domenica 9 dicembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1. Benedetto XVI: il Natale richiede conversione
2. IDENTITÁ E GENERE - dossier FIDES
3. UN IMPRESSIONANTE DETTAGLIO – considerazioni di Antonio Socci sull’enciclica Spe salvi
4. A PROPOSITO DI TENDENZE SESSUALI - AL POTERE UN’INCONTENIBILE LEGGEREZZA

Benedetto XVI: il Natale richiede conversione
Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 9 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico vaticano per recitare la preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in piazza San Pietro in Vaticano.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Ieri, solennità dell'Immacolata Concezione, la liturgia ci ha invitato a volgere lo sguardo verso Maria, madre di Gesù e madre nostra, Stella di speranza per ogni uomo. Oggi, seconda domenica di Avvento, ci presenta l'austera figura del Precursore, che l'evangelista Matteo introduce così: "In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!»" (Mt 3,1-2). La sua missione è stata quella di preparare e spianare la via davanti al Messia, chiamando il popolo d'Israele a pentirsi dei propri peccati e a correggere ogni iniquità. Con parole esigenti Giovanni Battista annunciava il giudizio imminente: "Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco" (Mt 3,10). Metteva in guardia soprattutto dall'ipocrisia di chi si sentiva al sicuro per il solo fatto di appartenere al popolo eletto: davanti a Dio - diceva - nessuno ha titoli da vantare, ma deve portare "frutti degni di conversione" (Mt 3,8).
Mentre prosegue il cammino dell'Avvento, mentre ci prepariamo a celebrare il Natale di Cristo, risuona nelle nostre comunità questo richiamo di Giovanni Battista alla conversione. E' un invito pressante ad aprire il cuore e ad accogliere il Figlio di Dio che viene in mezzo a noi per rendere manifesto il giudizio divino. Il Padre - scrive l'evangelista Giovanni - non giudica nessuno, ma ha affidato al Figlio il potere di giudicare, perché è Figlio dell'uomo (cfr Gv 5,22.27). Ed è oggi, nel presente, che si gioca il nostro destino futuro; è con il concreto comportamento che teniamo in questa vita che decidiamo della nostra sorte eterna. Al tramonto dei nostri giorni sulla terra, al momento della morte, saremo valutati in base alla nostra somiglianza o meno con il Bambino che sta per nascere nella povera grotta di Betlemme, poiché è Lui il criterio di misura che Dio ha dato all'umanità. Il Padre celeste, che nella nascita del suo Unigenito Figlio ci ha manifestato il suo amore misericordioso, ci chiama a seguirne le orme facendo, come Lui, delle nostre esistenze un dono di amore. E i frutti dell'amore sono quei "degni frutti di conversione" a cui fa riferimento san Giovanni Battista, mentre con parole sferzanti si rivolge ai farisei e ai sadducei accorsi, tra la folla, al suo battesimo.
Mediante il Vangelo, Giovanni Battista continua a parlare attraverso i secoli, ad ogni generazione. Le sue chiare e dure parole risultano quanto mai salutari per noi, uomini e le donne del nostro tempo, in cui anche il modo di vivere e percepire il Natale risente purtroppo, assai spesso, di una mentalità materialistica. La "voce" del grande profeta ci chiede di preparare la via al Signore che viene, nei deserti di oggi, deserti esteriori ed interiori, assetati dell'acqua viva che è Cristo. Ci guidi la Vergine Maria ad una vera conversione del cuore, perché possiamo compiere le scelte necessarie per sintonizzare le nostre mentalità con il Vangelo.
[Dopo l'Angelus, il Papa ha salutato i presenti in varie lingue. In italiano ha detto:]
Nel pomeriggio di giovedì 13 dicembre prossimo incontrerò gli universitari degli Atenei romani, al termine della Santa Messa che sarà presieduta dal Cardinale Camillo Ruini. Vi attendo numerosi, cari giovani, per prepararci al santo Natale invocando il dono dello Spirito di sapienza per tutta la comunità universitaria.
Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Burgio e da Trebisacce, i ragazzi dell'unità pastorale di Fagnano Olona (Diocesi di Milano), gli scout di Passignano sul Trasimeno, l'associazione "C'era una volta" di Villamiroglio e il gruppo della Polizia Municipale di Agropoli. A tutti auguro una buona domenica.



IDENTITÁ E GENERE - dossier FIDES

Agenzia FIDES – 24 novembre 2007
Intervista a Lucetta Scaraffia, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, Vice-Presidente dell’Associazione Scienza e Vita, membro del Comitato Italiano di Bioetica.


L’ONU e l’ordine naturale del mondo
Città del Vaticano (Agenzia Fides) - “La questione del ‘genere’ è la chiave intorno a cui, da vent'anni, gira tutto il tentativo di buttare all'aria l'ordine naturale del mondo, senza darlo a vedere. Adottare una prospettiva di genere, spiega un documento dell'Instraw, un istituto che fa parte dell'Onu, significa ‘distinguere tra ciò che è naturale e biologico e ciò che è costruito socialmente e culturalmente, e rinegoziare i confini tra il naturale e la sua inflessibilità , e il sociale’. Questo comporta rifiutare l'idea che l'identità sessuale sia iscritta nella natura, nei cromosomi, e affermare che ciascuno si costruisce il proprio ‘genere’ fluttuando liberamente tra il maschile e il femminile, transitando per tutte le possibilità intermedie.”. Lo ha affermato Dale O'Leary, medico, membro della “Catholic Medical Association”, sulla rivista “Tempi” dell’8 febbraio 2007.
La vera ragion d’essere della teoria “gender”, spiega la O’Leary, è essenzialmente sul piano politico, per la sua utilizzabilità ai fini della totale normalizzazione della sessualità omosessuale. Il concetto di “gender” rappresenta infatti il primo passo per sviluppare in modo più ampio lo sganciamento dell’identità sessuale dalla realtà biologica, tanto che il “gender” incontra il suo logico sviluppo nell’approccio “queer”, cioè nella prospettiva dell’identità sessuale come scelta mobile e revocabile, anche più volte nel corso della vita dalla stessa persona. Questa metodologia non rivendica un’identità particolare, ma si propone come un movimento che rimette in discussione le identità ritenute normative. “Il travestito – scrive Judith Butler in ‘Gender Trouble’ – è la nostra verità per tutti. Rileva la struttura imitativa del genere stesso. Noi tutti non facciamo che travestirci ed è il gioco del travestimento che ce lo fa capire”. Judith Butler, filosofa, docente a Berkeley, nei suoi studi sostiene che l’identità sessuale è sempre un’invenzione, che qualsiasi richiamo alla natura è truffaldino, antiquato, socialmente e culturalmente costruito: in una parola, oppressivo e discriminatorio per definizione. In questa prospettiva, i termini “madre” e “padre” sono quasi degli insulti, ciarpame da azzerare con definizioni meno biologicamente deterministiche, mentre la via della liberazione passa per la possibilità di costruire ciascuno il proprio “genere”.
La teoria del gender viene così utilizzata per negare la differenza biologica fra i sessi, sperando così di “renderli uguali”: si tratta dunque di una ennesima versione delle utopie egualitarie che da oltre due secoli percorrono il panorama ideologico dell’occidente. Dimenticando che si può essere differenti senza essere per forza diseguali, perché la differenza non è sinonimo di discriminazione. La differenza, infatti, non si oppone all’eguaglianza, ma alla similitudine e all’identità.

La teoria del ‘gender’ trasforma in modo definitivo la cultura occidentale
Anche se si presenta solo come un allargamento delle identità sessuali ai fini di aumentare le possibilità di scelta individuale, la teoria del “gender”, negando la differenza sessuale, trasforma in modo definitivo la cultura occidentale, cambiando completamente l’idea di natura e di identità naturale, il concetto di famiglia e di procreazione, tutti nodi fondamentali di qualsiasi sistema antropologico.
Non è solo questione di esaudire desideri di singoli, o di gestire degli affetti, ma di riconoscere e istituire le strutture fondanti dell’essere umano; a questo fine, l’ancoraggio fisico della paternità in un corpo maschile e della maternità in un corpo femminile costituisce un dato di fatto irriducibile e strutturante da cui non si deve prescindere.
Quello che si rischia di distruggere, introducendo la neutralità del gender, è un complesso sistema simbolico e culturale: “Un sistema di parentela – scrive Lacroix in “In principio la differenza. Omosessualità , matrimonio, adozione” (Milano, Vita e Pensiero, 2006, p.102) - è un’istituzione che attribuisce a ognuno un suo spazio, definendo chi è rispetto a chi. La confusione degli spazi comporta una confusione dell’identità”.
È importante rendersi conto della vera portata di questo cambiamento prima di prendere decisioni legislative su questi problemi, e magari contribuire, anche solo in modo passivo, alla diffusione della cultura del “gender”, ha scritto Lucetta Scaraffia, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, nell’introduzione ad un quaderno che l’Associazione “Scienza e Vita” – “l’associazione che presidia la vita, dal suo sorgere sino al suo termine naturale” – ha dedicato al tema “Identità e genere”.
Del resto, non appare di secondaria importanza considerare il fatto che questa cultura - che, rifiutando l’idea che l’identità sessuale sia iscritta nella natura, nei cromosomi, afferma che ciascuno si costruisce il proprio “genere” fluttuando liberamente tra il maschile e il femminile, transitando per tutte le possibilità intermedie – ha influenzato in maniera pervasiva perfino i documenti delle organizzazioni internazionali.
Il pensiero “gender”: come si sviluppa
A parere di Eugenia Roccella - scrittrice, ricercatrice universitaria, editorialista di “Avvenire”, co-portavoce del “Family Day” - per comprendere come sia accaduto che sui documenti degli organismi internazionali sia comparso il termine “genere”, è necessario richiamarsi al femminismo, in particolare al femminismo sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni ’70.
In una prima fase – attraverso l’apporto di Betty Friedman, Simone de Beauvoir, Shulamith Firestone, teoriche del femminismo e dell’emancipazione della donna – nasce l’idea di un’uguaglianza e di una libertà modellate sul corpo maschile, cioè su un corpo che non genera; si tratta di una svalorizzazione o addirittura di una negazione della differenza sessuale, per assumere come oggetto del desiderio il ruolo pubblico dell’uomo, e come scopo politico l’assoluta parità sessuale e l’emancipazione.
Il pensiero “gender” si sviluppa su questi presupposti: non esiste un’unica differenza sessuale (quella maschio/femmina) , ma tante differenze, legate all’orientamento sessuale, alla razza, alla cultura, alla condizione sociale; il pensiero “gender” si allarga fino a destituire totalmente di significato la dualità maschio/femmina, operando una separazione sempre più netta tra la differenza sessuale biologica e la costruzione dell’identità, sociale e psicologica.
Il fatto che a maschi e femmine venga assegnata un’identità sessuale definita in base ad alcuni caratteri anatomici è, per i sostenitori del “genere”, solo una convenzione, una costruzione culturale, a cui contribuiscono potentemente i condizionamenti messi in atto dalla società e dalla famiglia. Le sfumature possibili, tra maschio e femmina, sono molte, e la dualità dei sessi è frutto dell’imposizione di ruoli e gerarchie prefissate. La differenza maschio/femmina non ha alcun fondamento nella realtà: si tratta solo di un “discorso” connesso alle pratiche del potere e fondato sull’esclusione di chi è diverso. L’identità di genere non può essere stabile, visto che non dipende da fatti biologici, ma è fluida, relazionale, legata ai mutamenti storici, geografici, culturali, ambientali, personali e collettivi.
Questa linea di pensiero conduce inesorabilmente verso la decostruzione di ogni possibile identità femminile, derubricata a una delle mille varianti delle differenze identitarie.
Il caso più spavaldo di radicalismo tecnolibertario – a parere di Eugenia Roccella - è quello di Donna Haraway e del suo “Manifesto cyborg”, uscito negli Usa nel 1991. Il cyborg, secondo la definizione dell’autrice, è “un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, (…) una creatura di un mondo post-genere”. Il corpo mutante del cyborg, ottenuto grazie a innesti tecnologici di ogni tipo, è la leva che scardina l’identità sessuale definita, liberandola per sempre dal condizionamento biologico e culturale: non ci sarà più l’oppressione di un sesso su un altro, perché non ci saranno più né donne, né uomini.
In conclusione, il vocabolo “genere” si presta quantomeno a interpretazioni ambigue, e la sua adozione indiscriminata da parte delle Nazioni Unite e dell’Europa contribuisce alla confusione generale. L’impressione è che da alcuni il termine sia adoperato, in campo internazionale, come una leva per scardinare l’idea tradizionale di famiglia e l’identità sessuale definita (il cosiddetto “paradigma eterosessuale” ). Il concetto di genere appare come un’arma impropria che gli organismi internazionali si illudono di poter maneggiare, mentre tende spontaneamente a sfuggir loro di mano. Una volta sfondato l’argine della differenza biologica, il corpo diventa un’astrazione, qualcosa di artificiale e manipolabile.
La posizione della Chiesa Cattolica
La Chiesa cattolica, che è entrata direttamente in questo dibattito soprattutto con la Conferenza mondiale di Pechino sulla condizione femminile (4-15 settembre 1995), ha ben chiara la diversità di posizioni esistente nell’ambito del pensiero delle donne. In occasione della Conferenza, Giovanni Paolo II scrisse una “Lettera alle donne”. In quel testo, famoso per il richiamo che il Papa fece al “genio della donna”, si affermava, tra l’altro: “Femminilità e mascolinità sono tra loro complementari non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico. È soltanto grazie alla dualità del ‘maschile’ e del ‘femminile’ che l' ‘umano’ si realizza appieno”.
Questo testo - unito a quella indirizzato nel 2004 ai Vescovi “sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo”, dall’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Card. Joseph Ratzinger, l’attuale Pontefice Benedetto XVI - delinea una posizione che dialoga con il femminismo della differenza e prende le distanze da quello emancipazionista e dalle teorie del “gender”.
Nel testo firmato dall’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, si legge, tra l’altro: “Per evitare ogni supremazia dell'uno o dell'altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L'oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l'equiparazione dell'omosessualità all'eterosessualità , un modello nuovo di sessualità polimorfa”.
Nel documento, la differenza sessuale è interpretata “come realtà iscritta profondamente nell’uomo e nella donna: la sessualità caratterizza l’uomo e la donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale, improntando ogni loro espressione. Essa non può essere ridotta a puro e insignificante dato biologico, ma è una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano” .
La Chiesa riconosce come, alla base di ogni esperienza umana, ci sia quella di nascere sessuati: questione che nel pensiero della differenza ha un peso fondamentale.
Lo sforzo delle Nazioni Unite: cancellare dai documenti ogni parola sessuata, riferita alla distinzione tra maschile e femminile
Ad ogni appuntamento delle Nazioni Unite sui temi della donna, della procreazione e della sessualità, si discutono ferocemente questioni che ai profani possono apparire come inessenziali modifiche terminologiche, e che invece, se recepite, aprirebbero squarci profondi nella faticosa costruzione di un quadro etico condiviso.
La battaglia delle parole si articola in alcune riconoscibili modalità d’intervento. Basta accennare al fatto che la trasformazione agisce in più direzioni, di cui la più clamorosa e significativa è quella che tende a cancellare ogni parola sessuata, riferita cioè alla distinzione tra maschile e femminile. Il vocabolario adottato deve essere “gender neutral”, quindi non deve contenere, nemmeno implicitamente, la temuta differenza sessuale. I termini “madre” e “padre” sono stati abbandonati in favore di “progetto parentale” o “genitorialità”. Anche il termine “maternità” è bandito dal nuovo linguaggio delle burocrazie internazionali, sia all’Onu che nell’Unione europea, così come il vocabolo “procreazione” . Meglio la definizione “diritti riproduttivi” , dove – come argomenta Eugenia Roccella - il sostantivo “diritto” dovrebbe riscattare la sgradevole piattezza dell’aggettivo, “riproduttivo” , schiacciato sul biologismo; un aggettivo che richiama la riproduzione dell’identico, quindi della specie, e non dell’individuo, il quale, per fortuna, rimane (ancora) dotato della sua fragile irripetibilità .
“Rivoluzione della filiazione”Per la cosiddetta “Agenda di genere”, per la “teoria del gender”, che considera vecchie e discriminatorie le definizioni “sesso maschile” e “sesso femminile”, le madri sono in qualche modo imbarazzanti. Del resto, forse non è un caso che il documento preparatorio della Conferenza dell’Onu di Pechino “non contenesse – come ha scritto O’Leary – un solo programma per donne che sono madri o casalinghe a tempo pieno”. “L’unico modo per salvare il mondo è l’eliminazione della maternità”, ha scritto Jane Flax, un’altra sostenitrice del gender. Oppure, ed è quello che sta avvenendo, l’annegamento della maternità in una miriade di nuove forme legalmente riconosciute che frantumano la filiazione e la attribuiscono, con espedienti giuridici, ai più vari soggetti desideranti.
Quel che sta avvenendo nel mondo, viene chiamato, in un rapporto uscito lo scorso anno di un’organizzazione indipendente americana, la “Commission on Parenthood’s Future”, “rivoluzione della filiazione” (il titolo originale del rapporto è “Revolution in parenthood. The emerging global clash between adult rights and children’s needs”, a cura di Elizabeth Marquardt). Lo studio prende in esame le legislazioni familiari nel mondo, i modi in cui negli ultimi anni sono stati ridisegnati i ruoli genitoriali e segnala “il conflitto mondiale emergente tra i diritti degli adulti e i bisogni dei bambini nelle nuove definizioni dello statuto parentale”.
In particolare, nel rapporto si sottolinea come “il modello che prevede due persone, una madre e un padre, è oggetto di cambiamenti finalizzati ad assicurare il diritto degli adulti alla procreazione, anziché a tutelare il bisogno dei bambini di conoscere la propria madre e il proprio padre, e di essere da essi allevati”.
Un giudice spagnolo di Algeciras ha stabilito che in una coppia lesbica unita in matrimonio ha diritto a essere riconosciuta automaticamente come madre non solo la donna che ha partorito un bambino da fecondazione artificiale, ma anche l’altra, che fino a oggi doveva ricorrere all’adozione.
In Canada, si prevede la sostituzione, nella legislazione federale, del termine “genitore naturale”, con la dizione di “genitore legale”.
In Spagna, nei certificati di nascita si legge “progenitore A” e “progenitore B” e non più padre e madre.
In Massachusetts, nei certificati di nozze, non c’è più scritto “moglie” e “marito” , ma “parte A” e “parte B”.
In Nuova Zelanda, si sta considerando la possibilità, per i nati da donazione di gameti, di una trigenitorialità legale per il padre e la madre committenti e per il donatore.
Un’idea simile è al vaglio in Irlanda, allo scopo di garantire alla donna che affitta l’utero un ruolo materno legalmente riconosciuto, sempre in aggiunta alla madre committente e al padre.

La situazione europea rispetto al matrimonio e alla genitorialità
Sono tre i Paesi europei in cui è possibile celebrare le nozze indifferentemente dal sesso delle persone che intendono sposarsi. L’Olanda, che consente tale possibilità dal 2001. Sulla scia olandese, il Belgio nel 2003 e la Spagna nel 2005. Le nozze civili tra due persone indipendentemente dal loro sesso sono dunque una possibilità molto rara in Europa (quanto al matrimonio religioso, dal 1997 i Vescovi della Chiesa Luterana Danese, Chiesa di Stato, celebrano le nozze tra persone dello stesso sesso).
Diverso è il caso della registrazione di coppie di fatto formate - oltre che da donne e da uomini – da donne e donne, o da uomini e uomini. Il primo paese europeo ad aver previsto una “registrazione di partnership” con valore legale per le coppie gay è stata la Danimarca nel 1989. Da questa data infatti vengono loro riconosciuti gli stessi diritti spettanti alle coppie eterosessuali in materia di alloggi, pensioni, immigrazione, eredità, assicurazioni, benefici sociali, riduzioni delle tasse, sussidi di disoccupazione e via dicendo, prevedendo altresì il pagamento degli alimenti in caso di separazione.
Tra il 1993 e il 1994 sono state quindi la Norvegia e poi la Svezia ad aver riconosciuto alle coppie omosessuali la possibilità di registrare la loro relazione, introducendo anche qui una parità di diritti e di doveri con le coppie eterosessuali. Nel 1996 è la volta dell’Ungheria e dell’Islanda. Contestualmente il paese nordico, primo ordinamento al mondo, ha garantito alle coppie dello stesso sesso il diritto di tutela comune per i bambini nati da precedenti unioni di uno dei partner (l’Ungheria aveva invece escluso espressamente l’adozione). La legge del 13 ottobre 1999 ha quindi introdotto in Francia i pacs (patti civili di solidarietà), una normativa che regolamenta le coppie di fatto, omosessuali o eterosessuali che siano. Registrazioni sono similmente in vigore in Finlandia, Germania, Croazia, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Slovenia e Regno Unito.
A limiti temporali fanno quindi riferimento alcuni ordinamenti; la legge croata richiede che la coppia omosessuale coabiti da almeno 3 anni prima di riconoscerle gli stessi diritti previsti per quelle eterosessuali (compreso il diritto di eredità e l’obbligo di sostegno economico), mentre in Portogallo diritti legali e riduzione delle tasse sono riconosciuti solo agli omosessuali che convivano da più di 2 anni.
Il primo paese europeo ad aver previsto l’adozione per gli omosessuali è stata la Norvegia nel 1993: da quando cioè è stata data alle coppie omosessuali la possibilità di registrare le loro relazioni, si è prevista anche l’adozione. Il modello è stato presto esportato, e oggi possono adottare le coppie omosessuali in Olanda, Inghilterra, Galles, Spagna, Belgio, Scozia, Svezia e Finlandia. C’è però una differenza molto importante tra queste leggi. Mentre le prime cronologicamente emanate prevedono l’adozione solo all’interno dei confini nazionali, il che significa solo dei bambini “autoctoni”, onde evitare conflitti con i paesi degli adottandi (come spiega la legge olandese), recentemente sono state emanate nuove disposizioni che travalicano gli ostacoli geografici. È stata la Svezia il primo paese a permettere alle coppie dello stesso sesso di adottare bambini provenienti da tutto il mondo, possibilità espressamente introdotta nel 2005, modificando la legge che dal 2003 prevedeva per loro solo l’adozione di bambini svedesi.
Altri paesi hanno invece introdotto la cosiddetta “adozione del figliastro”: gli omosessuali possono cioè diventare genitori solo adottando i figli del proprio partner. Così in Islanda, Germania e Danimarca. Anche qui però delle differenze: se in Germania possono essere adottati dal partner i figli nati da precedenti unioni, i figli naturali e quelli nati con inseminazione artificiale, in Danimarca ciò riguarda soltanto i figli nati da precedenti unioni.
“Da tempo – sottolinea Giulia Galeotti, storica e saggista, nel quaderno di “Scienza e Vita” intitolato a “Identità e genere” - gli organi europei hanno una seria preoccupazione: l’esclusione dal matrimonio e dalla facoltà genitoriale per le coppie dello stesso sesso”. I progressi che si auspicano nelle legislazioni nazionali attraverso risoluzioni, raccomandazioni, pronunciamenti, direttive e quant’altro sono così di permettere agli omosessuali di sposarsi e di avere dei figli, o adottandoli o ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita.
Il tipo di riforma legislativa auspicata è ben rappresentato dalle modifiche recentemente introdotte in tre norme del codice civile spagnolo. La vecchia formulazione dell’articolo 44 infatti, quella secondo cui “l’uomo e la donna hanno diritto a contrarre matrimonio” è diventata “qualunque persona ha diritto a contrarre matrimonio”; l’articolo 66 è invece passato da “il marito e la moglie sono eguali nei diritti e nei doveri” a “i coniugi sono eguali nei diritti e nei doveri”; l’articolo 67 infine ha sostituito “il marito e la moglie debbono rispettarsi e aiutarsi reciprocamente” con “i coniugi”, ai quali ora questi stessi doveri sono imposti. Chiaramente, il passaggio è quello da una coppia formata da un maschio e da una femmina, ad una coppia di persone, tout court, uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna; indifferentemente, stessi diritti, doveri, facoltà, potenzialità e aspettative.
La “pressione” esercitata dall’Unione Europea tende a modificare la concezione di famiglia come viene tradizionalmente intesa
Un esempio concreto può aiutare a comprendere il tipo di pressione che la Unione Europea (UE) va esercitando, una pressione che mira a modificare – ricorrendo agli strumenti giuridici di cui l’Unione dispone – la concezione di famiglia così come viene tradizionalmente intesa.
In passato, la Corte di Giustizia ha spesso ribadito che il diritto di movimento è un diritto fondamentale dei cittadini europei a prescindere dalle ragioni per cui il singolo decida e scelga di vivere in un altro Stato rispetto al proprio. Di conseguenza, nel 2001 la Commissione ha voluto sostituire la varietà di norme settoriali esistenti in materia (relative a lavoratori, studenti e via dicendo) con una singola direttiva che indicasse le condizioni in presenza delle quali il cittadino UE potesse spostarsi in un altro stato membro, prendendovi la residenza. I negoziati sono durati più di due anni, un ritardo che si deve anche all’emersione del problema di definire cosa si dovesse intendere per famiglia di un cittadino europeo. Fino ad allora infatti, le norme sulla libertà di movimento dei lavoratori (per fare un esempio) intendevano lo sposo o la sposa del soggetto interessato e i loro figli. Nel caso Reed v. Netherlands (59/85) la partner non sposata di un inglese che lavorava in Olanda aveva rivendicato il suo titolo di residenza nel paese nordico, basando la richiesta sul suo diritto di essere legalmente trattata come la sposa legittima del lavoratore. La Corte aveva però respinto tale lettura con la motivazione che la definizione di moglie si applica solo a chi è legata in legittimo matrimonio. Sulla base di queste indicazioni, molte associazioni nazionali e internazionali di gay, lesbiche, bisessuali e transgender (tra cui la potente “ILGA-Europe, International Lesbian and Gay Association”) hanno fatto grandi pressioni presso la UE perché la definizione di famiglia nella direttiva in esame fosse “inclusiva”, una pressione che però – a loro avviso – non sarebbe andata a buon fine giacché, in barba al formale sostegno ricevuto dal Parlamento, il testo finale della direttiva sarebbe stato un tremebondo compromesso.
Di questa direttiva del 2004 sulla libertà di movimento delle persone nel territorio dell’Unione, per evidenziare le pressioni che si intendono operare, interessano in particolare gli articoli che definiscono i membri della famiglia legittimati ad accompagnare un cittadino UE in un altro stato membro.
Quanto alla definizione dei partner sposati, se l’articolo 2(2) spiega che “membri della famiglia significa (…) la sposa o lo sposo”, il preambolo della direttiva afferma con chiarezza che “gli Stati membri dovrebbero applicare la direttiva senza discriminazione quanto ai suoi beneficiari in relazione a (…) l’orientamento sessuale”. Ora è vero che il preambolo non è legalmente vincolante per gli ordinamenti, ma le indicazioni in esso contenute potrebbero venire utilizzate dalla Corte di Giustizia nel guidare l’interpretazione della direttiva. Sarebbe infatti molto facile sostenere che intendere la dizione di sposo o di sposa come riferita solo alle coppie eterosessuali rappresenterebbe una chiara discriminazione in relazione alle scelte sessuali del singolo, specie in relazione ai tre paesi che prevedono il matrimonio omosessuale. Se infatti finora i pronunciamenti della Corte sono stati simili a quello di D and Sweden v. Council (122/99) in cui i giudici hanno affermato che stando alla definizione “generalmente accettata dagli Stati membri” il termine matrimonio include le nozze tra persone di sesso diverso, si tratta però di decisioni che risalgono a quando nessuno Stato membro ammetteva i matrimoni tra omosessuali.
Passando ai partner di fatto, la direttiva riconosce un diritto di movimento anche per queste coppie. L’articolo 2(2)(b) definisce il membro della famiglia come “il partner con cui il cittadino UE ha concluso un accordo in base alla legislazione interna dello Stato membro, se lo Stato ospitante parifica coppie di fatto e matrimonio”. Questo significa che il partner di una coppia di fatto può avvalersi del diritto di movimento se ha concluso un patto di riconoscimento in uno Stato membro e se il paese in cui ci si vuole trasferire parifica nella sua legislazione coppie di fatto e matrimoni. Un problema non marginale risulta così essere quello di capire se vi sia e cosa preveda la registrazione del legame nel singolo paese giacché le legislazioni nazionali differiscono non poco in materia. Se nessun problema si pone laddove ci si muova tra Danimarca, Gran Bretagna e Spagna, più complesse possono essere le cose già solo se si voglia andare in Francia, la cui legislazione non parifica tout court pacs e matrimonio (ad esempio, la coppia del pacs non può adottare).
Al di là di ciò che vige nel singolo ordinamento, alla luce del fatto che la direttiva parli del dovere dello Stato di facilitare l’ingresso del partner riconosciuto ma non sposato, anche negli ordinamenti che non prevedono un riconoscimento per le coppie di fatto sarà più difficile negargli totalmente l’ingresso. Lo Stato che riceve la domanda della coppia dovrà dunque esaminarla con estrema attenzione – anche in virtù del testo della direttiva che parla di una “relazione durevole” e “debitamente attestata” – e dovrà quindi fornire una giustificazione strutturata e argomentata in caso di rifiuto.
Il fatto che in base alla direttiva il diritto di movimento si applichi anche ai discendenti pone un altro problema non marginale: lo Stato ospitante deve riconoscere il diritto del figlio di una coppia di omosessuali laddove la sua legislazione interna non preveda questa forma di genitorialità ? Al di là della posizione del minore che va evidentemente difesa, lo scoglio concettuale è ragguardevole.
Immaginiamo il caso di una coppia di sposi omosessuali spagnoli che si trasferisca in Grecia per lavoro. E immaginiamo che qui la legge nazionale – che non riconosce tali unioni – preveda un regime fiscale vantaggioso per le coppie sposate rispetto alle non sposate. Ebbene, giacché l’articolo 24(1) della direttiva stabilisce che i cittadini UE devono ricevere lo stesso trattamento riconosciuto ai cittadini dello Stato ospitante, il nodo da sciogliere è se la legge greca si applichi anche alla coppia omosessuale legalmente maritatasi in Spagna.
A parere di Giulia Galeotti, in queste spinte e sollecitazioni della UE non è difficile ravvisare una forzatura del diritto comunitario. In base ad esso infatti la famiglia e la sua definizione giuridica sono temi e questioni proprie del singolo Stato membro.
La discrasia tra l’atteggiamento della UE e il sentire della maggioranza degli Stati aderenti è emersa con chiarezza in relazione alla sottoscrizione della “Doha Declaration”. Nel febbraio 2005 infatti, l’Olanda, all’epoca presidente di turno, ha schierato l’Unione contro una risoluzione ONU in difesa della famiglia, la “Doha Declaration” appunto, presentata dal governo del Qatar e approvata nel dicembre 2004 dall’Assemblea Generale per consensus. Il testo, emanato in occasione dell’anno internazione della famiglia, ribadiva i principi espressi nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che prevedeva un nucleo domestico con una coppia e, conseguentemente, dei genitori di sesso diverso. Ebbene, questa impostazione sollevò due proteste ufficiali avanzate da olandesi a nome dell’“European Union Group”, che include gli Stati associati. L’una era di Peter-Derrick Hof, il quale sosteneva che, essendo le famiglie e le strutture familiari cambiate nel corso degli anni, si rendeva necessaria la dissociazione della UE da un testo e da una visione ormai superati. L’altra era invece di Dirk Jan Van Den Berg, secondo il quale gli Stati non possono più riconoscere quel vecchio modello che, alla luce dei cambiamenti occorsi, introduce inaccettabili discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Il risultato è stato il ritiro dell’adesione UE alla dichiarazione in esame. Alla luce dell’analisi condotta sulle legislazioni vigenti in quegli Stati membri (che non sono la totalità) che ammettono delle aperture in tema, risulta evidente come la presa di posizione olandese non trovasse effettivo riscontro.
“Quest’ottica paritaria tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali di cui si fa portavoce l’Unione – sostiene la Galeotti - non è infatti così diffusa, o lo è con una serie di distinguo. Ad esempio, nonostante quello che si vuole sostenere, la possibilità di adottare il figlio del proprio partner omosessuale è un caso particolare, e non significa asserire il principio generale per cui la genitorialità può essere costruita a prescindere dal sesso dei genitori”.

La Chiesa vista come “il nemico”In un testo presentato da Mons. Jacques Arenes, il 4 novembre 2006, in occasione dell’Assemblea della Conferenza Episcopale Francese, tra l’altro si legge: “La gender theory si diffonde sempre più nei mass media e nel dibattito pubblico a causa della visione politica della sessualità e in relazione all’attivismo gay. In questa dimensione militante, la Chiesa, ma anche alcuni approcci antropologici come quelli della psicoanalisi o dello strutturalismo, appaiono come ‘il nemico’, guardiani di tradizioni limitanti”.
Monsignor Arenes spiega che per il mondo cristiano, ma soprattutto per quanti considerino la differenza un vettore di senso e di umanizzazione, appare urgente riflettere su un approccio del maschile e del femminile depurato delle antiche gerarchie e aggiunge che “la ‘norma’ eterosessuale non è solo statistica o generata dall’oppressione. È l’espressione collettiva di singolarità che si realizzano nell’alterità che è loro data”. Invita a considerare l’omosessualità un dramma, un dramma che non è semplicemente il risultato dell’omofobia generale, ma di una difficoltà e di una sofferenza esistenziale e psichica e “a riabilitare una forma di memoria in cui i dati sono prodotti da un mondo in cui la differenza dei sessi aveva, e ha ancora, un senso, separandoli da una finalità gerarchica”. Monsignor Arenes ritiene che la riflessione sulla mascolinità sia fondamentale: “nella nostra cultura – afferma Arenes - il maschile è decostruito, pertanto deve essere ridefinito. Cos’è il soggetto maschile nel suo rapporto con il tempo, le donne, gli altri uomini, l’ereditarietà , la trascendenza? Che ne è di un soggetto maschile in una cultura in cui l’uguaglianza tra uomini e donne non è più da rimettere in discussione? Può nell’esistenza radicarsi qualche cosa di diverso da un patto di sradicamento del femminile o una posizione depressa di fronte all’evidenza del femminile?”.
L’ascolto, l’accoglienza, la valorizzazione delle relazioni per quanto riguarda il femminile non sono necessariamente passività o sottomissione, secondo Monsignor Arenes, che sostiene: “La tensione al di fuori di sé, la fame di spazio, l’amore per il linguaggio sociale per quanto riguarda il maschile non sono soltanto l’espressione di una verticalità schiacciante, e non sono incompatibili con una forma d’accoglienza e d’ascolto dell’altro. Queste polarità, maschili e femminili, non escludono gli avvicinamenti, e nemmeno le incursioni nel territorio dell’altro. Sono flessibili, e generano differenziazioni non riduttive e limitanti. Sono fonte di vita”. Monsignor Arenes si chiede: se oscillassimo in un mondo in cui esistesse solo l’autodefinizione per ciascuno dei percorsi singolari del genere, che ne sarebbe del rapporto con la sessuazione? “Da un lato – sostiene - può svilupparsi sempre di più la ricerca travolgente dei piaceri, in una perdita irrimediabile dell’incontro; dall’altro, di fronte al modello eterosessuale, si può arrivare ad un inasprimento di quella che è stata definita la guerra dei sessi. In quest’ultimo caso, che spesso si verifica nelle separazioni, il mondo dell’altro sesso diventa globalmente oggetto di odio o di scherno”.
Alla fine testo, Monsignor Arenes prende in considerazione un’altra possibilità suggestiva: “reinventare un gioco vivente della differenza, tenendo conto della libertà attuale, differenza che non sarebbe più percepita come imposta da una verticalità istituzionale, ma dovrebbe venire rinnovata come oggetto da ricreare da parte delle donne e degli uomini. Questo gioco dinamico della differenza permetterebbe senza dubbio di ritrovare ciò che oggi, in parte, è andato perduto”.

Intervista a Lucetta Scaraffia, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, Vice-Presidente dell’Associazione Scienza e Vita, membro del Comitato Italiano di Bioetica
Può spiegare in che modo la teoria del "gender" tende a trasformare radicalmente - come Lei ha affermato - la cultura occidentale?
Perché per la prima volta una tradizione culturale sostiene che l’umanità è un insieme di individui indifferenziati, invece di accettare la realtà, cioè che è costituita da due identità sessuali diverse, e proprio per questo fertili. Non c’è mai stata nessuna civiltà che ha negato questa evidenza, e negarla significa costruire una società sulla menzogna, significa dire che non c’è bisogno di questa differenza per procreare, e quindi per prolungare nel tempo un gruppo umano.
E' d'accordo con chi ritiene che il termine "genere", adottato in maniera indiscriminata nei documenti delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea, sia adoperato come una leva per scardinare l'idea tradizionale di famiglia e l'identità sessuale definita?
Sono d’accordo. Anche se spesso chi usa il termine “gender” lo fa senza sapere l’ideologia ad esso sottesa, ma solo perché pensa che è più elegante di differenza sessuale. Adottando “gender” si diffonde l’idea che non ci siano due identità sessuali ma una situazione di indeterminatezza, cosicché ciascuno può decidere a quale sesso appartenere. L’idea è che l’identità sessuale sia completamente svincolata dalla realtà biologica del corpo, ma debba corrispondere solo al desiderio individuale.
Perché la questione di "nascere sessuati" ha grande rilevanza nel "pensiero della differenza"? Che cos'è il "pensiero della differenza"?
Il pensiero della differenza è quello che contraddistingue una corrente femminista che – invece di cercare di uniformare le donne al modello maschile – chiede che venga valorizzata la loro differenza. Il contrario del “gender”, quindi.
Dale O'Leary afferma che la ragion d'essere della teoria del "gender", è essenzialmente sul piano politico, per la sua utilizzabilità ai fini della totale normalizzazione della sessualità omosessuale. E' d'accordo?
Non del tutto. La teoria del “gender” è nata come funzionale al movimento femminista: se non c’è differenza sessuale, se non ci sono diversità fra gli esseri umani, tutti sono uguali, quindi non ci sono ragioni per negare alle donne l’emancipazione. E’ stato come se, invece di chiedere uguali diritti nella diversità si volesse negare la diversità per fondare l’uguaglianza dei diritti. Dopo le donne, certo, sono venuti gli omosessuali, che avevano il problema di una identità svalorizzata da cui liberarsi. E, attraverso il “gender”, ci sono riusciti.
Se la teoria del "gender" introduce un cambiamento così profondo, perchè, a Suo avviso, se ne parla così poco, almeno rispetto alla sua finalità, nel dibattito politico e culturale?
Perché molti non sanno, non sono consapevoli, del pericolo che comporta. Ma anche perché combattere la teoria del gender significa essere considerati ignoranti, fuori dal mondo, ottusi conservatori, e molti non hanno voglia di pagare questo prezzo per dire la verità.
Esiste, a Suo avviso, la possibilità di arginare gli effetti che appaiono così devastanti della teoria del "gender"?
Dicendo la verità, spiegando sempre cosa significa, e denunciando la menzogna che è nascosta dietro alle richieste degli omosessuali di sposarsi, avere figli, ecc. Non si tratta di matrimonio, perché il matrimonio c’è solo per le coppie di sesso diverso – le uniche potenzialmente fertili - e non ci sono figli di due persone dello stesso sesso: al massimo, di una delle due. L’idea di famiglia che viene imposta a questi bambini è sbagliata, è falsa. E vivere nella falsità li danneggia, inibisce il loro sviluppo psichico dalla prima infanzia.
(Dossier a cura di D.Q. – Agenzia Fides 24/11/2007)


UN IMPRESSIONANTE DETTAGLIO… 09.12.2007
Se si legge con attenzione l’enciclica … C’è un personaggio inquietante e apocalittico che Benedetto XVI evoca, a sorpresa, nella recente enciclica “Spe salvi”: l’Anticristo. Per la verità il papa non cita direttamente questo oscuro soggetto che è drammaticamente preannunciato fin dal Nuovo Testamento, ma lo chiama in causa attraverso una citazione di Immanuel Kant che fa una certa impressione rileggere in questi tempi in cui l’Europa sembra in guerra contro la Chiesa, spesso strumentalizzando alcuni gruppi sociali (come gli immigrati musulmani o le donne o gli omosessuali) per sradicare le radici cristiane e per limitare la libertà dei cattolici e della Chiesa. Scriveva Kant: “Se il cristianesimo un giorno dovesse arrivare a non essere più degno di amore (…) allora il pensiero dominante degli uomini dovrebbe diventare quello di un rifiuto e di un’opposizione contro di esso; e l’anticristo (…) inaugurerebbe il suo, pur breve, regime (fondato presumibilmente sulla paura e sull’egoismo). In seguito, però, poiché il cristianesimo, pur essendo stato destinato ad essere la religione universale, di fatto non sarebbe stato aiutato dal destino a diventarlo, potrebbe verificarsi, sotto l’aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose”.

Il Papa sottolinea proprio questa possibilità apocalititca che viene affacciata da Kant secondo cui l’abbandono del cristianesimo e la guerra al cristianesimo potrebbero portare a una fine non naturale, “perversa”, dell’umanità, a una sorta di autodistruzione planetaria, sia in senso morale che in senso materiale (e un tale orrore, peraltro, è oggi nelle possibilità teniche dell’umanità). Essendo l’enciclica un testo molto rigoroso e ponderato, è da escludere che Benedetto XVI abbia evocato l’Anticristo e la “fine dell’umanità” a caso.

Il suo pensiero peraltro è del tutto lontano da suggestioni millenaristiche, c’è dunque da credere che se richiama questi temi scorga veramente nel nostro tempo un confronto drammatico e mortale fra Bene e Male. Oltretutto già in un’altra recente occasione è stata evocata e ben meditata, in Vaticano, la figura dell’Anticristo. E’ accaduto quest’anno, il 27 febbraio, negli esercizi spirituali predicati al Papa dal cardinale Biffi (immagino che i temi siano stati concordati): si è meditato proprio sulla profezia dell’Anticristo (vedi “Le cose di lassù”, ed. Cantagalli). Biffi ha citato infatti il “Racconto dell’Anticristo” di Vladimir Solovev scritto nella primavera 1900, come avvertimento al XX secolo che era agli albori. In quelle pagine il personaggio apocalittico veniva eletto “Presidente degli Stati Uniti d’Europa” e poi acclamato imperatore romano.

“Dove l’esposizione di Solovev si dimostra particolarmente originale e sorprendente e merita più approfondita riflessione” spiega Biffi “è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista”. Praticamente un campione perfetto del politically correct. Ecco le parole di Solovev: “Il nuovo padrone della terra era anzitutto un filantropo, pieno di compassione, non solo amico degli uomini, ma anche amico degli animali. Personalmente era vegetariano… Era un convinto spiritualista”, credeva nel bene e perfino in Dio, “ma non amava che se stesso”.

In sostanza questa figura – l’antagonista di Gesù Cristo – si presenterebbe, secondo un’antica tradizione, con gli aspetti più seducenti, una contraffazione dei “valori cristiani”, in realtà rovesciati contro Gesù Cristo, quelli che oggi carezzano il senso comune. L’Anticristo di questo racconto infatti tuona: “Popoli della terra! Io vi ho promesso la pace e io ve l’ho data. Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace”. Parole in cui molti sentono echeggiare quell’accusa al cristianesimo (che sarebbe causa di intolleranza e conflitti) oggi tanto diffusa. Tuttavia si sbaglierebbe a ritenere che il Papa stigmatizzi solo e semplicemente l’anticristianesimo dilagante a causa del laicismo, sebbene così aggressivo e pericoloso. C’è molto di più nei suoi pensieri. Proprio Ratzinger, da cardinale, in una memorabile conferenza a New York, il 27 gennaio 1988, davanti a un uditorio ecumenico, soprattutto di teologi, citò lo stesso racconto di Solovev esordendo così: “Nel ‘Racconto dell’Anticristo’ di Vladimir Solovev, il nemico escatologico del Redentore raccomandava se stesso ai credenti, tra le altre cose per il fatto di aver conseguito il dottorato in teologia a Tubinga e di aver scritto un lavoro esegetico che era stato riconosciuto come pionieristico in quel campo. L’Anticristo un famoso esegeta!”.

Questo discorso fu ripetuto dal cardinale anche a Roma, davanti a una platea di teologi cattolici. Molti, in quelle platee, trovarono sicuramente “provocatoria” questa citazione, sia pure espressa con la pacatezza tipica di Ratzinger che esorta tutti, sempre, a riflettere. Essa però esprime la consapevolezza dell’attuale pontefice – e prima di lui di Paolo VI e di Giovanni Paolo II – che il pericolo non viene solo dall’esterno, da una cultura avversa e da forze anticristiane, ma anche dall’interno, da “un pensiero non cattolico” che dilaga nella stessa cristianità, come denunciò con parole drammatiche Paolo VI quando arrivò a parlare del “fumo di Satana” dentro il tempio di Dio.

Che nella Chiesa, specialmente negli ultimi pontefici, sia diffusa la sensazione di vivere tempi apocalittici (non necessariamente “la fine dei tempi”, ma forse i tempi dell’Anticristo) appare evidente da tanti loro pronunciamenti. Inoltre fa riflettere, anche in Vaticano, la gran quantità di “avvertimenti” soprannaturali, che vanno in tal senso, contenuti in “rivelazioni private” a santi e mistici e in apparizioni di quesi decenni: in qualcuna di esse si afferma addirittura che l’Anticristo sarebbe un ecclesiastico di questo tempo (un “pastore idolo” che sconvolgerà la vita della Chiesa), ma è un’immagine che molti interpretano come riferita a un “pensiero non cattolico” dentro la Chiesa, fenomeno che in effetti è ben disastrosamente visibile. Dà un quadro ragionato e illuminante di tutto questo padre Livio Fanzaga nel volume, appena uscito, “Profezie sull’Anticristo” (Sugarco). Un quadro prezioso per comprendere il senso e la preoccupazione di tanti interventi pontifici. Angosciati sia per le sorti della fede che per le sorti dell’umanità.

La particolare attenzione della Santa Sede all’Italia è dovuta al fatto che qui il peso dei cattolici ha dato – come ha sottolineato il Papa stesso - il segnale di una inversione di tendenza rispetto alle devastazioni anticristiane e nichiliste del resto d’Europa. La Chiesa cioè scommette sull’Italia per riportare l’Europa alle sue radici cristiane e alla fede. Per questo allarma fortemente che in questi giorni, nel Palazzo della politica, si tenti di soppiatto – con la connivenza di alcuni cattolici – di reintrodurre un “reato di opinione riferito alla tendenza sessuale” (come lo definisce “Avvenire”) che apre la strada alla “demoralizzazione” del Paese e domani potrebbe fortemente minacciare la stessa libertà della Chiesa di insegnare la sua morale. Oltretutto tale limitazione alla libertà di pensiero e di parola viene pretesa in nome di un’ideologia libertaria, paradosso che fa riflettere amaramente oltretevere, dove questi scricchiolii sono percepiti come pericolosi avvertimenti prima di un possibile crollo.

Antonio Socci

Da “Libero, 8 dicembre 2007



A PROPOSITO DI TENDENZE SESSUALI - AL POTERE UN’INCONTENIBILE LEGGEREZZA
Avvenire, 8.12.2007

Tre allarmi. Sono quelli che risuo­nano con forza dopo la votazio­ne con cui giovedì sera il Senato ha varato, con risicata e avventurosa maggioranza, un’ambigua norma de­finita «anti-omofobia» e che è, inve­ce, potenzialmente orientata ad av­viare la manomissione di principi car­dine dell’ordinamento italiano. Su questi rischi è opportuno fissare un attimo l’attenzione.
Il primo allarme scaturisce dal tentati­vo pervicacemente condotto di equi­parare le tendenze sessuali alle diffe­renze naturali, ad esempio di sesso e di etnia, elevando le prime ad una 'qua­lità' antropologica che non hanno e non possono avere, e ciò nell’interes­se di tutti, in primo luogo delle perso­ne omosessuali. C’è qui una sorta di 'fissazione' in base alla quale la per­sonalità di ciascuno sarebbe determi­nata non solo e non tanto da quello che egli «è», ma piuttosto dalle pulsioni ses­suali che eventualmente decide di as­secondare. S’insiste sulla presunta ne­cessità di porre un freno all’«omofo­bia », ma si arriva a sospettare persino della difesa del matrimonio monoga­mico quasi che fosse in se stesso un de­litto di lesa maestà.
Il secondo allarme è di natura politi­co- giuridica. Attraverso un provvedi­mento di carattere straordinario e o­rientato a fronteggiare una precisa e contingente emergenza (il decreto e­spulsioni), si è scelto di introdurre un dispositivo di portata generale e di ca­rattere permanente. Le conseguenze di questa mossa, che è difficile non considerare temeraria, sono purtrop­po prevedibili: da un lato si apre la via per interventi normativi nei contesti più disparati, dall’altro si spalancano spazi enormi alle interpretazioni giu­risprudenziali volte a realizzare ana­loghi effetti. Una scelta doppiamente pesante. Pesante in sé, e pesante per l’intento surrettizio che sta animan­do il legislatore.
Il terzo allarme viene fatto scattare dal solito, incongruo, 'richiamo all’Euro­pa'. Un rito mediocre e fastidioso al quale ricorrono quanti ritengono di po­ter usare previsioni e regole elaborate dalla Ue come una leva per rivoltare a proprio piacimento l’Italia sul piano legislativo. Nel caso specifico, ci si è ri­chiamati a una possibilità evocata dal Trattato di Amsterdam, che però fa ri­ferimento agli organi dell’Unione, e prevede precisi limiti di competenza. Insomma, un trucco mortificante, che prima o poi finirà per ritorcersi contro chi lo tenta a ripetizione.
Il danno è, dunque, grave. E la pro­messa governativa di porvi rimedio non riesce a rassicurare chi sa come vanno le cose nelle aule parlamentari. Soprattutto in fasi, come l’attuale, di febbrile riassestamento del quadro po­litico. Ma ci sarà poco da attendere: i non molti giorni che ci separano dalla fine dell’anno testimonieranno se, e come, avrà seguito concreto quell’im­pegno formale. Per intanto, ci misu­riamo coi fatti. E i fatti hanno un’in­dubbia eloquenza. Il governo di cen­trosinistra - già perché la paternità del provvedimento è precisamente sua ­ha messo sul tavolo il varo di una brut­ta e rischiosa norma. Lo ha fatto dopo aver dato «parere favorevole» all’e­mendamento che inopinatamente la introduceva in un dispositivo nato con ben altre motivazioni. Quindi ha op­zionato il ricorso al più potente dei mezzi di cui un governo dispone: la questione di fiducia. Una sequenza mozzafiato di decisioni. Accompagna­ta da un evento di cui è necessario te­ner memoria: i parlamentari di ispira­zione cattolica eletti nel centrosinistra, con l’eccezione della senatrice Binet­ti, hanno in partenza rinunciato a com­battere la battaglia per evitare quell’e­sito infausto, benché ci fossero le con­dizioni per far prevalere una posizione più ragionevole. Dispiace dir­lo, ma per il Partito Democra­tico non è una bella partenza.