domenica 30 dicembre 2007

Rassegna stampa del 30 dicembre 2007

29.12.2007, A Madrid e all’origine del matrimonio con Goethe, Cristo, Pavese e Lewis, Julián Carrón, Il Foglio
http://www.clonline.org/articoli/ita/CarronFoglio291207.pdf


ANZICHÉ LA REVISIONE DELLA LEGGE 40 - CONTRORDINE: LE LINEE GUIDA NUOVO OBIETTIVO
Avvenire, 29.12.2007EUGENIA ROCCELLA Ricordate l’appello dei cento scien­ziati contro la legge 40 sulla pro­creazione assistita, durante la campa­gna referendaria del 2005? Era firmato da nomi autorevoli come Rita Levi Mon­talcini, Edoardo Boncinelli, Elena Cat­taneo, Carlo Alberto Redi, Giulio Cossu, Margherita Hack, e così via. Il docu­mento spiegava perché era necessario cambiare la legge votando sì all’abro­gazione di alcuni articoli, tra cui quelli che «proibiscono la diagnosi pre-im­pianto ». Uno dei quesiti referendari chiedeva infatti la cancellazione di un comma dell’articolo 13 che consente la ricerca clinica sull’embrione solo se fi­nalizzata alla «tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso».Nel 2005, dunque, i promotori del refe­rendum, e i cento scienziati che aveva­no firmato il documento, erano perfet­tamente consci che la legge esprimes­se con chiarezza il divieto di eseguire diagnosi sugli embrioni – ovviamente allo scopo di selezionarli – prima di im­piantarli in utero. Nel 2007 tutto è cam­biato. Contrordine, compagni: l’ordi­nanza emessa pochi giorni fa dal tribu­nale di Firenze richiede un veloce ri­baltamento di quello che è stato detto e scritto finora, e i quesiti referendari devono essere dimenticati. Da questo momento bisogna sostenere che la leg­ge 40 non impedisce di fare indagini diagnostiche sull’embrione: la colpa è tutta dell’ex ministro della Salute Sir­chia, che nelle linee guida da lui ema­nate nel luglio 2004 ha voluto subdola­mente inserire ulteriori restrizioni. La nuova impostazione ha trovato subito degli adepti. Se Rocco Berardo, vice se­gretario dell’Associazione radicale Lu­ca Coscioni, si spinge fino a dichiarare che «la legge è stata tradita» dal suo te­sto attuativo, sul 'Corriere della Sera' abbiamo letto, come fosse una verità indiscutibile, che le linee guida di Sir­chia «introducono un divieto che la leg­ge non contempla», e persino l’attuale ministro della Salute Livia Turco – spia­ce dirlo – sembra voler seguire la stes­sa linea.Negando l’evidenza, e sorvolando alle­gramente su tutto quello che i sosteni­tori del referendum abrogativo diceva­no meno di tre anni fa, si ottiene un doppio scopo. Il primo: si legittima lo stravolgimento della legge grazie alla semplice modifica delle linee guida, senza quindi essere costretti a un ri­schioso passaggio parlamentare. Il se­condo: si maschera l’assoluta mancan­za di rispetto nei confronti degli eletto­ri, che con l’astensione più massiccia della storia recente hanno confermato di voler mantenere la legge 40 così com’è, compresa la parte che vieta la selezione degli embrioni e la diagnosi pre-impianto. Un’operazione spregiu­dicata e brillante, confortata dalla ten­denza di qualche giudice a intervenire sulle leggi invece che applicarle, evi­tando persino di ricorrere alla Corte Co­stituzionale.Gli italiani si sono astenuti in massa per difendere una legge che manteneva al­cune fondamentali garanzie, tra cui il divieto della selezione genetica, cioè la distinzione tra vite umane di serie A e di serie B; oggi ci viene detto che quel­le garanzie non ci sono mai state, e che il professor Veronesi scherzava quando sosteneva che «la legge sulla feconda­zione assistita vanifica la grande spe­ranza di ridurre drasticamente il tragi­co peso umano e sociale di 30 mila bam­bini che ogni anno nascono in Italia con gravi malformazioni. Vietando qualsia­si analisi di una cellula uovo fecondata nega uno dei maggiori progressi della medicina degli ultimi anni».L’ingegneria sociale e genetica dunque è legittima: basta correggere le linee gui­da del ministro Sirchia: poi potremo tranquillamente stabilire che i bimbi af­fetti da sindrome Down o da talassemia (o, come già accade in Inghilterra, quel­li che avranno un tasso di colesterolo alto) costano troppo alla comunità, e non devono nascere.


LA COMUNICAZIONE CON I SOFFERENTI - Quando la vita bussa alle porte del limite
Avvenire, 29.12.2007
GIORGIO PAOLUCCI N ei giorni scorsi sono andato con due amici a trovare una vecchia conoscenza. Era una di quelle visite che si fanno durante le feste a coloro che non si vedono da tempo, ma il cui ricordo ha scavato un solco indelebile nella mente.Gaetano, questo il suo nome, è stato colpito anni fa da una forma precoce e aggressiva di Parkinson che gli impedisce di reggere lunghe conversazioni e limita fortemente l’uso della parola. Così quel giorno, dopo qualche scambio di battute, si è irrigidito e ha cominciato a biascicare cose pressoché incomprensibili.Incomprensibili a tutti, ma non al badante peruviano che insieme all’anziana madre lo assiste amorevolmente ed è diventato il suo angelo custode. Avevamo portato per quel nostro amico un calendario del 2008 con un biglietto: «Caro Gaetano, ormai ci vediamo raramente, ma speriamo che l’anno prossimo ti ricorderai di noi almeno una volta al mese, quando girerai le pagine del calendario». Lui ci guardava, gesticolava, e vedendo che non riuscivamo a decifrare quello che tentava di comunicarci, ha preso una biro sottolineando alcune parole del biglietto che gli avevamo scritto: «l’anno prossimo», «una volta al mese» e «noi». Poi, di fianco alla parola «noi», ha scritto il suo nome. Cosa voleva dirci, in quel suo disperato alfabeto? Intercettando il nostro sguardo smarrito, il badante peruviano ha tradotto: «Vi sta dicendo che l’anno prossimo spera di rivedervi qui almeno una volta al mese. È molto malato, vuole ritrovare gli amici di un tempo».Gaetano annuiva con gli occhi velati dalla commozione, nell’impotenza di chi vorrebbe parlare ma riesce a farlo solo come la malattia glielo consente, usando codici non sempre decodificabili.E noi suoi amici, di fronte a quella «comunicazione non verbale» più penetrante di tante parole, non abbiamo potuto fare altro che promettergli di andare a trovarlo una volta al mese.Il giorno dopo, la visita a Daniele, un bambino di otto anni in coma dal 2004. Circondato dalle cure e dall’affetto dei suoi cari e di un gruppo di volontari che li aiutano a portare la croce, vive in carrozzina, i grandi occhi azzurri spalancati, accompagnato dalla preghiera di molti che chiedono il miracolo del risveglio dal coma.Ogni tanto muove la testa, emette suoni che i genitori sanno interpretare, in una comunicazione modulata dalla logica dell’amore. Daniele è sempre al centro della vita familiare, i suoi genitori lo accarezzano, lo stimolano, gli sorridono. Si comportano esattamente come se quella vita «sospesa» fosse in grado di capire ciò che le accade attorno. «Lui è una presenza – dicono – e noi siamo una presenza per lui». Non vivono da disperati, implorano a Dio la guarigione e sperimentano ogni giorno – in quella ferita sempre aperta – cosa significa che l’esistenza non ci appartiene e che la logica dell’amore può superare ogni impedimento.Gaetano e Daniele sono la testimonianza eloquente degli abissi e delle altezze a cui può arrivare la vita. Che potentemente si manifesta, anche quando non riusciamo a ingabbiarla negli schemi di ciò che chiamiamo normalità. Si manifesta con il suo alfabeto particolare, urge, reclama un posto nell’esistenza dei «normali». E ci costringe a fare i conti con l’insopprimibile presenza del Mistero tra noi.

GUARDANDO AL 2008 - LA FORZA DI CREDERE CHE LA PACE NON È UN’UTOPIA
Avvenire, 29.12.2007ANDREA RICCARDI Non è facile fare un bilancio a fine an­no. È forte il sussulto degli ultimi av­venimenti, come l’uccisione di Benazir Bhutto in Pakistan. Una tragedia rivela­trice dell’instabilità grave di un grande Paese, di un’intera regione, ma anche del difficile rapporto tra islam e democrazia. Vi si leggono tutti i problemi impostisi al­l’attenzione del mondo dall’11 settem­bre 2001. E poi c’è la violenza, una realtà antica, con cui si devono sempre più fa­re i conti in politica e nel quotidiano. È la violenza delle grandi convivenze urba­ne, dall’America Latina all’Asia, favorita anche dal fatto che nel 2007, per la pri­ma volta nella storia, nel mondo gli abi­tanti delle città sono diventati più nu­merosi di quelli delle campagne. Il bi­lancio dell’anno che si chiude, quindi, potrebbe apparire negativo e, soprattut­to, il quadro del 2008 assumere cupe pro­spettive.Viene da chiedersi come la piccola Italia, presa dal senso di declino, dove molte fa­miglie hanno la sensazione di una vita più difficile, con un dibattito politico bloccato, possa affrontare questi difficili scenari. Sono pensieri e sentimenti che attraversano tanti nostri concittadini. In molti svanisce la voglia di guardare il grande orizzonte del mondo, di interes­sarsi ai problemi 'lontani'. Che posso fa­re io? è la domanda inespressa di tanti. Il mondo oggi sembra più difficile. È vero: è molto complesso. Siamo raggiunti da un numero incredibile di notizie, che non riusciamo facilmente a decifrare. Sono tramontate le spiegazioni ideologiche: non solo quelle marxiste di ieri, ma an­che quelle più recenti sulla vittoria del mercato che avrebbe dovuto portare la democrazia ovunque. Il senso di irrile­vanza e la complicazione del presente ci spingono a lasciare ad altri la fatica di guardare la storia, quella del 2007 o del 2008. Stare alla finestra del mondo e di­scutere su di esso appare prometeico: tanto che posso fare io?
Nel corso del 2007, Benedetto XVI ha in­sistito sul messaggio di speranza che vie­ne dal Vangelo. Lo ha fatto anche nel mes­saggio per la Giornata mondiale della pa­ce. Sono passati quarant’anni da quel 1° gennaio 1968, quando Paolo VI consacrò questa data alla pace. Certo allora, in Oc­cidente, il clima era ben diverso, c’era la convinzione (illusoria) di avere idee e movimenti da esportare nel mondo in­tero. Ma la Chiesa, con quella Giornata, mostra di non rinunciare alla grande spe­ranza di un mondo in pace. Dice a chia­re lettere che non è un’utopia. Benedet­to XVI, nel suo Messaggio, stabilisce un legame tra il quotidiano, la vita familia­re, e gli orizzonti del mondo: 'Il lessico fa­miliare è un lessico di pace; lì è necessa­rio attingere sempre per non perdere l’u­so del vocabolario della pace. Nell’infla­zione dei linguaggi, la società non può perdere il riferimento a quella gramma­tica...'.C’è una connessione profonda tra la vi­ta di ciascuno, di una famiglia, e la pace del mondo. Le scelte e i comportamenti dei singoli non sono irrilevanti. La storia non si dispiega come le notizie della cro­naca. Non è fatta solo da pochi attori. Ci sono correnti profonde, come affermava Giorgio La Pira. C’è una forza di attra­zione da parte dei comportamenti giusti e pacifici, anche se di pochi.Avere speranza non vuol dire possedere una visione lucida di come sarà il doma­ni. La speranza profonda viene dalla con­vinzione che la famiglia degli uomini e dei popoli non è stata abbandonata da un amore più grande. Viene dal fatto che la pace è dono di Dio, un’eredità che la follia umana non potrà dissipare. La no­stra visione del futuro deve nutrirsi mag­giormente di preghiera: sì, quella pre­ghiera per la pace, 'senza stancarsi', che il Papa chiede alla fine del suo Messag­gio. Quando la Chiesa, anche nel mezzo delle situazioni più difficili, continua a pregare per la pace, mostra che non ri­nuncerà mai alla speranza di un mondo riconciliato. Da questa preghiera nasce la speranza e sgorgano comportamenti e visioni di pace.

LA DISILLUSIONE DI CHI HA CERCATO UNA SOCIETÀ SENZ’ANIMA - Le verità sull’uomo battistrada della democrazia laica
Avvenire, 30.12.2007
CARLO CARDIA

Quando si manifestano credenze e convinzioni incompatibili tra loro, in una democrazia laica non si «decidono verità sull’uomo, ma (soltanto) le procedure democratiche che minimizzano il dissenso».
Questa la conclusione di un articolo su 'La Stampa', secondo il quale riconoscere il diritto della Chiesa di esprimersi nella sfera pubblica vorrebbe dire che «il pubblico debba essere gestito in esclusiva secondo le direttive della Chiesa». Davvero una democrazia laica deve limitarsi a scrivere regole procedurali e dichiarare che non esistono verità sull’uomo? Se così fosse, ogni evoluzione storica sarebbe votata al fallimento, e il faticoso cammino per affermare i diritti umani compiuto nell’ultimo secolo sarebbe inutile e sbagliato.
Comunque si leggano, i più solenni documenti normativi contengono tante verità sull’uomo. La celebre definizione della Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 ci dice che tutti gli uomini sono stati creati uguali e che il Creatore li ha dotati di alcuni diritti inviolabili fra i quali la vita, la libertà, il perseguimento della felicità. Altre Carte sui diritti umani affermano che la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e che ad essa deve essere assicurata la protezione e l’assistenza più ampia. Oppure che la maternità è una funzione sociale, e che i genitori hanno responsabilità comuni nella cura dei figli per assicurare il loro sviluppo. E poi ancora, che la fedeltà è un vincolo che lega marito e moglie, che l’educazione familiare è essenziale per la formazione e la crescita delle nuove generazioni.
Se la democrazia moderna non poggiasse su questi e tanti altri valori, sarebbe una democrazia senz’anima. Non saprebbe dire altro ai cittadini se non che devono vivere nella solitudine, senza verità e senza speranza, perché la società non può far altro che governare individui che non possono sapere nulla di se stessi, della propria natura, del proprio destino. Una società senza passato, e priva di quelle tensioni etiche che ovunque preparano il futuro.Singolarmente, è toccato a Nicolas Sarkozy, presidente della Repubblica laica più intransigente, fare una confessione sincera, e indicare un cammino diverso. Per Sarkozy, lo Stato ha interesse alla riflessione morale ispirata alle convinzioni religiose. Anzitutto perché la morale laica rischia sempre di esaurirsi o di trasformarsi in fanatismo quando poggia su una speranza che colma l’aspirazione all’infinito; «poi e soprattutto perché una morale sprovvista di legami con il trascendente è maggiormente esposta alle contingenze storiche e in definitiva all’arrendevolezza».
Queste considerazioni potrebbero spingere più avanti il dibattito anche in Italia.
Potrebbero eliminare la paura che oggi caratterizza alcune correnti laiche quando temono di confrontarsi con determinate posizioni e proposte in materia di famiglia, di difesa della vita, e utilizzano il concetto di laicità per negare il diritto dei credenti ad agire limpidamente nella sfera pubblica. Ma la società, la democrazia, lo Stato hanno bisogno delle idee di tutti, perché su queste idee si discuta, ci si confronti nel merito per scegliere poi liberamente le decisioni da adottare.Sarkozy ha aggiunto che la laicità non può essere negazione del passato. Non ha il potere di togliere a un Paese le sue radici cristiane, e quando l’ha fatto ha provocato seri danni, dal momento che strappare le radici vuol dire indebolire l’identità nazionale e inaridire i rapporti sociali che hanno bisogno di simboli e di memoria.
Ricevere lezioni di laicità da un presidente francese potrebbe sembrare quasi uno scherzo della storia. Ma non è così. È proprio da una esperienza che ha cercato di cancellare l’anima più profonda della società, inseguendo il miraggio di uno Stato freddo e procedurale, senza chinarsi sulla realtà e complessità dell’uomo, che è venuta la disillusione più grande. La disillusione di chi è stato sul punto di trovarsi in un deserto, e vuole uscirne.
Guardando Sarkozy si può superare un’idea di laicità che nega il diritto dei credenti ad agire nella sfera pubblica


L’EDUCAZIONE COME PUNTO DI SVOLTA - Un altro modo di guardare all’aborto
Avvenire, 30.12.2007
MARINA CORRADI
Per dove, concretamente, potrebbe passare un altro modo di guardare all’aborto? La 194 va a compiere trent’anni, doverosamente si può chiedere che venga applicata anche in quelle parti che dovrebbero almeno evitare gli aborti da povertà e da abbandono. Ma l’idea di 'moratoria' suggerisce qualcosa di più: una sorta di ripensamento collettivo, affine a quello che, nell’arco di molti anni, ha portato al voto dell’Onu contro la pena di morte. Ora, ci domandiamo, per quali modi potrebbe passare questo ripensamento, e da dove potrebbe iniziare?
Forse, volendo essere realisti, si dovrebbe iniziare dall’educazione; intendendo con questo termine ­come insegnava don Giussani - una introduzione alla realtà. Forse basterebbe, oltre che insegnare ai ragazzi come funzionano l’apparato riproduttivo e gli anticoncezionali, mostrare l’ecografia di un feto al terzo mese, magari di quelle tridimensionali, adeguate ai nostri standard di moderni utenti di immagini. Un nascituro perfettamente in salute, colto in un tranquillo istante della sua vita intrauterina. A quell’età sono lunghi poco meno un centimetro, ma già le fattezze umane sono perfettamente riconoscibili, tali che qualunque alunno di scuola primaria obbedendo a una elementare evidenza direbbe: quello è un bambino. Immaturo, piccolo, ma evidentemente un bambino.
Ecco, ci pare che uno sguardo nuovo sull’aborto ­quando si vorrebbe persino introdurre una pillola perchè la cosa sia più semplice - non possa che cominciare dal guardare la realtà. Quell’immagine al terzo mese di gravidanza - quando l’aborto è perfettamente legale - è un fatto: non è cattolica nè integralista, non è ideologica. È oggettiva: così è un uomo, a dodici settimane (e se qualcuno non vuole farlo vedere, dovrebbe per onestà domandarsi perchè).
Se questo è un uomo, dunque, prima di ogni altra discussione filosofica o etica, potremmo cominciare a guardarlo, a farlo guardare ai nostri figli, e a onestamente riconoscere ciò che è. Può sembrare poco, questo accettare di vedere e dunque di guardare la realtà, di 'esporsi' alla realtà e lasciarla parlare. Invece è fondamentale.Ha scritto Hannah Arendt, filosofa ebrea sfuggita alle persecuzioni naziste: 'Vedere è idèin, sapere è eidénai, cioè avere visto: prima si vede, poi si conosce'. Il problema della modernità stava secondo lei anche nel non voler 'vedere', nel non voler riconoscere la realtà del 'dato originario'.Cambiare, dunque, partendo da una lealtà dello sguardo. Così siamo a tre mesi, dentro nostra madre. Fate un esperimento, chiedetelo ai vostri figli più piccoli, cos’è quell’essere di un centimetro nel buio. Lo riconosceranno - a quell’età, ci vedono ancora benissimo.
Se poi dottamente si obiettasse che al primo inizio della vita non si 'vede' niente - solo una morula pulsante, affannata a moltiplicarsi - si potrebbe rispondere con le parole del professor Angelo Vescovi, laico, ricercatore di fama internazionale: 'Qualunque fisico esperto di termodinamica può dire che all’atto della fecondazione c’è una transizione repentina e mostruosa, in termini di quantità di informazione. Una transizione di quantità e qualità di informazione senza paragoni, che rappresenta l’inizio della vita: dal totale disordine alla prima entità biologica. Contenente tutta l’informazione del primo stadio della vita umana, concatenato al successivo, e al successivo, in un continuum assolutamente non scindibile, se non arbitrariamente'.
Là dove i nostri occhi non vedono, vedono quelli degli strumenti di laboratorio. Ma possono vedere e basta, oppure 'guardare', e dunque conoscere, e riconoscere. Dal caos, all’ordine, in un istante.
Come nel tocco dell’indice creatore, nella Cappella Sistina. E’ questo lo sguardo che cambia, quello che vorremmo trasmettere.


Offrire la vita per amore Il 2007 dei «testimoni»
Avvenire, 30.12.2007

DI LORENZO ROSOLI
Come Stefano, il protomartire, hanno unito «l’impegno sociale della carità» e «l’annuncio coraggioso della fede». Fino al dono della vita. Sono i ventuno operatori pastorali cattolici, impegnati nel lavoro missionario, morti in modo violento nel corso del 2007 in tutto il mondo. Preti, religiosi, diaconi. Molti sono stati ammazzati: come padre Ricardo Junious, 70 anni, torturato e strangolato a Città del Messico dove lottava contro i trafficanti di droga e la vendita di alcol ai ragazzini. Come padre Raghiid Ganni e i tre diaconi uccisi davanti alla chiesa del Santo Spirito di Mosul, nell’Iraq piagato dalla guerra e lacerato dall’odio. E c’è chi ha sacrificato la propria vita per salvarne altre, consapevole del rischio che correva: come – sola donna fra quei ventuno – suor Anne Thole, 35 anni, scomparsa tra le fiamme mentre cercava di soccorrere gli ospiti di una struttura per malati di Aids aggredita da un incendio, in Sudafrica.
Passione di Dio, passione per l’uomo
Nomi e storie sconosciuti ai più; ad altro si dedica, normalmente, il gran circo dei mass media. Perciò è bello e utile che anno dopo anno, alla fine di dicembre, Fides – l’agenzia internazionale della Congregazione vaticana per l’evangelizzazione dei popoli – rediga e diffonda un dossier per non consegnare all’oblio quei nomi e quelle storie. Che parlano di una passione per Dio e per l’uomo capace di congiungere «carità e annuncio», secondo l’esempio di santo Stefano che Benedetto XVI propose durante l’udienza generale del 10 gennaio 2007 e che Fides ora offre quale chiave di lettura del suo ultimo dossier. Alla lezione di vita e di fede del protomartire Papa Ratzinger aveva fatto nuovamente riferimento pochi giorni fa – all’Angelus del 26 dicembre, memoria liturgica del santo diacono – spiegando come il martirio cristiano sia «esclusivamente un atto d’amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori». Così fu per Stefano; così è oggi per i molti che, nel mondo, soffrono per la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Attenzione: nel dossier Fides non si parla di martiri né di martirio. Ciò per «non entrare minimamente – spiegano gli autori del rapporto – in merito al giudizio che la Chiesa potrà eventualmente su alcuni di loro, e anche per la scarsità di notizie che, nella maggior parte dei casi, si riesce a raccogliere sulla loro vita e perfino sulle circostanze della loro morte». Se ne sa abbastanza, tuttavia, per poter parlare di esistenze consacrate all’amore, per Dio e per i fratelli, in contesti umani e sociali sovente drammatici.
Nelle metropoli e tra i profughi
Si tratta dunque di persone che «avevano fatto una scelta radicale – afferma il dossier –: essere testimoni dell’amore di Dio in realtà spesso dominate dalla violenza, dal degrado, dalla povertà materiale e spirituale, dalla mancanza di rispetto della dignità e dei diritti dell’uomo. Anche quest’anno i corpi senza vita di alcuni di loro sono stati trovati ore o giorni dopo il decesso, vittime – almeno in apparenza – di aggressioni, rapine e furti che colpiscono indiscriminatamente la popolazione presso cui prestavano il loro servizio pastorale e che vengono sempre più spesso denunciati a voce alta dalla Chiesa locale e dalle Conferenze episcopali». Qualche esempio? Padre Mario Bianco, italiano, 90 anni, missionario della Consolata, è morto il 15 febbraio in Colombia per le conseguenze dell’aggressione subita durante una rapina. Don Nicholaspillai Packiyaranjith, sacerdote diocesano dello Sri Lanka e coordinatore del Jesuit Refugee Service nel distretto di Mannar, è stato ucciso il 26 settembre dall’esplosione di una bomba collocata sulla strada che lo portava al campo profughi e all’orfanotrofio di Vidathalvu. Don Richard Bimeriki, congolese, è spirato il 7 aprile in un ospedale del Ruanda dopo essere stato aggredito nella sua parrocchia da uomini vestiti con uniformi militari. Padre Fernando Sanchez Duran, parroco vicino a Città del Messico, impegnato contro il traffico di droga e nell’assistenza ai giovani tossicodipendenti della zona, è stato sequestrato e ucciso il 22 luglio, mentre dalla parrocchia sono «scomparsi» con lui un’auto, una tivù e un computer.
La «geografia» del dono
L’elenco stilato nel dossier – avverte Fides – è provvisorio: ai ventuno citati va aggiunta la lista, verosimilmente lunga, dei «militi ignoti della fede» dei quali non si ha e forse non si avrà mai notizia. Dei 21 operatori pastorali uccisi nel 2007 e raccolti nel dossier (che può essere letto integralmente in www.fides.org) 15 sono sacerdoti (9 diocesani, un fidei donum, 4 regolari), 3 diaconi, un religioso, una religiosa e un seminarista (il ventenne filippino Justin Daniel Bataclan). Sempre secondo il dossier, erano stati 24 nel 2006 e 25 nel 2005; 152 in totale dal 2001 al 2006. Fra il 1980 e il 1989 i missionari uccisi nel mondo erano stati 115 e 604 fra il 1990 e il 2000 (ad aggravare il bilancio, il genocidio ruandese). I luoghi d’origine delle vittime del 2007: Asia 8 (4 Iraq, 2 Filippine, 1 Sri Lanka, 1 Indonesia), 5 America (2 Messico, 1 Stati Uniti, 1 Perù, 1 El Salvador), 4 Africa (1 Ghana, 1 Swaziland, 1 Repubblica democratica del Congo, 1 Sudafrica), 4 Europa (2 Spagna, 1 Italia, 1 Germania). I luoghi della morte: 8 Asia (4 Iraq, 3 Filippine, 1 Sri Lanka), 7 America (3 Messico, 2 Colombia, 1 Brasile, 1 Guatemala), 4 Africa (2 Sudafrica, 1 Kenya, 1 Ruanda), 2 Europa (Spagna). Non sempre, dunque, si tratta di luoghi in cui i cristiani sono minoranza; anzi, spesso sono Paesi in cui – almeno formalmente – c’è libertà religiosa e la presenza della Chiesa cattolica è antica o almeno secolare, e consolidata. Anche in quei luoghi, tuttavia, i «testimoni dell’amore» non vivono in un mondo a parte. Il loro è – letteralmente, evangelicamente – un intercedere, uno stare in mezzo, fra gli ultimi, fra le vittime della povertà, della violenza, dell’ingiustizia: consapevoli che potrebbero essere chiamati a «offrire la vita». Come il Buon Pastore, il cui Vangelo hanno scelto di annunciare.
Preti, religiosi, diaconi: otto sono morti in Asia, sette nelle Americhe, quattro in Africa, due in Europa Vittime della stessa violenza che colpisce le popolazioni fra le quali sono impegnati, in contesti di povertà, degrado, ingiustizia Come il «protomartire» Stefano, hanno saputo coniugare «l’impegno sociale della carità» e «l’annuncio coraggioso della fede». In queste parole di Benedetto XVI, la «bussola» dell’ultimo dossier Fides



Viva Harry Potter, abbasso la Rowling
DI MASSIMO INTROVIGNE
Avvenire, 29.12.2007

Prima afferma che Silente è un omosessuale. Poi rifiuta Tolkien, suo maestro. Infine, nega perfino di essere cristiana. La stampa «liberal» ringrazia, ed esalta il suo libro

Emoziona l’uscita in Italia di Harry Potter e i doni della morte, il settimo e ultimo volume della saga del maghetto? Pochi, per la verità, sono riusciti a non leggere le recensioni dell’edizione inglese, e quindi a non sapere già come va a finire. Il titolo fa riferimento a tre doni che la Morte fa a tre fratelli che la hanno sfidata: una bacchetta magica, una pietra che promette di resuscitare i morti e il mantello dell’invisibilità che chi ha letto i volumi precedenti sa essere già in possesso di Harry Potter. Da questa vecchia storia – verso cui attira la sua attenzione nel testamento Silente, l’amato maestro ucciso al termine del sesto volume – Harry Potter finisce per essere ossessionato, dedicando alla ricerca dei due 'doni della morte' che gli mancano forse più tempo di quanto dovrebbe, impegnato com’è – con gli amici Ron ed Hermione – nella lotta finale contro l’Oscuro Signore, Lord Voldemort.
Tre temi dominano i trentasei capitoli del romanzo. Il primo è quello degli oggetti magici: non solo i 'regali della Morte' ma le bacchette magiche – per molte delle oltre seicento pagine Voldemort gira il mondo, uccidendo e torturando, alla ricerca della bacchetta perfetta che gli permetterà di sconfiggere Harry – e gli ' horcruxes' dove l’Oscuro Signore ha disseminato frammenti della sua anima per assicurarsi l’immortalità e che Harry deve trovare e distruggere. E tuttavia la lezione del libro è che non sono gli oggetti a vincere le battaglie fra il Bene e il Male, ma le persone: non esiste la bacchetta magica perfetta, ogni bacchetta vale soltanto quanto chi la usa. Il secondo tema – che la Rowling riprende ampiamente da Orwell – è la corruzione del potere: il ministero della Magia cade quasi senza lottare nelle mani di Voldemort e s’impegna prima a discriminare, poi ad arrestare e uccidere i maghi che non sono 'di sangue puro', non sono cioè nati da genitori maghi. La metafora del nazismo e di altri totalitarismi è inequivocabile. E, poiché i maghi 'purosangue' inebriati di potere organizzano attentati anche contro gli inglesi che ignorano l’esistenza del mondo parallelo della magia, non manca neppure il riferimento al terrorismo. Il terzo tema è il valore redentivo delle molte sofferenze che attendono Harry Potter, che qui, come altri eroi della cultura popolare, diventa una figura di salvatore pronto a morire per la salvezza degli altri. E fa da filo conduttore al romanzo una frase della Prima lettera ai Corinzi (15,26) che Harry trova su una pietra tombale in una vecchia abbazia: «L’ultimo nemico a essere sconfitto sarà la morte».
Senonché fra l’uscita dell’edizione inglese e quella dell’edizione italiana è successo qualche cosa di sgradevole. Gli spunti implicitamente cristiani sono stati notati da quasi tutti i critici, e il romanzo – per quanto alcuni ancora non si fidino – è stato promosso da autorevoli riviste cattoliche e protestanti.
Ma, ogni medaglia ha il suo rovescio, e la Rowling è stata attaccata dalla stampa laicista internazionale come vittima del complesso identitario che dopo l’11 settembre ha portato a riscoprire il cristianesimo anche scrittrici un tempo in fama sulfurea come Anne Rice, che oggi è passata da Intervista col vampiro ai libri devoti e si proclama «una scrittrice per Cristo». Se la Rice si è limitata a dire che comunque voterà Hillary Clinton, la Rowling si è davvero spaventata all’idea di essere esclusa dall’eletto consesso degli scrittori di moda, che devono essere per definizione irreligiosi e sostenitori del matrimonio dei gay.
Prima si è fatta applaudire a New York affermando che Silente, come se l’immagina la scrittrice, è un omosessuale (ma per fortuna il lettore non se ne accorge). Poi, dopo avere rimosso dalle sue biografie online il riferimento all’affiliazione religiosa riformata, si è messa a dichiarare agli intervistatori (anche in Italia) di sentirsi «attratta dall’assoluto» ma non cristiana, e convinta che «si possa vivere una vita buona e utile senza credere in Dio», mentre «credere in Dio non garantisce una vita morale». Ripudiato anche Tolkien (troppo cattolico), un tempo riconosciuto come maestro, la Rowling potrà tranquillamente fare Capodanno con i colleghi della lobby degli scrittori liberal cui sono garantite buone recensioni dal New York Times e da Repubblica. Una ragione per buttare via Harry Potter? Non necessariamente. Senza aspettare Umberto Eco, già il Medioevo conosceva la differenza fra intentio auctoris, le idee dell’autore, e intentio operis, quel che oggettivamente può trasmettere l’opera. Un fior di anticlericale come Collodi ha creato con Pinocchio una storia suscettibile (ce lo insegna il cardinale Biffi) di un’interpretazione cristiana. Su Harry Potter il dibattito continua: ma il maghetto ormai appartiene più ai lettori che all’autrice. Chi lo apprezza, di fronte alle ultime discutibili esternazioni della scrittrice, ha tutto il diritto di rispondere: Viva Harry Potter, abbasso la Rowling.