giovedì 6 dicembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il fondatore di “Russia Cristiana”: “La speranza marxista è utopismo”
Padre Romano Scalfi commenta l'Enciclica “Spe salvi”
2) Allargare la Speranza per allargare la ragione e vivere nella libertà
Monsignor Giampaolo Crepaldi commenta l'Enciclica «Spe salvi»
3) Indulgenza plenaria per i 150 anni dalle apparizioni di Lourdes
4) Benedetto XVI presenta la figura di San Cromazio d’Aquileia
5) A proposito della laica ed eurofila Turchia
6) A proposito del principio di reciprocità tra Cristianesimo e Islam
7) LA MORATORIA SUGLI EMBRIONI - SULLE STAMINALI DIETROFRONT IN TUTTO IL MONDO
8) Bagnasco: scuola cattolica penalizzata
9) Il Forum: i genitori sono lasciati troppo soli
10) Legge sul «gender», no dei teodem
11) Legge 194, ecco come cambiare





Il fondatore di “Russia Cristiana”: “La speranza marxista è utopismo”Padre Romano Scalfi commenta l'Enciclica “Spe salvi”


ROMA, mercoledì, 5 dicembre 2007 (ZENIT.org).- In confronto a quella cristiana, “la speranza marxista è utopismo”, afferma padre Romano Scalfi, fondatore del Centro studi “Russia Cristiana”.
Commentando a ZENIT la nuova Enciclica di Benedetto XVI, dal titolo “Spe salvi”, il sacerdote ha sottolineato l'ampio spazio dedicato nel documento al marxismo e alla rivoluzione comunista, che – scrive il Papa – “si è verificata nel modo più radicale in Russia”.
Il Pontefice Benedetto XVI spiega che Marx “credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto”, dimenticando “che l'uomo rimane sempre uomo”.
“Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male”, afferma il Pontefice.
“Il suo vero errore – sottolinea – è il materialismo: l'uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall'esterno creando condizioni economiche favorevoli”.
Padre Romano Scalfi, che anche durante il regime sovietico ha sempre cercato di far conoscere in Occidente la ricchezza della tradizione della Chiesa orientale, allora definita “Chiesa del silenzio”, ha affermato: “Nonostante qualcuno abbia visto delle analogie tra il messaggio marxista e quello cristiano, tra di loro non c’è alcun punto di contatto”.
“La speranza marxista è utopismo: intende escludere Dio, nell’illusione di creare la felicità con le proprie mani; quest’ideologia ha affascinato molti, ma in conclusione anziché portare l’uomo alla perfezione l’ha disumanizzato”, ha commentato.
“Le ideologie – ha proseguito padre Scalfi – avevano la pretesa di portare il Paradiso in terra, di costruire un luminoso futuro contro Dio. Oggi vediamo invece che si è realizzato il contrario di quanto promettevano”.
Anche per questo, ha aggiunto, “è importante parlare di speranza soprattutto in questo momento, in cui si osserva tanta disperazione soprattutto tra i giovani”.
Padre Romano Scalfi ha fondato “Russia Cristiana” nel 1957 allo scopo di far conoscere in Occidente la ricchezza della tradizione spirituale, culturale e liturgica dell’ortodossia russa, favorire il dialogo ecumenico sulla base del contatto vivo di esperienze e contribuire alla presenza cristiana in Russia.

Dopo il crollo del regime sovietico e la perestrojka, il sacerdote ha continuato a portare avanti questi obiettivi anche nell'attuale contesto sociale ed economico caratterizzato da insicurezza e da un clima spirituale dove sono ancora vive le conseguenze dell'ateismo militante e forti le suggestioni del consumismo.
Padre Scalfi ha poi sostenuto che la nuova Enciclica “riveste una particolare importanza, ora che sono cadute le ideologie”.
Il sacerdote ha quindi concluso affermando che “la tradizione orientale (quando è vissuta) ci aiuta a superare la tentazione dell’utopismo; diversamente dalla mentalità razionalista, la tradizione orientale non s’è mai affidata alla ragione da sola, ma sostiene che per conoscere occorra coinvolgere tutta la vita, essa parla infatti di conoscenza integrale”.


Allargare la Speranza per allargare la ragione e vivere nella libertà
Monsignor Giampaolo Crepaldi commenta l'Enciclica «Spe salvi»
ROMA, martedì, 4 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il commento di monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, alla seconda Enciclica di Benedetto XVI, dal titolo «Spe salvi».
* * *
La seconda Enciclica di Benedetto XVI Spe salvi è incentrata sulla speranza cristiana in cui siamo stati salvati. Non è quindi direttamente un’enciclica sociale. Eppure, siccome la dottrina sociale della Chiesa fa parte integrante del messaggio cristiano, Benedetto XVI, parlando della speranza, mostra come essa rinnovi dall’interno anche le speranze, ossia le piccole o grandi speranze della nostra vita sulla terra, mostra come la speranza cristiana sia una «speranza attiva» (n. 34) e come la salvezza che essa promette non sia individualistica ma comunitaria (n. 14).
Succede così che l’enciclica apra ampi sprazzi di luce anche sul nostro impegno nel mondo tra e per i fratelli, spingendoci a «partecipare attivamente e con tutte le forze all’edificazione della città» (n. 29). Proprio perché la speranza cristiana non è tutta del mondo, ossia non si riduce mai alle semplici speranze, per quanto affascinanti esse siano nel momento, essa è la vera speranza anche per il mondo.
Mi sembra che uno dei principali inviti dell’enciclica sia di «allargare la speranza». Benedetto XVI, nella sua prima enciclica Deus caritas est ed in molte altre occasioni, aveva già ampiamente parlato della necessità ed urgenza di «allargare la ragione».
Siccome la ragione non può allargarsi da sola, essa ha bisogno della fede e della sua purificazione. Con la Spes salvi, il papa arricchisce e completa il suo insegnamento su questi punti nodali: l’allargamento della ragione ha bisogno dell’allargamento della speranza. Il progresso dell’umanità, egli dice, deve essere non solo materiale ma anche morale, perché solo nella libertà è possibile vivere una vita umana.
La città dell’uomo, senza la libertà, è un inferno e lascia attorno a sé solo «una distruzione desolante» (n. 21). Perché questo sia possibile si richiede una ragione in grado di «indicare la strada alla volontà» (n. 47). Ora, la ragione non può indicare la strada alla volontà se «non guarda oltre se stessa» (n. 21), ossia se non si fa redimere dalla speranza.
Al contrario, la modernità ha spesso ritenuto di poter realizzare la libertà umana – il Regnum hominis – emancipando l’uomo da ogni condizionamento mediante la scienza e la tecnica oppure mediante una politica capace di condurre ad un esito finale di perfezione.
La speranza è stata così ridotta a quanto la ragione umana era in grado di fare. Accadde così, nota Benedetto XVI, che Marx non abbia ritenuto di scrivere nulla sulla società comunista e Lenin «dovette accorgersi che negli scritti del maestro non si trovava nessuna indicazione sul come procedere» (n. 21).
Il motivo di questa voluta trascuratezza è che quella società si sarebbe realizzata anche senza la volontà umana e che in quella società non si sarebbe stato più alcun bisogno della libertà umana. Nemmeno per l’ideologia del progresso affidato unicamente alla scienza e alla tecnica non sembra esserci bisogno della libertà umana.
Allora, la restrizione della speranza provoca l’atrofia della ragione e questo conduce sempre ad una mancanza di libertà. La richiesta di autocritica che Benedetto XVI rivolge alla modernità su questi punti, comporta anche – e mi sembra uno dei passi più impegnativi e perfino drammatici dell’enciclica – una autocritica del cristianesimo moderno, il quale «di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza» (n. 25). Di grande interesse sono i molteplici passi dell’Enciclica in cui Benedetto XVI corregge l’idea che la speranza cristiana abbia una valenza solo individuale, o perfino individualistica. Anche questi passi, come quelli ora visti sull’allargamento della speranza, accendono delle luci sull’impegno del cristiano nella società. «Beato il popolo il cui Dio è il Signore» dice il Salmo 144: la vita beata si vive come popolo e il popolo è tale per il suo Signore.
La relazione con Dio avviene tramite la relazione con Cristo, che «è morto per tutti», per questo non ci può essere un cristianesimo in solitudine. Dalla speranza nascono infatti la «partecipazione alla giustizia» e la «responsabilità per l’altro» (n. 28). Un notevole esempio per capire questa connessione profonda tra speranza e impegno nel mondo è l’immagine del bosco, che Benedetto XVI trae dagli insegnamenti di Bernando di Chiaravalle (n. 34).
I monaci dissodavano il bosco dissodando prima la loro anima e liberare il bosco dagli sterpi e metterlo a coltura – che è simbolo dell’impegno nel lavoro verso la società dei fratelli – va di pari passo con il dissodare il proprio cuore dalla superbia. Non c’è opposizione, allora, tra la speranza di Dio accolta dentro di noi e la fatica di un impegno laborioso verso gli altri nella società, anzi la vera forza di questo ultimo impegno si trova proprio in quella speranza.
Per dare un esempio contemporaneo di vita cristiana improntata alla speranza mai vissuta in solitudine, il papa propone la persona del Cardinale Van Thuân. Ne parla con bellissimi accenni nei paragrafi 32 e 34. La speranza ha fatto sì che il cardinale Van Thuân, nei lungi anni della sua prigionia vissuta in completo isolamento, non fosse in realtà mai solo.
«Durante tredici anni di carcere - scrive Benedetto XVI – in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio, gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il mondo un testimone della speranza» (n. 32).
Non si prega contro l’altro e «pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini» (n. 33).
L’enciclica illumina l’intero processo dello sviluppo dell’uomo moderno, nella sua volontà ossessiva di costruire un mondo senza Dio. Un mondo senza Dio è però un mondo senza speranza: «Chi non conosce Dio, pur avendo molteplici speranze, in realtà è senza speranza» (n. 27). Essa spiega quale sia il principale problema della nostra civiltà.
La scienza e la tecnica procedono per accumulo, ma la libertà morale in grado di condurle non procede per accumulazione, ogni generazione ed ogni persona deve continuamente farla propria (n. 24). Anche le strutture migliori funzionano solo in virtù di una libera convinzione morale, la quale però «non esiste da sé» (n. 24/d). Ecco perché l’uomo «non può mai essere redento semplicemente dall’esterno» (n. 25), ma ha bisogno della speranza.


Indulgenza plenaria per i 150 anni dalle apparizioni di Lourdes

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 5 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Decreto per la speciale indulgenza plenaria concessa da Benedetto XVI in occasione del 150° anniversario delle apparizioni della Beata Vergine Maria a Lourdes.


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PENITENZIERIA APOSTOLICA
DECRETO
In occasione del 150° anniversario della manifestazione della Beata Vergine Maria nella Grotta di Massabielle, vicino a Lourdes, è quotidianamente concessa l’Indulgenza plenaria ai fedeli, che, dal giorno 8 Dicembre 2007 fino al giorno 8 Dicembre 2008, piamente e alle condizioni stabilite, visiteranno la Grotta di Massabielle, e, dal 2 all’11 Febbraio 2008, visiteranno, in qualsiasi tempio, oratorio, grotta, o luogo decoroso, l’immagine benedetta della Beata Vergine Maria di Lourdes solennemente esposta alla pubblica venerazione
Con mirabile rapporto l’onnipotenza e l’infinita bontà di Dio hanno congiunto il compito provvidenziale di Maria, Madre del Nostro Signore Gesù Cristo e perciò Madre del Corpo Mistico di Lui, che è la Chiesa, e l’opera salvifica della Chiesa stessa.
Così il Beato Guerrico, abate, associa la protezione, che i fedeli attendono fiduciosamente da Maria Madre, e l’universale ministero di salvezza della Chiesa Cattolica: "La santa Madre di Cristo si riconosce madre dei cristiani sul piano del mistero, e perciò esercita verso di loro tutte le sollecitudini e l’amore propri di una madre… Anche i cristiani la riconoscono per madre e, mossi dal loro naturale affetto di figli, si rifugiano in lei in ogni necessità e pericolo, invocandone con fiducia il nome, come bimbi in braccio alla loro mamma" (Disc. 1. nell’Assunzione della B. Vergine Maria).
Così la Costituzione Dogmatica "Lumen Gentium" del Concilio Vaticano II esalta la missione, che possiamo chiamare congiunta, della Beatissima Vergine Maria e della Chiesa Cattolica: "Maria, che ha una parte di primissimo piano nella storia della salvezza, sintetizza in sé e riflette sulla Chiesa i principali valori della rivelazione. Così quando la si predica e la si onora, ella rinvia i credenti al Figlio suo, al suo sacrificio e all’amore del Padre. A sua volta la Chiesa, mentre opera per la gloria di Cristo, diventa più simile al suo alto modello, progredisce continuamente nella fede, nella speranza e nella carità, e in ogni cosa cerca e segue la divina volontà" (n. 65).
La storia della Chiesa e memorabili testimonianze del culto mariano spesso e con chiara evidenza manifestano e raccomandano ai fedeli, per accrescerne la devozione, tale modo di operare della Divina Provvidenza.
Orbene la prossima ricorrenza del centocinquantesimo anniversario del giorno in cui Maria Santissima, rivelando alla fanciulla Bernardetta Soubirous di essere l’Immacolata Concezione, volle che fosse eretto e venerato nel luogo detto "Massabielle", della città di Lourdes, un santuario, tesoro di grazia, evoca l’innumerevole serie di prodigi, mediante i quali la vita soprannaturale delle anime e la stessa salute dei corpi trassero grande vantaggio dall’onnipotente bontà di Dio; in questa disposizione della Provvidenza Divina, per intercessione della Beatissima Vergine Maria, si dimostra con evidenza che il fine integrale dell’uomo è il bene di tutta la persona, qui sulla terra e soprattutto nell’eternità della salvezza.
I fedeli, fin dalle origini del santuario di Lourdes, compresero che la Beata Vergine Maria, mediante il ministero della Chiesa Cattolica, vuole amabilissimamente provvedere in quel luogo a tale integrale salvezza degli uomini.
Infatti venerando la Beatissima Vergine Maria nel luogo "che i suoi piedi toccarono", i fedeli si alimentano con i Santi Sacramenti, formulano fermi propositi di condurre nell’avvenire una vita cristiana di crescente fedeltà, percepiscono vivamente il senso della Chiesa e di tutte queste cose sperimentano validissimi argomenti. Del resto, la stessa connessione, nel succedersi dei tempi, di eventi meravigliosi, lascia intravedere la congiunta operazione della Beata Vergine Maria e della Chiesa. Infatti nell’anno 1854 fu definito il Dogma della Immacolata Concezione di Maria Vergine; nell’anno 1858 Maria Santissima si mostrò con ineffabile materna dolcezza alla pia Bernardetta Soubirous, utilizzando le parole della definizione dogmatica "Io sono l’Immacolata Concezione".
Affinché da questa pia memoria derivino crescenti frutti di rinnovata santità, il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha stabilito di concedere largamente il dono dell’Indulgenza plenaria, come è spiegato di seguito:
Tutti e singoli fedeli veramente pentiti, debitamente purificati mediante il sacramento della Confessione, e ristorati con la Santa Comunione, e innalzando infine devotamente preghiere secondo l’intenzione del Sommo Pontefice, potranno quotidianamente lucrare l’Indulgenza plenaria, applicabile anche, a modo di suffragio, alle anime dei fedeli in Purgatorio:
A.- se, dal giorno 8 del mese di Dicembre 2007 a tutto il giorno 8 del medesimo mese del prossimo anno 2008, devotamente visiteranno, seguendo preferibilmente l’ordine proposto: 1.- il battistero parrocchiale utilizzato per il battesimo di Bernadetta; 2.- la casa detta "cachot" della famiglia Soubirous; 3.- la Grotta di Massabielle; 4.- la cappella dell’ospizio, dove Bernardetta fece la Prima Comunione, e, ogni volta, si soffermeranno per un congruo spazio di tempo in raccoglimento con pie meditazioni, concludendo con la recita del Padre Nostro, la Professione di fede in qualsiasi forma legittima, e la preghiera giubilare o altra invocazione mariana.
B.- se, dal giorno 2 Febbraio 2008, nella Presentazione del Signore, fino all’intero giorno 11 Febbraio 2008, nella memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes e 150° anniversario dell’Apparizione, devotamente visiteranno, in qualsiasi tempio, oratorio, grotta, o luogo decoroso, l’immagine benedetta della medesima Vergine di Lourdes, solennemente esposta alla pubblica venerazione, e dinnanzi all’immagine medesima parteciperanno ad un pio esercizio di devozione mariana, o almeno si soffermeranno per un congruo spazio di tempo in raccoglimento con pie meditazioni, concludendo con la recita del Padre Nostro, la professione di fede in qualsiasi forma legittima e l’invocazione della Beatissima Vergine Maria.
C.- Gli anziani, gli infermi, e tutti quelli che, per legittima causa, non possono uscire da casa, potranno ugualmente conseguire, nella propria casa o là dove l’impedimento li trattiene, l’Indulgenza plenaria, se, concepita la detestazione di qualsiasi peccato e l’intenzione di adempiere, non appena possibile, le tre solite condizioni, nei giorni 2-11 Febbraio 2008, compiranno col desiderio del cuore, spiritualmente, una visita (ai luoghi sopra indicati), reciteranno le preghiere di cui sopra e offriranno con fiducia a Dio per mezzo di Maria le malattie e i disagi della loro vita.
Perché i fedeli possano più facilmente essere partecipi di questi celesti favori, i sacerdoti, approvati per l’ascolto delle confessioni dall’autorità competente, si prestino con animo pronto e generoso ad accoglierle e guidino solennemente la recita di pubbliche preghiere all’Immacolata Vergine Madre di Dio.
Nonostante qualunque contraria disposizione.
Roma, dalla sede della Penitenzieria Apostolica, il 21 Novembre 2007, nella Presentazione della Beata Vergine Maria.
JAMES FRANCIS S.R.E. Card. STAFFORD
Penitenziere Maggiore
+ Gianfranco Girotti, O.F.M.Conv.
Vesc. Tit. di Meta, Reggente


Benedetto XVI presenta la figura di San Cromazio d’Aquileia
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 5 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Cromazio d’Aquileia.

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Cari fratelli e Sorelle!
nelle ultime due catechesi abbiamo fatto un'escursione attraverso le Chiese d'Oriente di lingua semitica, meditando su Afraate persiano e sant'Efrem siro; oggi ritorniamo nel mondo latino, al Nord dell'Impero Romano, con san Cromazio di Aquileia. Questo Vescovo svolse il suo ministero nell’antica Chiesa di Aquileia, fervente centro di vita cristiana situato nella Decima regione dell’Impero romano, la Venetia et Histria. Nel 388, quando Cromazio salì sulla cattedra episcopale della città, la comunità cristiana locale aveva già maturato una storia gloriosa di fedeltà al Vangelo. Tra la metà del terzo e i primi anni del quarto secolo le persecuzioni di Decio, di Valeriano e di Diocleziano avevano mietuto un gran numero di martiri. Inoltre, la Chiesa di Aquileia si era misurata, come tante altre Chiese del tempo, con la minaccia dell’eresia ariana. Lo stesso Atanasio – l’alfiere dell’ortodossia nicena, che gli ariani avevano cacciato in esilio –, per qualche tempo trovò rifugio ad Aquileia. Sotto la guida dei suoi Vescovi, la comunità cristiana resistette alle insidie dell’eresia e rinsaldò la propria adesione alla fede cattolica.
Nel settembre del 381 Aquileia fu sede di un Sinodo, che vide convenire circa 35 Vescovi dalle coste dell’Africa, dalla valle del Rodano e da tutta la Decima regione. Il Sinodo si proponeva di debellare gli ultimi residui dell’arianesimo in Occidente. Al Concilio prese parte anche il presbitero Cromazio, in qualità di esperto del Vescovo di Aquileia, Valeriano (370/1-387/8). Gli anni intorno al Sinodo del 381 rappresentano "l’età d’oro" della comunità aquileiese. San Girolamo, che era nativo della Dalmazia, e Rufino di Concordia parlano con nostalgia del loro soggiorno ad Aquileia (370-373), in quella specie di cenacolo teologico che Girolamo non esita a definire tamquam chorus beatorum, "come un coro di beati" (Cronaca: PL XXVII,697-698). In questo cenacolo – che ricorda per alcuni aspetti le esperienze comunitarie condotte da Eusebio di Vercelli e da Agostino – si formarono le più notevoli personalità delle Chiese dell’Alto Adriatico.
Ma già nella sua famiglia Cromazio aveva imparato a conoscere e ad amare Cristo. Ce ne parla, con termini pieni di ammirazione, lo stesso Girolamo, che paragona la madre di Cromazio alla profetessa Anna, le sue due sorelle alle vergini prudenti della parabola evangelica, Cromazio stesso e il suo fratello Eusebio al giovane Samuele (cfr Ep VII: PL XXII,341). Di Cromazio e di Eusebio Girolamo scrive ancora: "Il beato Cromazio e il santo Eusebio erano fratelli per il vincolo del sangue, non meno che per l’identità degli ideali" (Ep. VIII: PL XXII,342).
Cromazio era nato ad Aquileia verso il 345. Venne ordinato diacono e poi presbitero; infine fu eletto Pastore di quella Chiesa (a. 388). Ricevuta la consacrazione episcopale dal Vescovo Ambrogio, si dedicò con coraggio ed energia a un compito immane per la vastità del territorio affidato alla sue cure pastorali: la giurisdizione ecclesiastica di Aquileia, infatti, si estendeva dai territori attuali della Svizzera Baviera, Austria e Slovenia, giungendo fino all’Ungheria. Quanto Cromazio fosse conosciuto e stimato nella Chiesa del suo tempo, lo si può arguire da un episodio della vita di san Giovanni Crisostomo. Quando il Vescovo di Costantinopoli fu esiliato dalla sua sede, scrisse tre lettere a quelli che egli riteneva i più importanti Vescovi d’Occidente, per ottenerne l’appoggio presso gli imperatori: una lettera la scrisse al Vescovo di Roma, la seconda al Vescovo di Milano, la terza al Vescovo di Aquileia, Cromazio appunto (Ep. CLV: PG LII, 702). Anche per lui, quelli erano tempi difficili a motivo della precaria situazione politica. Molto probabilmente Cromazio morì in esilio, a Grado, mentre cercava di scampare alle scorrerie dei barbari, nello stesso anno 407 nel quale moriva anche il Crisostomo.
Quanto a prestigio e importanza, Aquileia era la quarta città della penisola italiana, e la nona dell’Impero romano: anche per questo motivo essa attirava le mire dei Goti e degli Unni. Oltre a causare gravi lutti e distruzioni, le invasioni di questi popoli compromisero gravemente la trasmissione delle opere dei Padri conservate nella biblioteca episcopale, ricca di codici. Andarono dispersi anche gli scritti di san Cromazio, che finirono qua e là, e furono spesso attribuiti ad altri autori: a Giovanni Crisostomo (anche per l’equivalente inizio dei due nomi, Chromatius come Chrysostomus); oppure ad Ambrogio e ad Agostino; e anche a Girolamo, che Cromazio aveva aiutato molto nella revisione del testo e nella traduzione latina della Bibbia. La riscoperta di gran parte dell’opera di Cromazio è dovuta a felici e fortunose vicende, che hanno consentito solo in anni recenti di ricostruire un corpus di scritti abbastanza consistente: più di una quarantina di sermoni, dei quali una decina frammentari, e oltre sessanta trattati di commento al Vangelo di Matteo.
Cromazio fu sapiente maestro e zelante pastore. Il suo primo e principale impegno fu quello di porsi in ascolto della Parola, per essere capace di farsene poi annunciatore: nel suo insegnamento egli parte sempre dalla Parola di Dio, e ad essa sempre ritorna. Alcune tematiche gli sono particolarmente care: anzitutto il mistero trinitario, che egli contempla nella sua rivelazione lungo tutta la storia della salvezza. Poi il tema dello Spirito Santo: Cromazio richiama costantemente i fedeli alla presenza e all’azione della terza Persona della Santissima Trinità nella vita della Chiesa. Ma con particolare insistenza il santo Vescovo ritorna sul mistero di Cristo. Il Verbo incarnato è vero Dio e vero uomo: ha assunto integralmente l’umanità, per farle dono della propria divinità. Queste verità, ribadite con insistenza anche in funzione antiariana, approderanno una cinquantina di anni più tardi alla definizione del Concilio di Calcedonia. La forte sottolineatura della natura umana di Cristo conduce Cromazio a parlare della Vergine Maria. La sua dottrina mariologica è tersa e precisa. A lui dobbiamo alcune suggestive descrizioni della Vergine Santissima: Maria è la "vergine evangelica capace di accogliere Dio"; è la "pecorella immacolata e inviolata", che ha generato l’"agnello ammantato di porpora" (cfr Sermo XXIII,3: Scrittori dell’area santambrosiana 3/1, p. 134). Il Vescovo di Aquileia mette spesso la Vergine in relazione con la Chiesa: entrambe, infatti, sono "vergini" e "madri". L’ecclesiologia di Cromazio è sviluppata soprattutto nel commento a Matteo. Ecco alcuni concetti ricorrenti: la Chiesa è unica, è nata dal sangue di Cristo; è veste preziosa intessuta dallo Spirito Santo; la Chiesa è là dove si annuncia che Cristo è nato dalla Vergine, dove fiorisce la fraternità e la concordia. Un’immagine a cui Cromazio è particolarmente affezionato è quella della nave sul mare in tempesta — e i suoi erano tempi di tempesta, come abbiamo sentito — : "Non c’è dubbio", afferma il santo Vescovo, "che questa nave rappresenta la Chiesa" (cfr Tract. XLII,5: Scrittori dell’area santambrosiana 3/2, p. 260).
Da zelante pastore qual è, Cromazio sa parlare alla sua gente con linguaggio fresco, colorito e incisivo. Pur non ignorando il perfetto cursus latino, preferisce ricorrere al linguaggio popolare, ricco di immagini facilmente comprensibili. Così, ad esempio, prendendo spunto dal mare, egli mette a confronto, da una parte, la pesca naturale di pesci che, tirati a riva, muoiono; e, dall’altra, la predicazione evangelica, grazie alla quale gli uomini vengono tratti in salvo dalle acque limacciose della morte, e introdotti alla vita vera (cfr Tract. XVI,3: Scrittori dell’area santambrosiana 3/2, p. 106). Sempre nell’ottica del buon pastore, in un periodo burrascoso come il suo, funestato dalle scorrerie dei barbari, egli sa mettersi a fianco dei fedeli per confortarli e per aprirne l’animo alla fiducia in Dio, che non abbandona mai i suoi figli.
Raccogliamo infine, a conclusione di queste riflessioni, un’esortazione di Cromazio, ancor oggi perfettamente valida: "Preghiamo il Signore con tutto il cuore e con tutta la fede - raccomanda il Vescovo di Aquileia in un suo Sermone -preghiamolo di liberarci da ogni incursione dei nemici, da ogni timore degli avversari. Non guardi i nostri meriti, ma la sua misericordia, lui che anche in passato si degnò di liberare i figli di Israele non per i loro meriti, ma per la sua misericordia. Ci protegga con il solito amore misericordioso, e operi per noi ciò che il santo Mosè disse ai figli di Israele: Il Signore combatterà in vostra difesa, e voi starete in silenzio. È lui che combatte, è lui che riporta la vittoria… E affinché si degni di farlo, dobbiamo pregare il più possibile. Egli stesso infatti dice per bocca del profeta: Invocami nel giorno della tribolazione; io ti libererò, e tu mi darai gloria" (Sermo XVI,4: Scrittori dell’area santambrosiana 3/1, pp. 100-102).
Così, proprio all'inizio del tempo di Avvento, san Cromazio ci ricorda che l'Avvento è tempo di preghiera, in cui occorre entrate in contatto con Dio. Dio ci conosce, conosce me, conosce ognuno di noi, mi vuol bene, non mi abbandona. Andiamo avanti con questa fiducia nel tempo liturgico appena iniziato.


A proposito della laica ed eurofila Turchia
Di Pierini Alessandro
(del 04/12/2007)
Nessun futuro per il cristianesimo in Turchia – l’APM chiede la tutela delle istituzioni europee
(APM news 29-11-07) - L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) è preoccupata per le sorti dell'abate siriaco-ortodosso Daniel Savci, rapito mercoledì dal monastero di San Giacomo nel sudest della Turchia. Gli ultimi sviluppi che vedono i rappresentanti della Chiesa in Turchia sempre più spesso vittime di attentati alla vita e dinamitardi, di aggressioni e di rapimenti, sono un segnale d'allarme per i pochi cristiani ancora residenti in Turchia e per la mancata libertà religiosa nel paese. In quanto associazione per i diritti umani che si batte per il rispetto dei credenti musulmani in Europa, l'APM lamenta però anche la continua discriminazione e persecuzione delle comunità cristiane in Turchia e la strumentalizzazione politica dell'Islam sunnita da parte dello stato turco. La persecuzione e le minacce rivolte alla popolazione cristiana in Turchia ha fatto scendere il numero dei residenti cristiani nel paese dal 25% nel 1912 all'attuale 0,2%, per un numero complessivo di circa 125.000 persone. Le chiese cristiane non godono di uno status legale proprio, quindi per la legge turca non esistono in quanto aggregazioni autonome e non hanno perciò alcun diritto legale. Il Patriarca della Chiesa greco-ortodossa Bartolomeo I, capo spirituale di circa 300 milioni di fedeli nel mondo, non è autorizzato ad usare il proprio titolo in Turchia. Dal 1970 le chiese cristiane in Turchia non possono più formare nuovi preti. I religiosi armeni e greco-ortodossi stranieri solitamente non ricevono un permesso di soggiorno e lavoro né tanto meno la cittadinanza turca. Anche i religiosi stranieri di altre fedi non possono ottenere la cittadinanza e sono quindi costretti a pagare una tassa di soggiorno. La proprietà degli immobili ecclesiastici è calata da 4.000 immobili negli anni '30 a 460. Le proprietà ecclesiastiche sono spesso soggette a espropriazioni e solo in casi eccezionali le chiese sono riuscite e riacquistare gli immobili. L'APM si rivolge quindi alla Commissione Europea, ai Ministri degli Esteri dei paesi dell'UE, alle frazioni del Parlamento Europeo e al Consiglio Europeo affinché si impegnino per ottenere da Ankara la tutela della popolazione turca di credo cristiano e il riconoscimento legale dei loro diritti su modello europeo.


A proposito del principio di reciprocità tra Cristianesimo e Islam
Di Pierini Alessandro
(del 04/12/2007)
Sentenza mite per i terroristi che decapitarono tre cristiane
Jakarta (AsiaNews) – Pene fino a 19 anni di reclusione per tre terroristi islamici implicati nella decapitazione di tre giovani cristiane in Indonesia. I crimini risalgono al 2005 e sono avvenuti a Poso, nella provincia «calda» di Sulawesi Centrali. Ieri il tribunale di South Jakarta ha condannato a 19 anni di carcere a Wiwin Kalahe alias Rahman; i suoi complici Yudi Heriyanto alias Udit e Agus Nur Muhammad alias Agus Jenggot, hanno ricevuto 10 e 14 anni di detenzione. Delusa l’opinione pubblica, secondo la quale la sentenza è «troppo leggera» se paragonata alla gravità dei crimini commessi. I giudici hanno ammesso che le azioni terroristiche del trio hanno provocato ansietà e paura in tutta Poso. Secondo Rohadi, un abitante di Jakarta, la corte però non ha tenuto conto di questa considerazione quando ha emesso il verdetto: «I tre meritavano la pena capitale per le atrocità perpetrate». Il 29 ottobre 2005, tre ragazze camminavano verso casa quando sono state aggredite e decapitate con un machete nella zona di Gebang Rejo a Poso. Due delle loro teste sono state rinvenute vicino ad una stazione di polizia e la terza è stata lasciata davanti a una chiesa. Il caso ha scosso l'opinione pubblica in Indonesia e all'estero. Il presidente Susilo Bambang Yudhoyono ha condannato il triplice omicidio, che Benedetto XVI, da parte sua, ha definito "barbaro assassinio". Nel settembre 2006 la giustizia indonesiana ha scelto la condanna capitale per tre cattolici - Fabianus Tibo, Marinus Riwu e Domingo da Silva – ritenuti responsabili di violenze contro la comunità musulmana durante il conflitto di Poso. La condanna è stata eseguita nonostante il coro di proteste internazionali, che denunciavano irregolarità nello svolgimento del processo. Sempre ieri lo stesso tribunale ha comminato pene tra i 14 ed i 18 anni di detenzione per altri quattro terroristi implicati nella fabbricazione di bombe e in una serie di attentati contro la comunità cristiana, tra cui l’esplosione al mercato cristiano di Tentena del 28 maggio 2005. In quell’occasione morirono 22 persone, mentre altre 43 rimasero gravemente ferite. «Durante il processo – fa sapere uno dei legali della difesa – gli imputati hanno riconosciuto il loro sbaglio e spiegato di aver agito per vendicare i musulmani morti in seguito al lungo conflitto interreligioso nella zona». A Poso, tra il 1999 ed il 2001, scontri violenti tra cristiani e musulmani - le cui cause sono ancora da chiarire - hanno fatto oltre mille vittime e migliaia di profughi.


LA MORATORIA SUGLI EMBRIONI - SULLE STAMINALI DIETROFRONT IN TUTTO IL MONDO

EUGENIA ROCCELLA
Avvenire, 6.12.2007
« Un’ondata di euforia»: così l’auto­revole rivista americana Wired definisce l’effetto che ha avuto sulla co­munità scientifica internazionale la sco­perta di Shinya Yamanaka. La nuova tec­nica inventata dallo scienziato giappone­se consente di ottenere cellule staminali «pluripotenti indotte», con caratteristiche quasi identiche a quelle embrionali u­mane, grazie a un processo di riprogram­mazione di cellule somatiche adulte. Dalle notizie pubblicate negli ultimi giorni, sembra inoltre che Yamanaka sia riuscito a condurre nuovi esperimenti senza utilizzare il gene c-Mvc, che causa tumori. Ancora più sicuro, dunque, il suo metodo, che viene salutato come la nuova frontiera degli studi sulle staminali.
I laboratori si riorganizzano, i governi corrono ai ripari, l’intero assetto della ricerca scientifica mondiale si adegua velocemente ai nuovi indirizzi. Già troppo tempo, e troppi soldi, sono stati inghiottiti dal buco nero di quella che su Avvenire abbiamo definito «la ricerca che non trova», cioè il tentativo – mai riuscito – di arrivare alla clonazione terapeutica, una tecnica che prevede di creare embrioni umani per poi distruggerli.
Oggi bisogna riconvertire, e bisogna farlo rapidamente, se si vogliono recuperare il tempo e il denaro perduti. Il Giappone, a due settimane dalla pubblicazione della scoperta di Yamanaka, ha già annunciato che finanzierà lautamente gli studi sulla riprogrammazione delle cellule adulte, mentre Annette Scha­van, ministro tede­sco della Ricerca, parla di raddoppia­re i fondi destinati alle staminali, con­siderando che la scoperta giapponese «potrebbe aprire una nuova frontiera». Anche la California ha appena stanziato 13 milioni di dollari da investire nel 2008 su tecniche che non distruggano embrioni umani. Sì, parliamo proprio della California, il medesimo Stato che nel novembre 2004 votò con un re­ferendum esattamente in senso contra­rio, destinando ben 3 miliardi di dollari in 10 anni alla sperimentazione sulle stami­nali embrionali. Dietrofront, dunque, e subito, prima che gli elettori protestino contro chi li ha illusi che quell’enorme investimento avrebbe trasformato il loro Stato nel leader assoluto della ricerca americana. E dire che il radicale Marco Cappato aveva commentato l’esito del referendum californiano come «una lezione per i clericali e i fondamentalisti nostrani »: laicità vorrebbe che oggi si pren­desse atto delle nuove scoperte, e che Cappato, con tutta l’Associazione Luca Coscioni, sostenesse con entusiasmo la nostra proposta di moratoria sulla di­struzione degli embrioni.
Ma la laicità troppo spesso in Italia diventa un’ideologia cieca, e non un approccio liberamente critico alla conoscenza. Così, mentre nel mondo tutti si adeguano, da noi c’è chi maschera a fatica, o non maschera affatto, il malumore per lo scippo dell’embrione: su cosa potranno impiantare le loro polemiche? Le discussioni intorno alle linee guida sulla legge 40 o alla distribuzione dei fondi per la ricerca rischiano di essere poco coinvolgenti, ora che la ricerca scientifica si muove in un’altra direzione.
A tutti, laici e cattolici, di destra e di sinistra, noi rivolgiamo il nostro invito: supe­riamo le vecchie divisioni, e sospendia­mo la distruzione inutile di nuovi em­brioni. Non vogliamo fermare un treno in corsa, non chiediamo di interrompere i progetti di ricerca già finanziati dall’ulti­mo programma quadro europeo. Chiediamo solo di rallentare il treno, visto che la stazione d’arrivo non c’è più. Ci sono già 400 linee staminali embrionali certificate a disposizione dei laboratori: non andiamo oltre, e mettiamo in atto la moratoria sugli embrioni. Proviamoci.


RAPPORTO SULL’EDUCAZIONE

La riflessione del cardinale ieri a Roma, alla presentazione del IX Rapporto curato dal Centro studi per la scuola cattolica, intitolato «In ascolto degli studenti»
Bagnasco: scuola cattolica penalizzata
Ancora incompleto il cammino verso la parità. Garantire alle famiglie libertà di scelta
DA ROMA
Avvenire, 6.12.2007
ENRICO LENZI
« In Italia il cammino per una piena parità scolastica è ancora incompleto e incerto. È necessario e urgente trovare un terreno comune di dialogo e di intesa per dare realizzazione piena ai principi che sono già presenti nel nostro ordinamento legislativo» con la legge 62 del 2000. È un vero e proprio richiamo quello che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, rivolge alla società e al mondo politico italiano, in occasione del suo saluto alla presentazione del IX Rapporto sulla scuola cattolica. Non si tratta «né della rivendica­zione di un privilegio, né di una questione confessionale», avverte il presidente della Cei. Al con­trario «chiedere la piena parità scolastica significa dar vita a un sistema capace di valorizzare e ar­monizzare tutte le risorse educa­tive della nostra società, facen­dole convergere nel contesto di un autentico servizio pubblico». Ecco allora che «garantire una piena parità scolastica in un si­stema pubblico integrato di scuo­le statali e paritarie significa con­tribuire a disegnare una conce­zione più autentica e più matura della nostra convivenza civile».
Insomma una visione di più am­pio respiro, quella disegnata dal­l’arcivescovo di Genova davanti alla platea costituita da esponen­ti del mondo della formazione professionale e della scuola cat­tolica, che il cardinale Bagnasco ha definito «un patrimonio irri­nunciabile per la Chiesa e per la tradizione culturale e civile del nostro Paese». E anche questo IX Rapporto è «un prezioso contri­buto offerto a tutta la scuola ita­liana ». Anche perché «la complessità sociale, culturale e reli­giosa in cui crescono in concreto le giovani generazioni influenza significativamente il loro vissuto - osserva il cardinale Bagnasco ­. In una società strutturalmente complessa e policentrica, a un tempo globale e diversificata, che ospita diversi e contrastanti mo­di di interpretare il mondo e la vi­ta, si fatica a elaborare e a pro­porre riferimenti valoriali e for­mativi condivisi».
Ecco allora l’invito a «porre al cen- tro la questione del progetto u­mano », dove si superi l’innatura­le divisione tra crescita nelle co­noscenze e nel proprio essere uo­mo. Del resto sono gli stessi gio­vani a chiedere di affrontare que­stioni di senso, ma anche «il si­gnificato di andare a scuola. Nel­la visita pastorale alla mia dioce­si di Genova incontro anche stu­denti e sempre ho trovato grande attenzione a questi temi. C’è in­teresse e volontà di confrontarsi su una questione cruciale per lo­ro ». «È in questo contesto - ag­giunge il presidente della Cei - che diventa indispensabile la dimen­sione comunitaria della scuola. Occorre offrire ai giovani un per­corso di formazione scolastica che non si riduca alla fruizione in­dividualistica e strumentale di un servizio solo in vista di un titolo di studio da conseguire».
Gli studenti devono «fare esperienza di forte condivisione con i docenti, aiutati in questo dai ge­nitori ». Insomma un vero e pro­prio patto tra generazioni, perché «l’educazione della persona costituisce la principale risorsa su cui investire e una questione cru­ciale per l’autentico progresso materiale e spirituale» e si pone al centro dell’intreccio tra politi­che sociali, quelle istituzionali, quelle economiche e del lavoro, sottolinea il cardinale. Il piano dell’offerta formativa «deve per­mettere alle famiglie e agli stu­denti di comprendere che la loro scuola ha fatto propria la scelta di mirare alla formazione globale della persona, anche e soprattut­to nella sua dimensione morale». Molto può fare la scuola dell’au­tonomia, alla quale i vescovi, spie­ga il presidente della Cei, «guar­dano con sincero spirito di colla­borazione ». Allora bisogna «ope­rare per promuovere un sistema scolastico in grado di valorizzare e di coordinare tutte le moltepli­ci risorse educative della società secondo un’ottica di comple­mentarietà e di sussidiarietà ver­ticale e orizzontale tra lo Stato, le Regioni, gli enti territoriali e tut­te le agenzie educative presenti nella società civile, a iniziare dal­le famiglie».
Torna inevitabile l’invito a un «ve­ro e proprio patto pedagogico-e­ducativo tra la scuola e la fami­glia, con obiettivi condivisi e con reciproci impegni. Ancora più ra­dicalmente si tratta di riconosce­re nei fatti concreti, e quindi an­che a livello economico, una rea­le libertà di scelta. Ogni famiglia - auspica il presidente della Cei ­deve poter scegliere la scuola al­la quale mandare i propri figli in piena libertà, senza nessun con­dizionamento e senza nessun ag­gravio ».




Il Forum: i genitori sono lasciati troppo soli
DA ROMA
Avvenire, 6.12.2007
Paola Soave: crescere un figlio non può essere questione privata Vignali (Cdo): più libertà di scelta in campo educativo

«Forse più che parlare di patto tra generazioni, bisognerebbe domandarsi se si vogliono nuove generazioni ». Usa un’immagine forte Paola Soave, vicepresidente del Forum delle Associazioni familiari per descrivere la situazione che la nostra società sta vivendo. «La famiglia è lasciata da sola, quasi che mettere al mondo un figlio sia una questione privata – aggiunge –, e un bambino è vissuto come un costo e non come una risorsa ». Parole amare, ma che fotografano l’attuale momento sociale e politico.
Un tema quanto mai spinoso, che ha fatto da filo conduttore della tavola rotonda svoltasi in occasione della presentazione del IX Rapporto sulla scuola cattolica elaborato dal Centro studi per la scuola cattolica. Un patto con quei giovani, oggetto del Rapporto, che «sono alla ricerca di adulti capaci di dire loro qualcosa» spiega Raffaele Vignali, presidente della Compagnia delle Opere. Un legame che «passa inevitabilmente attraverso l’educazione, che è ciò che gli adulti lasciano in eredità ai più giovani» aggiunge. E se la famiglia è al primo posto, non meno importante è il ruolo della scuola, l’altra agenzia educativa attraverso cui passano le nuove generazioni.
Ma la scuola appare in difficoltà a raccogliere questo compito, ammette Francesco Scrima, leader della Cisl­scuola. «Forse – aggiunge Valentina Aprea, responsabile scuola di Forza Italia – tutte le parti sociali dovrebbero mettersi in quest’ottica e magari il corpo docente dovrebbe essere capace di fare un passo indietro per favorire i giovani». Più che di passi indietro, per Paola Soave c’è necessità «di adulti veri, che abbiamo passione di comunicare qualcosa ai giovani e, soprattutto, adulti corresponsabili in questo impegno ». Insomma, come spiega Alessandro Pajno esperto di tematiche scolastiche e attuale sottosegretario agli Interni, «il patto generazionale non può fermarsi al solo ambito scolastico, ma deve investire l’intera società ». Eppure il percorso formativo rimane al centro dell’attenzione sociale, forse più per le attese che per l’impegno a dargli gambe su cui camminare. Ecco allora spuntare tre elementi importanti su cui la società e la scuola sono chiamate a confrontarsi: sussidiarietà, autonomia e parità. «Alle famiglie spetta il diritto insostituibile e inalienabile dell’educazione – ricorda Paola Soave – e queste devono essere protagoniste e partecipi nella formazione». Una partecipazione reale, e non fittizzia, perché altrimenti «abbiamo l’assenza dei genitori, come nel caso degli organi collegiali». Ma anche «la mancata consul­tazione da parte del ministro Fioroni prima di adottare provvedimenti e cambia­menti sostanziali» non è pia­ciuta al vicepresidente del Forum. Un cambio di passo è chiesto anche da Vignali: «Siamo al quarto posto mondiale per spesa pro capite nella scuola, ma al 36esimo per i risultati in scienze o matematica.
Forse il modello della scuola unica mostra qualche problema ». Uno di questi, ammette Pajno «è il mancato compimento dell’autonomia scolastica, che non è ancora vissuta come lo Stato che fissa le regole e le scuole che procedono ad applicarle, ma scegliendo le modalità ». Scenario condiviso solo in parte da Scrima, che, parlando della richiesta di piena parità, teme «il tentativo di qualcuno di puntare sulla privatizzazione del sistema » o, con un’eccessiva autonomia, «una balcaniz­zazione del sistema scolasti­co in 20 diversi sistemi re­gionali ». Timori non condi­visi affatto da Valentina A­prea, che evidenzia invece «come già oggi, alla luce dei risultati dell’indagine Ocse­Pisa, abbiamo una scuola del Nord e una del Sud. La divi­sione, purtroppo, è già nei fatti. È il caso di dare vera au­tonomia e introdurre flessi­bilità nella sua gestione per invertire la rotta».
Di certo, suggerisce Vignali della Cdo, «occorre puntare sulla libertà di scelta in campo educativo, che non è la richiesta di un privilegio. Al contrario, per riprendere le parole dell’ex premier laburista Blair, è ingiusto che la libertà di scelta sia garantita soltanto dalla possibilità di potersela permettere, come avviene oggi in Italia». Una libertà, ma anche un grosso sacrificio, mentre «lo Stato – denuncia Paola Soave citando il dossier dell’Agesc – risparmia con la presenza del­le scuole paritarie ben 6 miliardi l’anno, a fronte di un impegno per le casse statali di soli 532 milioni di euro». Il divario è evidente. Ecco allora tornare l’urgenza di un patto tra generazioni, ma anche un patto nel mondo adulto perché sussidiarietà, autonomia e parità, possano diventare patrimonio del nostro sistema scolastico, capace di formare le nuove generazioni.
Enrico Lenzi



Legge sul «gender», no dei teodem

Avvenire, 6.12.2007
DA ROMA PIER LUIGI FORNARI
L o stravolgimento della naturale dif­ferenza sessuale rischia di divenire un chiodo fisso nella politica della maggioranza. Infatti è in corso un tenta­tivo alla Camera con il disegno di legge sulla violenza sessuale presentato dal go­verno, ed in discussione in commissione Giustizia, che anche nella parte anticipata attraverso lo stralcio centrato sul contrasto delle molestie insistenti, dovrebbe intro­durre per la prima volta nel nostro ordina­mento l’identità di genere e l’orientamen­to sessuale. Ma adesso la sinistra radicale tenta di bruciare i tempi con un emenda­mento al disegno di legge di conversione del decreto sulla sicurezza, che evidente­mente diverrebbe subito legge. Contro la proposta di modifica che introduce il 'gen­der' e l’orientamento sessuale, e che ieri non è stata ancora presa in esame, ma che potrebbe esserlo oggi, si sono schierati i Teodem.
Peraltro l’emendamento, che ha tra i suoi firmatari Giovanni Russo Spena per il Prc, Manuela Palermi del Pdci, e il verde Mau­ro Bulgarelli, ma anche Felice Casson del Pd, istituisce un reato di opinione con la reclusione fino a tre anni perfino per la so­la diffusione di idee di superiorità o la di­scriminazione relative alla razza ma anche al gender. È passibile di tale pena infatti, secondo la proposta di modifica, «chiun­que, in qualsiasi modo, diffonde idee fon­date sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o com­mette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi», ma an­che «fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». Incarcerazione da sei mesi a quattro anni è prevista poi per chiunque «in qualsiasi modo» incita a com­mettere o commette violenza o atti di pro­vocazione alla violenza sempre per gli stes­si motivi, inclusi quelli «fondati sull’orien­tamento sessuale o sull’identità di genere». I Teodem chiedono il ritiro dell’emenda­mento o quantomeno una riformulazione conforme al linguaggio e alla differenza ses­suale naturale contenuta nella Costituzio­ne. Peraltro, a giudizio di Paola Binetti, la perplessità sulla parte dell’emendamento che istituisce un reato di opinione «è dif­fusa nella maggioranza».
Ma Prc, Pdci e Verdi non sembrano inten­zionati a ritirare l’emendamento. Hanno anzi attivato una sorta di ricatto politico, anche in considerazione delle esigue forze della maggioranza in Senato, minaccian­do di non votare il ddl di conversione se sarà espunta la parte sul gender. Il verde Silvestri, scaricando esplicitamente sui Teo­dem l’accusa di «ricatto» ha lanciato la sua minaccia, preannunciando «la sua totale indisponibilità» a votare il decreto sulla si­curezza «se la maggioranza dell’Unione sot­tostà », ancora una volta a quelli che ap­punto definisce «ricatti» dei Teodem, cioè in sostanza se si toglie dal provvedimento «ogni riferimento in difesa delle persone in relazione all’orientamento sessuale e all’i­dentità di genere».
La sinistra radicale vuole introdurre nel pacchetto in discussione l’emendamento sull’orientamento sessuale


Unioni civili, l’Udeur avvisa la maggioranza
Salvi, autore della proposta sui Cus, propone di mettere in calendario la discussione al Senato a fine gennaio.
I parlamentari di Mastella: non ci stiamo, no ad accordi trasversali
Avvenire, 6.12.2007
DA ROMA
PIER LUIGI FORNARI
Duro avvertimento dell’Udeur, all’indo­mani dell’adozione a maggioranza dei Contratti di unione solidale (Cus), come testo base nell’ambito del di­battito sul riconoscimento le­gale delle unioni di fatto in corso in commissione Giu­stizia del Senato. «Se qualcu­no all’interno della coalizio­ne pensa di fare il furbo a giorni alterni, provando a for­zare la maggioranza con ac­cordi trasversali per supera­re le posizioni fortemente cri­tiche di altri, ci si sbaglia di grosso», affermano in una nota i senatori dei Popolari­Udeur, Tommaso Barbato e Nuccio Cusumano. A propo­sito della previsione di Cesa­re Salvi, autore della propo­sta, nonché presidente della commissione, di calendariz­zare il voto nell’aula di Palaz­zo Madama sui Cus per la fi­ne di gennaio o ai primi di febbraio, gli esponenti del Campanile rimarcano: «A questo gioco 'spacca-mag­gioranza' noi non ci stiamo. E se questo è il rispetto di qualcuno per il resto della coalizione, allora non esiste più coalizione».
«Siamo contrari ad un nego­zio giuridico dal quale scatu­riscano gli effetti per i convi­venti », dichiara poi il senato­re dell’Unione/Svp Oskar Pe­terlini a nome del gruppo 'Per le Autonomie', che, a maggioranza, si dichiara con­tro il disegno di legge sui Cus. La richiesta è inoltre che il Parlamento prima «affronti le gravi difficoltà in cui versano le famiglie».
Il ministro delle Politiche per la Famiglia, Rosy Bindi, in­tanto preannuncia che par­lerà «del testo sulle unioni ci­vili quando verrà approvato almeno da un ramo del Par­lamento ». «Voglio assistere all’iter in maniera assoluta­mente neutrale – precisa l’e­sponente del Pd – il Parla­mento lavori e io giudicherà il testo quando arriverà alla Camera». «Fa il pesce in bari­le », le ribatte l’azzurra Elisa­betta Gardini. E la compagna di partito Mara Carfagna ac­cusa il ministro di «posizio­ne ipocrita». Sempre per Fi I­sabella Bertolini ribadisce «la totale contrarietà ai Cus». Ed in previsione della scadenza del 15 gennaio per la presen­tazione degli emendamenti al testo Salvi, un’altra azzur­ra, Laura Bianconi, annuncia che farà pervenire il suo «con­tributo di emendamenti, contrari al contenuto del te­sto base», come aveva già fat­to in comitato ristretto.
La udc Sandra Monacelli punta il dito contro la coali­zione di governo: «Le prese di distanza del giorno dopo di alcune forze politiche di maggioranza e di singoli e­sponenti della stessa assomi­gliano a lacrime di coccodril­lo, di chi continua a tenere in vita un governo che sempre ed in ogni situazione quan­do deve scegliere fra 'mode­rati equilibri' e atteggiamen­ti 'sinistri ed antagonisti' sceglie sempre i secondi». O­limpia Tarzia presidente del comitato per la famiglia, giu­dica «gravissima» l’approva­zione del testo base avvenu­ta «nella distrazione genera­le indotta dalle grandi al­leanze e dai massimi sistemi della politica».


Legge 194, ecco come cambiare
Aborto
È indispensabile, almeno, riconoscere formalmente il diritto alla vita sin dal concepimento ed eliminare l’ambiguità degli articoli sulla prevenzione
DI CARLO CASINI
Avvenire, 6.12.2007
A trenta anni dalla legge 194 è logico porre sul tavolo la questione della riformabi­lità delle regole di legalizzazione dell’aborto in Italia. Nel recente con­vegno nazionale dei Cav ho elenca­to dieci ragioni che rendono doveroso affrontare questo tema, sia pu­re con realismo e quindi con intel­ligenza, prudenza e coraggio. Ora mi basta ricordare soltanto sia le promesse di ripensamento formu­late a suo tempo proprio da coloro che la legge vollero, sia il proposito di «non rassegnazione» espresso au­torevolmente da chi denunciò la in­giustizia gravissima di quella nor­mativa.
Non sto a replicare alla tesi di coloro che considerano «sacra» non la vita umana, ma la legge, dichiarata «conquista di civiltà» e quindi immutabile. Mi colloco invece all’interno di quel mondo che riconosce nel diritto alla vita il fondamento di ogni altro diritto umano, che intende il principio della eguaglianza come esteso dal concepimento alla morte e che perciò avverte la legge 194 come una ferita tanto più dolorosa quando, come avviene in que­sti giorni, si celebra l’anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Constato due atteggiamenti diversi. Alcuni chiedono di agire per «cancellare» o «capovolgere» la legge senza prendere in considerazione le grandi oggettive difficoltà che si frappongono tra la giusta aspirazione e l’obiettivo da raggiungere; altri, convinti della impossibilità che un dibattito parlamentare possa pervenire ad un qualsiasi ripensamento legislativo si limitano a sostenere che bisogna correggere non la legge, ma la gestione della legge. La prima tesi che potremmo chiamare «massimale» impedisce, così sembra, correzioni di rotta, magari modeste, ma possibili. Ma anche la seconda tesi (chiamiamola «minimale ») è pericolosa nella misura in cui per sostenere il contrasto tra la legge e la sua applicazione fornisce della legge una interpretazione giuridicamente insostenibile ovvero ne chiede una «integrale applicazione ». Il rischio è che anche le coscienze più sensibili al valore della vita finiscano per ritenere sostanzialmente «giusta» la legge e adeguino il loro modo di pensare all’essenza della norma che, in definitiva, legittima l’uccisione dei figli. Certamente la gestione della legge è stata ancora più iniqua di quanto sarebbe stato possibile fare secon­do una diversa interpretazione della legge stessa, ma, purtroppo è l’ambiguità delle parole scritte tren­ta anni fa che ha consentito la ap­plicazione verificatasi. Qualcosa può correggersi in via amministra­tiva, ma, al fondo, non è possibile migliorare incisivamente ed in mo­do generalizzato e permanente la gestione della legge se non elimi­nando l’ambiguità di quelle parti che vorremmo utilizzare per preve­nire l’aborto in presenza di una gra­vidanza già in atto. Per questo da anni insisto che una ricomposizio­ne civile sul tema dell’aborto ed u­na conseguente modifica della leg­ge è possibile solo se il percorso è segnato da due binari: da un lato la rinuncia al divieto penale con la conseguente scommessa sulla ca­pacità della mente e del cuore del­la donna di difendere il diritto del figlio se la società tutta intera con­divide le sue difficoltà, dall’altro il riconoscimento limpido e formale del diritto alla vita di ogni essere u­mano fin dal concepimento.
A parte l’opportunità di affrontare in modo diretto l’articolato della legge 194 si possono avere rimbalzi forte­mente innovativi sulla legge anche riformando altre leggi.
Non a caso, con la piena adesione del Forum delle Associazioni fami­liari, il Movimento per la Vita fin dal ’95 con una legge di iniziativa popolare ha proposto che, modificando l’art. 1 del Codice Civile, la soggettività giuridica di ogni essere umano sia dichiarata fin dal concepimento e chiede una profonda riforma dei Consultori familiari in modo da farne gli strumenti con cui lo Stato che rinuncia a vietare non rinuncia a difendere e lo fa senza equivoci e cioè non autorizzando mai l’aborto con i consultori stessi, ma dotandoli di poteri estesi di aiuto e di iniziativa per l’aiuto, con meccanismi che ne consentano sempre l’intervento senza minimamente coinvolgerli con l’aborto. L’esperienza più che trentennale dei Cen­tri di Aiuto alla vita dovrebbe pur insegnare qualcosa. Se poche persone, con pochi mezzi, con azioni spesso emarginate se non addirit­tura contrastate dalle istituzioni, hanno potuto salvare tante vite u­mane, quanto più efficace sarebbe un generalizzato intervento pubbli­co dello Stato e degli enti locali?