, al decimo capitolo della
Spe salvi. Con una immedesimazione profonda nel sentire di noi gente normale, credente con i suoi taciti dubbi, oppure già da tempo lontana. Una pagina scritta come uscendo dai Palazzi Vaticani, come ascoltando i pensieri segreti di borghesi in cammino in un corteo funebre, o un dialogo fra pensierosi liceali, quando un professore avesse voglia di suscitare certe domande. L’eternità, che misura spaventosa, se proiettata sull’unica vita di cui noi abbiamo esperienza, «più fatica che appagamento», dice il Papa. Certo, non vogliamo morire, ma «vita eterna» ci induce il sospetto di un prolungarsi indeterminato di 'questa' vita, l’unica che sappiamo – e l’idea non ci affascina.
Per spiegarsi il Papa si richiama ad Agostino, per il quale la vita eterna è semplicemente «felicità». Ma poi, quasi temendo non basti, spiega ancora, come immaginando gli occhi perplessi dei suoi lettori, nell’anno 2007: questa vita promessa è la totalità che ci abbraccia, l’immergersi pieno nella totalità dell’essere, «l’essere semplicemente sopraffatti dalla gioia».
Non sappiamo a quanti catechisti sarebbe venuto in mente di spiegare ai propri ragazzi che la promessa non è di un triste nebbioso infinito, ma di una pienezza che non possiamo immaginare. Nulla da Benedetto è dato per scontato: nemmeno che gli uomini, a sentir dire di vita eterna, abbiano un sussulto più di inquietudine che di attesa. Quella vita promessa è una 'cosa' ignota, dice il Papa: e «questa 'cosa' ignota è la vera 'speranza', e al contempo la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo ».
È l’attesa dunque, che abbiamo incisa addosso, di una vita non toccata dalla morte e dal dolore; e però anche, nella impossibilità terrena di ottenerla, il desiderio tradito che genera rabbia, violenza, e la fasulla rivoluzione di sistemi sociali che promettano giustizia, qui e ora. Ma la promessa è altra, di tutt’altro, di un oceano che non può stare dentro i nostri pensieri finiti. La 'cosa' ignota è la vera speranza. Ci dice il Papa di non averne paura.
Ruini: il Papa porta a Cristo l’uomo di oggi
DA ROMA SALVATORE MAZZA
Avvenire, 7.12.2007
Il Gesù di Nazaret «non è soltanto un tentativo di mostrare l’identità del Cristo della fede con il Gesù della storia». Il libro di Joseph Ratzinger- Benedetto XVI, infatti, «è anche, e non meno, un grande approfondimento del significato teologico di Gesù, o più semplicemente del suo significato per la nostra fede, secondo due direttrici: quella della valorizzazione delle ricchezze spirituali della sua figura e del suo messaggio, alla luce del Nuovo Testamento letto insieme all’Antico e di tutta la grande tradizione cristiana, e quella dell’attualizzazione del messaggio di Gesù in rapporto alla presente situazione storica, con i suoi interrogativi e le sue istanze».
Così ieri il cardinale vicario di Roma, Camillo Ruini, ha proposto al clero della diocesi la propria riflessione su Gesù di Nazaret: realtà storica e potenza salvifica. Un approccio teologico al libro di Benedetto XVI. Parlando nell’aula Magna della Pontificia Università Lateranense, il cardinale ha sottolineato in particolare come Ratzinger valorizzi, nel percorso che propone alla scoperta di che cosa Gesù sia per noi, «le ricchezze spirituali della figura e del messaggio di Gesù e la loro attualizzazione in rapporto alla presente situazione storica».
«È bene cominciare – ha detto in proposito – dalla 'grande domanda' che ricorre più volte nel libro: che cosa Gesù ha portato veramente nel mondo, se non ha portato la pace, il benessere per tutti, un mondo migliore? La risposta è molto semplice: Dio, Gesù 'ha portato Dio', quel Dio che le genti avevano intravisto sotto molteplici ombre... In Gesù, attraverso la Chiesa famiglia dei suoi discepoli, questo Dio fa conoscere il suo volto ad ogni uomo, e proprio così ci indica la strada che come uomini dobbiamo prendere in questo mondo».
La seconda attualizzazione riguarda l’amore del prossimo. Un amore già radicato nell’Antico Testamento, certo, ma «con la parabola del buon samaritano egli ci mostra però che non si tratta di stabilire chi sia o non sia il mio prossimo: si tratta invece di me stesso, io devo diventare prossimo, così l’altro conta per me come me stesso ». «L’attualità della parabola – ha osservato Ruini – è ovvia. Se l’applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, le popolazioni derubate e saccheggiate dell’Africa – e non solo dell’Africa – ci riguardano da vicino e ci chiamano in causa da un duplice punto di vista: perché con la nostra vicenda storica, con il nostro stile di vita, abbiamo contribuito e tuttora contribuiamo a spogliarle e perché, invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Gesù Cristo, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio».
Una terza attualizzazione del messaggio di Gesù prende infine spunto dalla critica di quanti sostengono che nessun ordine sociale potrebbe essere fondato sul Discorso della montagna. Tuttavia «la mancanza di concreti ordinamenti sociali nell’annuncio di Gesù racchiude un processo che riguarda la storia universale, e che ha avuto luogo soltanto in ambito culturale cristiano: gli ordinamenti politici e sociali concreti vengono liberati dall’immediata sacralità – da una legislazione basata direttamente sul diritto divino – e affidati alla libertà dell’uomo che, attraverso Gesù, è radicata nella volontà del Padre e partendo da lui impara a discernere il giusto e il bene ». «Questo fondamentale processo – ha spiegato il cardinale – è stato compreso in tutta la sua portata solo nell’età moderna, ma poi è stato subito interpretato unilateralmente e falsato. La libertà dell’uomo, infatti, è stata interamente sottratta allo sguardo di Dio e alla comunione con Gesù. La libertà per l’universalità, e quindi la giusta laicità dello Stato, si è trasformata in qualcosa di assolutamente profano, in 'laicismo', per il quale l’oblio di Dio e l’esclusivo orientamento verso il successo sembrano diventati elementi costitutivi. Ma così – ha concluso – la ragione dell’uomo perde il suo punto di riferimento, corre sempre il pericolo dell’offuscamento e della cecità».
Ieri alla Lateranense incontro tra il cardinale vicario e il clero romano sul libro «Gesù di Nazaret» che valorizza «le ricchezze spirituali della figura e del messaggio del Nazareno in rapporto alla presente situazione storica»
LEGGE 194, QUANDO LA TATTICA SI MANGIA LA VERITA'
dal sito http://www.totustuus.it
Riccardo Cascioli
In queste settimane è scoppiata una strana guerra nel fronte anti-abortista, su cui vale la pena esprimere un giudizio chiaro viste le conseguenze concrete che essa comporta.
Tutto è cominciato con un’intervista alla nota ginecologa cattolica Patrizia Vergani del settimanale Tempi. A domanda precisa (“Lei oggi cambierebbe la 194, la legge sull’aborto?”), la Vergani risponde: “No. Penso invece che dovrebbe essere rispettata e applicata di più, con tutta quella parte di sostegno a chi decide di non abortire”. Si sono sollevate immediatamente delle polemiche, in cui si è distinto il Comitato Verità e Vita, il cui presidente Mario Palmaro ha bollato come “gravissima” questa presa di posizione paventando l’abortismo strisciante che si è ormai insinuato anche tra cattolici al disopra di ogni sospetto. In soccorso della Vergani, ancora su Tempi, è scesa in campo Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale di Bioetica e autrice di pubblicazioni anti-abortiste. La sua difesa d’ufficio ha provocato una reazione ancora più dura da parte del Comitato Verità e Vita, che in pratica l’ha accusata di essere diventata abortista.
Se quest’ultima affermazione è indubbiamente infondata, dettata certamente dalla foga polemica, ciononostante molte affermazioni della Morresi lasciano perplessi se non costernati.
Anzitutto si fa scudo delle parole del cardinale Camillo Ruini per affermare che lei e la Vergani sono in perfetta sintonia con l'ex presidente della CEI. Ruini avrebbe infatti affermato che “noi siamo certamente contro l’aborto ma non vogliamo modificare la legge”. Peccato che il 4 settembre scorso il cardinal Ruini abbia detto esattamente il contrario: “Modificare la 194 non solo è lecito ma è anche doveroso”, ha affermato intervenendo alla Summer School della Fondazione Magna Carta. All’inizio del discorso aveva detto che “per un credente sarebbe meglio che quella legge non ci fosse, però c’è…”. Come dire, è una legge inaccettabile ma bisogna prenderne atto, e infatti più avanti, dice: “Non ci sono le condizioni culturali per abrogarla”. Quello di Ruini, dunque non è un “non voglio”, piuttosto è un “vorrei, ma non posso”. Malgrado ciò afferma che 30 anni di progresso medico-scientifico spingono a un necessario adeguamento della legge, “per migliorarla, non certo per peggiorarla”. E questa modifica “non solo è lecita ma è anche doverosa”. Ruini parla anche dei “politici cattolici”, che peraltro “nessuno obbliga a essere tali”. Ma se tali si definiscono allora “dovrebbero essere disposti anche ad andare in minoranza per promuovere i valori per la Chiesa non negoziabili”.
Il giudizio mi pare sia così chiaro da non richiedere interpretazioni. Si può solo aggiungere che mentre per la Morresi 30 anni di cambiamenti significano la necessità di difendere la 194 dopo averla combattuta appunto 30 anni fa, per Ruini è proprio questo che rende necessario almeno una modifica della legge, lavorando al contempo per ricreare una cultura della vita (”le condizioni culturali”) che renda possibile abrogarla. Ciò va ben oltre il desiderio di applicarla meglio, che sembra essere l’orizzonte della Vergani e della Morresi (chi fosse interessato può andarsi a risentire le varie edizioni dei Tg nazionali del 4 settembre a questo indirizzo web).
Ma ci sono molte altre affermazioni nell’articolo della Morresi che sono decisamente discutibili, come la seguente: “Nel suo genere, la legge 194 è una buona legge, una delle migliori sull’aborto nel mondo”. La Morresi intende ovviamente affermare che nel mondo quasi tutte le leggi sull’aborto sono più liberali. Questo può essere vero, ma allora è giusto dire che la 194 è “una delle più restrittive”. Non è solo una questione di termini: “restrittivo” è un giudizio “tecnico”, “buona” o “migliore” è un giudizio di valore che ha tutt’altro significato. Tanto per fare un esempio: si sentirebbe la Morresi di affermare che le leggi razziali di Mussolini erano “buone” rispetto a quelle di Hitler?
In ogni modo non è un caso che la 194 non sia stata applicata nelle sue parti “propositive” e che non siano neanche osservate tutte le limitazioni all’aborto che pure la legge prevede. La verità è che quelle parti propositive e quei limiti servivano soltanto a far digerire a un’opinione pubblica – a anche a molti cattolici – un diritto all’aborto che altrimenti non sarebbe mai passato. E’ una strategia ben collaudata, che si ripete in tutti i paesi del mondo con una cultura maggioritaria per la vita. E questo la Morresi, che in Italia è una delle poche ad aver studiato il movimento abortista internazionale, lo sa benissimo.
Quando poi la Morresi afferma che “una legge sull’aborto è necessaria: prima le donne che abortivano erano processate e andavano in galera” mentre uguale sorte non toccava ai “maschi che le mettevano incinte”, bisognerebbe almeno dire che una tale disparità – peraltro più teorica che pratica (sa dirci la Morresi quante donne che hanno abortito sono andate in prigione prima del 1978?) – ha radici culturali e non ci vuole certo una legge che consenta l’aborto per stabilire l’uguaglianza delle responsabilità tra uomo e donna. Anzi, da questo punto di vista la 194 ha peggiorato la situazione lasciando la donna ancora più sola davanti all’aborto, visto che l’impianto stesso della legge risente dell’ideologia femminista per cui “il corpo è mio e me lo gestisco io”. Si dovrebbe anche ricordare che uno dei punti su cui il fronte anti-abortista allora insisteva era proprio quello sull’inclusione del padre nella responsabilità di fronte al nascituro, cosa che i sostenitori della 194 hanno ostinatamente rifiutato proprio perché avrebbe snaturato la loro impronta culturale.
Infine, è utile soffermarsi su quella spaccatura esistente - dice la Morresi - nel fronte “abortista”. Essa definisce due schieramenti: gli abortisti e i “pro-choice”. Gli abortisti sarebbero in pratica quelli dell’aborto libero e facile, i “pro-choice” sarebbero invece una sorta di abortisti compassionevoli, cioè “sostengono la 194” ma anche “vorrebbero che le donne non abortissero più e per questo apprezzano il lavoro dei centri di aiuto alla vita”. Nulla da obiettare sulle diverse ragioni che percorrono il fronte abortista, ma come si fa a definire “pro-choice” il secondo schieramento che - si capisce – dovrebbe essere nostro alleato? La Morresi sa benissimo che “pro-choice” a livello internazionale e in ogni angolo del mondo sta ad indicare gli abortisti tout-court, quelli che non solo si oppongono al diritto alla vita ma oggi chiedono a gran voce che venga riconosciuto a livello internazionale l’aborto come diritto umano universale. “Pro-choice” significa “per la scelta”, ovvero per la libera scelta delle donne di abortire se lo vogliono, è il trionfo del soggettivismo e dell’individualismo. Perché allora creare confusione, suggerendo come oggettiva una definizione che sta solo nella testa di chi l’ha scritta?
La Morresi ha pienamente ragione nel dire che il nemico “non sono le donne che abortiscono”, ma “è l’aborto” e che dunque “chi vuole lavorare per diminuirne il più possibile il numero è mio alleato”, ma la confusione e travestire il male in bene non serve a nessuno. Francamente si fa fatica a sfuggire all’impressione che – come sostiene Verità e Vita - “la tattica si è mangiata la verità”.
ALFABETO BIFFIANO
Compendio alle «Memorie e digressioni di un italiano cardinale»
di Camillo Langone
Il Foglio 6.12.07
Compendio all’ultimo libro di Sua Eminenza Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, «Memorie e digressioni di un italiano cardinale» (Cantagalli, 640 pagine, euro 23.90)
ANGELISMO. Biffi non viene dal nulla al pari del suo amico don Giussani, spesso citato nelle memorie: l’idea di cristianesimo non come moralismo ma come evento salvifico arriva da Venegono, il seminario varesotto frequentato da entrambi. In particolare viene dal rettore don Giovanni Colombo, in seguito arcivescovo di Milano. «Non si deve peccare di angelismo» raccomandava ai futuri preti. I quali sulle prime non capivano: angelismo? che roba è? Poi capirono.
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BORROMEO. Il cattolicesimo biffiano è di rito ambrosiano e ascendenza borromaica, sia per via di Carlo (il santo nasuto che combatté gli eretici e la peste) che di Federico (il cardinale manzoniano che sviluppò gli oratori). Così, giusto per ricordare a quali altezze arrivò il cognome, prima di ridursi a fare da coroncina su benestanti autocentrate.
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CORRIERE DELLA SERA. Biffi insegna che il Corriere non cambia mai. Nel gennaio 1945 il cardinale Schuster fissò per il settembre dello stesso anno («essendo egli certo che il conflitto sarebbe nel frattempo finito») un grande congresso eucaristico diocesano da tenersi a Monza. L’arcidiocesi di Milano, una delle più popolose del mondo, si mobilitò dalla prima all’ultima delle sue parrocchie, compresi gli oratori allora frequentatissimi dai ragazzi. L’ultimo giorno, per le vie della città della corona ferrea, sfilarono più di un milione di persone. «A memoria d’uomo non si ricordava una manifestazione così significativa e imponente». Il Corriere del tempo diede la notizia in poche righe seminascoste. E’ vero, il Corriere di oggi darebbe a un simile evento spazio maggiore, ma poi lo farebbe sminuire dal commento di Alberto Melloni e il risultato sarebbe sempre quello del ’45.
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DOSSETTI. «Giuseppe Dossetti è stato un autentico uomo di Dio». Perbacco. «Un asceta esemplare.» Caspita. «Un discepolo generoso del Signore che ha cercato di spendere totalmente per lui la sua unica vita». Accipicchia. Biffi inizia elogiando il defunto prete democristiano ma prosegue ricordando il giudizio che di lui avevano Pertini («come politico non valeva niente») e don Divo Barsotti («la sua teologia non era sufficientemente fondata»). Nel ’91 un costernato Biffi lesse il discorso dossettiano in cui la Torah (la legge mosaica) veniva presentata come via di salvezza per gli ebrei, ridimensionando Cristo a salvatore dei soli gentili. Don Giuseppe, il padre del cattocomunismo, era un autodidatta caparbio che si fissava sui propri convincimenti ignorando maestri e interlocutori. Era un fesso (parola di Pertini, «quel volpone di Dozza se l’è mangiato in un boccone!») che si credeva furbissimo, vantandosi di aver condizionato i lavori del Concilio Vaticano II con i machiavellismi imparati alla Costituente. Insomma un cattolico balordo ma un italiano vero.
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EMILIA SAZIA E DISPERATA. Nel 1985 in Italia circolava una leggenda: il paradiso emiliano. Aspiranti studenti fuorisede, registi cinematografici romani, meridionali nemici del meridione, giornalisti con poche idee e tante pagine da riempire, tutti favoleggiavano di una Shangri-La tra le pianure. Il mito si basava su dati reali (alti redditi, forti consumi, servizi più efficienti che altrove) irrealisticamente interpretati, come se di solo pane (o automobili, discoteche, asili comunali…) potesse vivere l’uomo. Biffi, fresco arcivescovo di Bologna, scorrendo le tabelle dell’Istat scoprì che la regione Emilia-Romagna primeggiava anche per aborti, denatalità, suicidi. Conversando con dei giornalisti coniò quindi l’epocale coppia di aggettivi: «Emilia sazia e disperata». La frase ebbe enorme successo e fu anche profetica siccome una ricchezza senz’anima e senza prole non poteva avere altro esito che il presente abbandono delle città, dei centri storici emiliani, nelle mani degli alieni, dei criminali, dei pisciatori nei portici, con i benestanti asserragliati nelle ville in collina.
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FRANCESCO. Matilde Bernabei, produttrice dello sceneggiato su San Francesco d’Assisi da poco andato in onda, si è avvalsa della consulenza storica dell’islamofilo Franco Cardini. Se avesse consultato Biffi ci avrebbe risparmiato il kitsch teologico dell’incontro santo-sultano, scena girata non per avvicinarsi alla verità storica di quell’episodio legato alla Quinta Crociata bensì per inchinarsi al cosiddetto dialogo, parola-feticcio del XXI secolo ma non certo del XIII. Nelle sue memorie il cardinale riporta la testimonianza di frate Illuminato, compagno di Francesco nella spedizione. Al cospetto del sultano, il santo disse queste precise parole: «I cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti più uomini potete». Gli spettatori televisivi non lo sapranno mai.
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GIOVANNI XXIII. Gli stava simpatico, Papa Giovanni, a Giacomo Biffi. «Solo la valutazione di alcune frasi mi lasciava esitante». Quella pronunciata nel discorso di apertura del Concilio, in cui Giovanni XXIII ironizzava sui «profeti di sventura». Tutti ad applaudire tranne Biffi, memore che nella Bibbia l’ottimismo è prerogativa dei falsi profeti mentre i profeti autentici, Ezechiele, Geremia, Isaia, sono tutti annunciatori di calamità. E quell’altra frase secondo la quale «bisogna guardare più a ciò che ci unisce che a non a ciò che ci divide». Biffi ancora oggi scuote la testa: «In virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane». Figuriamoci se gli stava antipatico.
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HOTEL ITALIA. Questa nazione non è un albergo, dice Biffi, un luogo neutro dove andare e venire senza rendere conto a nessuno, «una landa deserta o semidisabitata, senza storia, da popolare indiscriminatamente». In materia di immigrazione è nettissimo: «Non esiste un diritto di invasione». Indica anche un metodo: «Andrebbero preferite le popolazioni cattoliche o almeno cristiane, alle quali l’inserimento risulterebbe enormemente agevolato. Questa linea di condotta non dovrebbe lasciarsi condizionare nemmeno dalle possibili critiche sollevate dall’ambiente ecclesiastico o dalle organizzazioni cattoliche». In pratica Biffi sta esortando Cesare a comportarsi da Cesare, solo che Cesare non risponde, forse non sente, starà facendosi imboccare dalla badante.
INSEGNANTI. «Eravamo in cinquantaquattro a studiare e a vivere nella medesima camerata». Il seminario dal quale uscirono tanti magnifici uomini di chiesa era il contrario della scuola italiana contemporanea, in cui la più alta spesa per studente d’Europa produce la più lampante somaraggine. Colpa della scarsa qualità degli insegnanti, certo, ma anche del loro numero eccessivo: a Venegono gli allievi erano moltissimi e gli insegnanti pochissimi e perciò autorevolissimi.
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JOURNET. Ai seminaristi un giorno fece lezione Charles Journet. L’abate svizzero pronunciò parole indelebili: «I membri della chiesa peccano non in quanto sono a lei connessi, ma in quanto la tradiscono: sicché la chiesa, che non è mai senza peccatori, è sempre in se stessa senza peccato». Biffi se ne ricordò quando Giovanni Paolo II gli sottopose la bozza della «Tertio millennio adveniente» in cui la chiesa chiedeva perdono per i peccati della sua lunga storia. Il cardinale disse al Papa «con rispettosa franchezza» che proprio non c’eravamo. Il Papa ammorbidì varie espressioni. Il cardinale continuò a giudicare inopportuna l’iniziativa.
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LUCIANI. Papa Giovanni Paolo I era uomo di salute cagionevole e voce flebile ma di pensiero nient’affatto debole. Ce lo ricorda Biffi o meglio ce lo fa sapere per la prima volta, siccome anche i cattolici, condizionati dai media anticattolici, pensano a lui come a un parroco di campagna, ingenuo e conciliante, stritolato dalla gerarchia reazionaria. Niente di tutto questo. Anzi: tutto il contrario di questo. All’epoca del referendum sul divorzio, Albino Luciani fu antidivorzista fattivo: «Da patriarca non aveva esitato a prendere provvedimenti a carico della Fuci veneziana, che si era dichiarata per il no, esautorandone addirittura l’assistente ecclesiastico. Fu l’unico vescovo italiano che ebbe questa fermezza». In pratica scomunicò gli universitari cattolici perché, votando in favore del divorzio, disobbedivano alla chiesa. E all’indomani dell’elezione al soglio pontificio si rivolse ai cardinali con un discorso centrato sulla disciplina ecclesiale. Questo era Papa Luciani.
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MONARCHIA. Fra le tante cose, «Memorie e digressioni di un italiano cardinale» è una summa di storia italiana novecentesca. La complessa materia istituzionale è liquidata in poche righe definitive. «Chi propendeva per la monarchia era spinto anche dal pensiero che quell’istituto poteva offrire qualche garanzia supplementare contro un eventuale colpo di scena del comunismo. Ma, si obiettava, se un re non ha saputo opporsi all’irruzione fascista, come si può sperare che un re riesca a opporsi a un movimento storico ben più potente e universale come il marxismo?» Anche un monarchico demaistriano resta colpito dal ragionamento, salvo riprendersi dopo essersi ricordato che Biffi non sta parlando dei Borbone ma dei Savoia, «monarchi aridi, scettici, religiosamente poco sensibili», che non si meritavano altro.
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NIENTE. Altre frasi da sottolineare sono contenute nell’intervista pubblicata da Avvenire il 27 maggio 1990: «Io penso che l’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la cultura del niente».
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ONOMASTICA. Negli anni Trenta i cattolici milanesi riuscirono a mantenersi impermeabili al fascismo, sotto l’usbergo di Papa Pio XI, del cardinal Schuster e di un clero fiero del proprio abito. Biffi ne ha la prova: «In tutta la via Paolo Frisi e fra le centinaia e centinaia di frequentatori dell’Oratorio di via Francesco Redi, a differenza di ciò che avveniva altrove, in quegli anni non si è mai avuto notizia di un solo bambino che si chiamasse Benito».
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PINOCCHIO. Come il cardinale Bembo, il cardinale Biffi è un grande critico letterario. Invece di specializzarsi in Petrarca si è specializzato in Pinocchio, studiandolo nel tempo lasciato libero dalla cura d’anime. In Pinocchio prima che in Collodi: secondo il critico-cardinale l’opera trascende l’autore o meglio l’idea corrente che si ha di Carlo Lorenzini, considerato un mazziniano quindi un anticattolico. Accadde qualcosa tra il 27 ottobre 1881 e il 16 ottobre 1882, tra il giorno in cui Collodi pensò di concludere la storia facendo impiccare il burattino sotto la Quercia grande, e il giorno in cui riprese la pubblicazione a puntate cambiandola di segno, introducendo la Fata Turchina ovvero «l’idea della redenzione e il principio femminile della salvezza». Il mazziniano, forse deluso dagli esiti risorgimentali, ridiventò cristiano, come la religiosissima madre Angiolina e gli insegnanti del seminario di Colle Val d’Elsa frequentato da ragazzo.
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QUARTIERI MILANESI. Con «Memorie e digressioni», Biffi apre il sipario sulla vita dei quartieri popolari milanesi nella prima metà del Novecento. Le laterali di corso Buenos Aires erano brulicanti di italiani, per giunta milanesofoni. Nella sua via Paolo Frisi c’era un prestinée (fornaio), un fondeghée (droghiere), un cervellée (salumiere), uno sciostrée (carbonaio), un polentatt (venditore di polenta) e un busecchée (venditore di trippa). Oggi nella stessa strada alzano la serranda il Turné night bar, il ristorante La peña de pocho (cucina peruviana), Ismail Adel (pavimenti in legno e decorazioni arabe), La Fenice vintage (vecchie borse Gucci), il ristorante pizzeria La Ragazza (titolari cilentani)… Più nessuna possibilità di farsi una bicerada, come quella a base di barbera che all’osteria Peracchio, il 23 dicembre 1950, festeggiò l’ordinazione sacerdotale di Giacomo Biffi, avvenuta poche ore prima nella chiesa di San Bernardino alle Ossa.
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RAFFINATA E SQUALLIDA. Per la precisione, durante quell’omelia pronunciata in San Petronio nel giorno dell’Immacolata Concezione, Biffi parlò di «una donna sostanzialmente squallida, anche se esteriormente raffinata». E’ il modello di donna imposto dalle riviste femminili, dalla televisione, dalla pubblicità, che il cardinale considerava e considera l’antitesi della Madonna. «Fin dagli Stati Uniti si levarono voci indignate».
* * * SCOMUNICA. Che bella parola. Gli ignoranti la collegano al medioevo, al potere temporale, all’inquisizione o a qualsivoglia altra leggenda nera. Invece è verità bianca, che Biffi restaura descrivendone la genesi evangelica. La scomunica viene istituita da Gesù a Cafarnao, sul lago di Tiberiade, per proteggere gli innocenti, i semplici: chi scandalizza il prossimo col suo comportamento, e non si lascia persuadere né dall’ammonizione personale né da quella pubblica, «sia per te come un pagano e un pubblicano» (Matteo 18, 17).
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TEOLOGIA. Biffi respinge la definizione di teologo. Per modestia? Non solo: «Nella repubblica teologica da diversi anni circolano molti coi quali mi dispiacerebbe esser confuso».
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UNIVERSITA’ CATTOLICA. Si pensava che la Cattolica di Milano, noto covo ciellino, fosse da sempre un baluardo della civiltà cristiana, e che certi remoti scricchiolii fossero da addebitare a uno di quei professori, aspiranti eresiarchi, in seguito giustamente allontanati. Invece ci fu un tempo in cui la venerabile istituzione barcollò finanche nella persona del suo rettore, Giuseppe Lazzati. Correva l’annus horribilis 1974, quando al referendum sul divorzio gli italiani voltarono le spalle al proprio passato e al proprio futuro. Biffi, allora parroco di Sant’Andrea (fuori Porta Romana), visse mesi di pena. Non solo per la distruzione del «principio dell’indissolubilità del matrimonio che arginava gli impulsi egoistici degli adulti e tutelava il diritto dei figli di crescere in un contesto non disarmonico». Anche per i tanti cattolici che, annusando l’aria divorzista, tradirono. Lazzati concesse aule universitarie ai paladini del divorzio e le negò ai contrari. «Per motivi di ordine pubblico» fu la motivazione. Biffi nel suo caso è durissimo, non gli concede nemmeno la simpatia umana che concede a Dossetti: «Bella università cattolica, e bell’esempio di coraggiosa militanza ecclesiale».
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VERITA’. «Il primo dovere dell’Apostolo, e quindi del Vescovo suo successore – secondo il comando del Signore – è di evangelizzare gli uomini, cioè di cristianizzarli, di far loro conoscere ed amare Cristo, unica verità che salva e libera».
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ZOO. A pagina 254 Biffi racconta di essere stato allo zoo di Roma, in una delle due o tre mezze giornate libere della sua vita. Embè? Che significa? Significa che quando un autore chiama le cose, anche le più marginali, col loro nome, quando ad esempio chiama zoo uno zoo, e non bioparco, allora bisogna assolutamente leggerlo.
Denunciata la tossicità della Ru486
Intervista al Presidente della società medico-scientifica Promed Galileo
Di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 6 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Questo giovedì, a Roma, presso la Camera dei Deputati, è stato presentato uno studio scientifico (http://www.promedgalileo.org/abortomedico.htm) in cui si denunciano tutti i limiti sull’efficacia, la tollerabilità ed i rischi della pillola abortiva Ru486.
Ad elaborare il documento è stata la Società Medico Scientifica Interdisciplinare Promed Galileo. La ricerca delle fonti è stata effettuata sulle banche dati usando strategie di ricerca orientate alla sensibilità. E' stata ricercata, per quanto possibile, anche la letteratura "grigia" ed il web.
Secondo i ricercatori che hanno condotto lo studio, “Il documento intende rappresentare una fonte indipendente di informazioni per le Autorità Regolatorie e le Istituzioni oltre che per i cittadini poichè la percezione generale della problematica non è stata sufficientemente basata su una corretta valutazione delle evidenze”.
Il rapporto è stato presentato dal dottor Luca Puccetti, Presidente della società medico-scientifica Promed Galileo, dal professor Nicola Natale, Vice-presidente della SIGO (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia) e Consigliere nazionale della FISM (Federazione delle Società Medico-Scientifiche Italiane) e dal dottor Renzo Puccetti, specialista in medicina interna e coordinatore per la Promed dei gruppi di lavoro.
Per comprendere il valore del documento in un contesto che vede le autorità sanitarie italiane impegnate a decidere se autorizzare o no l’utilizzo della Ru486, ZENIT ha intervistato il dottor Luca Puccetti.
Perché questo studio?
Puccetti: Nel corso del dibattito sulla pillola abortiva ci è parso che talora le informazioni divulgate non abbiano corrisposto e ancora oggi non seguano le evidenze che la letteratura medico-scientifica ha reso disponibili.
È proprio con lo spirito di cercare di offrire una valutazione il più possibile oggettiva delle evidenze scientifiche disponibili che abbiamo svolto il lavoro di revisione concretizzatosi nel documento che presentiamo all’attenzione delle autorità sanitarie competenti e della società nel suo complesso.
Ovviamente, in qualità di società scientifica, non potevamo, né avevamo l’intenzione di entrare nel dibattito bioetico attorno alla questione dell’aborto, limitandoci ad offrire una valutazione del profilo di sicurezza, efficacia e tollerabilità del mifepristone come farmaco abortivo e della procedura di aborto medico nel suo complesso.
Quali sono i risultati?
Puccetti: Il profilo di sicurezza dell’interruzione di gravidanza con mifepristone/misoprostol è inferiore rispetto a quella con aborto chirurgico, a parità di età gestazionale.
Il rischio assoluto è basso per entrambe le metodiche, ma il rischio relativo dell’aborto farmacologico è di almeno 10 a 1.
E’ a nostro giudizio da evidenziare il fatto che nelle pazienti decedute la sintomatologia ha avuto un’insorgenza subdola, si è verificata in donne trattate a domicilio, insomma si è mimetizzata fino a progredire e determinare la morte delle pazienti, altrimenti sane, in brevissimo tempo.
Vi sono però medici che affermano che l’aborto con i farmaci è una tecnica più soft.
Puccetti: Certo, a livello ipotetico sembra abbastanza naturale pensare ad una procedura farmacologica come a qualcosa di maggiormente tollerabile e tollerato, ma sotto numerosi aspetti l’aborto farmacologico delude le attese.
Se si considera soltanto il dolore, tutti gli studi che abbiano esaminato questo aspetto indicano un grado maggiore d’impegno per la donna associato all’aborto farmacologico.
In una casistica che ha valutato i livelli di dolore quasi un quarto delle donne riferisce di avere provato un dolore massimo. Si tratta di un aspetto importante, dal momento che spesso l’aborto farmacologico viene scelto dalle donne proprio nell’attesa di un dolore inferiore rispetto a quello dell’intervento chirurgico.
Vi sono poi altri due aspetti estremamente importanti: la fallibilità dell’aborto farmacologico che conduce con frequenza significativa ad una duplice procedura abortiva, con conseguente sommazione di rischi ed effetti collaterali, e il numero delle donne che dopo avere ricevuto i farmaci non si presentano alla visita programmata, situazione che rende più problematico il controllo delle possibili complicanze.
Il gradimento delle donne viene spesso invocato per giustificare la possibilità di scelta...
Puccetti: L’impressione generale che si ricava dalla letteratura sul tema specifico è di una scarsa qualità degli studi, dove è frequente l’assenza di quei criteri (gruppo di controllo, randomizzazione, analisi anonime) che elevano l’attendibilità delle risposte.
Spesso inoltre ci si imbatte in dati non univoci, inficiati da bias di selezione, che rendono da una parte scarsamente attendibili questi risultati, dall’altra rendono problematico estendere questi giudizi alla popolazione generale. In presenza di queste problemi metodologici ci pare più opportuno riferirsi ai dati oggettivi.
Nel documento si prende in considerazione anche il numero di aborti in relazione all’impiego della RU486. Cosa ci può dire in proposito?
Puccetti: Si tratta di un aspetto spesso non considerato con la dovuta attenzione che abbiamo cercato di porre in una prospettiva inedita.
Sappiamo dalla letteratura che rendere più semplice l’accesso all’aborto favorisce in qualche modo il percorso abortivo di una donna con gravidanza difficile.
Alcuni sostengono che a livello simbolico l’aborto mediante farmaci può costituire, al di là delle intenzioni, un messaggio di semplificazione dell’aborto e come tale essere capace di favorirne il ricorso.
A costoro si contrappone l’argomento empirico secondo cui, sulla base delle risultanze, nei paesi europei dove l’aborto farmacologico è stato introdotto da più tempo non vi sarebbe un incremento del tasso di abortività, cioè del numero di aborti per 1000 donne in età fertile.
I dati più aggiornati non confermano però questa interpretazione. In particolare è significativo l’incremento del rapporto di abortività, cioè del numero di aborti ogni 1000 nati vivi, in Francia, Inghilterra, Galles, Scozia e Svezia, paesi con più lunga esperienza della metodica.
Il rapporto di abortività è un indice che esprime in maniera più accurata l’attitudine delle gravidanze ad essere interrotte.
Una piccola donna al centro della storia - Davide Rondoni, 6.12.2007, L'Osservatore Romano
La sussidiarietà è libertà e serve anche nel fisco - Maurizio Lupi, 6.12.2007, Libero