Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di San Paolino di Nola - Intervento all'Udienza generale
2) TRA L’EMBRIONE E MIA FIGLIA SOLO UNA PICCOLA DIFFERENZA
3) Sette anni per un massacro. Ma questa è giustizia seria?
4) Se la retorica della laicità cela solo pensieri inadeguati
5) Melazzini: «Una terapia della dignità»
6) Brague: «Ai valori preferisco i beni»
7) Benedetto vara una nuova forza di peacekeeping, la famiglia
8) La Chiesa: liberi di convertire i non cattolici
Benedetto XVI presenta la figura di San Paolino di Nola - Intervento all'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 12 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Paolino di Nola.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Il Padre della Chiesa a cui oggi volgiamo l’attenzione è san Paolino di Nola. Contemporaneo di sant’Agostino, al quale fu legato da viva amicizia, Paolino esercitò il suo ministero in Campania, a Nola, dove fu monaco, poi presbitero e Vescovo. Era però originario dell’Aquitania, nel sud della Francia, e precisamente di Bordeaux, dove era nato da famiglia altolocata. Qui ricevette una fine educazione letteraria, avendo come maestro il poeta Ausonio. Dalla sua terra si allontanò una prima volta per seguire la sua precoce carriera politica, che lo vide assurgere, ancora in giovane età, al ruolo di governatore della Campania. In questa carica pubblica fece ammirare le sue doti di saggezza e di mitezza. Fu in questo periodo che la grazia fece germogliare nel suo cuore il seme della conversione. Lo stimolo venne dalla fede semplice e intensa con cui il popolo onorava la tomba di un Santo, il martire Felice, nel Santuario dell’attuale Cimitile. Come responsabile della cosa pubblica, Paolino si interessò a questo Santuario e fece costruire un ospizio per i poveri e una strada per rendere più agevole l’accesso ai tanti pellegrini.
Mentre si adoperava per costruire la città terrena, egli andava scoprendo la strada verso la città celeste. L’incontro con Cristo fu il punto d’arrivo di un cammino laborioso, seminato di prove. Circostanze dolorose, a partire dal venir meno del favore dell’autorità politica, gli fecero toccare con mano la caducità delle cose. Una volta arrivato alla fede scriverà: "L’uomo senza Cristo è polvere ed ombra" (Carme X, 289). Desideroso di gettar luce sul senso dell’esistenza, si recò a Milano per porsi alla scuola di Ambrogio. Completò poi la formazione cristiana nella sua terra natale, ove ricevette il battesimo per le mani del Vescovo Delfino, di Bordeaux. Nel suo percorso di fede si colloca anche il matrimonio. Sposò infatti Terasia, una pia nobildonna di Barcellona, dalla quale ebbe un figlio. Avrebbe continuato a vivere da buon laico cristiano, se la morte del bimbo dopo pochi giorni non fosse intervenuta a scuoterlo, mostrandogli che altro era il disegno di Dio sulla sua vita. Si sentì in effetti chiamato a votarsi a Cristo in una rigorosa vita ascetica.
In pieno accordo con la moglie Terasia, vendette i suoi beni a vantaggio dei poveri e, insieme con lei, lasciò l’Aquitania per Nola, dove i due coniugi presero dimora accanto alla Basilica del protettore San Felice, vivendo ormai in casta fraternità, secondo una forma di vita alla quale anche altri si aggregarono. Il ritmo comunitario era tipicamente monastico, ma Paolino, che a Barcellona era stato ordinato presbitero, prese ad impegnarsi pure nel ministero sacerdotale a favore dei pellegrini. Ciò gli conciliò la simpatia e la fiducia della comunità cristiana, che, alla morte del Vescovo, verso il 409, volle sceglierlo come successore sulla cattedra di Nola. La sua azione pastorale si intensificò, caratterizzandosi per un’attenzione particolare verso i poveri. Lasciò l’immagine di un autentico Pastore della carità, come lo descrisse san Gregorio Magno nel capitolo III dei suoi Dialoghi, dove Paolino è scolpito nel gesto eroico di offrirsi prigioniero al posto del figlio di una vedova. L’episodio è storicamente discusso, ma rimane la figura di un Vescovo dal cuore grande, che seppe stare vicino al suo popolo nelle tristi contingenze delle invasioni barbariche.
La conversione di Paolino impressionò i contemporanei. Il suo maestro Ausonio, un poeta pagano, si sentì "tradito", e gli indirizzò parole aspre, rimproverandogli da un lato il "disprezzo", giudicato dissennato, dei beni materiali, dall’altro l’abbandono della vocazione di letterato. Paolino replicò che il suo donare ai poveri non significava disprezzo per i beni terreni, ma semmai una loro valorizzazione per il fine più alto della carità. Quanto agli impegni letterari, ciò da cui Paolino aveva preso congedo non era il talento poetico, che avrebbe continuato a coltivare, ma i moduli poetici ispirati alla mitologia e agli ideali pagani. Una nuova estetica governava ormai la sua sensibilità: era la bellezza del Dio incarnato, crocifisso e risorto, di cui egli si faceva adesso cantore. Non aveva lasciato, in realtà, la poesia, ma attingeva ormai dal Vangelo la sua ispirazione, come egli dice in questo verso: "Per me l’unica arte è la fede, e Cristo la mia poesia" ("At nobis ars una fides, et musica Christus": Carme XX, 32).
I suoi carmi sono canti di fede e di amore, nei quali la storia quotidiana dei piccoli e grandi eventi è colta come storia di salvezza, come storia di Dio con noi. Molti di questi componimenti, i cosiddetti "Carmi natalizi", sono legati all’annuale festa del martire Felice, che egli aveva eletto quale celeste Patrono. Ricordando san Felice, egli intendeva glorificare Cristo stesso, convinto com’era che l’intercessione del Santo gli avesse ottenuto la grazia della conversione: "Nella tua luce, gioioso, ho amato Cristo" (Carme XXI, 373). Questo stesso concetto egli volle esprimere ampliando lo spazio del Santuario con una nuova basilica, che fece decorare in modo che i dipinti, illustrati da opportune didascalie, costituissero per i pellegrini una catechesi visiva. Così egli spiegava il suo progetto in un Carme dedicato a un altro grande catecheta, san Niceta di Remesiana, mentre lo accompagnava nella visita alle sue Basiliche: "Ora voglio che tu contempli le pitture che si snodano in lunga serie sulle pareti dei portici dipinti… A noi è sembrata opera utile rappresentare con la pittura argomenti sacri in tutta la casa di Felice, nella speranza che, alla vista di queste immagini, la figura dipinta susciti l’interesse delle menti attonite dei contadini" (Carme XXVII, vv. 511.580-583). Ancora oggi si possono ammirare i resti di queste realizzazioni, che collocano a buon diritto il Santo nolano tra le figure di riferimento dell’archeologia cristiana.
Nell’asceterio di Cimitile la vita scorreva nella povertà, nella preghiera e tutta immersa nella "lectio divina". La Scrittura letta, meditata, assimilata, era la luce sotto il cui raggio il Santo nolano scrutava la sua anima nella tensione verso la perfezione. A chi rimaneva ammirato della decisione da lui presa di abbandonare i beni materiali, egli ricordava che tale gesto era ben lontano dal rappresentare già la piena conversione: "L’abbandono o la vendita dei beni temporali posseduti in questo mondo non costituisce il compimento, ma soltanto l’inizio della corsa nello stadio; non è, per così dire, il traguardo, ma solo la partenza. L’atleta infatti non vince allorché si spoglia, perché egli depone le sue vesti proprio per incominciare a lottare, mentre è degno di essere coronato vincitore solo dopo che avrà combattuto a dovere" (cfr Ep. XXIV, 7 a Sulpicio Severo).
Accanto all’ascesi e alla Parola di Dio, la carità: nella comunità monastica i poveri erano di casa. Ad essi Paolino non si limitava a fare l’elemosina: li accoglieva come fossero Cristo stesso. Aveva riservato per loro un reparto del monastero e, così facendo, gli sembrava non tanto di dare, ma di ricevere, nello scambio di doni tra l’accoglienza offerta e la gratitudine orante degli assistiti. Chiamava i poveri suoi "patroni" (cfr Ep. XIII,11 a Pammachio) e, osservando che erano alloggiati al piano inferiore, amava dire che la loro preghiera faceva da fondamento alla sua casa cfr Carme XXI, 393-394).
San Paolino non scrisse trattati di teologia, ma i suoi carmi e il denso epistolario sono ricchi di una teologia vissuta, intrisa di Parola di Dio, costantemente scrutata come luce per la vita. In particolare, emerge il senso della Chiesa come mistero di unità. La comunione era da lui vissuta soprattutto attraverso una spiccata pratica dell’amicizia spirituale. In questa Paolino fu un vero maestro, facendo della sua vita un crocevia di spiriti eletti: da Martino di Tours a Girolamo, da Ambrogio ad Agostino, da Delfino di Bordeaux a Niceta di Remesiana, da Vittricio di Rouen a Rufino di Aquileia, da Pammachio a Sulpicio Severo, e a tanti altri ancora, più o meno noti. Nascono in questo clima le intense pagine scritte ad Agostino. Al di là dei contenuti delle singole lettere, impressiona il calore con cui il Santo nolano canta l’amicizia stessa, quale manifestazione dell’unico corpo di Cristo animato dallo Spirito Santo. Ecco un brano significativo, agli inizi della corrispondenza tra i due amici: "Non c’è da meravigliarsi se noi, pur lontani, siamo presenti l’uno all’altro e senza esserci conosciuti ci conosciamo, poiché siamo membra di un solo corpo, abbiamo un unico capo, siamo inondati da un’unica grazia, viviamo di un solo pane, camminiamo su un’unica strada, abitiamo nella medesima casa" (Ep. 6, 2). Come si vede, una bellissima descrizione di che cosa significhi essere cristiani, essere Corpo di Cristo, vivere nella comunione della Chiesa. La teologia del nostro tempo ha trovato proprio nel concetto di comunione la chiave di approccio al mistero della Chiesa. La testimonianza di san Paolino di Nola ci aiuta a sentire la Chiesa, quale ce la presenta il Concilio Vaticano II, come sacramento dell’intima unione con Dio e così dell’unità di tutti noi e infine di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1). In questa prospettiva auguro a tutti voi un buon tempo di Avvento.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana: grazie per la vostra presenza. In particolare, saluto i Militari del 6° Reggimento Genio Pionieri di Roma, e auguro a ciascuno di aderire sempre più a Cristo e al suo Vangelo. Saluto, poi, i rappresentanti della Federazione Italiana Panificatori e li ringrazio per il gradito dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa: grazie di cuore.
Saluto, infine, i, giovani, i malati e gli sposi novelli. A voi, cari giovani, auguro di disporre i vostri cuori ad accogliere Gesù, che ci salva con la potenza del suo amore. A voi, cari malati, che nella vostra malattia sperimentate ancor più il peso della croce, le prossime feste natalizie apportino serenità e conforto. E voi, cari sposi novelli, che da poco tempo avete formato la vostra famiglia, crescete sempre più in quell'amore che Gesù nel suo Natale è venuto a donarci.
[© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana]
TRA L’EMBRIONE E MIA FIGLIA SOLO UNA PICCOLA DIFFERENZA
Avvenire, 13.12.2007
EUGENIA ROCCELLA
Mentre nel mondo la scoperta delle nuove cellule staminali 'pluripotenti indotte', ottenute senza distruggere embrioni umani, sta rivoluzionando i laboratori di ricerca, in Italia si tenta disperatamente di minimizzare, e soprattutto si tace. Non si sentono più voci che inneggiano alla libertà della scienza e ai suoi meravigliosi progressi, o che magnificano le prospettive, sempre più vicine, di nuove terapie. Quanto fosse strumentale e forzata la contrapposizione tra laici illuminati e cattolici oscurantisti lo si vede adesso, nel confronto con gli altri Paesi. Da noi, silenzio infastidito, amarezza a stento trattenuta. Altrove, sincera gioia per il traguardo raggiunto e nessun imbarazzo nel cambiare idea.
Il New York Times, che ha sempre fieramente sostenuto la ricerca sugli embrioni, pubblica una lunga intervista a Shinya Yamanaka, lo scienziato giapponese che ha scoperto il modo per far regredire le cellule somatiche adulte allo stato embrionale. La scelta fatta da Yamanaka non è stata casuale, e nemmeno dettata da ragioni puramente scientifiche: è stata una scelta etica, o, più semplicemente, umana. È bastato uno sguardo, racconta il New York Times, per cambiare una carriera. Lo scienziato è stato invitato da un amico a visitare una clinica per la procreazione assistita; osservando al microscopio un embrione, Yamanaka ha realizzato che «c’era solo una piccola differenza» tra l’embrione e sua figlia. Da quel momento, ha pensato che non si potevano usare con tanta disinvoltura gli embrioni in laboratorio: «Dev’esserci un altro modo», si è detto. L’ha cercato, e l’ha trovato.
Anche il settimanale americano Time
non ha dubbi: è il metodo inventato dal giapponese che, nella classifica delle dieci migliori scoperte pubblicata ogni anno dalla rivista americana, merita di figurare al primo posto. Intanto, i grandi centri che finora hanno drenato flussi di denaro immensi per la ricerca sugli embrioni, subiscono gli scossoni del terremoto scientifico. Nel 2004 la rivista Darwin, diretta da Gilberto Corbellini e sponsorizzata dalla Fondazione Veronesi, parlava con ammirazione del ricercatore coreano Hwang, che sosteneva di aver ottenuto staminali embrionali umane con il metodo della clonazione (in seguito si è scoperto che si trattava di una truffa in perfetto stile Totò). Il titolo del pezzo era significativo: «Il ruggito di Seul». Nello stesso numero si esaltava la creazione, a Singapore, di Biopolis, un enorme campus destinato ad attrarre capitali internazionali da investire nella ricerca biotecnologica. Solo un anno fa, il Corriere della Sera ospitava un intervento dell’esperto Robert Paarlberg in cui si invitava l’Europa a «seguire l’esempio di Singapore e della Corea del Sud», ritenute la punta di diamante della ricerca internazionale. Oggi, però, gli scienziati abbandonano tristemente Singapore. Se ne vanno alla spicciolata – l’ha appena fatto anche Alan Colman, che insieme a Ian Wilmut clonò la famosa pecora Dolly – lasciandosi alle spalle quello che doveva essere il paradiso della libertà di ricerca. Invece – è ancora notizia di ieri – un gruppo italiano conquista la copertina della rivista scientifica internazionale Cell Stem Cell con uno studio assai promettente sulla cura della distrofia muscolare grazie alle staminali adulte.
Impressionante, no? Eppure chissà se tutto questo basterà per convincere i governi europei a fermarsi a riflettere, e a sospendere la distruzione seriale degli embrioni nei laboratori. Chissà se basterà a convincere qualche scienziato a guardare nel microscopio, e a stupirsi di quanto un minuscolo embrione possa essere simile a suo figlio.
Sette anni per un massacro. Ma questa è giustizia seria?
Ci fa un po’ di spavento questa giustizia tanto clemente, che pare la declinazione giuridica dell’educazione data a una generazione: dal vietato vietare, all’incapacità tremula di qualsiasi 'no'…
di Marina Corradi
Anche l’ultima delle giovani assassine della suora di Chiavenna tornerà presto in semilibertà. Convergenza di indulto e sconto per buona condotta, e le 19 coltellate che aveva inflitto «per ordine di Satana» a suor Maria Laura Mainetti insieme a due amiche alla fine varranno appena sette anni in carcere.
Le due complici più giovani sono affidate ai servizi sociali da tempo. Ora tocca ad Ambra, il capo di quella mattanza senza una ragione contro una donna inerme. Farà volontariato, annuncia il 'Corriere' che ne dà la notizia. E, subito il cronista telefona in convento a Chiavenna: ma voi, Madre, avete perdonato? La Madre superiora umanamente esita, dice della fatica, del desiderio e della interiore resistenza a fare come suor Laura, che morendo disse alle assassine: «Pregherò Dio di perdonarvi». Il cronista chiede allora se si sente, la superiora, di fare gli auguri ad Ambra che torna libera. No, risponde quella dolente, «non riesco a pensare a niente».
Insomma, niente auguri. Questi cattolici: eppure non dovrebbero porgere subito l’altra guancia? E invece, dopo ben sette anni, ancora non si sentono di augurare buona fortuna a una ragazza che, come per gioco, massacrò una sorella. È così facile dire «perdono», diamine, si poteva ben dare al cronista questa soddisfazione.
Invece a noi sembrava che questo sconto, fra indulto e il resto, a una ragazza che come per noia decise di uccidere, e andò avanti a colpire fino alla diciannovesima coltellata, potesse suscitare riflessioni più urgenti che l’interrogare di intimi, forse anche pudichi perdoni. Cioè, ci parrebbe che qualcosa non funzioni – e non è la prima volta – se, a fronte di un delitto bestiale, bastano sette anni. E non per l’ansia di un intento afflittivo, non certo dicendo che dopo un simile omicidio un minorenne debba morire in carcere. A 17 anni si ha diritto a sperare di poter ricominciare da capo. Ma dopo avere almeno passato dentro un tempo tale, che i parenti della vittima possano tollerare di rivedersi l’assassino davanti; e che gli altri, quelli che stanno a guardare, non pensino che la giustizia è una benevola pacca sulle spalle: va’, per questa volta passi, vai a fare del volontariato. Ci parrebbe pericoloso, indurre questo dubbio in tempi in cui Novi Ligure o Perugia diventano subito l’oscuramente invidiato teatro di eroi dark – quelli che, agli occhi di un povero sottoproletariato mediatico, almeno ce l’hanno fatta,a diventare famosi.
Rischioso, in tempi di facile suggestione televisiva, creare attorno a delitti feroci, oltre a un sinistro odore di gloria, anche una sottintesa logica buonista: fra minore età, sconti e indulti, da certe storie si esce con poco. Se un massacro vale sette anni, che sarà mai uno stupro di gruppo a una compagna, o andare allo stadio col coltello?
Goliardate. Ci fa un po’ di spavento questa giustizia tanto clemente, che pare la declinazione giuridica dell’educazione data a una generazione: dal vietato vietare, all’incapacità tremula di qualsiasi 'no'.
Inquietano un pochino, questi ragazzi di buona famiglia che non ricordano cos’hanno fatto una sera perché erano troppo spinellati, ma in cella non disfano neanche la valigia, «tanto esco domani, vero, avvocato?». Convinti che appunto è roba da ragazzi, e papà metterà tutto a posto.
Ci turbano, questi nostri figli sventati, più dei rumeni; e, anche, che l’unica cosa veloce della giustizia italiana sia la fretta nel liberarli, ci preoccupa. Più che la timida ritrosia di certe suore, che si sforzano nel loro convento di perdonare come pure vorrebbero, e chissà perché non riescono ad augurare, ben sette anni dopo, buona fortuna a chi massacrò senza un motivo una sorella.
Avvenire 12 dicembre 2007
Gesù non c’entra col Natale. - Parola di maestra intelligente
Avvenire, 13.12.2007
MARINA CORRADI
Un padre fiorentino scrive sbigottito al Giornale: la maestra di mio figlio, che fa la quarta elementare, ha detto ai bambini di fare un disegno sul Natale.
Mio figlio si è messo a a disegnare la Natività ma la maestra glielo ha impedito. A noi genitori la maestra ha poi detto che sarebbe «una scemenza» associare la nascita di Cristo al Natale, e che in questo modo si rischierebbe di offendere il sentimento religioso dei non cristiani. La storia raccontata da questo padre introduce una variante sul tema, non nuovo e ripetuto, dei presepi proibiti nelle scuole per «non offendere» i fedeli di altre confessioni. Infatti, la prima obiezione della maestra fiorentina sarebbe stata ancora più radicale: è «insensato» associare la nascita di Gesù al Natale. Natale dunque, pare di capire, come una festa che ormai prescinderebbe totalmente dalla memoria di ciò che viene in quel giorno ricordato. Ci sarebbe dunque un 25 dicembre che 'una volta' celebrava la nascita di Gesù Cristo in Palestina. Ma ormai così sbiadita sarebbe questa tradizione, che la festa è diventata semplicemente un’amabile convenzione condivisa: si fa l’albero, si mangia il panettone e ci si scambiano regali, perché così si usa, ma niente a che vedere con quell’antica assurda storia di un neonato in una mangiatoia. Presumiamo che questo volesse dire quella maestra, se davvero ha detto che associare il Natale a Gesù è «una scemenza». Una tesi surreale, certo, ma che contiene in sé, radicalizzato, un pensiero che si va diffondendo. Il Natale cristiano – e sul copyright originario della ricorrenza non ci sono dubbi – se ci guardiamo intorno, appare spesso come un guscio svuotato.
C’è un parlare assordante del Natale in tv, nei negozi, e fra noi; ma discorriamo di strenne, di vacanze, di tacchini.
Dell’evento di quel giorno – istante che taglia e rivoluziona la storia – di quello taciamo, e spesso anche fra cristiani. È rimasto, e anzi s’è gonfiato in una massa ipertrofica, tutto il contorno della festa: ma è il nucleo, il centro di gravità che sembra mancare. La maestra di Firenze, con la sua affermazione apparentemente strabiliante, avrebbe estrinsecato ciò che galleggia sotto le parole in questi nostri giorni annegati nei pandori e nei babbi natale. Abbiamo sentito un sociologo alla radio teorizzare di un Natale trasformato in una «festa della bontà», che non darebbe fastidio agli islamici e agli altri. Il brillante studioso ha sintetizzato lo stesso spirito dei tempi espresso dalla maestra fiorentina: facciamo festa il 25 dicembre, ma Gesù Cristo, che c’entra? Ora, ciascuno a casa sua festeggia ciò che vuole, Allah, Hare Krishna, come meglio crede. Ma c’è un accento di violenza nella piccola storia del bambino fermato con la matita per aria mentre sta per disegnare la cometa. Disegna ciò che vuoi: alberi, Santa Claus, renne, ma Gesù Bambino, no. Quello non c’entra. Quello è una vecchia fiaba, di cui vogliamo dimenticarci – che fiaba assurda poi, un Dio che nasce da una donna, e vergine anche, e in una stalla. La Festa della Bontà è laica e illuminata, corretta e multietnica. Non vuol dire niente, quindi non dà fastidio a nessuno: ma incentiva positivamente i consumi.
Piccolo, togli quella sciocca stella e l’asino e il bue. Cancella. Il mix di politically correct e di un acido neo oscurantismo dei lumi si vanta di non tollerare censure, ma con un’eccezione. Quel Bambino in una culla di paglia non lo vuole vedere. Che resti pure il contorno della festa, le luminarie e le cornamuse e l’abbacchio. Ma, quel nucleo, quell’oscuro centro di gravità di duemila anni di storia, quello no.
Bambini, da bravi, disegnate le renne.
Se la retorica della laicità cela solo pensieri inadeguati
Avvenire, 13.12.2007
DAVIDE RONDONI
R eggio Emilia dunque è la prima città rosso-islamica.
Un’ordinanza del capo dei vigili urbani di quella città esime gli islamici dal seguire le vigenti norme igienico-sanitarie previste dalla legge per la macellazione delle carni. Tale esenzione è motivata proprio dall’essere quelle macellazioni parti di un rito religioso. Il solerte Gran Capo dei Vigili Urbani, incurante delle proteste di cittadini che non gradivano tale macello in condomini e cortili, ha rotto gli indugi e ha dato il permesso. Può darsi che vista tale motivazione, ora i baristi di Reggio Emilia e dintorni, tassati e multati se magari esponevano un tavolino oltre il perimetro consentito o per le cucine non in perfettissima regola, proclamino che l’aperitivo è un momento divino. E che dunque si appellino al precedente di 'motivazione religiosa' per evitare tasse sul suolo pubblico o altri lacci e laccioli di controllo di cui spesso chi lavora si duole. O può capitare che lungo l’A1, gran bretella d’asfalto che nei pressi di Reggio e Modena è sovente tappata di traffico, un’automobilista sfrecci sulla corsia d’emergenza e ai vigili che lo fermano reciti il suo credo in un ineffabile dio della velocità. Nel reggiano, terra di varietà pregiate di salume, il discorso sulla macellazione è, tra l’altro, una cosa che trova animi partecipi. Facile che si scaldino. Al di là delle battute (ma a volte ci rimangono solo quelle…) il caso è indice di una ormai definitiva caduta di maschere. Intendo che sotto la maschera della cosiddetta laicità delle istituzioni, in questi anni, si sono celati qua e là i più ferrei e i più ridicoli atteggiamenti antireligiosi, e specie anticristiani. Dietro la retorica di una presunta laicità si nutrivano i più banali e corti pensieri antireligiosi. Così che ora che i fenomeni sociali e di costume legati a credenze religiose si manifestano, i custodi di quella finta laicità che invece prevedevano la scomparsa della religione dalla scena pubblica, danno luogo ad atteggiamenti schizofrenici, a volte contraddittori, finendo per essere persino grotteschi.
E mentre da un lato evitano i crocefissi sulle aule scolastiche, dall’altro lasciano che uno sgozzi un capretto come gli pare dietro casa. E mentre si indignano se uno fa pubblica professione di fede, dall’altra torcono le leggi e i regolamenti allo scopo di vezzeggiare comunità che rappresentano potenziali bacini di voti utili. Insomma, un generale impazzimento, di cui danno segno non tanto le persone del popolo, a cui il buon senso soccorre nel giudicare le inutili rigidità o la necessità dei regolamenti. Ma impazzimento nei vertici, nei capi, in coloro che detengono il potere politico e culturale, nonché dei regolamenti. E da tale impazzimento e da tale grottesco uso di una categoria di laicità striminzita e invecchiata non può venire nulla di buono. Perché nei cittadini cresce la confusione. E si alimentano motivi inutili di insofferenza e di scontro. Non è la religiosità in crisi, è la presunta laicità dei capi che è in crisi nera. La responsabilità maggiore di questi vigili della laicità, è di aver preteso di costruirla in opposizione al senso religioso. Cioè irrazionalmente. E ora si trovano in mano una laicità inutile.
Incapace di reggere le sfide del presente. O peggio: sono capaci di vigilare in modo ferreo a che la parrocchietta che porta in gita i ragazzini osservi al pelo tutte le norme di assicurazione, di igiene eccetera, mentre chi ha altre credenze religiose può derogare alle regole. Cosa è questa: paura? codardia? confusione mentale? O furbesca, burocratica manipolazione della realtà?
Melazzini: «Una terapia della dignità» Avvenire, 13.11.2007
La mia esperienza diretta di ammalato di Sclerosi laterale amiotrofica mi suggerisce che il paziente è una persona che porta su di sé il peso della propria malattia e, proprio per questo, avverte la necessità di essere ascoltato per evidenziare i suoi bisogni, condividere la sua sofferenza, esporre il disagio psicologico dovuto a un cambio talvolta anche radicale delle proprie condizioni di vita. In sintesi, per essere preso realmente in carico, una condizione indispensabile per poter sentirsi ancora utile a se stesso e agli altri.
Per fare in modo che ciò accada, devono essere messe in campo le risorse per dare al paziente la possibilità di accedere a tutti gli strumenti possibili in grado di assicurare a lui e alla sua famiglia una qualità di vita accettabile in tutte le fasi della malattia, a partire dalla comunicazione della diagnosi fino all’accompagnamento del fine vita. Ma soprattutto, in grado di salvaguardarne la dignità, prevenendo la perdita del significato della vita stessa e la disperazione esistenziale che portano il malato a sentirsi solo. In altre parole, va garantito l’adeguato sostegno psicologico per mettere in pratica quella che Chochinov chiama «terapia della dignità»: nella pratica, «un intervento psicoterapeutico breve e mirato a fare emergere il senso di valore della persona». L’articolo 23 del Codice deontologico 2006 dei medici evidenzia che «il medico non può abbandonare il malato ritenuto inguaribile, ma deve continuare ad assisterlo anche al solo fine di lenirne la sofferenza fisica e psichica». Il Piano sanitario nazionale 2006 - 2008, al paragrafo 3.9 relativo a «dolore e la sofferenza nei percorsi di cura » sottolinea che «vanno attivati gli interventi volti a promuovere l’umanizzazione delle cure, nella consapevolezza che il fulcro del Servizio Sanitario è rappresentato dalla persona malata, nella garanzia del rispetto della sua dignità, identità e autonomia» e che «è importante che al paziente venga assicurato il necessario supporto psicologico, quando le sue condizioni cliniche lo richiedano».
Si tratta di documenti di tipo differente che indicano però la medesima direzione: quella di un rapporto tra medico e paziente che si deve trasformare davvero in un patto di cura tra un individuo che ha un bisogno e la volontà di fidarsi ed un altro individuo che ha la conoscenza ed il desiderio di rispondere. Papa Benedetto XVI ha sottolineato che «la persona umana non è, d’altra parte, soltanto ragione e intelligenza. Porta dentro di sé, nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta ». Modalità di comunicazione e condivisione familiare creano consapevolezza, favoriscono un reale decision making anche nelle fasi più avanzate della malattia. A queste condizioni, la disabilità può davvero segnare l’inizio di un’altra vita, aprire nuovi percorsi, divenire il 'passpartout' per esperienze inedite e magari più significative di quelle vissute prima dell’insorgere della malattia.
Le motivazioni del malato sono un fattore determinante così come l’atteggiamento del medico e l’effettiva presa in carico del paziente e della sua famiglia. È altresì necessario che chi convive con la malattia rappresenti il nucleo centrale di una rete di continuità assistenziale efficace: la famiglia ne è uno dei nodi, al pari dei responsabili degli ambiti clinico, medico, istituzionale, sociale, socio-assistenziale e del volontariato. Un approccio che richiede un’impostazione secondo metodologie e strumenti di gestione capaci di assicurare un percorso assistenziale continuo.
A proposito della centralità dell’uomo nel processo di cura e di assistenza, nella Convenzione di Oviedo(1997, art. 2) è scritto: «L’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sul solo interesse delle società o della scienza».
Non fuggire di fronte al dolore, aiutare ad avere meno paura, medicare le ferite dell’anima aiuta a difendere la vita e a generare speranza, che J. Groopman definisce come «il sentimento confortante che proviamo quando scorgiamo con l’occhio della mente il cammino che può condurci a una condizione migliore». Quella di un’accettabile qualità della vita, che rende quest’ultima degna di essere vissuta fino in fondo.
* responsabile D.H. Oncologico Irccs S. Maugeri di Pavia presidente Aisla Onlus
Brague: «Ai valori preferisco i beni» Avvenire, 13.12.2007
DA ROMA
PAOLA SPRINGHETTI
«Non è certo mestiere della scienza quello di salvare l’uomo». Rémi Brague, professore di Filosofia araba alla Sorbona, si trova in perfetta sintonia con Papa Benedetto XVI, e della sua enciclica Spe Salvi. Ieri sera era a Roma, per intervenire all’incontro su «Una certa idea di uomo. Lo spirito europeo e i tormenti della modernità», organizzato dall’Associazione Meeting per l’Amicizia tra i Popoli: un ragionamento di ampio respiro, con un approccio nuovo a molti problemi di cui oggi si discute.
«D’altronde – continua, – neanche le altre religioni hanno questo obiettivo: si preoccupano della sua riuscita, che nel buddhismo, per esempio, viene vista come liberazione, nell’islam come completa obbedienza a Dio. Solo il cristianesimo pone la problematica nella sua interezza. È infatti una specificità del cristianesimo quella di evidenziare che l’uomo è ferito nella sua volontà: non è più capace di volere il bene né di darsi gli strumenti appropriati per raggiungerlo. Solo Dio può guarire questa volontà, affinché si arrivi alla salvezza. Ma Dio non può semplicemente sanare questa ferita della volontà dell’uomo: deve mettere in atto una riparazione che parta dall’interno, cioè deve far sì che l’uomo voglia di nuovo il suo bene. Alla salvezza dell’uomo la scienza non può apportare nulla: può descrivere sempre meglio la realtà, può apportare sempre più efficacia ed efficienza, può mettere in atto dispositivi e tecniche che sfocino nelle realizzazioni che vogliamo. Ma non ci può insegnare a desiderare il nostro bene, e di conseguenza a raggiungerlo».
Nella cultura moderna, però, a volte l’uomo sembra sospeso tra due fedi: quella in Dio, che atterrebbe alla sfera privata, e quella nella scienza, che invece si occupa del bene di tutti.
«La fede nella scienza è una metafora: in realtà essa non chiede che le si creda, perché è una verità obiettiva. Il termine 'fede', invece, cambia completamente significato quando lo riferiamo a Dio: in questo caso è una virtù teologale, ed è un atto di volontà attraverso il quale esprimiamo il nostro assenso nei confronti di una verità che la nostra ragione non riesce a comprendere appieno.
La credibilità della scienza oggi è legata all’applicazione delle tecniche che da essa provengono: abbiamo bisogno di guarire un paziente, abbiamo bisogno di potenza, ricchezza, felicità e la scienza ci permette tutto questo. La religione non 'funziona' a questo modo: ci invita a cambiare l’oggetto del nostro desiderio, a capire se quello che abbiamo è effettivamente quello che desideriamo o se abbiamo bisogno di altro. Ci propone una ricchezza fatta di altre cose, che non possono venire dalla scienza. Ci insegna cosa dobbiamo volere».
Che cosa dobbiamo volere… sembra un’affermazione che nega la libertà. Benedetto XVI nella «Spe Salvi» scrive che il bene non è mai raggiunto definitivamente proprio perché l’uomo è libero, e la sua libertà è fragile.
«San Paolo nella lettera ai Galati (5,1) dice che Cristo ci ha liberato per la libertà: la libertà non è un mezzo per un’altra cosa, ma è un fine. È compimento dell’amore: niente è più libero di Dio, niente è più divino della libertà. Ciò che bisogna fare è liberare la libertà da tutti gli ostacoli che le impediscono di svilupparsi nella sua interezza. La libertà liberata troverà da sola il proprio compimento nell’incontro con il Signore».
Lei ha detto che bisognerebbe smettere di parlare di valori, e parlare invece di beni. Perché?
«Mi disturba il fatto di parlare di valori che si sta facendo da alcuni anni in ambito cattolico.
Ovviamente i contenuti di questi valori non li metto in discussione, ma noto una certa ingenuità nell’impiego di questo termine che è di moda, ma è stato usato anche, ad esempio, da Nietzsche, che non era propriamente un buon cattolico.
Propongo allora una specie di esercizio: sostituire al termine 'valore' il termine 'beni', al plurale.
Il valore esiste nella misura in cui lo attribuiamo ad una determinata cosa, dunque è soggettivo.
Nietzsche, in Così parlò Zaratustra, analizza questo problema e dice che l’atto con cui diamo importanza alla cosa ha più importanza della cosa che acquista valore grazie all’atto. A questo i cattolici devono stare attenti. I beni invece sono oggettivi, concreti, rispondono a dei bisogni e sono condivisibili. Nel cristianesimo non c’è nulla che sia buono solo per i cristiani».
Però tra i cattolici si sta diffondendo la sensazione di essere minoranza, e quindi il bisogno di difendere i propri valori.
«L’impero romano era una specie di mercato delle opinioni: c’erano offerte filosofiche e religiose di ogni tipo a disposizione di chi le cercava. I cristiani erano una piccola minoranza: non c’è nessuna novità da questo punto di vista. Dobbiamo solo convincerci che il nostro è un ottimo 'prodotto', e in un mercato libero, noi saremmo ben collocati.
Solo il cristianesimo può rispondere a una domanda: ha senso la presenza degli uomini su questa terra?».
«A quei credenti che si sentono minoranza dico: era già così durante l’impero romano.
Occorre solo convincersi che il cristianesimo, nell’attuale mercato delle opinioni, è un ottimo prodotto.
Questo è il messaggio della 'Spe salvi'»
12/12/2007 Il Giornale Andrea Tornielli La Chiesa: liberi di convertire i non cattolici
Benedetto vara una nuova forza di peacekeeping, la famiglia