sabato 1 dicembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:

1. “Spe salvi facti sumus” – Don Gino Oliosi – CulturaCattolica.it
2. Spe salvi: nota di P. Scalfi
3. «FUOCHI» DI QUESTA NUOVA LETTERA - FORZA DEL FUTURO CHE CAMBIA LA STORIA E LE NOSTRE STORIE
4. LA SECONDA ENCICLICA - La speranza e i suoi volti
5. Francesco Botturi – «Ci dice che la salvezza non viene dalla scienza»
6. Una grande enciclica che fa ben sperare
7. La casta gay, i nuovi intoccabili
8. De Wohl e la vita di Caterina da Siena - Stefania Ragusa
9. Dialogo con Giussani - In un libro gli incontri con i giovani - Stefania Ragusa
10. Troppe palle al piede - così frena la piccola impresa - Giorgio Vittadini




“Spe salvi facti sumus”Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
venerdì 30 novembre 2007
“SPE SALVI facti sumus” - nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (8,24)
«La “redenzione”, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l’affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?» [Benedetto XVI, Spe Salvi, Introduzione, n. 1].

Fin dall’introduzione Benedetto XVI precisa sia il carattere soprannaturale della speranza che redime, sia che la grande promessa non mette da parte la natura, al contrario: “La “redenzione”, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto”. Così il Catechismo della Chiesa Cattolica al numero 1817 ne dà l’essenzialità di fede: “La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo”.
A questo riguardo vorrei riproporre quanto negli esercizi ai sacerdoti di Comunione e liberazione nel 1986 a Collevalenza il Cardinal Ratzinger propose a conclusione della meditazione sulla speranza. “Una bella immagine della speranza l’ho trovata nelle prediche di Avvento di San Bonaventura. Il dottore serafico dice ai suoi uditori che il movimento della speranza assomiglia al volo dell’uccello, il quale per volare distende le sue ali più largamente che può e impiega tutte le sue forze per muovere le ali, rende per così dire tutto se stesso movimento e così va in alto, vola appunto. Sperare è volare, dice Bonaventura: la speranza esige da noi un impegno radicale; richiede da noi che tutte le nostre membra diventino movimento, per sollevarci dalla forza di gravità della terra, per ascendere alla vera altezza del nostro essere, alle promesse di Dio. Il dottore francescano sviluppa allora una bella sintesi della dottrina dei sensi esterni ed interni. Chi spera - così egli dice - “deve alzare il capo, rivolgendo verso l’alto i suoi pensieri, verso l’altezza della nostra esistenza, cioè verso Dio. Deve alzare i suoi occhi a percepire le dimensioni della realtà. Deve alzare il suo cuore disponendo il suo sentimento per il sommo amore e per tutti i suoi riflessi nel mondo. Deve muovere anche le sue mani nel lavoro…”. Risuona qui anche l’essenziale di una teologia del lavoro, che appartiene al movimento della speranza e, compiuto correttamente, ne è una dimensione”. E’ la responsabilità di plasmare il mondo e l’umanità, e in questa responsabilità vi è una speranza che nuota contro la corrente della vanità.

Il soprannaturale, la grande promessa, la grande speranza non mette da parte la natura con le piccole speranze, al contrario
Rende possibile e chiama l’impegno di tutte le nostre forze per la completa apertura del nostro essere, per lo sviluppo di tutte le sue possibilità. “In altre parole - sempre Ratzinger nel 1986 -: la grande promessa della fede non distrugge il nostro agire e non lo rende superfluo, ma gli conferisce finalmente la sua forma (divino - umana), il suo luogo e la sua libertà. Un esempio significativo per questo viene offerto dalla storia monastica. Essa comincia con la fuga speculi, la fuga da un mondo che si chiudeva in sé nel deserto, nel non mondo. Là domina la speranza che proprio nel non mondo, nella povertà radicale, troverà il tutto di Dio, la vera libertà. Ma precisamente questa libertà della nuova vita ha fatto iniziare nel deserto la nuova città, una nuova possibilità di vita umana, una civiltà della fraternità, da cui si formarono isole della vita e della sopravvivenza nel grande tramonto dell’antica civiltà”. “Cercate prima il regno di Dio e tutto il resto vi sarà posto dinnanzi”, dice il Signore (Mt 6,33). La storia conferma la sua parola: aggiunge alla speranza teologica un ottimismo tutto umano.

“Cielo” per noi credenti è partecipazione alla forma d’esistenza del Risorto e insieme compimento di ciò che inizia nel battesimo
Nel linguaggio figurato degli antichi simboli, il modo di esistere in cui il Risorto è entrato, primo della serie, nell’ordine decisamente diverso che riguarda Lui, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo, è quello di “sedere alla destra del Padre”, ovvero la partecipazione al potere regale che Dio esercita sopra la storia, a quel potere che pur nel nascondimento è presente, è reale. Il Cristo glorificato non è dunque “tolto dal mondo”, ma è al di sopra del mondo, e con ciò in rapporto al mondo. “La fede - Spe Salvi, n.7 - non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non - ancora”. Il fatto che questo futuro esiste già, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future”. “Cielo” significa per noi credenti partecipazione a questa forma d’esistenza di Cristo risorto e quindi insieme il compimento di ciò che inizia col battesimo. Di conseguenza al cielo non può essere data alcuna definizione topografica né lo si può collocare fuori o dentro la nostra struttura dello spazio; tuttavia esso non può essere neppure separato - intendendolo semplicemente come “situazione” - dall’insieme del cosmo. Piuttosto esso significa quel potere universale che compete al nuovo “spazio” del corpo di Cristo, alla comunione dei santi.
Il cielo, la grande speranza sarà perfetta soltanto quando saranno riunite tutte le membra del corpo del Signore. Questa perfezione del corpo di Cristo cioè della Chiesa, di noi comporta insieme la risurrezione della carne, e significa “parusia” in quanto con ciò si è compiuta in pieno la presenza, finora soltanto iniziata, di Cristo e in quanto abbraccia tutti coloro che devono essere salvati, ivi compreso l’universo in cieli nuovi e terra nuova. Per questo il cielo conosce due fasi storiche: l’elevazione del Signore instaura il nuovo “essere uno” tra Dio e l’uomo e con ciò il “cielo”: il completamento del corpo del Signore a pleròma del “Cristo totale”, tutto in tutti e in tutto lo perfeziona nella sua reale interezza cosmica.
La salvezza del singolo sarà completa e piena soltanto quando sarà compiuta la salvezza dell’universo e di tutti gli eletti, poiché questi non sono nel cielo soltanto separatamente gli uni accanto agli altri, ma costituiscono tutti insieme, quale unico corpo di Cristo, essi stessi il cielo, la grande promessa, la grande speranza anticipata concretamente da tante piccole speranze che la anticipano. “La nostra speranza - Spe salvi n. 48 - è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale”. Allora l’intero creato sarà un “cantico”, un gesto con cui l’essere si libera nel tutto e insieme un entrare del tutto nella sua verità più propria, una letizia in cui tutte le domande avranno risposta ed esaurimento. Nell’orizzonte di questa grande speranza Benedetto XVI ci offre un meraviglioso percorso ad iniziare con l’affermazione che “speranza” è l’equivalente di “fede”.





Spe salvi: nota di P. Scalfi

Autore: Scalfi, P. Romano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
venerdì 30 novembre 2007
Raccogliamo questo primo commento di P. Romano Scalfi, nostro amico e collaboratore, sull'Enciclica di Benedetto XVI
«È importante parlare di speranza soprattutto in questo momento, in cui si osserva tanta disperazione soprattutto tra i giovani (secondo le statistiche, la causa principale di morte per i giovani tra 15-25 anni è il suicidio)». Così p. Romano Scalfi, fondatore del Centro studi «Russia Cristiana», ha commentato la presentazione della nuova enciclica di Benedetto XVI. In essa ampio spazio è dedicato al marxismo e alla rivoluzione comunista, che – scrive il Papa – «si è verificata nel modo più radicale in Russia». P. Scalfi, che anche durante il regime sovietico ha sempre cercato di far conoscere in Occidente la ricchezza della tradizione della Chiesa orientale (definita in quel periodo «Chiesa del silenzio»), afferma: «Nonostante qualcuno abbia visto delle analogie tra il messaggio marxista e quello cristiano, tra di loro non c’è alcun punto di contatto. La “speranza” marxista è utopismo: intende escludere Dio, nell’illusione di creare la felicità con le proprie mani; quest’ideologia ha affascinato molti, ma in conclusione anziché portare l’uomo alla perfezione l’ha disumanizzato». «Le ideologie – prosegue p. Scalfi – avevano la pretesa di portare il Paradiso in terra, di costruire un luminoso futuro contro Dio. Oggi vediamo invece che si è realizzato il contrario di quanto promettevano». Per p. Scalfi quest’enciclica «riveste una particolare importanza, ora che sono cadute le ideologie». Inoltre, le tematiche affrontate dal Papa sono care alla cultura russa: «Secondo il grande intellettuale Sergej Averincev, “Il cristiano non può essere né pessimista né ottimista, ma realista”. La tradizione orientale (quando è vissuta) ci aiuta a superare la tentazione dell’utopismo; diversamente dalla mentalità razionalista, la tradizione orientale non s’è mai affidata alla ragione da sola, ma sostiene che per conoscere occorra coinvolgere tutta la vita (parla infatti di “conoscenza integrale”)».


«FUOCHI» DI QUESTA NUOVA LETTERA - FORZA DEL FUTURO CHE CAMBIA LA STORIA E LE NOSTRE STORIE
FRANCO GIULIO BRAMBILLA
Avvenire, 1.12.2007
Mentre scorrevano sotto i miei occhi le parole scin­tillanti della nuova enciclica di Papa Benedetto XVI, Spe salvi, salvi nella e per la speranza, ripensavo con un brivido di emozione alla bella espressione con cui Gabriel Marcel, nel mezzo dell’ultimo terribile con­flitto mondiale, disegnava la speranza: io spero in Te per noi. Formula icastica e felice. Il filosofo francese riu­sciva a tessere insieme il lato personale e civile della speranza. E, ancora, lo slancio del desiderio di felicità e l’anticipo della promessa di vita. Di vita eterna.
Scritta come d’un solo fiato, la riflessione del Pontefi­ce colpisce diritto al cuore. Degli uomini d’oggi e del­l’epoca presente. Prende le mosse dal desiderio di vi­ta buona e felice, per mostrare come il presente pos­sa essere vissuto solo nell’orizzonte della speranza, di un oltre e di un altro che riempie di senso l’ora attua­le. E lo muove a una prassi di vita buona. La speranza non è un’informazione nuova, ma è trasformazione dell’esistenza, è promessa di redenzione che muta le condizioni di vita.
È la forza del futuro che cambia il presente. Anzi è la novità dell’avvento di Dio che suscita cose nuove nel tempo. Dalla piccola Bakhita che fa l’esperienza del passaggio dalla schiavitù alla libertà, alle preghiere del cardinale vietnamita Nguyen Van Thuan, che nei tredici anni di prigionia vede aprirsi una finestra di speranza. Fino ai martiri, ai monaci, a coloro che sperando hanno inventato forme di vita nuova, come Bernardo, Francesco, e la nube di testimoni della speranza.
Sorprende la scrittura del Pontefice che sa toccare le corde più profonde dell’esistenza quando spiega l’espressione «vita eterna» (n. 12), mentre poco più avanti stabilisce un confronto serrato e pacato tra la promessa della speranza cristiana e la fede nel progresso della modernità (nn. 16-21). Un testo vigoroso, che gioca su tutte le corde del pensiero e della lingua per ricavarne una musica nitida e convincente, lieve e persuasiva. Come dev’essere della parola della speranza e com’è nello stile di questo Papa. L’enciclica potrà apparire a taluni non facile in alcune sue parti, ma non potrà risultare a tutti incalzante nel porre la domanda decisiva: che cosa possiamo sperare? E che cosa non dobbiamo sperare!
Qui si accendono i fuochi dell’enciclica: la speranza della vita eterna è il motore dell’esistenza buona nel presente; la speranza personale non sta senza la sua dimensione sociale, anzi universale; la figura cristiana della speranza deve fornire alternativa convincente alla moderna fede nel progresso; i luoghi della speranza (la preghiera, l’agire e il soffrire dell’uomo, l’esercizio della perseveranza sotto il segno del Giudizio) sono il modo con cui la promessa entra nel grembo della storia.
Il gesto del Pontefice è audace. Porta al centro della scena temi personali e culturali che sono dileguati dalla riflessione civile e dalla coscienza comune. Con la forza di formule che spuntano nel testo con sorprendente facilità di espressione e felicità di linguaggio. Come questa: «Il fatto che questo futuro [di Dio] esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (n. 7). O, ancora: «Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti... Questa 'cosa' ignota è la vera 'speranza'... La parola 'vita eterna' cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta». Le statistiche dicono che gli italiani per una grande maggioranza credono ancora in Dio, ma subito si smarriscono quando vien loro chiesta ragione della loro fede nell’aldilà. La voce del Papa dà parola a questo desiderio di vita che alberga in ogni uomo.
L’aspetto più intrigante dell’enciclica sta nel confronto con la modernità, con la sua fede nel progresso e i suoi miti. Condotto con una lucidità salutare, fino alla contestazione del potere redentivo della tecnica. La terapia indicata è chiara: «Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo». Non senza riportare la coscienza cristiana alla sua responsabilità storica: «Bisogna che nel­l’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’au­tocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici» (n. 22).
Si capisce la cura di Benedetto XVI per l’uomo e la sua libertà. «L’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza» (n. 23). La Chiesa italiana a Verona ne ha tentato un concreto esercizio negli ambiti della vita umana. E ha imparato che bisogna custodire tut­te le armoniche della speranza: io spero in Te per noi.



LA SECONDA ENCICLICA - La speranza e i suoi volti
Avvenire, 1.12.2007
DI ELIO GUERRIERO
N el pensiero e nella predicazione di Benedetto XVI i volti acquistano un’importanza crescente. Già da tempo egli ha impostato le sue catechesi del mercoledì sugli apostoli, i primi disce­poli di Cristo, i padri apostolici e i padri della Chiesa in una catena che trasmette la crescita della fede e lo sviluppo del dog­ma attraverso il ritratto di testimoni. Un procedimento similare il pontefice adotta anche nell’enciclica sulla speranza.
Ad evidenziare la trasformazione che la speranza può operare nella vita e nel cuo­re dei cristiani il primo volto che egli pre­senta è quello di Santa Giuseppina Bakhi­ta, «la fortunata», venduta come schiava e liberata dall’annuncio del Vangelo presso le suore canossiane di Venezia. Da allora el­la divenne una testimone della speranza di liberazione: «la speranza, che era nata per lei e l’aveva redenta, non poteva tenerla per sé». La speranza cristiana, tuttavia, non si limita a questo mondo, come testimonia il secondo volto presentato dal papa nel­l’enciclica. Si tratta di Sant’Ambrogio, la cui figura è da leggere in unione con quel­la di suo fratello Satiro, di lui più grande di qualche anno. Alla scomparsa di Satiro, Ambrogio scrisse l’opera In morte del fra­tello nella quale parla della vita eterna il­luminata dalla Grazia. La speranza, argo­menta il Papa insieme con Sant’Ambrogio, non riguarda solo la vita terrena, ma anche quella futura. Non solo, non si spera solo per se stessi e per la propria sopravviven­za, ma anche per quella dei nostri cari. Sant’Ambrogio richiama al Papa il volto di Sant’Agostino, il giovane retore di Tagaste che proprio ascoltando il vescovo di Mila­no si convertì alla fede cristiana. Ritorna­to in patria, egli pensava di vivere la sua e­sperienza cristiana nella casa paterna, lon­tano dalle preoccupazioni della carriera e della vita. Secondo il Papa questo è «il mo­mento dell’immersione nell’oceano del­l’infinito amore, nel quale il tempo – il pri­ma e il dopo – non esiste più».
A questo punto, sulla base del cammino spirituale di Sant’Agostino, Benedetto XVI si pone una domanda: se la vita eterna è per i cristiani ricerca della propria felicità, della propria beatitudine eterna, essi non finiscono per cadere nell’accusa di individualismo? Il Papa risponde all’obiezione unendosi al cardinale De Lubac. In due opere della prima metà del Novecento, il teologo francese mostrava che il «cattoli­cesimo è essenzialmente sociale. Sociale nel senso più profondo della parola: non soltanto per le sue applicazioni nel cam­po delle istituzioni naturali, ma prima di tutto in se stesso, nel suo centro più mi­sterioso, nell’essenza della sua dogmati­ca » ('Cattolicismo, aspetti sociali del dog­ma').
Non si può rimproverare, dunque, al cri­stianesimo di essere indifferente alla sorte dei sofferenti. Al contrario, i pensatori moderni, in particolare i positivisti e i marxisti, hanno ridotto l’uomo e la sua spe­ranza, hanno provocato il dramma dell’umanesimo ateo. Scrive De Lubac: «Non è vero che l’uomo, come sembra talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero però che, senza Dio, non può alla fine dei conti che organizzarlo contro l’uomo» ('Il dramma dell’umanesimo ateo'). Il Papa riprende il filo del suo pensiero con Sant’Agostino. Dopo la fase della ricerca individuale, il dottore africano cominciò dapprima una vera e propria esperienza di vita monastica e poi, chiamato dal suo vescovo, si occupò dei valori cristiani della gente comune. La spe­ranza cristiana, dunque, incide sulla quo­tidianità della vita, sulle istituzioni e sugli ordinamenti sociali. A cominciare dalla Chiesa, nella quale il vescovo, il presbite­ro e il credente non possono mai rilassar­si nel loro ufficio, ma devono sempre pro­vare la santa inquietudine per vivere e tra­smettere la speranza e collaborare all’edi­ficazione della città. Una evoluzione similare troviamo nell’al­tro volto della speranza citato da papa Be­nedetto: Bernardo di Chiaravalle. Come Agostino, nella prima parte della sua vita Bernardo pensò anzitutto alla fuga e allo spregio del mondo. Nei suoi monasteri, tuttavia, i giovani monaci apprendevano il valore del lavoro, la fatica dell’agricoltu­ra con la quale preparavano il pane per il corpo e per l’anima. Successivamente an­che Bernardo andò oltre. Fondò numero­si monasteri, moltiplicò i suoi interventi presso la curia romana, con la predicazio­ne della crociata intervenne nella vita po­litica del suo tempo. Soprattutto, Bernardo scrisse un’opera, De diligendo Deo, nel quale il tema dominante è l’amore di Dio. L’oggetto della speranza dell’uomo, allora, è l’amore di Dio che viene a completare la più profonda aspirazione umana. In que­sto senso, argomenta il Papa, «è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza spe­ranza, senza la grande speranza che sor­regge tutta la vita» (n. 27).
Benedetto XVI procede con un’altra do­manda: dove impariamo a sperare? All’in­terrogativo risponde con un nuovo volto: quello del cardinale vietnamita Xavier N­guyen van Thuan. Di famiglia cattolica, impegnata nell’amministrazione e nel governo del Paese, van Thuan venne arrestato nel 1975 e liberato nel 1988. Nei tredici anni di prigionia, in particolare nei lunghi periodi di isolamento, la preghiera divenne la sua forza. In uno dei suoi diversi luoghi di detenzione riuscì a farsi inviare da un familiare un piccolo quantitativo di vino e dei pezzetti di pane con i quali iniziò a celebrare l’Eucarestia. A questo punto la sua preghiera era perfetta: privata di ogni elemento superfluo era legata a Cristo, alla Chiesa suo corpo, alle sofferenze dei fedeli, alle sofferenze del mondo. «In questo modo – conclude il Papa – si realizzano in noi le purificazioni, mediante le quali di­ventiamo capaci di Dio e siamo resi idonei al servizio degli uomini» (n. 34).
Il cardinale, del resto, aveva davanti a sé l’esempio dei tanti martiri sui quali è edificata la comunità cristiana in Vietnam. Tra loro, il verbita Paolo Le-Bao-Thin, ucciso nel 1857 e canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1988. In una lettera che ricorda quelle dell’apostolo suo omonimo, egli scrive ai fedeli: «Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio». E davvero il carcere di Paolo, come quello di van Thuan, è un inferno. La speranza cristiana, tuttavia, ha la forza di trasformare la sofferenza in gioia, nella convinzione che Dio, secondo un’espressione di San Bernardo cara al Papa che la citava già nel libro su Gesù, non può patire ma compatire.
Il luogo dove secondo Benedetto XVI si trova questa misericordia di Dio che nel Figlio è entrata nel mondo e con lui è ritornata al Padre, insieme con una conoscenza approfondita delle sofferenze dell’uomo, è il giudizio. Lì viene revocata la sofferenza e ristabilito il diritto, in particolare quello dei deboli e degli oppressi. La giustizia, però, è accompagnata dalla Grazia e dalla misericordia di Dio, dalle preghiere della Chie­sa. Così la speranza diventa comunitaria e universale: «La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli al­tri ». La vita degli uomini è un viaggio. L’ultimo volto è quello di Maria, la stella della speranza cristiana che indica la via ai fedeli e agli uomini tutti.
Giuseppina Bakhita, venduta come schiava in Sudan e liberata dall’annuncio del Vangelo Il cardinale vietnamita Van Thuan, che durante il regime comunista ha vissuto tredici anni in carcere, e il suo connazionale Le-Bao-Thin, martirizzato nel 1857 Ambrogio ricorda la dimensione ultraterrena della speranza Agostino evidenzia la sua incidenza sulla vita sociale e sulle istituzioni Bernardo di Chiaravalle indica nella conoscenza di Dio il suo fondamento E De Lubac denuncia i limiti dell’umanesimo ateo.







Francesco Botturi – «Ci dice che la salvezza non viene dalla scienza» Avvenire, 1.12.2007
DI ELIO MARAONE
« Un testo molto intenso, molto bello, che tocca in profondità chi lo legge. Quasi uno svolgi­mento, assieme alla prima enciclica, del te­ma già sintetizzato dal Santo Padre nel Gesù con queste pa­role: l’uomo ha bisogno di verità e di amore, di una verità che lo ami». In altre parole, secondo il professor France­sco Botturi, ordinario di Filosofia morale all’Università cat­tolica, la Spe salvi è una nuova tappa, e tra le più toccanti, della coerente ricerca (della verità nella luce dell’amore, o­siamo notare noi) di Benedetto XVI.
Professore – chiediamo – che altro si potrebbe aggiunge­re tentando una valutazione generale di questa encicli­ca?
Che il Papa si dirige dritto alla grande questione umana, ossia al desiderio di felicità che lo coinvolge, che lo fa anche soffrire, ma che è insopprimibile. Per questo l’uomo non può mai, di fatto, rinunciare a un’idea di felicità, ben­ché sia consapevole della sua fragilità e della sua insuffi­cienza: per dir meglio, egli è portatore di un desiderio più grande di quanto egli stesso riesca a realizzare. È questo il paradosso dell’uomo, che il cristiano, insieme alla fede, deve testimoniare.
Di testimoniare, si potrebbe aggiungere, nel tempo della post-modernità, dopo le lunghe stagioni della moder­nità...
... che ha fallito, e il Papa lo ricorda con grande lucidità critica nei brani dedicati alla Rivoluzione francese e alla Rivoluzione comunista. Mi pare vada messo in risalto, per e­sempio, il passo che, dopo aver denunciato come «vero errore» marxiano il materialismo, con­clude che l’uomo non è soltan­to il prodotto di condizioni e­conomiche e perciò non è pos­sibile risanarlo dall’esterno creando condizioni economi­che favorevoli. Altrettanto sa­liente è, da parte del Papa, la cri­tica della fede nel progresso, cioè dell’ideologia del progres­so. Una denuncia innervata dal­la memoria degli esiti anche tragici ai quali, pure nel secolo scorso, può portare la fede nel progresso.
Si tratta, nel complesso, di un giudizio negativo sulla con­temporaneità? E, più in gene­rale, la riflessione sulla speran­za è esercizio esclusivo del pen­siero cristiano?
Non c’è alcun indugio compia­ciuto sul negativo, semmai la critica conduce sempre, sino a trovare accenti commossi, al positivo, quasi che il Papa vo­lesse far incontrare il desiderio di pienezza dell’uomo con la Pienezza, e insieme ricordarci che le cose grandi e buo­ne non sono dell’individuo, ma dell’intera famiglia uma­na. Quanto al tema della speranza, esso è, per esempio, un tema forte kantiano («Che cosa posso sperare?» è una del­le quattro domande fondamentali dell’uomo secondo Kant). La Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, ecc.) si pone il problema della necessità e della difficoltà insie­me della speranza.
Insomma, anche la parte più laica della cultura contem­poranea dovrebbe fare conti attenti, e privi di pregiudi­zio, con questa enciclica.
È quello che mi auguro, soprattutto là dove assistiamo ad una sorta di implosione del desiderio a seguito della crisi della modernità, che ha ormai compreso di dover rinun­ciare all’illusione di avere una presa totale sulla storia. C’è naturalmente chi non è d’accordo, chi mantiene vecchie posizioni o chi rinuncia consapevolmente alle «grandi» domande dell’uomo Ma questo non vuol dire che il Papa demonizzi la modernità e i suoi attardati seguaci: registra un fallimento e riapre una prospettiva.
L’enciclica contiene anche una critica al cristianesimo storico.
Infatti il Papa constata che il cristianesimo moderno si è spesso ridotto o rassegnato ad accettare un ruolo di reli­gione privata, portatrice di un annuncio di salvezza individuale. Con ciò, aggiunge il Papa, si restringeva l’orizzonte della sua speranza, senza riconoscere adeguatamente la grandezza del proprio compito; compito di testimonian­za della speranza per l’uomo intero e per tutti gli uomini.
Questa enciclica contiene molte frasi suggestive, memorabili. Lei quali citerebbe?
Vorrei sottrarmi a questo gioco. Ma, se mi costringe, direi: «Non è la scienza che dà speranza all’uomo. L’uomo vie­ne redento dall’amore divino».
Il filosofo morale: una critica positiva all’ideologia del progresso e un richiamo urgente al compito dei credenti


Una grande enciclica che fa ben sperare
Gianni Baget Bozzo spiega perché la “Spe salvi” rimette al centro antiche parole come vita eterna e giudizio. Marta Sordi perché il cristianesimo ha risposto alla “disperata attesa” dei pagani. La “necessaria autocritica”
Il Foglio, 1.12.2007
Una grande enciclica dogmatica, di contenuto dottrinale, che rimette al centro i temi della mistica e dell’escatologia”. Il documento più importante del pontificato di Benedetto XVI, secondo don Gianni Baget Bozzo. Un testo di grande teologia, anche se accessibile nello stile piano e con dovizia di esempi tipico del professor Joseph Ratzinger, ma che “compie una grande risistemazione dottrinale e dogmatica. Che non deduce, ma afferma”. Innanzitutto, analizza Baget Bozzo “dice che la speranza è desiderio proprio dell’uomo e che è desiderio di infinito, a cui Dio risponde”. In secondo luogo, “è un’enciclica che rompe un lungo silenzio sulle parole dell’escatologia, individuale e collettiva. Non c’è la parola ‘anima’ in quanto vocabolo, ma ugualmente è detto che l’uomo ha in sé una costitutiva domanda che tende all’infinito. Si parla della ‘vita eterna’, non solo come esito finale ma come ciò che ‘prende inizio in noi’. Ratzinger usa una bellissima citazione di Theodor W. Adorno, il quale afferma che una vera giustizia, richiederebbe un mondo ‘in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato’. E questo serve a papa Benedetto per parlare, citando sempre le parole di Adorno, ‘la risurrezione della carne’, e quindi per parlare del Giudizio finale. E dunque si parla di Giudizio”. Ancora, prosegue Baget Bozzo nella sua ricognizione dei “novissimi” (nella dottrina cattolica sono morte, giudizio, inferno e paradiso) “non viene usato il termine paradiso, ma si parla esplicitamente della ‘vita in Dio’, che inizia sulla terra ed è destinata a proseguire’. Mentre si parla, e più volte dell’inferno e anche del purgatorio, e di un ‘fuoco’ attraverso cui l’uomo deve passare per la purificazione, e si dice che questo fuoco è Cristo stesso”. Meno decisivi per il significato complessivo dell’enciclica, secondo Baget Bozzo, sono altri argomenti presenti nella “Spe salvi” e che pure sono stati quelli maggiormente ripresi dai mezzi d’informazione: la critica dell’illuminismo e del marxismo, rispetto alle quali Ratzinger ritiene “necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo”. Per Baget Bozzo, “Ratzinger ripropone Cristo come risposta alla speranza anche storica dell’uomo. Ma il suo è soprattutto un grande documento di riequilibrio, che rimette la chiesa dove è e dove deve essere”.
Il tema della storia, del rapporto tra la speranza cristiana e il mondo è però centrale e Ratzinger, prima di arrivare alla confutazione delle filosofie che da Francesco Bacone in poi hanno tentato una loro “restaurazione del paradiso perduto”. Ratzinger affronta il problema dal suo momento storico iniziale, l’incontro con il mondo greco-romano, che qualche somiglianza ha con l’attuale. “Mi ha molto colpito come nei paragrafi iniziali il papa riprenda il tema della penetrazione del cristianesimo nel mondo antico, avvenuta perché il cristianesimo ha risposto al desiderio profondo dei pagani, di un ‘Dio presente’, che entrasse nella storia”, dice Marta Sordi, docente emerito di Storia greca e romana alla Cattolica. “Ci sono due citazioni essenziali: la Lettera agli Efesini, in cui si ricorda come prima di Cristo essi fossero ‘senza speranza e senza Dio nel mondo’. L’altra dalla Prima lettera di Pietro, che esorta i cristiani a dare ragione della loro speranza. Nel mondo antico c’è questo profondo senso di attesa disperata e di speranza invocata, i cui vertici si colgono nel carme LVIV di Catullo e nella IV egloga di Virgilio, tanto che li possiamo definire i ‘canti della speranza pagana’”. Spiega la Sordi: “C’era stato l’orrore della guerra civile, il sovvertimento del diritto umano e divino, e dei rapporti familiari naturali. E questa perversione ha portato, per Catullo, all’allontanamento della ‘potenza che giustifica’ degli dei’ e allo spegnersi della luce divina nel mondo, generando un disperato rimpianto. Mentre la profezia di Virgilio riguarda proprio la nuova generazione che, dopo la cancellazione del ‘peccato d’origine’, nascerà in un mondo pacificato in cui torna ad essere presente la divinità”.



Nota di M. Allam: La risposta del Papa ai 138 firmatari islamici e ai ...cristiani
Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
venerdì 30 novembre 2007
Abbiamo rivolto a Magdi Allam, vice-direttore ad personam del Corriere della Sera, una domanda su come valuta la "Risposta del Santo Padre Benedetto XVI alla Lettera aperta di 138 guide religiose musulmane", pubblicata il 29 novembre a firma del Segretario di Stato vaticano il cardinale Tarcisio Bertone. Ecco la sua risposta:
"Mi conforta la chiarezza e la determinazione con cui Benedetto XVI afferma il primato del sodalizio indissolubile tra fede e ragione quale base inequivocabile nel rapporto con l'islam. A fronte di una Lettera aperta sterminata, appesantita da innumerevoli citazioni del Corano, dei Vangeli e della Bibbia per suffragare la tesi della comunanza tra l'islam e il cristianesimo, il Papa replica con una breve nota improntata al buonsenso, che ispira l'accettazione della mano tesa, ma soprattutto al realismo che sottolinea che non si possono "ignorare o sminuire le nostre differenze in quanto cristiani e musulmani". Ecco perché, come ha affermato oggi in un'intervista a l'Avvenire il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, il dialogo con l'islam "ora viene rilanciato su nuove basi". A cominciare, si evidenzia nella risposta pontificia, "dall'effettivo rispetto della dignità di ogni persona". Quindi prima il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo al cui cardine c'è certamente il valore della sacralità della vita. Di conseguenza, come rileva lo stesso Tauran, "con l'islam che predica e pratica il terrorismo – che non è un islam autentico ma una perversione dell'islam – non è possibile alcun dialogo". Bene ha fatto quindi il Papa ad assumere un atteggiamento di cautela, dato che sussistono perplessità sull'atteggiamento dei firmatari dell'Appello circa il diritto all'esistenza di Israele e del terrorismo palestinese, pur mantenendo aperte le porte del dialogo con coloro che condividono sinceramente e incondizionatamente i valori assoluti, universali e trascendenti che rappresentano l'essenza della nostra umanità e devono costituire il fondamento della comune civiltà dell'uomo."




De Wohl e la vita di Caterina da Siena
- Stefania Ragusa, ItaliaOggi, 1.12.2007



Dialogo con Giussani - In un libro gli incontri con i giovani - Stefania Ragusa, ItaliaOggi, 1.12.2007


Troppe palle al piede - così frena la piccola impresa - Giorgio Vittadini, Il Giornale, 1.12.2007




La casta gay, i nuovi intoccabili
Alberto Ruggin, diplomato di Este, è gay, e fin qui è affar suo.
Alberto Ruggin va a confessarlo in Tv, a Ciao Darwin, programma condotto su Canale 5 da Paolo Bonolis, che lo include col numero 23 nella squadra omosex schierata contro la squadra etero, e da lì in avanti diventa affare di 5 milioni di spettatori.
Alberto Ruggin è, o perlomeno ha dichiarato di essere, «capo dei chierichetti» (a 21 anni?) e solista del coro nella basilica di Santa Maria delle Grazie, non una chiesa qualsiasi, un santuario, e questo, se l’interessato permette, è anche e soprattutto affare del parroco, don Paolino Bettanin. Il quale ha deciso di reagire come meglio credeva: escludendo il giovanotto da entrambe le mansioni liturgiche.
Così Ruggin è finito sui giornali, come forse sperava in cuor suo, e questo ancora una volta diventa anche affar nostro, di tutti noi che i giornali li facciamo e li leggiamo.


Ha agito bene o male il reverendo nel retrocederlo al rango di semplice fedele?
Giudicate voi dalle successive dichiarazioni del ventunenne: «Voglio che vengano autorizzate le unioni omosessuali e per questo mi impegnerò politicamente nel mio Comune».
Dal punto di vista dell’ortodossia, nulla si può rimproverare a don Paolino: non ha fatto altro che attenersi alle prescrizioni dettate dall’altro Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio».
Nell’attesa del giudizio finale, si presume che le medesime categorie, tutte peraltro più o meno rappresentate nella Chiesa, debbano almeno essere dispensate dal provvedere alla gestione del regno sulla Terra, anche se le indicazioni del convertito di Tarso al riguardo non appaiono altrettanto esplicite.
Dal punto di vista dell’opportunità, il sacerdote ha commesso un errore inescusabile: è andato a infilarsi nel tritacarne mediatico.
Il che dimostra se non altro una grandissima ingenuità.
Avrebbe dovuto sapere che la piazza era già saldamente presidiata dal suo ex confratello don Sante Sguotti, già parroco di Monterosso, meno di 30 chilometri da Este.
Troppa grazia, Sant’Antonio, per la sola diocesi di Padova, in appena tre mesi.
«Il parroco di Este ha superato in omofobia le posizioni più retrive della Chiesa cattolica», ha sentenziato Alessandro Zan, presidente dell’Arcigay veneto.
Omofobia.
Accusa tremenda.
Una parola gettonatissima, di questi tempi.
Designa l’«avversione per l’omosessualità e gli omosessuali».
L’Accademia della Crusca non la registra nemmeno.
L’Ansa la usò per la prima volta (e una sola volta) nel 1984.
Dall’inizio di quest’anno la medesima agenzia di stampa l’ha già ripetuta 385 volte.
Sullo Zingarelli risulta inventata nel 1985.
Penso di non essere distante dal vero nell’attribuire la paternità dello sdoganamento semantico all’onorevole Franco Grillini, presidente emerito dell’Arcigay e deputato diessino.
Ai tempi in cui il neologismo fu coniato, gli omosessuali non avevano diritto di cittadinanza non solo nelle sagrestie ma neppure nel Pci.
Era il 1986 quando Giancarlo Pajetta, alla vista di una foto che ritraeva Grillini con un gruppo di dirigenti gay davanti al Bottegone, reagì con uno dei suoi lapidari niet: «Io qui i finocchi non ce li voglio».
Rimaneva pur sempre il partito che 37 anni prima, a Udine, aveva espulso l’omosessuale Pier Paolo Pasolini.
Il mio amico Claudio Sabelli Fioretti ha appena pubblicato un libro-intervista con Grillini.
S’intitola: Gay. Molti modi per dire ti amo.
Viene presentato così: «Volete sapere quanti calciatori in Italia sono gay? Volete leggere le polemiche fra Grillini e i cardinali omofobi? Volete sapere che cos’è il gaydar? Volete indovinare quale presidente della Repubblica era omosessuale?».
Quante morbose curiosità: non avevano detto d’essere come gli altri?
La pubblicità contempla un quinto interrogativo, assai sintomatico: «Volete capire perché più si è omofobi più si è omosessuali?».
Suona minaccioso.
Si può tradurre così: se ci critichi tanto, vuol dire che sei come noi.
Curioso modo di procedere: viene rovesciato su chi osa dissentire da certi stili di vita il sospetto d’appartenere a una categoria che pretende legittimazione naturale e giuridica.
Insomma, più sei omofobo più sei normale.
O no?
Mi sfugge allora in che cosa consista la straordinarietà delle rivelazioni di Grillini raccolte da Sabelli Fioretti.
La strategia della potentissima lobby gay appare chiara: non parlate di noi, se non per dirne bene.
Questo sì che è razzismo.
Significa davvero considerarli diversi da tutti. E su chi non si allinea, come il sacerdote di Este, sia anatema.
Un cantore si può escludere dal coro parrocchiale se stona.
Ma per uno scrupolo morale no.
Qui bisogna mettersi d’accordo.
Prima si accusa la Chiesa di non vigilare a sufficienza affinché a chierici e preti attratti da persone del loro stesso sesso sia impedito di riversare le proprie pulsioni all’interno di seminari e parrocchie.
Poi ci si lamenta se un prevosto di paese, avuta pubblica e assordante notifica che il «capo dei chierichetti» si dichiara gay, ricorre spicciativamente a un allontanamento a scopo cautelativo, per non ritrovarsi nell’imbarazzante situazione di doversi un giorno giustificare con qualche genitore, immagino.
Certo, la decisione appare poco caritatevole e anche ingiusta, non essendosi il giovane in cerca di facile notorietà macchiato di alcuna colpa.
Ma mettetevi nella tonaca del parroco: che altro doveva fare, pover’uomo?
Sorvolare?
Fingere di non aver visto?
Tollerare lo scandalo?
Converrà ricordare, di passata, che la lettera Homosexualitatis problema stilata nel 1986 dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale che oggi è papa col nome di Benedetto XVI, bolla l’inclinazione omosessuale «come oggettivamente disordinata», concetto peraltro ribadito nel Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 2358.
Qualche tempo fa Vittorio Messori mi ha spiegato che la Chiesa, nella sua saggezza di «mater et magistra», in passato aveva sempre fatto in modo che le persone con tendenze omosessuali rimanessero pecorelle nel gregge e non fossero ammesse ai sacri uffici.
Ma poi, in ossequio al politically correct che negli Stati Uniti scambiava questa forma di prudenza per un’intollerabile discriminazione, ha dovuto spalancare le porte delle istituzioni religiose a chiunque.
In precedenza l’ostracismo si estendeva anche a coloro «che sostengono la cosiddetta cultura gay», come si legge in un memorandum della Congregazione per l’educazione cattolica, non a caso redatto in lingua inglese.
Occhio alla data: il documento è del 1985.
Lo stesso anno in cui entra nel vocabolario il sostantivo «omofobia».
Se oggi molte diocesi americane sono screditate e in bancarotta, subissate da richieste di risarcimento presentate dalle vittime del clero gay, lo si deve esattamente a questo: alla paura della Chiesa di apparire omofoba.
Per cui, parafrasando la frase pronunciata da Madame Roland, vittima della rivoluzione francese, un attimo prima che la lama della ghigliottina le separasse la testa dal collo, viene da chiedersi: omofobia, quanti delitti si commettono in tuo nome?
Qualche settimana fa è accaduto in Inghilterra un fatto emblematico.
I giornali britannici di qualità, dal Times al Telegraph, ma anche quelli popolari, come il Daily Mail, ne hanno riferito con ampiezza.
Idem la Bbc.
In Italia silenzio di tomba.
Due gay dichiarati, Ian Wathey e Craig Faunch, che vivevano more uxorio a Pontefract, nello Yorkshire occidentale, sono stati lasciati liberi di violentare per lungo tempo i ragazzini dati loro in affidamento.
Ebbene, durante il processo è emerso che gli assistenti sociali del Metropolitan district council della città di Wakefield non avevano mosso un dito per paura di essere marchiati come «homophobic».
La coppia era anzi considerata «da trofeo».
L’orientamento sessuale degli «educatori» non è stato giudicato un motivo significativo «per pensare l’impensabile».
I due omosex, fra i primi a poter diventare genitori adottivi nel Regno Unito, hanno ottenuto la custodia di 18 ragazzi in soli 15 mesi.
La coppia ha abusato di bambini di appena 8 anni.
Quando una madre è andata a esporre i suoi dubbi, gli assistenti sociali, sempre per non apparire omofobi, si sono accontentati dei chiarimenti forniti da Wathey e Faunch e hanno spedito a casa loro persino un quattordicenne affetto da una grave forma di autismo, la sindrome di Asperger, che è stato «curato» con dosi massicce di pornografia gay.
Michelle Elliott, direttrice di Kidscape, un’organizzazione contro gli abusi infantili, ha commentato: «Il buonsenso è uscito dalla finestra quando hanno permesso alla political correctness di prendere il sopravvento».
In Italia sta uscendo dalla porta principale.
Stefano Lorenzetto
(C) il Giornale 30 novembre 2007