mercoledì 5 dicembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza
2) La vita bussa a 22 settimane Ma qualcuno non ci crede
3) Troppo piccolo per aver diritto alla vita
4) I malati di Sla: «Aiutateci a vivere» - Lettera-appello al presidente Napolitano
5) Altolà dalla Gran Bretagna contro la «cristianofobia»
6) La speranza è "sociale"



Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza
Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
martedì 4 dicembre 2007
«Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole o più grandi: risolvere questo o quell’altro compito per l’ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro impegno dare un contributo affinché il mondo diventi un po’ più luminoso e umano e così si aprano le porte verso il futuro. Ma l’impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per il futuro dell’insieme ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la luce di quella grande speranza che non può essere distrutta neppure da insuccessi nel piccolo o dal fallimento in vicende di portata storica. Se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza. E’ importante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita e per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più nulla da sperare. Solo la grande speranza - certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite dal potere indistruttibile dell’Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un’importanza, solo una tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio di operare e di proseguire» [SS. n. 35].

Dopo tanti tentativi della modernità falliti anche l’autocritica ci porta a dire che non possiamo “costruire” il regno di Dio con le nostre forze, né solo con le pur preziose scoperte scientifiche, né solo con la cultura, né solo con la politica, né solo con l’economia - ciò che costruiamo rimane sempre regno dell’uomo con tutti i limiti che sono propri della natura umana e il nostro io originariamente tende all’infinito. IL regno, la sovranità di Dio è un dono, e proprio per questo è grande e bello e costituisce la risposta a quella speranza che Dio stesso ha posto come tensione in ogni cuore. Solo questa speranza donata è una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un po’ o tanto faticoso e può essere vissuto a accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Non possiamo “meritare” il cielo con le nostre opere. Esso è sempre più di quello che meritiamo, così come l’essere amati senza misura, fino al perdono non è mai una cosa “meritata”, ma sempre in dono. E tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del “plusvalore” del cielo, rimane anche sempre vero che il nostro agire non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il mondo all’ingresso continuo di Dio: della verità, dell’amore, del bene con la sola forza della verità dell’amore, del bene. E’ quanto hanno fatto i santi che, “collaboratori di Dio”, hanno contribuito alla salvezza, alla redenzione del mondo in forza della quale ci è stata donata la speranza, una speranza veramente affidabile. ((1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2).
Possiamo liberare la nostra vita e quindi il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro. Possiamo scoprire e tenere pulite le fonti della creazione e così, insieme con la creazione che ci precede come dono, fare ciò che è giusto secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalità: è questa la vera impostazione etico- morale. E ciò conserva un senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili. Così, per un verso, dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri; allo stesso tempo, però, è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire.
Come l’agire, anche la sofferenza fa parte dell’esistenza umana ed è luogo di apprendimento della speranza
La sofferenza deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa dell’uomo e del Maligno che, nel corso della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell’amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell’esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. Nella lotta contro il dolore fisico si è riesciti a fare grandi progressi; la sofferenza degli innocenti e anche le sofferenze psichiche sono, però, piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità - semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, del Maligno, della colpa che - lo vediamo - è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio da cui viene solo il bene: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo in tutto uguale a noi tranne che nel peccato e soffre in essa, è tentato. Noi sappiamo che questo Dio c’è e che perciò questo potere che “toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29) e, vittorioso su Satana, libera dal negativo malefico è presente nel mondo e tutti vi possono accedere. Con la fede nell’esistenza di questo potere accessibile nella preghiera e nell’azione, è emersa la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di un cammino continuo di speranza e non ancora di compimento; speranza, fiducia che ci dà il coraggio di metterci dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza speranza, nella consapevolezza che, stando allo svolgimento della storia così come appare all’esterno, il potere della colpa e del Maligno rimane anche nel futuro una presenza terribile che richiede continuamente “redenzione”, “guarigione”, “liberazione”, “salvezza” che, secondo la fede cristiana confermata dall’esperienza storica, non è un dato di fatto ma sempre un avvenimento di grazia.
Possiamo e quindi dobbiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo cadere nella illusione di eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione disperata della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione inevitabile e in essa maturare, trovare senso mediante l’unione con la Persona di Gesù Cristo, che nella sua fase terrena ha sofferto con infinito amore e Risorto ci sta accanto, ci aiuta perché non soccombiamo nella disperazione. Il Papa riporta alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le - Bao - Thin (+ 1857), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede, l’equivalente della speranza. “Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia. Questo carcere è davvero un’immagine dell’inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni si aggiunge infine angoscia e tristezza. Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me…Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiavano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini e i Serafini? Ecco, la tua croce è calpestata ai piedi dei pagani! Dov’è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell’ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore. Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata la tua forza davanti alle genti…Fratelli carissimi, nell’udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia…Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l’ancora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore”. Il Papa osserva che questa è una lettera dall’“inferno”. Si palesa tutto l’orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s’aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse strumenti della crudeltà degli aguzzini. La sofferenza e i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. E’ sorta, tuttavia, la stella di quella speranza affidabile, l’ancora del cuore che giunge fino al trono di Dio, in virtù della quale si può affrontare anche un presente faticoso che può essere vissuto ed accettato in vista di una meta sicura. Non viene scatenato il male nell’uomo, ma vince la luce: la sofferenza - senza cessare di essere sofferenza - diventa nonostante tutto canto di lode.

La misura dell’umanità si determina essenzialmente dal rapporto con la sofferenza e il sofferente
Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com - passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele, disperata e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un Altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore e quindi della speranza.
Elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso
Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente. Ne siamo capaci? E’ l’altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che soffre? E’ per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? E’ così grande la promessa dell’amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell’umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell’uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio - la Verità e l’Amore in persona - ha voluto soffrire per noi e con noi. Dio non può patire, ma può compatire. L’uomo, ogni uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter compatire con l’uomo, in modo reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù che si lasciò uccidere per liberarci, redimerci dalla sofferenza e farci sperare. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole e grandi speranze - di una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, della liberazione da elementi malefici e così via. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare - giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità - sapendo che proprio così viviamo la vita, la speranza. Occorre ripetercelo: la capacità di soffrire dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell’essere - uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza che dà la possibilità di affrontare anche un presente faticoso, di accettarlo, viverlo in vista di una meta di cui siamo sicuri.
Il Papa parla di una forma di devozione, qualche volta con delle esagerazioni anche malsane, nella quale si “offrono” le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. Ma che cosa vuol dire “offrire”? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande compatire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all’economia del bene, dell’amore tra gli uomini. E il Papa si chiede: “Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi”.


La vita bussa a 22 settimane Ma qualcuno non ci crede
Avvenire, 5.12.2007
ASSUNTINA MORRESI
G randi prematuri: quasi un ossimoro per indicare bambini piccolissimi, nati poco oltre la metà della gravidanza, destinati a morte certa fino a pochi anni fa, con sempre più speranze di sopravvivere man mano che scoperte scientifiche e sviluppi tecnologici mutano la prassi medica.
Ce ne ha parlato spesso su queste pagine il neonatologo Carlo Bellieni, spiegandoci che la probabilità di sopravvivenza a 22 settimane di gestazione è oramai del 10%, e aumenta con il procedere delle settimane di gestazione.
C’è dibattito fra gli specialisti del settore, per stabilire se esiste e quale sia la soglia al di sotto della quale non tentare alcun intervento sul piccolo nato, per evitare trattamenti inutili e sproporzionati. Quello delle 22 settimane, al momento, sembra essere il limite della sopravvivenza al di fuori del grembo materno. Ma la piccola Amilla Taylor, nata pochi giorni fa a Miami a 21 settimane, è lì a dimostrare la possibilità dell’impossibile, o la facilità con cui si possono sbagliare i calcoli sulla settimana gestazionale.
Quali che siano i criteri che gli addetti ai lavori sceglieranno per decidere quando intervenire sui piccoli nati, dunque, sarà opportuno innanzitutto che non siano astrattamente rigidi ma lascino aperta la possibilità di diagnosi personale, caso per caso.
Sarà anche bene poi ricordare che al momento della nascita non c’è tempo per lunghi consulti: i grandi prematuri soffrono, non sono in grado di respirare da soli, il cuore spesso batte così lentamente che è difficile anche solo trovarlo. E i medici devono decidere subito, perché per ogni secondo che passa senza che il cervello venga ossigenato bruciano irreparabilmente migliaia di neuroni.
In questi casi è però sbagliato e fuorviante parlare di rianimazione: il primissimo intervento consiste semplicemente nel far respirare il bambino, a volte usando l’ossigeno, a volte l’aria dell’ambiente.
Esclusivamente aiutandolo subito a respirare se ne potranno poi valutare i segni vitali, e solo in un secondo momento si potrà stabilire se e come continuare a intervenire, in stretta relazione con i genitori.
Crediamo che questa prima opportunità di sopravvivenza non si possa definire 'accanimento', e anzi riteniamo che al di sopra delle 22 settimane una chance vada sempre data, ogni volta a giudizio del medico.
Ricordando la piccola, tenace Amilla.
C’è poi chi ritiene sia inutile intervenire su un prematuro se ci sono elevate probabilità che rimanga disabile. Costoro parlano di 'qualità della vita', sostenendo che un’esistenza condannata a gravi disabilità non valga la pena di essere vissuta (ma chi stabilisce il limite di gravità dell’handicap?): meglio sarebbe, dicono, non iniziarla mai. Ma al momento della nascita nessuno è in grado di dare con certezza una rigorosa prognosi di disabilità: esistono bambini perfettamente normali dopo una nascita segnata da gravi sofferenze, come anche bambini apparentemente vitali che poi mostrano gravi danni cerebrali. È soprattutto intollerabile e indubbiamente discriminatorio stabilire che ci siano persone senza diritto di soccorso e di cura alla nascita solo perché in futuro potrebbero essere disabili. Se accettassimo questo principio, se un certo grado di disabilità fosse il criterio per decidere di aiutare o meno la sopravvivenza di una persona (in questo caso già nata), in breve questo spietato parametro verrebbe esteso a tutti: neonati, adulti, anziani, persone di qualunque età. È così? Allora non nascondiamoci dietro ai 'grandi prematuri', e parliamo esplicitamente di discriminazione verso chi è più fragile.


Troppo piccolo per aver diritto alla vita
E’ tornata in questi giorni a farsi viva sui giornali una proposta che circola ormai da tempo, nonostante abbia avuto secche reazioni negative: l’idea che si possa non curare chi nasce estremamente piccolo…
di Carlo Bellieni


E’ tornata in questi giorni a farsi viva sui giornali una proposta che circola ormai da tempo, nonostante abbia avuto secche reazioni negative: l’idea che si possa non curare chi nasce estremamente piccolo. Abbiamo già spiegato come questa posizione sia molto carente e non voluta dai neonatologi italiani. Ma di fronte agli inascoltati appelli che abbiamo fatto in nome di una laica aderenza ai dati scientifici, cosa resta? Cosa resta quando non si riconosce che nessuno - uomo o donna - può giurare sull’esatta età di un feto (e si propone invece di stabilire un’età sotto cui non rianimare)? Quando non si accetta che alla nascita non ci sono strumenti certi per fare una prognosi sui neonati, ma solo strumenti approssimativi (e si propone invece di rianimare sulla base di certi segni vitali)? Quando il fatto che sopravviva “solo” un paziente su dieci fa proporre di non curarne nessuno? Cosa resta, infine, quando non ci si arrende di fronte all’evidenza che la disabilità non è la parola finale sulla vita?
Invece di chiedere più spazi e fondi per le famiglie con disabilità, ci si incammina per una scorciatoia che non si prenderebbe per un paziente adulto. Invece di trovare nelle Finanziarie fondi per la riabilitazione, per le famiglie, per le terapie dei soggetti bisognosi, invece di combattere le barriere architettoniche, creare libri in braille per non vedenti e strumenti per chi è colpito nel corpo e nella mente dalla malattia… cosa si fa? Già: invece di costruire strade di solidarietà ci si arrende alla solitudine.
Insomma: cosa resta quando si chiede di non rianimare un bambino? Quando si dice che è accanimento terapeutico rianimarli dato che solo in pochi sopravvivranno, e si sa che negli anni ’60 solo il 10% dei nati di peso sotto il chilo viveva… ma si rianimavano, e la medicina è andata avanti… e oggi ne sopravvive il 90%! E’ stato forse accanimento terapeutico quello?
Cosa resta? Non so cosa resta in chi legge. A noi neonatologi resta solo la possibilità di obiettare, di fare obiezione di coscienza, pur sapendo che non si tratta di un problema di “coscienza” (cioè di morale), ma di ragione, di clinica, di scienza. Ci resta la protesta che non sarà silenziosa, ma farà sapere a tutte le mamme cosa accade. Ci resta l’obiezione di coscienza, perché dare una chance a tutti è il nostro dovere come medici, che non possiamo strapparci di dosso, che faremo con tutti i nostri limiti, ma che è la nostra professione, quella grazie a cui tante delle persone che leggono queste righe oggi hanno tra le braccia un bambino o una bambina, magari nata gravissima e tolta alla morte.
Dunque ci siamo arrivati. Ci diranno a cosa andremo incontro quando rianimeremo un piccolissimo, quando faremo di tutto per darlo alla sua mamma? Cosa ci attenderà se stimoleremo un bambino a reagire o se tenteremo di salvare con un po’ di ossigeno un prematuro? Aspettiamo notizie.

L’Occidentale 05 Dicembre 2007


LA DIFESA DELLA VITA

Melazzini: la nostra patologia è inguaribile, perciò curabile. No alla logica dell’utilitarismo
I malati di Sla: «Aiutateci a vivere» - Lettera-appello al presidente Napolitano
Avvenire, 5.12.2007
DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
Prima di disquisire in astratto su un presunto «diritto a morire», ci sono «cento passi da fare» e almeno diecimila firme da mettere all’appello che i malati di sclerosi laterale amiotrofica rivolgono al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al quale saranno consegnate dopo il termine della raccolta, fissato per l’11 febbraio, giornata del malato. Le adesioni stanno già arrivando. Il sito
www.liberidivivere.it, aperto l’altroieri, senza aver usufruito di nessun battage pubblicitario, ne contiene già centinaia, cosa che fa ben sperare nel raggiungimento e nel superamento di quota diecimila. I «cento passi» li ha evocati ieri a Roma, in un incontro per presentare l’iniziativa, il giornalista del «Resto del Carlino» Massimo Pandolfi, parlando di tutto ciò che le istituzioni possono fare per migliorare dal punto di vista della burocrazia, dei servizi sanitari, e delle tecnologie (si pensi al sintetizzatore vocale) la vita di chi è affetto da questa patologia, Ma ad attivarsi non devono essere solo i politici, queste persone non vanno lasciate sole. E un ruolo ce l’hanno anche i mass media. «Sembra quasi che ci sia una corsa all’eutanasia.
Girando l’Italia, ho scoperto una realtà completamente diversa». Pandolfi ha scritto un libro­reportage ( L’inguaribile voglia di vivere, edizioni Ares), in cui ha ascoltato nove persone affette da Sla. Una di queste è Mario Melazzini, che è tra i promotori della sottoscrizione. Ieri ha ricordato come, ai tempi della lettera di Welby a Napolitano e anche prima, fossero state fatte passare sotto silenzio dalla stampa manifestazioni verso il mondo politico da parte dei malati di Sla – riuniti nell’associazione da lui presieduta l’Aisla – che chiedevano assistenza, non morte. Uno di loro aveva pure scritto al Colle, ricevendo una risposta privata. «Mi sono sentito obbligato come cittadino, uomo e medico a stimolare maggiormente le istituzioni affinché ci diano risposte concrete. Spero che Napolitano ci possa rispondere», ha detto il medico ridotto dalla malattia su una sedia a rotelle, ma che non ha perso la sua vitalità. Dice che la terribile patologia di cui è affetto «è inguaribile, perciò curabile», cioè necessita di vicinanza umana e di cure palliative. Rifiuta un «concetto di qualità della vita ispirato all’utilitarismo». Usa la cruda metafora della «persona umana vista come una patente a punti», che scalano con le disabilità. Infine, non ci sta alla logica del caso pietoso e parla di «strumentalizzazione di casi paradigmatici» per spingere «un bisogno che non c’è», quello di morte, che «non è un diritto, ma un fatto». Melazzini, intervistato da Marco Piazza di Telehon, anche lui presente ieri, è il protagonista di un altro libro Un medico, un malato, un uomo (Lindau), in cui racconta con la consueta lucidità se stesso, «come uomo prima ancora che come malato. Spero che mi leggano i sani. E anche qualche politico». Chiamati in causa ieri, non hanno potuto partecipare – bloccati in Senato dalla conversione in legge del decreto sulla sicurezza – né il presidente della Commissione Igiene e Sanità di Palazzo Madama Ignazio Marino, né il ministro della Salute Livia Turco. A quest’ultima ha accennato Melazzini: «È una persona molto attenta, qualcosa lo sta facendo, ma potrebbe fare di più». C’erano invece Antonio Palmieri, un altro dei promotori della sottoscrizione, Elisabetta Gardini e Domenico di Virgilio, tutti e tre di Forza Italia. «La manifestazione di oggi è monopartisan – ha spiegato Palmieri –, ma me ne farò promotore tra tutti i colleghi parlamentari. L’iniziativa è a carattere popolare. L’obiettivo è quello di coinvolgere tutti i cittadini, a ogni livello, a partire dal Capo dello Stato». Questi sono temi che «dovrebbero suscitare una discussione senza barriere o pregiudizi», al di là delle logiche di appartenenza e schieramento, aveva esordito il moderatore dell’incontro, il direttore del Tg2 Mauro Mazza.
Partita raccolta di firme online, che punta a superare 10mila adesioni da presentare al capo dello Stato


LIBERTÀ IN PERICOLO
In molte scuole del Regno Unito non ci sono più le recite con il Presepe per non «offendere le altre religioni». Alcuni vogliono anche bandire l’immagine di Gesù dalle cartoline augurali
Altolà dalla Gran Bretagna contro la «cristianofobia»
Avvenire, 5.12.2007
DA LONDRA
ELISABETTA DEL SOLDATO

Un deputato conservatore britanni­co ha allertato i suoi colleghi che la Gran Bretagna potrebbe presto di­ventare un «Paese cristianofobo». In una attacco alla «piaga del politicamente cor­retto che da decenni colpisce i nostri cit­tadini », Mark Pritchard ha dichiarato ieri che «i tentativi di mettere le tradizioni cri­stiane ai margini della vita britannica so­no andati troppo avanti». E che «rischia­mo ora che il Cristianesimo sia soffocato». Il parlamentare ha detto di non voler of­fendere persone appartenenti ad altre fe­di, «ma di voler riconoscere e proteggere la tradizione cristiana di questa nazione». Oggi sottoporrà la questione ai suoi colle­ghi a Westminster.
La questione della «cristia­nofobia » è particolarmen­te sentita dopo che alcuni sondaggi hanno confer­mato che in quattro quin­ti delle scuole britanniche non si celebra la nascita di Gesù. «Non voglio dire che bisogna festeggiare solo il Natale - ha proseguito Prit­chard - e non voglio criti­care la diffusione delle al­tre religioni, ma il Natale è particolarmente impor­tante per il suo messaggio di amore, pace e luce. La libertà di parola e di fede sono principi fondamentali di o­gni democrazia liberale e spero che que­sto dibattito sortirà cambiamenti».
Pritchard ha poi ricordato come troppo spesso il lavoro fatto dai cristiani nei cam­pi del volontariato e negli altri servizi ai più bisognosi sia sottovalutato. «Alcune persone - ha detto il deputato - sembrano aver dimenticato il contributo fornito al­l’arte, alla cultura e alla scienza dal Cri­stianesimo. È ora giunta l’ora di puntare i piedi –ha spiegato Pritchard – Chi vuole vedere la Chiesa ridotta ai margini di que­sta nazione abbia il coraggio di dirlo invece di usare i diritti delle altre religioni come pretesto».
Qualche tempo fa la comunità cristiana a­veva lamentato il ricorso ad un uso ipo­crita del politicamente corretto quando alcuni Comuni avevano deciso di rinomi­nare le festività natalizie come «celebra­zioni stagionali» per non offendere i non cristiani. Alcuni avevano chiesto di cam­biare le insegne natalizie sulle strade o ad­dirittura bandire le immagini della nasci­ta di Gesù da cartoline o francobolli.
Un’altra realtà è quella della religione in­segnata nelle scuole dove il cristianesimo ha sempre di più un ruolo marginale. Mol­to spesso, come ha sottolineato il deputa­to conservatore, festività musulmane o indù hanno la precedenza. E sempre di meno le scuole propongono la tradizio­nale recita natalizia ai genitori.
«L’aspetto più triste - ha concluso Prit­chard - è che sono gli stessi cristiani a vol­te che non si fanno avanti per paura di re­care offesa. Ed è profondamente sbaglia­to non avere la libertà di esprimere la pro­pria fede».
L’allarme di un deputato: «Vogliono cancellare la tradizione religiosa del nostro Paese»


La speranza? È «sociale» intervista
La «Spe salvi» insiste su un cristianesimo poco individualista e non solo occidentale, perciò critica il progresso Parla René Girard
DA PARIGI
DANIELE ZAPPALÀ
Avvenire, 5.12.2007
« M i ha molto colpito l’accosta­mento nell’enciclica fra fede e speranza, quando si sottolinea che esse vengono quasi confuse lungo la sto­ria del messaggio cristiano. Il Papa sembra rimproverare al mondo più l’assenza di spe­ranza che di fede, dato che la speranza ha un ruolo essenziale nella fede». Il grande antro­pologo francese René Girard ha letto la Spe Salvi con gli occhi del credente, oltre che con quelli dell’instancabile e­sploratore del sacro.
Professore, quali impres­sioni hanno accompa­gnato la sua lettura?
«Ancora una volta, in que­st’enciclica si avverte con forza la volontà di Bene­detto XVI di mettere l’ac­cento sulle verità fonda­mentali del cristianesimo, oggi spesso trascurate. La speranza cristiana, ci vie­ne detto, non è così indivi­dualistica come la nostra epoca tende a far credere.
Al contempo, affrontare il mondo sociale nell’ottica delle ideologie mo­derne è riduttivo e fuorviante».
In che senso lei parla di un’enciclica «socia­le »?
«Nel senso, direi, di un ritorno alle basi socia­li fondamentali del cristianesimo. La cristia­nità nel suo insieme è più importante di cia­scuno di noi. Ed essa è minacciata da una fal­sa concezione del progresso. Una minaccia diretta, in un certo senso fisica, grava sul no­stro mondo. Mi pare che l’enciclica alluda chiaramente ai problemi posti dagli arma­menti, dall’ambiente, dal consumo di petro­lio ».
Nella prima parte, si rievoca l’avvento della speranza cristiana in un mondo pagano sprovvisto di prospettive.
«Ci viene detto molto chiaramente che gli dei del mondo antico, come quelli romani, non potevano apportare la speranza agli uomini. Il Dio dei cristiani è del tutto diverso. Il suo a­more e il suo interesse per gli uomini sono co­stanti, profondi, molto più profondi della no­stra stessa concezione della natura umana».
L’enciclica ricorda anche le prime rappre­sentazioni di Cristo come un filosofo. Perché, a suo parere?
«Si trattava di uno sguardo che non prestava sufficiente attenzione alla Passione, al dato es­senziale del cristianesimo. Quest’evento era talmente nuovo che mancava anche il lessico per parlarne. Ma pure oggi possiamo chiederci se non siamo ancora in cammino verso inter­pretazioni più profonde della Passione. L’en­ciclica invita, mi pare, a una riflessione co­stante sul fatto che Dio è più vicino a noi per­ché esiste questa sofferenza così necessaria nel rapporto fra Dio e l’uomo».
Una sofferenza ricordata dalle figure di san­tità citate.
«I modelli di santità nell’enciclica sono mo­derni e provengono da Paesi non occidentali che hanno enormemente sofferto e che non avevano una tradizione cristiana. L’enciclica insiste dunque sull’universalità del cristiane­simo e sul fatto che esso è vivo anche dove gli occidentali tendono a non volgere lo sguardo. In queste regioni, il cristianesimo cresce e rag­giunge espressioni per certi aspetti più inten­se che nell’Occidente rigonfio di scienza e del­le sue capacità di produzione».
«La fine di tutte le cose» di Kant viene indi- cata come come una pietra miliare dei dub­bi sul progresso. La sorprende questa cita­zione?
«Questo passaggio dell’enciclica è molto in­teressante perché sottolinea come la filosofia moderna, se la si guarda più da vicino, è me­no semplicista nella sua visione della moder­nità, della scienza e del progresso di quanto spesso si dica. Anche nella filosofia, dunque, la nostra coscienza può trovare spunti per ve­gliare di fronte ai pericoli che attraversano il nostro tempo».
Ma la filosofia, ad esempio quella di Marx, può diventare anche base di ideologie drammatiche.
«L’enciclica ci ricorda proprio il vizio princi­pale delle utopie moderne. Esse credono pos­sibile di poter – per così dire – completare in modo definitivo l’umanità, ma ogni volta la realizzazione dell’utopia lascia l’uomo nello sconforto. Oltre che deteriore, questo genere d’utopismo oggi comincia ad apparire terri­bilmente superato, nella sua concezione pu­ramente materialistica e senza prospettive spi­rituali della felicità umana. Accanto a tutto ciò, il cristianesimo appare come un’apertura ver­so l’infinito che non può venire colmata».
E in quest’apertura infini­ta, il cristiano non può di­menticare il Giudizio uni­versale.
«La parte finale dell’enci­clica ci ricorda che il mo­do in cui il cristianesimo ha concepito il destino dell’uomo resta oggi per­fettamente valido. Vi è qui un ritorno alla tradizione ecclesiale della cristianità e un richiamo all’ap­profondimento del cristia­nesimo attuale attraverso le fonti originali e le virtù teologali, da opporre alle nostre piccole fedi e speranze quotidiane. A tratti, sembra che il Papa voglia mostrare co­me per questo mondo disilluso non sarebbe difficile volgersi verso il cristianesimo. Mi pa­re cruciale l’insistenza dell’enciclica sul fatto che non può esservi scoperta di strutture ca­paci di garantire la pace in modo permanen­te. L’uomo è tale che non può liberarsi da solo delle fonti della sua autodistruzione».
La speranza cristiana è anche quella dell’u­nione fra i cristiani.
«Sì, il ritorno all’unità è presente fra le righe co­me una missione essenziale. La preoccupazione dell’unità è costante perché si ricono­sceranno i cristiani proprio da quest’unione. Oggi non siamo riconoscibilmente cristiani perché restiamo profondamente divisi».