Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL RABBINO LANCIA PIETRE CONTRO BENEDETTO XVI ma le «pietre» sono partite dalla rivista “Popoli”di proprietà dei Gesuiti… - dal sito Fattisentire.net – 14 gennaio 2009
2) Quando la vita vince l’orrore: viaggio nel campo della morte di Birkenau - “Sono stato un numero”, scritto da Roberto Riccardi di Antonio Gaspari
3) 14/01/2009 09:04 - ISRAELE – PALESTINA - A Gaza si combatte ancora; arriva Ban Ki-moon - di Joshua Lapide - Il segretario Onu non incontrerà rappresentanti di Hamas. Abbas: Israele vuole “annientare” la popolazione della Striscia. I morti hanno raggiunto quota 975. L’Onu accusa Israele di non rispettare i diritti dei bambini. Anche la Croce Rossa internazionale chiede rispetto per i feriti e per coloro che li curano.
4) Da Israele.net - 14-01-2009 Immagini da una guerra etica Documentazione - Quasi nessuno sembra ascoltare i continui bollettini delle autorità israeliane sugli ininterrotti transiti di convogli con aiuti umanitari verso la striscia di Gaza, e intanto molti mass-media continuano a riportare senza controlli le menzogne diffuse da Hamas e altre fonti affini. Quasi nessuno, inoltre, sembra dare ascolto o credito alle continue denunce israeliane di come Hamas confischi la merce e i generi alimentari introdotti. - Ecco perché il ministero della difesa israeliano ha deciso di rendere disponibile un servizio video on-line in collegamento diretto con il valico di Kerem Shalom, tra Israele e striscia di Gaza, con trasmissioni durante le ore di funzionamento del valico, grazie al quale tutti possono vedere la quantità e il flusso continuo di convogli.
5) Da Israele.net - 14-01-2009 Cecità morale di Dan Kosky - Ancora una volta mass-media, organismi internazionali come le Nazioni Unite e influenti organizzazioni non governative (ong) gettano accuse su Israele.
6) Da Israele.net - 09-01-2009 Cari cittadini del mondo Di Rotem Yacobi - Cari cittadini del mondo, l’altro mercoledì, vigilia del nuovo anno, me ne stavo seduto nel mio appartamento a Beer Sheva e si considerava se uscire o no per festeggiare il capodanno. Improvvisamente sono suonate le sirene…
7) USA/ Il ’68 rivive a Washington - Lorenzo Albacete - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) MEDIO ORIENTE/ Toni Capuozzo (Tg5): vi racconto la guerra vista da vicino - INT. Toni Capuozzo - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) ATEISMO/ La "lieta novella" della solitudine razionalista. Se queste sono buone notizie... - Alberto Contri - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) ELUANA/ Introdurre “nuovi diritti”? Ma la Costituzione tutela già il diritto alla vita - Redazione - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
11) SULLA DISAMINA DI FLICK NUOVI DIRITTI ORA BASTA INVASIONI DI CAMPO - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 gennaio 2009
12) OBAMA TRA IL PASTORE FONDAMENTALISTA E L’EPISCOPALIANO GAY - Non c’era un umile vice-parroco da arruolare per il giuramento? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 14 gennaio 2009
IL RABBINO LANCIA PIETRE CONTRO BENEDETTO XVI ma le «pietre» sono partite dalla rivista “Popoli”di proprietà dei Gesuiti… - dal sito Fattisentire.net – 14 gennaio 2009
La Chiesa cattolica, con la liberalizzazione della Messa tridentina voluta da Benedetto XVI e la conseguente reintroduzione della preghiera ''per la conversione degli ebrei'', anche se modificata per eliminarne una formulazione ritenuta inadeguata, sta ''andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant'anni'' di collaborazione e di dialogo con gli ebrei. Lo scrive, in un intervento pubblicato dalla rivista cattolica “Popoli”, il mensile internazionale dei gesuiti, il Rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Ricetti, in un commento sui lavori dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia.
Le sue parole arrivano a pochi giorni dal 17 gennaio, in cui si sarebbe dovuta celebrare la “Giornata sull'ebraismo” dalle Comunità ebraiche e dalla Chiesa cattolica. La Giornata sull'ebraismo, indetta dalla Conferenza Episcopale Italiana fin dal 1989, si celebra ogni anno per "l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano". Lo scopo è di iniziare i cristiani al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica. Quest’anno però i Rabbini italiani hanno deciso di sospendere la propria collaborazione proprio in conseguenza delle polemiche sulla preghiera ''per gli ebrei''.
Forse, oltre alla preghiera per “la conversione degli ebrei”, sarebbe urgente introdurre anche una preghiera per “la conversione dei gesuiti”…
La Chiesa sta cancellando 50 anni di dialogo tra ebraismo e cattolicesimo. Parola di Rabbino.
Viene dalla somma autorità del cattolicesimo, il Papa, la messa in discussione del dialogo con l’ebraismo. A sostenerlo, con parole pesanti come pietre, scritte nero su bianco in un intervento ospitato dalla rivista dei gesuiti, Popoli, è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti. Nell’intervento, nel quale si dà conto, a nome del Rabbinato d’Italia, dell’attuale crisi nei rapporti ebraico-cattolici in Italia, Richetti spiega che secondo Benedetto XVI "il dialogo è inutile perchè in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana" e in tal modo si va verso "la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa".
Il duro attacco dei rabbini "In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità". E sì che l’intervento del rabbino è preceduto da poche righe in cui Popoli spiega: "Il primo passo per un dialogo autentico è mettersi in ascolto delle ragioni dell’altro". D’altro canto, oggetto dell’articolo è proprio la rinuncia ebraica alla partecipazione alla giornata dell’ebraismo che si celebra ogni anno il 17 gennaio. All’origine della crisi interreligiosa il ritorno della messa in latino secondo il messale di San Pio V nel quale si invoca la conversione degli ebrei alla verità cristiana. Una preghiera che in passato aveva peraltro una formulazione ingiuriosa, quella dei "perfidi giudei", poi modificata da Benedetto XVI nel liberalizzare l’antico rito. La scelta compiuta dall’assemblea dei rabbini d’Italia, si legge nell’intervento, "è la logica conseguenza di un momento particolare che sta vivendo il dialogo interconfessionale oggi, momento i cui segni hanno cominciato a manifestarsi quando il Papa, liberalizzando la messa in latino, ha indicato nel Messale tridentino il modulo da seguire".
La preghiera del Venerdì Santo "In quella formulazione - scrive il rabbino Richetti - nelle preghiere del Venerdì Santo è contenuta una preghiera che auspica la conversione degli ebrei alla verità della Chiesa e alla fede nel ruolo salvifico di Gesù". "A onor del vero, quella preghiera - prosegue il testo - che nella prima formulazione definiva gli ebrei 'perfidi', ossia 'fuori dalla fede' e ciechi, era già stata 'saltata' (ma mai abolita) da Giovanni XXIII. Benedetto XVI l’ha espurgata dai termini più offensivi e l’ha reintrodotta". Da questo momento in poi, afferma il rabbino, la parte ebraica si è presa una pausa di riflessione nel dialogo con la Chiesa cattolica e si è avviata una fase di contatti e tentativi di mediazione. "Purtroppo - afferma il rabbino capo di Venezia - i risultati si sono dimostrati deludenti. Si sono registrate reazioni 'offese' da parte di alte gerarchie vaticane: 'Come si permettono gli ebrei di giudicare in che modo un cristiano deve pregare? Forse che la Chiesa si permette di espungere dal rituale delle preghiere ebraiche alcune espressioni che possono essere interpretate come anticristiane?'". Ancora, si rileva che non è mai arrivata una risposta ufficiale della Conferenza episcopale italiana. Altri prelati hanno affermato, spiega Richetti, che "la speranza espressa dalla preghiera 'Pro Judaeis' è 'puramente escatologica', è una speranza relativa alla ’fine dei tempì e non invita a fare proselitismo attivo (peraltro già vietato da Paolo VI)".
Un dialogo incrinato Proprio da qui prende spunto il rabbino per un giudizio estremamente severo: "Queste risposte non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità". "Non si tratta, quindi - ha aggiunto - di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all’altro come creatura di Dio. Se a ciò aggiungiamo le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perchè in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa. In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità". "Dialogare - conclude il rabbino - vuol dire rispettare ognuno il diritto dell’altro ad essere se stesso, cogliere la possibilità di imparare qualcosa dalla sensibilità dell’altro, qualcosa che mi può arricchire. Quando l’idea di dialogo come rispetto (non come sincretismo e non come prevaricazione) sarà ripristinata, i rabbini italiani saranno sempre pronti a svolgere il ruolo che hanno svolto negli ultimi cinquant’anni".
Il Giornale n. 11 del 2009-01-13
Quando la vita vince l’orrore: viaggio nel campo della morte di Birkenau - “Sono stato un numero”, scritto da Roberto Riccardi di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 13 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Era l’ottobre del 1943 quando Alberto Sed insieme alla madre Enrica e alle sorelle Angelica, Fatina ed Emma, venne preso a Roma e portato nel campo della morte di Birkenau, nel comprensorio di Auschwitz.
La madre Enrica e la piccola Emma, di nove anni, furono uccise nelle camere a gas il giorno stesso dell’arrivo perché la prima selezione le giudicò inabili al lavoro. La sorella Angelica fu sbranata dai cani, aizzati contro di lei dalle SS per un sadico divertimento.
L’altra sorella Fatina, sottoposta nel lager ai crudeli esperimenti del dottor Mengele, tornò a casa segnata da cicatrici profonde prima di morire senza essersi mai ripresa da quell’orrore.
Alberto è sopravvissuto e ora a distanza di oltre 65 anni da quegli eventi ha deciso di raccontare come è riuscito a resistere al lager e a ricostruirsi una vita. In seguito, infatti, si è sposato e ora ha tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti.
A raccontare la storia di Alberto è stato Roberto Riccardi, ufficiale dei carabinieri, giornalista, direttore responsabile della rivista “Il Carabiniere”, con il libro intitolato “Sono stato un numero” in uscita il 15 gennaio per l’Editrice Giuntina (Firenze. Pagg. 168, €15).
Riccardi ha fatto notare a ZENIT che la casa editrice Giuntina è stata fondata da Daniel Vogelmann, il cui padre Schulim, è l’unico ebreo italiano finora trovato in una delle liste di Schindler.
Il libro narra la storia di Alberto Sed, che nel 1944 ad Auschwitz divenne A-5491. Solo un numero, in cambio di un’identità e un’umanità violate, fatte a pezzi, cancellate.
Alberto fu catturato in un magazzino in cui la famiglia si era nascosta. Dopo un breve periodo nel centro di raccolta di Fossoli, fu messo a forza su un treno piombato e condotto a Birkenau, il campo peggiore del comprensorio di Auschwitz.
La madre e la piccola Emma, di nove anni, furono uccise il giorno stesso dell’arrivo perché la prima selezione le giudicò inabili al lavoro e le destinò al gas. Gli altri superarono la prova, ma qualche mese più tardi Angelica fu sbranata dai cani, aizzati contro di lei dalle SS per un sadico divertimento.
Alberto, che oggi ha ottant’anni, è sopravvissuto a numerose selezioni, alle torture e agli stenti, alle “marce della morte” e al bombardamento del campo di Dora, dove era stato portato e dove fu infine liberato.
Nel lager dovette adattarsi a lavori faticosi e a mansioni terribili, come sistemare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li portavano al crematorio. A volte le SS ordinavano ai prigionieri di lanciare i bambini in aria, per fare il tiro a segno.
Per avere più cibo, Sed accettò di fare il pugile: per gli incontri, che avvenivano la domenica e che costituivano un momento di svago per gli aguzzini, riceveva in premio qualche buccia di patate o di mele.
Riccardi ha detto a ZENIT che “la vicenda umana di Sed ci interroga con forza sul ruolo della coscienza. L’orrore della Shoà è una prova che numerose persone affrontano con coraggio. Il libro ne parla diffusamente. Fra questi piccoli eroi, le suore di un Istituto di Trastevere, che salvano i bambini dell’orfanotrofio ebraico ‘Pitigliani’ dalle SS, nascondendoli”.
Nel libro si racconta anche di un sacerdote greco, deportato ad Auschwitz per aver soccorso alcuni partigiani, che una domenica si presentò nel cortile del lager in tonaca, volendo dire la Messa per quanti intendevano ascoltarla, e venne punito con un’esecuzione crudele: spinto a forza in una vasca d’acqua fino all’annegamento.
Un altro sacerdote, in una base americana in cui Alberto Sed si trovò dopo la liberazione, accolse il ragazzo in Chiesa e gli chiede di pregare per un rapido ritorno in patria.
Quando lui rispose di non poterlo fare, perché era di una religione differente, il sacerdote non si scompose e lo invitò a recitare lo Shemà, l’atto di fede ebraico. “Dio di questi tempi non si formalizza”, scherzò.
14/01/2009 09:04 - ISRAELE – PALESTINA - A Gaza si combatte ancora; arriva Ban Ki-moon - di Joshua Lapide - Il segretario Onu non incontrerà rappresentanti di Hamas. Abbas: Israele vuole “annientare” la popolazione della Striscia. I morti hanno raggiunto quota 975. L’Onu accusa Israele di non rispettare i diritti dei bambini. Anche la Croce Rossa internazionale chiede rispetto per i feriti e per coloro che li curano.
Gerusalemme (AsiaNews/Agenzie) – Forti combattimenti sono continuati all’alba fra l’esercito israeliano e i miliziani di Hamas alla periferia di Gaza City. Intanto oggi arriva in Medio Oriente il segretario dell’Onu Ban Ki-moon, nel tentativo di fermare il conflitto che è ormai al suo 19° giorno.
Oggi Ban dovrebbe incontrare il presidente egiziano Hosni Mubarak, e quindi il governo israeliano e l’Autorità palestinese. Non incontrerà però Hamas, e ad oggi non si sa se visiterà la stessa Gaza.
Nella notte aerei israeliani hanno compiuto più di 60 raid nel sud della Striscia nel tentativo di distruggere i tunnel che dall’Egitto passano in Gaza e vengono usati per il rifornimento di razzi e munizioni.
Ieri almeno 70 palestinesi sono stati uccisi, portando il numero dei morti a 975 e quello dei feriti a 4400. Israele da parte sua afferma che i suoi morti sono 13: 10 militari e 3 civili. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha accusato Israele di voler “annientare” la popolazione della Striscia di Gaza. “Questa aggressione – ha detto da Ramallah, in Cisgiordania – diviene ogni giorno più feroce”.
Secondo il Comitato Onu per i diritti del bambino, il 40% delle vittime me palestinesi sono donne o bambini. In una dichiarazione esso accusa Israele di mostrare “un evidente disprezzo” per la protezione dei bambini a Gaza.
John Ging, capo della missione Onu per gli aiuti ai rifugiati (Unrwa), ha domandato alla comunità internazionale di proteggere i civili di Gaza: essi non trovano sicurezza da nessuna parte e il conflitto è divenuto ormai “un test per la nostra umanità”.
Anche Jakob Kellenberger, presidente della Croce rossa internazionale, visitando ieri la Striscia ha detto che “è inaccettabile vedere così tanti feriti. La loro vita deve essere risparmiata e la sicurezza di coloro che li curano deve essere garantita”.
Due giorni fa, il 12 gennaio, Israele ha aperto una “fase 3” dell’offensiva, entrando con truppe terrestri nella Striscia, ma il ministero della Difesa a deciso più tardi di frenare l’indicazione di combattere una guerra nelle vie delle città. Tale passo potrebbe complicare la ricerca di una tregua e causare pesanti perdite anche agli israeliani. Ciò potrebbe far perdere consensi al partito Kadima, ora al potere, a poche settimane dalle elezioni.
Da Israele.net - 14-01-2009 Immagini da una guerra etica Documentazione - Quasi nessuno sembra ascoltare i continui bollettini delle autorità israeliane sugli ininterrotti transiti di convogli con aiuti umanitari verso la striscia di Gaza, e intanto molti mass-media continuano a riportare senza controlli le menzogne diffuse da Hamas e altre fonti affini. Quasi nessuno, inoltre, sembra dare ascolto o credito alle continue denunce israeliane di come Hamas confischi la merce e i generi alimentari introdotti. - Ecco perché il ministero della difesa israeliano ha deciso di rendere disponibile un servizio video on-line in collegamento diretto con il valico di Kerem Shalom, tra Israele e striscia di Gaza, con trasmissioni durante le ore di funzionamento del valico, grazie al quale tutti possono vedere la quantità e il flusso continuo di convogli.
Si tratta di due telecamere: una posta all’ingresso del valico, dove giungono i convogli carichi di merce; l’altra all’uscita verso la striscia di Gaza, da dove ripartono altri mezzi pesanti giunti dal territorio palestinese per prendere in consegna i carichi portati dai mezzi provenienti dal territorio israeliano.
A queste operazioni di scarico e carico merci – necessarie per ovvi motivi di sicurezza, dato che in passato i terroristi di Hamas non hanno esitato a colpire anche questi valichi di vitale importanza per la popolazione palestinese – è dovuto il divario di tempo tra gli arrivi e le partenze dei convogli.
Che fine fanno le merci una volta raggiunta la striscia di Gaza rimane un interrogativo grave, che non deve certo essere posto a Israele.
LINK ALLE TELECAMERE DEL VALICO DI KEREM SHALOM:
http://www.mod.gov.il/pages/general/Maavar_Kerem_Shalom.asp
Un altro video istruttivo (11.01.09) mostra come l’aviazione israeliana interrompa gli attacchi anti-terroristi già in fase di esecuzione pur di risparmiare vittime civili, quando i terroristi vano a riparare deliberatamente tra le case e nelle zone affollate.
PILOTI ISRAELIANI DEVIANO I RAZZI PER NON COLPIRE CIVILI (sottotitoli in inglese):
http://switch3.castup.net/cunet/gm.asp?ClipMediaID=3276848&ak=null
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Per contrasto, si veda il seguente video (11.01.09) che mostra come i terroristi abbiano disseminato di ordigni esplosivi, collegati da cavi-miccia, una scuola adiacente allo zoo, usata anche per immagazzinare armi e munizioni. In questa occasione i soldati israeliani hanno disinnescato in tempo gli ordigni.
SCUOLA PALESTINESE IMBOTTITA DI BOMBE (sottotitoli in inglese):
http://switch3.castup.net/cunet/gm.asp?ClipMediaID=3276455&ak=null
Un altro video (8.01.09) mostra un commando di Hamas che usa mortai dal cortile di una scuola nella striscia di Gaza. La rampa viene colpita dall’aviazione israeliana prima che possa sparare. Altri lanci di razzi, invece, vengono effettuati dai terroristi durante le tre ore di “tregua umanitaria”.
Da Israele.net - 14-01-2009 Cecità morale di Dan Kosky - Ancora una volta mass-media, organismi internazionali come le Nazioni Unite e influenti organizzazioni non governative (ong) gettano accuse su Israele.
Israele ha imparato parecchio dalla guerra in Libano contro Hezbollah del 2006: non solo ha ulteriormente ridotto i danni involontariamente causati alla popolazione civile dietro cui si barricano i terroristi, ma diffonde con maggiore efficacia e rapidità nell’arena dell’opinione pubblica i risultati delle proprie indagini e delle verifiche sulle accuse che gli vengono continuamente rivolte. Ma le famose ong insistono con la loro tradizionale pratica di gettare addosso a Israele accuse infamanti per lo più non controllate né verificate.
Durante la guerra in Libano del 2006 i gruppi per i diritti umani, in particolare Human Rights Watch e Amnesty International, si affrettavano a diffondere condanne pressoché quotidiane di “crimini di guerra” e dell’uso “sproporzionato” della forza da parte di Israele. In un caso specifico, nel villaggio di Qana, Human Rights Watch sostenne – senza prendersi la briga di fare alcun controllo sui fatti – che un attacco aereo israeliano aveva causato una strage di civili. I titoli su giornali e tv di tutto il mondo furono uno dei fattori che spinsero il primo ministro israeliano Ehud Olmert a decretare una tregua di 48 ore che di fatto diede a Hezbollah, in quel momento in seria difficoltà, l’opportunità di riorganizzarsi, prolungando ulteriormente la guerra e lo spargimento di sangue. Successivamente Human Rights Watch corresse l’accusa e le cifre, ma naturalmente la ritrattazione passò quasi del tutto inosservata, e comunque il danno era già fatto.
Nel 2002, nel pieno della campagna Scudo Difensivo, quando le Forze di Difesa israeliane, dopo due anni di attentati suicidi nelle città israeliane, erano passate alla controffensiva andando a stanare i terroristi dentro i territori palestinesi, l’accusa – poi rivelatasi falsa – che avessero compiuto un “massacro” di centinaia di civili inermi a Jenin venne rilanciata e alimentata da Amnesty International, col risultato di scatenare i titoli di giornali e tv in tutto il mondo.
Da quando è iniziata la controffensiva israeliana a Gaza, le dichiarazioni delle ong seguono esattamente lo stesso schema. Ovviamente gruppi come Amnesty International e Oxfam si sono precipitati ad etichettare le operazioni israeliane come “sproporzionate” e “indiscriminate”. Poco importa se gli esperti di diritto spiegano che la proporzionalità prevista dalle convenzioni internazionali non ha nulla a che vedere con la conta dei morti (quella si chiama faida, ed è un’altra cosa; un’operazione militare ha il compito di debellare il nemico colpendone i combattenti e di cercare di subire meno perdite possibile, militari e civili, nel contempo risparmiando il più possibile anche i civili dell’altra parte). Con il valido supporto dei agit-prop di Hamas e dei mass-media, l’idea di operazioni “sproporzionate” e “indiscriminate” è diventata moneta corrente.
La manipolazione dei termini legali del problema si manifesta anche nella frequente definizione della striscia di Gaza come di un territorio “occupato da Israele”. Paradossalmente, invece, l’unico cittadino israeliano presente nella striscia di Gaza alla vigilia della controffensiva anti-Hamas era Gilad Shalit, il soldato di leva sequestrato da Hamas due anni e mezzo prima mentre era in servizio di guardia in territorio israeliano e da allora trattenuto in ostaggio senza che di lui sia dato sapere più nulla (mai permessa neanche una visita della Croce Rossa), anche se la cosa non sembra aver scosso più di tanto i gruppi per i diritti umani.
I proclami attuali delle ong non sono che la continuazione di una precedente campagna su Gaza. La risposta iniziale di Israele ai lanci quotidiani di razzi, continuati anche dopo il ritiro, fu un parziale blocco dei confini. Reagire agli attacchi contro la popolazione civile israeliana con una classica misura non-militare come le sanzioni era evidentemente “sproporzionato” nell’altro senso. Eppure le ong lanciarono in una invereconda campagna che denunciava la “politica aggressiva” di Israele e definiva “crimine di guerra” la sua decisione di imporre una “punizione collettiva” alla striscia di Gaza (per inciso, anche le sanzioni al Sudafrica razzista erano una “punizione collettiva”?).
Inoltre le ong propongono continuamente una equivalenza morale fra le azioni di Hamas e quelle delle Forze di Difesa israeliane. Ma Hamas misura esplicitamente il successo delle sue operazione dal numero di civili israeliani uccisi (qualcuno si ricorda i festeggiamenti e i dolci distribuiti per le strade dopo ogni attentato?). Viceversa Israele usa tutta l’intelligence e la tecnologia di cui dispone per cercare di mirare il più possibile ai combattenti nemici ed evitare perdite fra i civili (con la stessa logica, fa transitare convogli di aiuti umanitari anche nel pieno dei combattimenti). Stando così le cose, continuare a invocare che “tutte le parti evitino di colpire civili” serve solo a creare la falsa impressione che le parti siano egualmente e altrettanto colpevoli.
Per certi aspetti lo stesso vale per l’invocazione ripetuta da tante parti affinché “cessino tutte le violenze”. È comprensibile che politici e capi di stato vogliano darsi un’immagine di imparzialità ed equidistanza se non altro per tenersi aperte diverse opzioni diplomatiche. Ma lo stesso non dovrebbe valere per le ong. Per loro natura, i gruppi per i diritti umani non dovrebbero rispondere a logiche politiche, ma solo ad una scelta di chiarezza morale. Nel caso dei combattimenti a Gaza questa chiarezza morale non si è vista per nulla.
Da Israele.net - 09-01-2009 Cari cittadini del mondo Di Rotem Yacobi - Cari cittadini del mondo, l’altro mercoledì, vigilia del nuovo anno, me ne stavo seduto nel mio appartamento a Beer Sheva e si considerava se uscire o no per festeggiare il capodanno. Improvvisamente sono suonate le sirene. Sono corso giù per le scale nel rifugio del nostro edificio, dove sono stato raggiunto da altre due famiglie coi bambini terrorizzati, una coppia di anziani e due studenti universitari vestisti da festa che a quel punto hanno deciso starsene a casa. Siamo rimasti seduti in silenzio, ascoltando la sirena e aspettando di sentire l’esplosione. Qualche minuto dopo la detonazione, siano tornati ai nostri appartamenti. Andando a letto ho sentito che dei missili erano caduti anche su Ashkelon, e mi dicevo: speriamo che non colpiscano qualche locale affollato, anche se quasi nessuno era uscito a festeggiare il capodanno.
Giovedì, primo giorno dell’anno, sarei dovuto andare in università ma le lezioni erano state sospese. Evidentemente le autorità accademiche non volevano prendersi nessun rischio. Mentre parlavo al telefono con la mia preoccupatissima madre, guardavo gruppi di studenti salire sugli autobus diretti verso località più lontane dal fronte. Ho detto a mia madre che anche la nostra casa non è sicura e che per il momento sarei rimasto qui.
Ogni rumore mi fa sobbalzare, penso che possa essere caduto un altro razzo. Navigo per i siti di notizie, leggo che le Forze di Difesa israeliane combattono Hamas nella striscia di Gaza e penso alla gente su entrambi i lati del confine.
Sono nato in questo paese, come i miei genitori. Sono nipote di sopravvissuti alla Shoà. Mi è stato insegnato l’amore per questa terra e l’amore per gli esseri umani, chiunque siano. Ho servito nelle forze armate e oggi sono studente all’Università Ben Gurion di Beer Sheva.
Sono fiero di appartenere a questo paese, che ha un esercito con alti valori morali. E mi pongo queste domande.
Lo sa, il mondo, che le Forze di Difesa israeliane avvertono con volantini e telefonate i civili palestinesi prima di colpire gli edifici usati da Hamas come depositi di armi o basi di lancio? Lo sa, il mondo, che per tutta risposta Hamas piazza uomini, donne e bambini sui tetti di quegli edifici perché sa che a quel punto le forze israeliane (certo, salvo errori) non li colpiranno? Lo sa, il mondo, che gli uomini di Hamas sparano dai centri abitati usando i civili come scudi umani?
Lo sa il mondo che, nel momento stesso in cui stanno combattendo Hamas, le forze israeliane si preoccupano di far arrivare alla popolazione palestinese aiuti umanitari come cibo, medicine e attrezzature sanitarie? Lo sa il mondo che, mentre combattiamo per difendere il nostro diritto a vivere in pace e sicurezza, malati palestinesi vengono ricoverati e curati negli ospedali israeliani? Ha saputo, il mondo, di quei venti casi in cui dei palestinesi hanno approfittato dei loro problemi di salute, e dunque del permesso di entrare in Israele, per cercare di compiere attentati terroristici contro la nostra popolazione?
Mi domando: dove era il mondo un anno e mezzo fa, quando gli uomini di Hamas massacravano per le strade quelli di Fatah e innumerevoli altri palestinesi innocenti per prendere il potere nella striscia di Gaza? Lo sa il mondo che, da quando Israele si è ritirato dalla striscia di Gaza nell’estate 2005, Hamas e i suoi alleati hanno sparato più di 6.000 razzi e granate su Israele, colpendo cittadini innocenti?
Eppure è Israele che viene accusato dalla comunità internazionale in generale, e dai paesi europei in particolare, compresi Gran Bretagna, Francia e Russia. Tutti stati che esistono da tantissimi anni, che hanno consolidato il status mondiale, che hanno garantito ai loro cittadini la sicurezza da minacce esterne. Alcuni avevano anche colonie in altri continenti dove imponevano le loro tradizioni, la loro cultura, la loro lingua.
Lo stato di Israele esiste da sessant’anni, non ha alcun desiderio di diventare un impero mondiale né di colonizzare paesi in altri continenti. Israele vuole solo che gli stati del mondo e i suoi vicini riconoscano la sua indipendenza e sovranità. Israele vuole anche che riconoscano il suo diritto di garantire sicurezza e protezione ai suoi cittadini (come previsto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite).
Cari cittadini del mondo, svegliatevi. Se oggi Israele, in nome della “pace”, sarà costretto ad accettare missili e razzi sulla testa dei suoi figli, domani toccherà ai vostri figli.
Venerdì, secondo giorno dell’anno, siedo nel mio appartamento a Beer Sheba mangiucchiando i biscottini che il vicino del piano di sotto ha distribuito mentre eravamo nel rifugio. Siedo qui e intanto immagino una realtà in cui potrò firmare questa lettera così: Rotem Yacobi, cittadino del mondo libero.
(Da: YnetNews, 8.01.09)
USA/ Il ’68 rivive a Washington - Lorenzo Albacete - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Nel 1968, nel periodo dei disordini successivi all’assassinio di Martin Luther King Jr. vivevo in centro a Washington, lavoravo in un laboratorio nel Maryland e frequentavo i corsi serali dell’Università Cattolica nel settore nord-est della città.
Mi ricordo bene cosa fosse la vita durante quelle sommosse. Non potevo andare da casa mia all’Università, perché lungo la strada ampie zone erano bloccate dalla polizia e dalla Guardia nazionale e per aggirarle finivo per impiegare almeno tre quarti d’ora in più. La via a nord per andare al laboratorio era libera, ma da qui per raggiungere l’Università non vi era altra soluzione che aggirare ancora una volta le aree degli scontri. Nella notte eravamo sotto legge marziale e, insieme a molti coinquilini, andavamo sul tetto a vedere gli incendi.
Il centro dei disordini era l’area attorno alla Quattordicesima Strada e alla U Street, nel nord ovest di Washington, una zona di piccoli negozi (i cui proprietari non vivevano nel quartiere), di condomini fatiscenti e di casette. Un prete mio amico, che stando con la Guardia Nazionale era autorizzato a circolare nell’area, mi portò a vedere cosa stava succedendo e rimasi stupefatto nel vedere le distruzioni causate dai disordini, soprattutto dagli incendi.
Ricordo che rimasi particolarmente impressionato dai danni provocati dal fuoco a un luogo che conoscevo e mi piaceva molto, un fast-food specializzato in chili hotdogs con patate fritte al formaggio. Era sempre pieno e molti venivano a mangiare qui da altre parti della città. Non seppi mai cosa fosse successo a questo locale dopo che cessarono le sommosse, ma ho sempre sperato che avesse potuto riaprire di nuovo.
Qualche giorno fa, ho visto questo luogo in televisione, perché il presidente eletto Obama e il sindaco di Washington erano andati lì a mangiare. Il sindaco, un afro-americano nato a Washington, era un ragazzino nel 1968, così come lo era Obama da qualche parte nelle Hawaii. Il primo presidente afro-americano stava mangiando al Chili Hot Dog della Quattordicesima Strada, proprio pochi giorni prima del suo insediamento, subito dopo la celebrazione della festività nazionale in onore di Martin Luther King, e ora lui e il sindaco erano trattati come due normali clienti. Chi avrebbe potuto immaginare una simile scena nel 1968?
È per questo che la prossima settimana, quando Obama presterà il suo giuramento e diventerà presidente degli Stati Uniti, la maggior parte degli americani, progressisti o conservatori, Democratici o Repubblicani, che vissero quei giorni proveranno una grande gioia che supererà per un momento ogni differenza politica e qualche lacrima sarà versata.
MEDIO ORIENTE/ Toni Capuozzo (Tg5): vi racconto la guerra vista da vicino - INT. Toni Capuozzo - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Bloccare i lanci di missili da Gaza, e impedire le forniture di armi in futuro. Questi gli obiettivi di Israele, mentre le truppe avanzano verso l’interno di Gaza City, non certo con l’intento di occupare la città, ma solo di rendere sempre più complicata la prosecuzione delle attività militari da parte di Hamas. È questa l’opinione del vicedirettore del Tg5 Toni Capuozzo, il quale, appena rientrato dalle zone degli scontri, spiega a ilsussidiario.net qual è nel dettaglio la situazione della guerra in Medio Oriente.
Capuozzo, cerchiamo innanzitutto di capire a che punto sono le operazioni militari. Israele ha parlato di “terza fase”: cosa significa?
Bisogna ragionare sui pochi elementi certi che abbiamo. Uno di questi è il fatto che Israele ha fatto entrare nella Striscia di Gaza i riservisti: ad essi probabilmente verrà affidato il presidio delle zone già controllate dentro Gaza, mentre i reparti professionali di leva si spingono più avanti. Ciò detto non credo proprio che Israele voglia prendersi la patata bollente di rioccupare Gaza, lasciata qualche anno fa con i costi che sappiamo. Più probabile che l’obiettivo finale sia rioccupare la fascia di confine con l’Egitto, e stabilire una fascia di sicurezza a nord della Striscia.
In quali condizioni si trova Hamas dal punto di vista militare?
Molti dei missili Qassam che venivano lanciati prima dell’inizio dell’operazione israeliana partivano da zone a ridosso del confine con Israele, per raggiungere più facilmente gli obiettivi e per operare in zone scoperte. Dall’inizio della reazione israeliana, non solo il numero di missili è diminuito, ma questi si sono anche fatti sempre più imprecisi. Sparando sempre da uno stesso punto, infatti, si imparano le coordinate, mentre spostandosi in continuazione si fanno sempre nuovi calcoli, e si sbaglia. Inoltre i miliziani di Hamas hanno dovuto notevolmente accorciare le operazioni di lancio, ridotte a 90 secondi, per non essere intercettati dalle operazioni aeree israeliane. Questo ha reso sempre più imprecisi i lanci, e noi stessi abbiamo visto missili cadere vicino a noi, praticamente in aperta campagna.
Indebolita la capacità militare di Hamas, ora dunque Israele che obiettivi a lungo termine si pone?
Israele credo che abbia due obiettivi irrinunciabili: bloccare per sempre il lancio di Qassam, facendo inaridire gli arsenali, e bloccare l’afflusso di nuove armi. Inoltre penso che Israele punti anche a creare attriti nella popolazione. Finché Hamas operava dalle zone di confine non c’erano problemi, ma quando questi lanci avvengono sotto le case dei civili anche l’atteggiamento dei civili stessi cambia. E più viene ridotto il campo d’azione di Hamas, più questa situazione si complica. Certo, l’effetto è anche quello di creare rabbia contro Israele; ma al tempo stesso la popolazione non è più così contenta di quello che fa Hamas.
Vista più da vicino rispetto a noi, com’è la situazione della popolazione civile a Gaza?
In realtà nemmeno noi inviati abbiamo informazioni dirette. Certo, stando lì vediamo le televisioni di Gaza, oppure parliamo con arabi israeliani che hanno parenti nella Striscia. Potremmo dire che se qui in Italia le informazioni sono di quarta mano, là sono di seconda. Dovendo dire qual è la caratteristica particolare di questa guerra dall’interno, il vero punto tremendo è che si tratta di una situazione in cui non si vede una via d’uscita. Per il resto bisogna essere molto obiettivi, perché spesso c’è anche molta ipocrisia a parlare di questo. Guardiamo ad esempio i profughi: si tratta di profughi interni, che si spostano di qualche chilometro da casa propria, andando a casa di parenti o in stabili dell’Onu, mentre l’Egitto non ha aperto le frontiere. Nelle altre guerre la situazione è ben diversa: nella guerra in Afghanistan c’erano oltre due milioni di profughi tra Pakistan e Iran, che se ne andarono prima durante il regime dei talebani e poi durante l’offensiva americana.
Lei dice che la caratteristica peggiore di questa situazione è che non ci sia una via d’uscita. Cosa dice delle prospettive che dovrebbero aprirsi grazie alla mediazione dell’Egitto?
L’Egitto sta sicuramente giocando un ruolo importantissimo, ma dietro le quinte ci sono molti elementi che pesano su queste trattative. Innanzitutto l’Egitto stesso non vuole truppe internazionali sul proprio territorio, perché farebbe la figura di chi non è in grado di controllare in casa propria; ma al tempo stesso non può nascondere che il traffico di armi viene dal Sinai (che curiosamente è anche dove noi andiamo in vacanza), ed è un traffico che arriva principalmente dall’Iran. Dall’altro lato non dimentichiamo quanto detto anche dall’Anp, e cioè che Hamas più che rispondere alla popolazione di Gaza, da cui pure è stata eletta, risponde a Damasco e Teheran. Si dice che l’Iran spinga moltissimo perché Hamas non accetti il cessate il fuoco, minacciando la fine degli aiuti e del rifornimento di armi. Hamas è poi legata ai Fratelli Musulmani, non certo a Mubarak. Infine non è pensabile mandare lì truppe internazionali, finché risulta chiaro che, data la posizione di Hamas, queste sarebbero esposte a rischi altissimi di sequestri e altre azioni ostili.
Che ruolo può avere l’Italia nelle vicende future, nel caso si realizzi la pur difficile ipotesi dell’intervento di una forza internazionale?
L’Italia era già presente con una missione europea al confine tra Gaza e l’Egitto, con una quindicina di carabinieri; quindi ha un’esperienza diretta della situazione. È stata una presenza positiva, svolta in partnership con l’Anp, per cercare di portare un minimo di legalità in quel valico di frontiera; un’esperienza che si è però sostanzialmente interrotta con la presa di potere da parte di Hamas. La collaborazione è stata cioè proficua fino al momento in cui l’Anp non è stata sostanzialmente umiliata dalle armate di Hamas (non parlo solo di quello accade nei tunnel, ma anche nel famoso terminal, dove passava di tutto, con gli uomini dell’Anp sempre più sviliti e messi in un cantuccio da quelli di Hamas). Allora la situazione si è fatta insostenibile, i nostri sono stati ritirati ed è rimasta solo una presenza simbolica. Ma questo è un terreno su cui si potrebbe tornare: nell’ottica di ristabilire in quella frontiera una qualche forma di legalità, l’Italia potrebbe dare il suo contributo avvalendosi dell’esperienza già maturata. Ovviamente, ripeto, solo si ristabilisse un contesto di sicurezza, senza andare lì essendo sottoposti continuamente alla minaccia di sequestri.
Da ultimo le chiedo un’opinione sulla posizione del Vaticano. Il Papa afferma che l’«opzione militare» non può portare risultati: oltre al valore spirituale, che valore concreto hanno queste sue parole?
Io penso che la Terra Santa sia un tallone d’Achille del Vaticano. La legittima difesa delle comunità cristiane in Terra Santa, e il tormentato rapporto di fatto con Israele fanno sì che questo sia per il Vaticano un nervo scoperto. È molto facile dunque incorrere in scivoloni, come ad esempio quello accaduto al cardinal Martino in un’intervista a questo giornale. La mia perplessità è che da un lato la politica del Vaticano non abbia sortito l’effetto di protezione della comunità cristiane: oggi Betlemme non è più una città a maggioranza cristiana. Le comunità cristiane stanno rapidamente declinando, anche perché la vecchia armonia tra arabi cristiani e arabi musulmani si è andata offuscando con la crescita del fondamentalismo. Poi però ci sono le parole del Papa, che sono altre, e “alte”: sono convinto anch’io che la reazione israeliana, seppur legittima nelle sue motivazioni (azzerare una minaccia permanente) rischi però di allevare intere generazioni con l’odio negli occhi. Le vittorie militari nel presente rischiano di trasformarsi in sconfitte per il futuro; ed è vero che la guerra genera guerra. Quindi il messaggio è giusto; ma è necessario che il Vaticano riesca a dare corpo a questo messaggio costruendo una posizione più solida e meno reticente. Da una parte chiarendo il rapporto con Israele, e dall’altra evitando, in virtù di un certo pensiero benaugurate, di sottovalutare la crescita del fondamentalismo islamico.
ATEISMO/ La "lieta novella" della solitudine razionalista. Se queste sono buone notizie... - Alberto Contri - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Apprendiamo dai quotidiani del 13 gennaio, con tanto di corredo di immagini, che il 4 febbraio alcuni autobus di Genova gireranno “rivestiti” con la campagna promossa dalla “Unione atei e agnostici razionalisti”. Questa abile mossa di relazioni pubbliche, costruita sul perenne desiderio dei mass media di attirare audience facendo un po’ di scandalo, denota che l’Unione, come già avvenuto in altri paesi, si è affidata a fior di specialisti. La stessa campagna, tecnicamente è confezionata assai bene: l’autobus, tutto coperto di nuvolette azzurre, riporta un paio di affermazioni dal tono decisamente apodittico: “LA CATTIVA NOTIZIA È CHE DIO NON ESISTE. QUELLA BUONA È CHE NON NE HAI BISOGNO”. Mi informa Federico Unnìa, esperto di diritto della pubblicità, che la campagna è stata ideata da Ariane Sherine, una scrittrice di commedie che, viaggiando in autobus, un giorno rimane colpita dalla reclame di un’associazione cristiana che citava un versetto della Bibbia. S’incuriosisce e visita il sito web dell’associazione che annuncia ai non credenti: «Passerete l’eternità a tormentarvi». Così, quasi per una forma di rivincita, Ariane ha la brillante idea di avviare una “contro-campagna” per diffondere il messaggio ateista e ottiene l’appoggio della British Humanist Association, dello scienziato e scrittore Richard Dawkins e del filosofo A. C. Grayling. Basta qualche settimana e la campagna raccoglie oltre 200 mila sterline. Una cifra sufficiente a comprare gli spazi pubblicitari di 800 autobus nelle maggiori città inglesi e un migliaio di annunci nella metropolitana londinese.
L’idea fa subito presa in altri paesi. Il messaggio diffuso in America recita: «Perché credere in Dio? Sii buono per amore della bontà». In Spagna il tono è un tantino meno perentorio e più possibilista: «Probabilmente Dio non esiste. Smettila di preoccuparti e goditi la vita». Ovunque la campagna fa rumore e crea accesi dibattiti (in Australia la sua pubblicazione non è stata ancora autorizzata dagli organismi competenti. Il presidente della Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti) dichiara apertamente che la decisione di partire con Genova ha un intento volutamente provocatorio, visto che è la città del Presidente della Cei, Angelo Bagnasco. L’obiettivo evidente è quello di sfidare il Cardinale sul suo territorio, sperando di fare il maggior rumore possibile ottenendo – come già avvenuto il 13 gennaio – l’attenzione dei mass media.
Dal punto di vista del diritto, nessuno può negare a chicchessia la potestà di promuovere una campagna pro o contro principi etici o religiosi. L’unico vincolo dovrebbe essere il rispetto delle idee altrui. E le prime reazioni in campo cattolico sembrano essere improntate a un prudente fair play, a testimonianza che oggi la violenza verbale è sempre più spesso appannaggio della cultura relativista e radicale. «Questa iniziativa potrebbe anche risvegliare qualche coscienza» - sostiene Monsignor Granara, rettore del Santuario della Madonna della Guardia – «offrendo uno stimolo ai cristiani per offrire la propria testimonianza dimostrando una fede pensata e amica dell’intelligenza». Anche don Gianni Baget Bozzo, noto per la sua vis polemica, usa un tono insolitamente soft: «Preferirei che questi autobus non ci fossero – dichiara al Corriere della Sera – ma potrebbero avere l’effetto opposto di quello prefissato. C’è stato l’ateismo comunista, quello ideologico, adesso c’è quello che ti dice: goditi la vita perché nessuno ti giudica. È un messaggio di solitudine, lo trovo depressivo». Stephen Wang, uno dei tutor del Seminario Allen Hall – dove si preparano i futuri preti cattolici della diocesi di Westminster – si dice addirittura divertito dalla campagna pubblicitaria. Il religioso ne sottolinea l’aspetto positivo affermando che, in periodi come questo, «è meraviglioso spingere la gente a pensare». Insomma, quel “forse” piazzato lì all’inizio della frase (“Forse Dio non esiste”) può aiutare a sollevare domande che la gente non si pone più o che non si pone più seriamente, e che magari solo un cartellone pubblicitario è in grado di suggerire ancora. Secondo il ragionamento di Wang, l’importante è suscitare una reazione che spinga la gente a riflettere su ciò che crede veramente (sempre che creda a qualcosa) e a vivacizzare il dibattito.
Ecco, probabilmente il problema più che altro è qui: in Inghilterra l’associazione che rappresenta gli atei dimostra più rispetto delle idee altrui, e nello slogan ci mette un “forse”. In Italia no. Si preferisce essere perentori e esibire quella irridente supponenza odifreddiana nei confronti di tutti quelli che non la pensano come loro sulla fede, sulla vita e sulla morte. Alla faccia della tolleranza.
ELUANA/ Introdurre “nuovi diritti”? Ma la Costituzione tutela già il diritto alla vita - Redazione - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Caro direttore,
il presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick ha espresso ieri 12 gennaio durante la cerimonia tenutasi alla Luiss di Roma in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione alcune opinione meritevoli di approfondimento. Riferendosi, tra l’altro, al caso di Eluana Englaro, ha sollecitato il potere legislativo a fornire risposte in tema di “nuovi diritti”, affinché sia evitato il rischio che l’affermazione di tali “nuovi diritti” avvenga “solo per via giurisprudenziale”. Ha auspicato, pertanto, che sia evitato “il rischio di uno squilibrato rapporto tra legislazione e giurisprudenza, una sorta di paralisi del legislatore contrapposta ad un attivismo creativo dei giudici”.
Concordo sul rilievo del presidente Flick circa un dilagante «attivismo creativo dei giudici». Ciò costituisce un’anomalia costituzionale gravissima, che mette in crisi il principio di legalità. Su tale crisi purtroppo la Corte costituzionale non ha colto alcuna occasione utile per pronunciare parole autorevoli. Questa crisi costituisce una vera emergenza democratica.
Quanto, poi, alla denunciata “paralisi” del legislatore, non mi sento di condividere il giudizio del presidente Flick. I campi su cui egli sollecita l’intervento sono di altissimo rilievo etico e costituzionale. È quindi ben giustificata la prudenza finora mantenuta dal legislatore. Peraltro, se è vero, come dice Flick, che non vi sono lacune nella Costituzione, non è affatto detto che vi siano lacune nella legge ordinaria, che va interpretata, come la Corte costituzionale insegna, alla luce della Costituzione. Il diritto alla vita è il primo e più fondamentale dei diritti umani. La Costituzione, allo stesso modo della legge ordinaria, tutela in modo pieno la vita, sì che, al riguardo, non sono necessarie, a stretto rigore, nuove leggi.
Quanto, poi, alla necessità di “nuovi diritti”, sarebbe auspicabile dire le cose con chiarezza. Vi sono richieste di gruppi di persone che sollecitano il riconoscimento giuridico di aspirazioni soggettivistiche che non sono “diritti”. Allora: se il presidente Flick non può, in relazione al suo alto incarico, pronunciarsi nel merito su quali aspirazioni siano “diritti”, e quali “diritti” non siano, sarebbe meglio che non creasse nemmeno l’attesa pubblica circa il riconoscimento futuro di una serie indeterminata e vaga di “nuovi diritti”, tra i quali alcuni gruppi annoverano, per esempio il «diritto» al suicidio, o il «diritto» all’assistenza al suicidio. È molto triste che, in un momento come l’attuale, in cui il diritto alla vita è messo in grave pericolo, non giungano all’opinione pubblica parole ferme in sua difesa.
prof. Mauro Ronco
SULLA DISAMINA DI FLICK NUOVI DIRITTI ORA BASTA INVASIONI DI CAMPO - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 gennaio 2009
« P referisco i confini alle invasioni di campo » , ha dichiarato il presidente della Corte Costituzionale Flick, con esplicita allusione a come la Cassazione ha invaso ( e pesantemente) il campo della politica, sentenziando in merito al caso Englaro. E ha fatto anche altri esempi: le unioni tra persone dello stesso genere, l’inizio e la fine della vita, il testamento biologico, il trattamento terapeutico per malati terminali o incoscienti. Per Flick « eludere queste domande significa delegare le risposte, caso per caso, agli organi giurisdizionali, talvolta privi di precisi referenti normativi » . Bisogna quindi ritenere che sia necessario che il Parlamento intervenga, prendendo sul serio la questione dei ' nuovi diritti' della persona. Altrimenti le ' invasioni di campo' continueranno e inevitabilmente.
Sul fatto che bisogna una volta per tutte porre rigorosi sbarramenti alle invasioni di campo, sono perfettamente d’accordo con Flick ( e in particolare sul fatto che sia davvero necessaria una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento). Ma ci sono diversi modi per impedire arbitrarie invasioni di campo. Il modo peggiore è quello posto in essere da chi, per evitarle, si affretta a consegnare il campo minacciato d’invasione a coloro che vorrebbero invaderlo e ai loro ' alleati'. Se, per impedire che la Cassazione si inventi un testamento biologico aperto all’eutanasia ( e per di più orale), si auspica che il Parlamento faccia una legge obiettivamente eutanasica, cadiamo dalla padella nella brace. Se accettiamo l’idea ( carissima a tanti magistrati ' alternativi') che la dinamica sociale faccia emergere ' nuovi diritti', che il Parlamento avrebbe il dovere di formalizzare in forma legale, arriveremo prima o poi a qualificare come ' vecchi' i diritti ' tradizionali' e alla lunga apparirebbe ragionevole, per favorire il ' nuovo', allentare la tensione, trascurare o addirittura cancellare diritti 'invecchiati'.
Il punto è che, come sostiene giustamente Dworkin ( non a caso citato da Flick), i diritti ' vanno presi sul serio'; ma se i diritti esistono, esistono perché non sono né nuovi né vecchi: i diritti della persona sono diritti fondamentali e basta. Sostenere il contrario veicola l’intenzione di forzare la corretta immagine dell’uomo che emerge dal testo della nostra legge fondamentale, dilatando arbitrariamente l’elenco dei diritti che essa riconosce e difende. Non è questa di certo l’intenzione di Flick, ma è certamente quella di tanti che si sono compiaciuti del suo intervento al Convegno promosso dalla Luiss per il sessantesimo della nostra Costituzione.
Ma se si elude la questione dei ' nuovi diritti', come impedire ai magistrati di invadere un campo che non è loro? Ricordando loro, senza mai stancarsi, che essi sono vincolati alla legge e pretendendo da loro ( come da tutti i cittadini) la massima onestà intellettuale. La Costituzione non riconosce come diritto fondamentale né la richiesta di eutanasia, né il rifiuto delle cure. Essa semplicemente nega che una persona possa essere obbligata a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge (art. 32). La Costituzione non dà nessun appiglio per il riconoscimento legale delle coppie di fatto o delle coppie omosessuali come ' formazioni sociali' meritevoli di tutela ( ed etichettabili con gli appellativi più fantasiosi e stravaganti: Pacs, Dico, Cus, Didore...!). Essa si limita ad affermare che i diritti inviolabili valgono non solo per l’individuo singolo, ma anche per l’individuo integrato in una qualsiasi 'formazione sociale' ( art. 2). Potremmo continuare.
Che l’espressione ' nuovi diritti' vada oggi molto di moda e venga sempre più spesso usata dai politici è ben noto e del resto nessuno può pretendere dai politici rigore linguistico e sobrietà di espressione. Ma giuristi e giudici dovrebbero fare di tutto per non abdicare a un corretto uso del linguaggio giuridico. E, nel linguaggio giuridico, l’espressione ' nuovi diritti' non ha alcuno spazio.
OBAMA TRA IL PASTORE FONDAMENTALISTA E L’EPISCOPALIANO GAY - Non c’era un umile vice-parroco da arruolare per il giuramento? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 14 gennaio 2009
Un vescovo episcopale gay, unito in ' matrimonio' con il suo compagno, darà l’avvio domenica prossima con la sua preghiera alle celebrazioni dell’insediamento di Obama.
Le celebrazioni si concluderanno il 20 con la benedizione del giuramento del Presidente da parte di un pastore evangelico che invece ha condannato aspramente le nozze omosex. Se un comico americano avesse mai visto l’imitazione di Crozza fatta al leader pd ( e obamiano) Veltroni si potrebbe sbizzarrire con una gigantesca satira a stelle e strisce della filosofia del ' ma anche'. La scelta del neopresidente di avere tale timbro sulla partenza delle sue celebrazioni è singolare, anche perché la faccenda del vescovo Robinson ha creato alla chiesa evangelica grandi problemi fino al rischio di scisma, e dunque c’è strana mancanza di delicatezza nei confronti della comunità protestante. Forse non c’erano altri preti o vescovi disponibili nei paraggi della Casa Bianca? Uno delle decine di migliaia di pastori, o parroci, o uomini di una comunità cristiana che svolgono umilmente il loro servizio senza cercare scandali? Tutti impegnati, non c’era neanche uno straccio di pastore, di prete libero quel giorno? Forse in questa fase politica dove spesso vale più l’immagine della sostanza, più della preghiera a Dio vale chi la dice. Come se la preghiera valesse non per l’ascolto che si chiede a Dio ma per l’audience che crea nell’opinione pubblica. Se dice non è un uso politico della religione questo, mi permetta Signor Presidente eletto, come lo dobbiamo chiamare? Le esigenze di immagine e di ricerca di facile consenso hanno prevalso? Insomma, certo uno può scegliere quel che vuole. E chiedere preghiere a chi gli pare. Figurarsi se non può farlo il Presidente straosannato ( o già un po’ ex- straossanato, visto certe marce indietro su riforma sanità, Guantanamo e altro) degli Usa. Però andare a cercare l’unico vescovo protestante gay così da bilanciare il fondamentalista è una scelta molto occhiuta. Certo, per lo show è un buon colpo di teatro. E l’audience – il facile consenso – di un’esigua parte di nazione forse ne guadagna. Ma il mestiere di un Presidente eletto è andare alla ricerca di altro consenso o dare segni di impegno sui problemi della sua gente?
Una Nazione come l’America, sempre impegnata ad autocelebrarsi, è molto attenta ai simboli che impiega. Proporre questa scelta indica un modo di presentarsi che è giocare con le contraddizioni, con futili sforzi di fantasia. Forse poteva dire quella preghiera uno dei tanti travolti dalla crisi. O un familiare di una delle vittime delle Torri gemelle o dell’Iraq.
O uno di coloro che lotta per il bene del Paese nelle tante opere di solidarietà.
Insomma, un po’ più di fantasia, rispetto ai riti della ricerca del ' consenso'. Il Presidente degli Usa si avvia ad un ' mestieraccio' con una responsabilità per la quale chiunque – pastore o meno – dovrebbe invocare aiuti da Dio e da tutti i santi del Paradiso. Però c’è qualcosa che fa somigliare questo insediamento a un reality show piuttosto che all’avvio della Presidenza del Paese più potente del mondo. Speriamo che lo spettacolo non continui.
C’è qualcosa che fa somigliare l’insediamento presidenziale a un reality show
1) IL RABBINO LANCIA PIETRE CONTRO BENEDETTO XVI ma le «pietre» sono partite dalla rivista “Popoli”di proprietà dei Gesuiti… - dal sito Fattisentire.net – 14 gennaio 2009
2) Quando la vita vince l’orrore: viaggio nel campo della morte di Birkenau - “Sono stato un numero”, scritto da Roberto Riccardi di Antonio Gaspari
3) 14/01/2009 09:04 - ISRAELE – PALESTINA - A Gaza si combatte ancora; arriva Ban Ki-moon - di Joshua Lapide - Il segretario Onu non incontrerà rappresentanti di Hamas. Abbas: Israele vuole “annientare” la popolazione della Striscia. I morti hanno raggiunto quota 975. L’Onu accusa Israele di non rispettare i diritti dei bambini. Anche la Croce Rossa internazionale chiede rispetto per i feriti e per coloro che li curano.
4) Da Israele.net - 14-01-2009 Immagini da una guerra etica Documentazione - Quasi nessuno sembra ascoltare i continui bollettini delle autorità israeliane sugli ininterrotti transiti di convogli con aiuti umanitari verso la striscia di Gaza, e intanto molti mass-media continuano a riportare senza controlli le menzogne diffuse da Hamas e altre fonti affini. Quasi nessuno, inoltre, sembra dare ascolto o credito alle continue denunce israeliane di come Hamas confischi la merce e i generi alimentari introdotti. - Ecco perché il ministero della difesa israeliano ha deciso di rendere disponibile un servizio video on-line in collegamento diretto con il valico di Kerem Shalom, tra Israele e striscia di Gaza, con trasmissioni durante le ore di funzionamento del valico, grazie al quale tutti possono vedere la quantità e il flusso continuo di convogli.
5) Da Israele.net - 14-01-2009 Cecità morale di Dan Kosky - Ancora una volta mass-media, organismi internazionali come le Nazioni Unite e influenti organizzazioni non governative (ong) gettano accuse su Israele.
6) Da Israele.net - 09-01-2009 Cari cittadini del mondo Di Rotem Yacobi - Cari cittadini del mondo, l’altro mercoledì, vigilia del nuovo anno, me ne stavo seduto nel mio appartamento a Beer Sheva e si considerava se uscire o no per festeggiare il capodanno. Improvvisamente sono suonate le sirene…
7) USA/ Il ’68 rivive a Washington - Lorenzo Albacete - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) MEDIO ORIENTE/ Toni Capuozzo (Tg5): vi racconto la guerra vista da vicino - INT. Toni Capuozzo - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) ATEISMO/ La "lieta novella" della solitudine razionalista. Se queste sono buone notizie... - Alberto Contri - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) ELUANA/ Introdurre “nuovi diritti”? Ma la Costituzione tutela già il diritto alla vita - Redazione - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
11) SULLA DISAMINA DI FLICK NUOVI DIRITTI ORA BASTA INVASIONI DI CAMPO - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 gennaio 2009
12) OBAMA TRA IL PASTORE FONDAMENTALISTA E L’EPISCOPALIANO GAY - Non c’era un umile vice-parroco da arruolare per il giuramento? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 14 gennaio 2009
IL RABBINO LANCIA PIETRE CONTRO BENEDETTO XVI ma le «pietre» sono partite dalla rivista “Popoli”di proprietà dei Gesuiti… - dal sito Fattisentire.net – 14 gennaio 2009
La Chiesa cattolica, con la liberalizzazione della Messa tridentina voluta da Benedetto XVI e la conseguente reintroduzione della preghiera ''per la conversione degli ebrei'', anche se modificata per eliminarne una formulazione ritenuta inadeguata, sta ''andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant'anni'' di collaborazione e di dialogo con gli ebrei. Lo scrive, in un intervento pubblicato dalla rivista cattolica “Popoli”, il mensile internazionale dei gesuiti, il Rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Ricetti, in un commento sui lavori dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia.
Le sue parole arrivano a pochi giorni dal 17 gennaio, in cui si sarebbe dovuta celebrare la “Giornata sull'ebraismo” dalle Comunità ebraiche e dalla Chiesa cattolica. La Giornata sull'ebraismo, indetta dalla Conferenza Episcopale Italiana fin dal 1989, si celebra ogni anno per "l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano". Lo scopo è di iniziare i cristiani al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica. Quest’anno però i Rabbini italiani hanno deciso di sospendere la propria collaborazione proprio in conseguenza delle polemiche sulla preghiera ''per gli ebrei''.
Forse, oltre alla preghiera per “la conversione degli ebrei”, sarebbe urgente introdurre anche una preghiera per “la conversione dei gesuiti”…
La Chiesa sta cancellando 50 anni di dialogo tra ebraismo e cattolicesimo. Parola di Rabbino.
Viene dalla somma autorità del cattolicesimo, il Papa, la messa in discussione del dialogo con l’ebraismo. A sostenerlo, con parole pesanti come pietre, scritte nero su bianco in un intervento ospitato dalla rivista dei gesuiti, Popoli, è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti. Nell’intervento, nel quale si dà conto, a nome del Rabbinato d’Italia, dell’attuale crisi nei rapporti ebraico-cattolici in Italia, Richetti spiega che secondo Benedetto XVI "il dialogo è inutile perchè in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana" e in tal modo si va verso "la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa".
Il duro attacco dei rabbini "In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità". E sì che l’intervento del rabbino è preceduto da poche righe in cui Popoli spiega: "Il primo passo per un dialogo autentico è mettersi in ascolto delle ragioni dell’altro". D’altro canto, oggetto dell’articolo è proprio la rinuncia ebraica alla partecipazione alla giornata dell’ebraismo che si celebra ogni anno il 17 gennaio. All’origine della crisi interreligiosa il ritorno della messa in latino secondo il messale di San Pio V nel quale si invoca la conversione degli ebrei alla verità cristiana. Una preghiera che in passato aveva peraltro una formulazione ingiuriosa, quella dei "perfidi giudei", poi modificata da Benedetto XVI nel liberalizzare l’antico rito. La scelta compiuta dall’assemblea dei rabbini d’Italia, si legge nell’intervento, "è la logica conseguenza di un momento particolare che sta vivendo il dialogo interconfessionale oggi, momento i cui segni hanno cominciato a manifestarsi quando il Papa, liberalizzando la messa in latino, ha indicato nel Messale tridentino il modulo da seguire".
La preghiera del Venerdì Santo "In quella formulazione - scrive il rabbino Richetti - nelle preghiere del Venerdì Santo è contenuta una preghiera che auspica la conversione degli ebrei alla verità della Chiesa e alla fede nel ruolo salvifico di Gesù". "A onor del vero, quella preghiera - prosegue il testo - che nella prima formulazione definiva gli ebrei 'perfidi', ossia 'fuori dalla fede' e ciechi, era già stata 'saltata' (ma mai abolita) da Giovanni XXIII. Benedetto XVI l’ha espurgata dai termini più offensivi e l’ha reintrodotta". Da questo momento in poi, afferma il rabbino, la parte ebraica si è presa una pausa di riflessione nel dialogo con la Chiesa cattolica e si è avviata una fase di contatti e tentativi di mediazione. "Purtroppo - afferma il rabbino capo di Venezia - i risultati si sono dimostrati deludenti. Si sono registrate reazioni 'offese' da parte di alte gerarchie vaticane: 'Come si permettono gli ebrei di giudicare in che modo un cristiano deve pregare? Forse che la Chiesa si permette di espungere dal rituale delle preghiere ebraiche alcune espressioni che possono essere interpretate come anticristiane?'". Ancora, si rileva che non è mai arrivata una risposta ufficiale della Conferenza episcopale italiana. Altri prelati hanno affermato, spiega Richetti, che "la speranza espressa dalla preghiera 'Pro Judaeis' è 'puramente escatologica', è una speranza relativa alla ’fine dei tempì e non invita a fare proselitismo attivo (peraltro già vietato da Paolo VI)".
Un dialogo incrinato Proprio da qui prende spunto il rabbino per un giudizio estremamente severo: "Queste risposte non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità". "Non si tratta, quindi - ha aggiunto - di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all’altro come creatura di Dio. Se a ciò aggiungiamo le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perchè in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa. In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità". "Dialogare - conclude il rabbino - vuol dire rispettare ognuno il diritto dell’altro ad essere se stesso, cogliere la possibilità di imparare qualcosa dalla sensibilità dell’altro, qualcosa che mi può arricchire. Quando l’idea di dialogo come rispetto (non come sincretismo e non come prevaricazione) sarà ripristinata, i rabbini italiani saranno sempre pronti a svolgere il ruolo che hanno svolto negli ultimi cinquant’anni".
Il Giornale n. 11 del 2009-01-13
Quando la vita vince l’orrore: viaggio nel campo della morte di Birkenau - “Sono stato un numero”, scritto da Roberto Riccardi di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 13 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Era l’ottobre del 1943 quando Alberto Sed insieme alla madre Enrica e alle sorelle Angelica, Fatina ed Emma, venne preso a Roma e portato nel campo della morte di Birkenau, nel comprensorio di Auschwitz.
La madre Enrica e la piccola Emma, di nove anni, furono uccise nelle camere a gas il giorno stesso dell’arrivo perché la prima selezione le giudicò inabili al lavoro. La sorella Angelica fu sbranata dai cani, aizzati contro di lei dalle SS per un sadico divertimento.
L’altra sorella Fatina, sottoposta nel lager ai crudeli esperimenti del dottor Mengele, tornò a casa segnata da cicatrici profonde prima di morire senza essersi mai ripresa da quell’orrore.
Alberto è sopravvissuto e ora a distanza di oltre 65 anni da quegli eventi ha deciso di raccontare come è riuscito a resistere al lager e a ricostruirsi una vita. In seguito, infatti, si è sposato e ora ha tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti.
A raccontare la storia di Alberto è stato Roberto Riccardi, ufficiale dei carabinieri, giornalista, direttore responsabile della rivista “Il Carabiniere”, con il libro intitolato “Sono stato un numero” in uscita il 15 gennaio per l’Editrice Giuntina (Firenze. Pagg. 168, €15).
Riccardi ha fatto notare a ZENIT che la casa editrice Giuntina è stata fondata da Daniel Vogelmann, il cui padre Schulim, è l’unico ebreo italiano finora trovato in una delle liste di Schindler.
Il libro narra la storia di Alberto Sed, che nel 1944 ad Auschwitz divenne A-5491. Solo un numero, in cambio di un’identità e un’umanità violate, fatte a pezzi, cancellate.
Alberto fu catturato in un magazzino in cui la famiglia si era nascosta. Dopo un breve periodo nel centro di raccolta di Fossoli, fu messo a forza su un treno piombato e condotto a Birkenau, il campo peggiore del comprensorio di Auschwitz.
La madre e la piccola Emma, di nove anni, furono uccise il giorno stesso dell’arrivo perché la prima selezione le giudicò inabili al lavoro e le destinò al gas. Gli altri superarono la prova, ma qualche mese più tardi Angelica fu sbranata dai cani, aizzati contro di lei dalle SS per un sadico divertimento.
Alberto, che oggi ha ottant’anni, è sopravvissuto a numerose selezioni, alle torture e agli stenti, alle “marce della morte” e al bombardamento del campo di Dora, dove era stato portato e dove fu infine liberato.
Nel lager dovette adattarsi a lavori faticosi e a mansioni terribili, come sistemare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li portavano al crematorio. A volte le SS ordinavano ai prigionieri di lanciare i bambini in aria, per fare il tiro a segno.
Per avere più cibo, Sed accettò di fare il pugile: per gli incontri, che avvenivano la domenica e che costituivano un momento di svago per gli aguzzini, riceveva in premio qualche buccia di patate o di mele.
Riccardi ha detto a ZENIT che “la vicenda umana di Sed ci interroga con forza sul ruolo della coscienza. L’orrore della Shoà è una prova che numerose persone affrontano con coraggio. Il libro ne parla diffusamente. Fra questi piccoli eroi, le suore di un Istituto di Trastevere, che salvano i bambini dell’orfanotrofio ebraico ‘Pitigliani’ dalle SS, nascondendoli”.
Nel libro si racconta anche di un sacerdote greco, deportato ad Auschwitz per aver soccorso alcuni partigiani, che una domenica si presentò nel cortile del lager in tonaca, volendo dire la Messa per quanti intendevano ascoltarla, e venne punito con un’esecuzione crudele: spinto a forza in una vasca d’acqua fino all’annegamento.
Un altro sacerdote, in una base americana in cui Alberto Sed si trovò dopo la liberazione, accolse il ragazzo in Chiesa e gli chiede di pregare per un rapido ritorno in patria.
Quando lui rispose di non poterlo fare, perché era di una religione differente, il sacerdote non si scompose e lo invitò a recitare lo Shemà, l’atto di fede ebraico. “Dio di questi tempi non si formalizza”, scherzò.
14/01/2009 09:04 - ISRAELE – PALESTINA - A Gaza si combatte ancora; arriva Ban Ki-moon - di Joshua Lapide - Il segretario Onu non incontrerà rappresentanti di Hamas. Abbas: Israele vuole “annientare” la popolazione della Striscia. I morti hanno raggiunto quota 975. L’Onu accusa Israele di non rispettare i diritti dei bambini. Anche la Croce Rossa internazionale chiede rispetto per i feriti e per coloro che li curano.
Gerusalemme (AsiaNews/Agenzie) – Forti combattimenti sono continuati all’alba fra l’esercito israeliano e i miliziani di Hamas alla periferia di Gaza City. Intanto oggi arriva in Medio Oriente il segretario dell’Onu Ban Ki-moon, nel tentativo di fermare il conflitto che è ormai al suo 19° giorno.
Oggi Ban dovrebbe incontrare il presidente egiziano Hosni Mubarak, e quindi il governo israeliano e l’Autorità palestinese. Non incontrerà però Hamas, e ad oggi non si sa se visiterà la stessa Gaza.
Nella notte aerei israeliani hanno compiuto più di 60 raid nel sud della Striscia nel tentativo di distruggere i tunnel che dall’Egitto passano in Gaza e vengono usati per il rifornimento di razzi e munizioni.
Ieri almeno 70 palestinesi sono stati uccisi, portando il numero dei morti a 975 e quello dei feriti a 4400. Israele da parte sua afferma che i suoi morti sono 13: 10 militari e 3 civili. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha accusato Israele di voler “annientare” la popolazione della Striscia di Gaza. “Questa aggressione – ha detto da Ramallah, in Cisgiordania – diviene ogni giorno più feroce”.
Secondo il Comitato Onu per i diritti del bambino, il 40% delle vittime me palestinesi sono donne o bambini. In una dichiarazione esso accusa Israele di mostrare “un evidente disprezzo” per la protezione dei bambini a Gaza.
John Ging, capo della missione Onu per gli aiuti ai rifugiati (Unrwa), ha domandato alla comunità internazionale di proteggere i civili di Gaza: essi non trovano sicurezza da nessuna parte e il conflitto è divenuto ormai “un test per la nostra umanità”.
Anche Jakob Kellenberger, presidente della Croce rossa internazionale, visitando ieri la Striscia ha detto che “è inaccettabile vedere così tanti feriti. La loro vita deve essere risparmiata e la sicurezza di coloro che li curano deve essere garantita”.
Due giorni fa, il 12 gennaio, Israele ha aperto una “fase 3” dell’offensiva, entrando con truppe terrestri nella Striscia, ma il ministero della Difesa a deciso più tardi di frenare l’indicazione di combattere una guerra nelle vie delle città. Tale passo potrebbe complicare la ricerca di una tregua e causare pesanti perdite anche agli israeliani. Ciò potrebbe far perdere consensi al partito Kadima, ora al potere, a poche settimane dalle elezioni.
Da Israele.net - 14-01-2009 Immagini da una guerra etica Documentazione - Quasi nessuno sembra ascoltare i continui bollettini delle autorità israeliane sugli ininterrotti transiti di convogli con aiuti umanitari verso la striscia di Gaza, e intanto molti mass-media continuano a riportare senza controlli le menzogne diffuse da Hamas e altre fonti affini. Quasi nessuno, inoltre, sembra dare ascolto o credito alle continue denunce israeliane di come Hamas confischi la merce e i generi alimentari introdotti. - Ecco perché il ministero della difesa israeliano ha deciso di rendere disponibile un servizio video on-line in collegamento diretto con il valico di Kerem Shalom, tra Israele e striscia di Gaza, con trasmissioni durante le ore di funzionamento del valico, grazie al quale tutti possono vedere la quantità e il flusso continuo di convogli.
Si tratta di due telecamere: una posta all’ingresso del valico, dove giungono i convogli carichi di merce; l’altra all’uscita verso la striscia di Gaza, da dove ripartono altri mezzi pesanti giunti dal territorio palestinese per prendere in consegna i carichi portati dai mezzi provenienti dal territorio israeliano.
A queste operazioni di scarico e carico merci – necessarie per ovvi motivi di sicurezza, dato che in passato i terroristi di Hamas non hanno esitato a colpire anche questi valichi di vitale importanza per la popolazione palestinese – è dovuto il divario di tempo tra gli arrivi e le partenze dei convogli.
Che fine fanno le merci una volta raggiunta la striscia di Gaza rimane un interrogativo grave, che non deve certo essere posto a Israele.
LINK ALLE TELECAMERE DEL VALICO DI KEREM SHALOM:
http://www.mod.gov.il/pages/general/Maavar_Kerem_Shalom.asp
Un altro video istruttivo (11.01.09) mostra come l’aviazione israeliana interrompa gli attacchi anti-terroristi già in fase di esecuzione pur di risparmiare vittime civili, quando i terroristi vano a riparare deliberatamente tra le case e nelle zone affollate.
PILOTI ISRAELIANI DEVIANO I RAZZI PER NON COLPIRE CIVILI (sottotitoli in inglese):
http://switch3.castup.net/cunet/gm.asp?ClipMediaID=3276848&ak=null
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Per contrasto, si veda il seguente video (11.01.09) che mostra come i terroristi abbiano disseminato di ordigni esplosivi, collegati da cavi-miccia, una scuola adiacente allo zoo, usata anche per immagazzinare armi e munizioni. In questa occasione i soldati israeliani hanno disinnescato in tempo gli ordigni.
SCUOLA PALESTINESE IMBOTTITA DI BOMBE (sottotitoli in inglese):
http://switch3.castup.net/cunet/gm.asp?ClipMediaID=3276455&ak=null
Un altro video (8.01.09) mostra un commando di Hamas che usa mortai dal cortile di una scuola nella striscia di Gaza. La rampa viene colpita dall’aviazione israeliana prima che possa sparare. Altri lanci di razzi, invece, vengono effettuati dai terroristi durante le tre ore di “tregua umanitaria”.
Da Israele.net - 14-01-2009 Cecità morale di Dan Kosky - Ancora una volta mass-media, organismi internazionali come le Nazioni Unite e influenti organizzazioni non governative (ong) gettano accuse su Israele.
Israele ha imparato parecchio dalla guerra in Libano contro Hezbollah del 2006: non solo ha ulteriormente ridotto i danni involontariamente causati alla popolazione civile dietro cui si barricano i terroristi, ma diffonde con maggiore efficacia e rapidità nell’arena dell’opinione pubblica i risultati delle proprie indagini e delle verifiche sulle accuse che gli vengono continuamente rivolte. Ma le famose ong insistono con la loro tradizionale pratica di gettare addosso a Israele accuse infamanti per lo più non controllate né verificate.
Durante la guerra in Libano del 2006 i gruppi per i diritti umani, in particolare Human Rights Watch e Amnesty International, si affrettavano a diffondere condanne pressoché quotidiane di “crimini di guerra” e dell’uso “sproporzionato” della forza da parte di Israele. In un caso specifico, nel villaggio di Qana, Human Rights Watch sostenne – senza prendersi la briga di fare alcun controllo sui fatti – che un attacco aereo israeliano aveva causato una strage di civili. I titoli su giornali e tv di tutto il mondo furono uno dei fattori che spinsero il primo ministro israeliano Ehud Olmert a decretare una tregua di 48 ore che di fatto diede a Hezbollah, in quel momento in seria difficoltà, l’opportunità di riorganizzarsi, prolungando ulteriormente la guerra e lo spargimento di sangue. Successivamente Human Rights Watch corresse l’accusa e le cifre, ma naturalmente la ritrattazione passò quasi del tutto inosservata, e comunque il danno era già fatto.
Nel 2002, nel pieno della campagna Scudo Difensivo, quando le Forze di Difesa israeliane, dopo due anni di attentati suicidi nelle città israeliane, erano passate alla controffensiva andando a stanare i terroristi dentro i territori palestinesi, l’accusa – poi rivelatasi falsa – che avessero compiuto un “massacro” di centinaia di civili inermi a Jenin venne rilanciata e alimentata da Amnesty International, col risultato di scatenare i titoli di giornali e tv in tutto il mondo.
Da quando è iniziata la controffensiva israeliana a Gaza, le dichiarazioni delle ong seguono esattamente lo stesso schema. Ovviamente gruppi come Amnesty International e Oxfam si sono precipitati ad etichettare le operazioni israeliane come “sproporzionate” e “indiscriminate”. Poco importa se gli esperti di diritto spiegano che la proporzionalità prevista dalle convenzioni internazionali non ha nulla a che vedere con la conta dei morti (quella si chiama faida, ed è un’altra cosa; un’operazione militare ha il compito di debellare il nemico colpendone i combattenti e di cercare di subire meno perdite possibile, militari e civili, nel contempo risparmiando il più possibile anche i civili dell’altra parte). Con il valido supporto dei agit-prop di Hamas e dei mass-media, l’idea di operazioni “sproporzionate” e “indiscriminate” è diventata moneta corrente.
La manipolazione dei termini legali del problema si manifesta anche nella frequente definizione della striscia di Gaza come di un territorio “occupato da Israele”. Paradossalmente, invece, l’unico cittadino israeliano presente nella striscia di Gaza alla vigilia della controffensiva anti-Hamas era Gilad Shalit, il soldato di leva sequestrato da Hamas due anni e mezzo prima mentre era in servizio di guardia in territorio israeliano e da allora trattenuto in ostaggio senza che di lui sia dato sapere più nulla (mai permessa neanche una visita della Croce Rossa), anche se la cosa non sembra aver scosso più di tanto i gruppi per i diritti umani.
I proclami attuali delle ong non sono che la continuazione di una precedente campagna su Gaza. La risposta iniziale di Israele ai lanci quotidiani di razzi, continuati anche dopo il ritiro, fu un parziale blocco dei confini. Reagire agli attacchi contro la popolazione civile israeliana con una classica misura non-militare come le sanzioni era evidentemente “sproporzionato” nell’altro senso. Eppure le ong lanciarono in una invereconda campagna che denunciava la “politica aggressiva” di Israele e definiva “crimine di guerra” la sua decisione di imporre una “punizione collettiva” alla striscia di Gaza (per inciso, anche le sanzioni al Sudafrica razzista erano una “punizione collettiva”?).
Inoltre le ong propongono continuamente una equivalenza morale fra le azioni di Hamas e quelle delle Forze di Difesa israeliane. Ma Hamas misura esplicitamente il successo delle sue operazione dal numero di civili israeliani uccisi (qualcuno si ricorda i festeggiamenti e i dolci distribuiti per le strade dopo ogni attentato?). Viceversa Israele usa tutta l’intelligence e la tecnologia di cui dispone per cercare di mirare il più possibile ai combattenti nemici ed evitare perdite fra i civili (con la stessa logica, fa transitare convogli di aiuti umanitari anche nel pieno dei combattimenti). Stando così le cose, continuare a invocare che “tutte le parti evitino di colpire civili” serve solo a creare la falsa impressione che le parti siano egualmente e altrettanto colpevoli.
Per certi aspetti lo stesso vale per l’invocazione ripetuta da tante parti affinché “cessino tutte le violenze”. È comprensibile che politici e capi di stato vogliano darsi un’immagine di imparzialità ed equidistanza se non altro per tenersi aperte diverse opzioni diplomatiche. Ma lo stesso non dovrebbe valere per le ong. Per loro natura, i gruppi per i diritti umani non dovrebbero rispondere a logiche politiche, ma solo ad una scelta di chiarezza morale. Nel caso dei combattimenti a Gaza questa chiarezza morale non si è vista per nulla.
Da Israele.net - 09-01-2009 Cari cittadini del mondo Di Rotem Yacobi - Cari cittadini del mondo, l’altro mercoledì, vigilia del nuovo anno, me ne stavo seduto nel mio appartamento a Beer Sheva e si considerava se uscire o no per festeggiare il capodanno. Improvvisamente sono suonate le sirene. Sono corso giù per le scale nel rifugio del nostro edificio, dove sono stato raggiunto da altre due famiglie coi bambini terrorizzati, una coppia di anziani e due studenti universitari vestisti da festa che a quel punto hanno deciso starsene a casa. Siamo rimasti seduti in silenzio, ascoltando la sirena e aspettando di sentire l’esplosione. Qualche minuto dopo la detonazione, siano tornati ai nostri appartamenti. Andando a letto ho sentito che dei missili erano caduti anche su Ashkelon, e mi dicevo: speriamo che non colpiscano qualche locale affollato, anche se quasi nessuno era uscito a festeggiare il capodanno.
Giovedì, primo giorno dell’anno, sarei dovuto andare in università ma le lezioni erano state sospese. Evidentemente le autorità accademiche non volevano prendersi nessun rischio. Mentre parlavo al telefono con la mia preoccupatissima madre, guardavo gruppi di studenti salire sugli autobus diretti verso località più lontane dal fronte. Ho detto a mia madre che anche la nostra casa non è sicura e che per il momento sarei rimasto qui.
Ogni rumore mi fa sobbalzare, penso che possa essere caduto un altro razzo. Navigo per i siti di notizie, leggo che le Forze di Difesa israeliane combattono Hamas nella striscia di Gaza e penso alla gente su entrambi i lati del confine.
Sono nato in questo paese, come i miei genitori. Sono nipote di sopravvissuti alla Shoà. Mi è stato insegnato l’amore per questa terra e l’amore per gli esseri umani, chiunque siano. Ho servito nelle forze armate e oggi sono studente all’Università Ben Gurion di Beer Sheva.
Sono fiero di appartenere a questo paese, che ha un esercito con alti valori morali. E mi pongo queste domande.
Lo sa, il mondo, che le Forze di Difesa israeliane avvertono con volantini e telefonate i civili palestinesi prima di colpire gli edifici usati da Hamas come depositi di armi o basi di lancio? Lo sa, il mondo, che per tutta risposta Hamas piazza uomini, donne e bambini sui tetti di quegli edifici perché sa che a quel punto le forze israeliane (certo, salvo errori) non li colpiranno? Lo sa, il mondo, che gli uomini di Hamas sparano dai centri abitati usando i civili come scudi umani?
Lo sa il mondo che, nel momento stesso in cui stanno combattendo Hamas, le forze israeliane si preoccupano di far arrivare alla popolazione palestinese aiuti umanitari come cibo, medicine e attrezzature sanitarie? Lo sa il mondo che, mentre combattiamo per difendere il nostro diritto a vivere in pace e sicurezza, malati palestinesi vengono ricoverati e curati negli ospedali israeliani? Ha saputo, il mondo, di quei venti casi in cui dei palestinesi hanno approfittato dei loro problemi di salute, e dunque del permesso di entrare in Israele, per cercare di compiere attentati terroristici contro la nostra popolazione?
Mi domando: dove era il mondo un anno e mezzo fa, quando gli uomini di Hamas massacravano per le strade quelli di Fatah e innumerevoli altri palestinesi innocenti per prendere il potere nella striscia di Gaza? Lo sa il mondo che, da quando Israele si è ritirato dalla striscia di Gaza nell’estate 2005, Hamas e i suoi alleati hanno sparato più di 6.000 razzi e granate su Israele, colpendo cittadini innocenti?
Eppure è Israele che viene accusato dalla comunità internazionale in generale, e dai paesi europei in particolare, compresi Gran Bretagna, Francia e Russia. Tutti stati che esistono da tantissimi anni, che hanno consolidato il status mondiale, che hanno garantito ai loro cittadini la sicurezza da minacce esterne. Alcuni avevano anche colonie in altri continenti dove imponevano le loro tradizioni, la loro cultura, la loro lingua.
Lo stato di Israele esiste da sessant’anni, non ha alcun desiderio di diventare un impero mondiale né di colonizzare paesi in altri continenti. Israele vuole solo che gli stati del mondo e i suoi vicini riconoscano la sua indipendenza e sovranità. Israele vuole anche che riconoscano il suo diritto di garantire sicurezza e protezione ai suoi cittadini (come previsto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite).
Cari cittadini del mondo, svegliatevi. Se oggi Israele, in nome della “pace”, sarà costretto ad accettare missili e razzi sulla testa dei suoi figli, domani toccherà ai vostri figli.
Venerdì, secondo giorno dell’anno, siedo nel mio appartamento a Beer Sheba mangiucchiando i biscottini che il vicino del piano di sotto ha distribuito mentre eravamo nel rifugio. Siedo qui e intanto immagino una realtà in cui potrò firmare questa lettera così: Rotem Yacobi, cittadino del mondo libero.
(Da: YnetNews, 8.01.09)
USA/ Il ’68 rivive a Washington - Lorenzo Albacete - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Nel 1968, nel periodo dei disordini successivi all’assassinio di Martin Luther King Jr. vivevo in centro a Washington, lavoravo in un laboratorio nel Maryland e frequentavo i corsi serali dell’Università Cattolica nel settore nord-est della città.
Mi ricordo bene cosa fosse la vita durante quelle sommosse. Non potevo andare da casa mia all’Università, perché lungo la strada ampie zone erano bloccate dalla polizia e dalla Guardia nazionale e per aggirarle finivo per impiegare almeno tre quarti d’ora in più. La via a nord per andare al laboratorio era libera, ma da qui per raggiungere l’Università non vi era altra soluzione che aggirare ancora una volta le aree degli scontri. Nella notte eravamo sotto legge marziale e, insieme a molti coinquilini, andavamo sul tetto a vedere gli incendi.
Il centro dei disordini era l’area attorno alla Quattordicesima Strada e alla U Street, nel nord ovest di Washington, una zona di piccoli negozi (i cui proprietari non vivevano nel quartiere), di condomini fatiscenti e di casette. Un prete mio amico, che stando con la Guardia Nazionale era autorizzato a circolare nell’area, mi portò a vedere cosa stava succedendo e rimasi stupefatto nel vedere le distruzioni causate dai disordini, soprattutto dagli incendi.
Ricordo che rimasi particolarmente impressionato dai danni provocati dal fuoco a un luogo che conoscevo e mi piaceva molto, un fast-food specializzato in chili hotdogs con patate fritte al formaggio. Era sempre pieno e molti venivano a mangiare qui da altre parti della città. Non seppi mai cosa fosse successo a questo locale dopo che cessarono le sommosse, ma ho sempre sperato che avesse potuto riaprire di nuovo.
Qualche giorno fa, ho visto questo luogo in televisione, perché il presidente eletto Obama e il sindaco di Washington erano andati lì a mangiare. Il sindaco, un afro-americano nato a Washington, era un ragazzino nel 1968, così come lo era Obama da qualche parte nelle Hawaii. Il primo presidente afro-americano stava mangiando al Chili Hot Dog della Quattordicesima Strada, proprio pochi giorni prima del suo insediamento, subito dopo la celebrazione della festività nazionale in onore di Martin Luther King, e ora lui e il sindaco erano trattati come due normali clienti. Chi avrebbe potuto immaginare una simile scena nel 1968?
È per questo che la prossima settimana, quando Obama presterà il suo giuramento e diventerà presidente degli Stati Uniti, la maggior parte degli americani, progressisti o conservatori, Democratici o Repubblicani, che vissero quei giorni proveranno una grande gioia che supererà per un momento ogni differenza politica e qualche lacrima sarà versata.
MEDIO ORIENTE/ Toni Capuozzo (Tg5): vi racconto la guerra vista da vicino - INT. Toni Capuozzo - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Bloccare i lanci di missili da Gaza, e impedire le forniture di armi in futuro. Questi gli obiettivi di Israele, mentre le truppe avanzano verso l’interno di Gaza City, non certo con l’intento di occupare la città, ma solo di rendere sempre più complicata la prosecuzione delle attività militari da parte di Hamas. È questa l’opinione del vicedirettore del Tg5 Toni Capuozzo, il quale, appena rientrato dalle zone degli scontri, spiega a ilsussidiario.net qual è nel dettaglio la situazione della guerra in Medio Oriente.
Capuozzo, cerchiamo innanzitutto di capire a che punto sono le operazioni militari. Israele ha parlato di “terza fase”: cosa significa?
Bisogna ragionare sui pochi elementi certi che abbiamo. Uno di questi è il fatto che Israele ha fatto entrare nella Striscia di Gaza i riservisti: ad essi probabilmente verrà affidato il presidio delle zone già controllate dentro Gaza, mentre i reparti professionali di leva si spingono più avanti. Ciò detto non credo proprio che Israele voglia prendersi la patata bollente di rioccupare Gaza, lasciata qualche anno fa con i costi che sappiamo. Più probabile che l’obiettivo finale sia rioccupare la fascia di confine con l’Egitto, e stabilire una fascia di sicurezza a nord della Striscia.
In quali condizioni si trova Hamas dal punto di vista militare?
Molti dei missili Qassam che venivano lanciati prima dell’inizio dell’operazione israeliana partivano da zone a ridosso del confine con Israele, per raggiungere più facilmente gli obiettivi e per operare in zone scoperte. Dall’inizio della reazione israeliana, non solo il numero di missili è diminuito, ma questi si sono anche fatti sempre più imprecisi. Sparando sempre da uno stesso punto, infatti, si imparano le coordinate, mentre spostandosi in continuazione si fanno sempre nuovi calcoli, e si sbaglia. Inoltre i miliziani di Hamas hanno dovuto notevolmente accorciare le operazioni di lancio, ridotte a 90 secondi, per non essere intercettati dalle operazioni aeree israeliane. Questo ha reso sempre più imprecisi i lanci, e noi stessi abbiamo visto missili cadere vicino a noi, praticamente in aperta campagna.
Indebolita la capacità militare di Hamas, ora dunque Israele che obiettivi a lungo termine si pone?
Israele credo che abbia due obiettivi irrinunciabili: bloccare per sempre il lancio di Qassam, facendo inaridire gli arsenali, e bloccare l’afflusso di nuove armi. Inoltre penso che Israele punti anche a creare attriti nella popolazione. Finché Hamas operava dalle zone di confine non c’erano problemi, ma quando questi lanci avvengono sotto le case dei civili anche l’atteggiamento dei civili stessi cambia. E più viene ridotto il campo d’azione di Hamas, più questa situazione si complica. Certo, l’effetto è anche quello di creare rabbia contro Israele; ma al tempo stesso la popolazione non è più così contenta di quello che fa Hamas.
Vista più da vicino rispetto a noi, com’è la situazione della popolazione civile a Gaza?
In realtà nemmeno noi inviati abbiamo informazioni dirette. Certo, stando lì vediamo le televisioni di Gaza, oppure parliamo con arabi israeliani che hanno parenti nella Striscia. Potremmo dire che se qui in Italia le informazioni sono di quarta mano, là sono di seconda. Dovendo dire qual è la caratteristica particolare di questa guerra dall’interno, il vero punto tremendo è che si tratta di una situazione in cui non si vede una via d’uscita. Per il resto bisogna essere molto obiettivi, perché spesso c’è anche molta ipocrisia a parlare di questo. Guardiamo ad esempio i profughi: si tratta di profughi interni, che si spostano di qualche chilometro da casa propria, andando a casa di parenti o in stabili dell’Onu, mentre l’Egitto non ha aperto le frontiere. Nelle altre guerre la situazione è ben diversa: nella guerra in Afghanistan c’erano oltre due milioni di profughi tra Pakistan e Iran, che se ne andarono prima durante il regime dei talebani e poi durante l’offensiva americana.
Lei dice che la caratteristica peggiore di questa situazione è che non ci sia una via d’uscita. Cosa dice delle prospettive che dovrebbero aprirsi grazie alla mediazione dell’Egitto?
L’Egitto sta sicuramente giocando un ruolo importantissimo, ma dietro le quinte ci sono molti elementi che pesano su queste trattative. Innanzitutto l’Egitto stesso non vuole truppe internazionali sul proprio territorio, perché farebbe la figura di chi non è in grado di controllare in casa propria; ma al tempo stesso non può nascondere che il traffico di armi viene dal Sinai (che curiosamente è anche dove noi andiamo in vacanza), ed è un traffico che arriva principalmente dall’Iran. Dall’altro lato non dimentichiamo quanto detto anche dall’Anp, e cioè che Hamas più che rispondere alla popolazione di Gaza, da cui pure è stata eletta, risponde a Damasco e Teheran. Si dice che l’Iran spinga moltissimo perché Hamas non accetti il cessate il fuoco, minacciando la fine degli aiuti e del rifornimento di armi. Hamas è poi legata ai Fratelli Musulmani, non certo a Mubarak. Infine non è pensabile mandare lì truppe internazionali, finché risulta chiaro che, data la posizione di Hamas, queste sarebbero esposte a rischi altissimi di sequestri e altre azioni ostili.
Che ruolo può avere l’Italia nelle vicende future, nel caso si realizzi la pur difficile ipotesi dell’intervento di una forza internazionale?
L’Italia era già presente con una missione europea al confine tra Gaza e l’Egitto, con una quindicina di carabinieri; quindi ha un’esperienza diretta della situazione. È stata una presenza positiva, svolta in partnership con l’Anp, per cercare di portare un minimo di legalità in quel valico di frontiera; un’esperienza che si è però sostanzialmente interrotta con la presa di potere da parte di Hamas. La collaborazione è stata cioè proficua fino al momento in cui l’Anp non è stata sostanzialmente umiliata dalle armate di Hamas (non parlo solo di quello accade nei tunnel, ma anche nel famoso terminal, dove passava di tutto, con gli uomini dell’Anp sempre più sviliti e messi in un cantuccio da quelli di Hamas). Allora la situazione si è fatta insostenibile, i nostri sono stati ritirati ed è rimasta solo una presenza simbolica. Ma questo è un terreno su cui si potrebbe tornare: nell’ottica di ristabilire in quella frontiera una qualche forma di legalità, l’Italia potrebbe dare il suo contributo avvalendosi dell’esperienza già maturata. Ovviamente, ripeto, solo si ristabilisse un contesto di sicurezza, senza andare lì essendo sottoposti continuamente alla minaccia di sequestri.
Da ultimo le chiedo un’opinione sulla posizione del Vaticano. Il Papa afferma che l’«opzione militare» non può portare risultati: oltre al valore spirituale, che valore concreto hanno queste sue parole?
Io penso che la Terra Santa sia un tallone d’Achille del Vaticano. La legittima difesa delle comunità cristiane in Terra Santa, e il tormentato rapporto di fatto con Israele fanno sì che questo sia per il Vaticano un nervo scoperto. È molto facile dunque incorrere in scivoloni, come ad esempio quello accaduto al cardinal Martino in un’intervista a questo giornale. La mia perplessità è che da un lato la politica del Vaticano non abbia sortito l’effetto di protezione della comunità cristiane: oggi Betlemme non è più una città a maggioranza cristiana. Le comunità cristiane stanno rapidamente declinando, anche perché la vecchia armonia tra arabi cristiani e arabi musulmani si è andata offuscando con la crescita del fondamentalismo. Poi però ci sono le parole del Papa, che sono altre, e “alte”: sono convinto anch’io che la reazione israeliana, seppur legittima nelle sue motivazioni (azzerare una minaccia permanente) rischi però di allevare intere generazioni con l’odio negli occhi. Le vittorie militari nel presente rischiano di trasformarsi in sconfitte per il futuro; ed è vero che la guerra genera guerra. Quindi il messaggio è giusto; ma è necessario che il Vaticano riesca a dare corpo a questo messaggio costruendo una posizione più solida e meno reticente. Da una parte chiarendo il rapporto con Israele, e dall’altra evitando, in virtù di un certo pensiero benaugurate, di sottovalutare la crescita del fondamentalismo islamico.
ATEISMO/ La "lieta novella" della solitudine razionalista. Se queste sono buone notizie... - Alberto Contri - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Apprendiamo dai quotidiani del 13 gennaio, con tanto di corredo di immagini, che il 4 febbraio alcuni autobus di Genova gireranno “rivestiti” con la campagna promossa dalla “Unione atei e agnostici razionalisti”. Questa abile mossa di relazioni pubbliche, costruita sul perenne desiderio dei mass media di attirare audience facendo un po’ di scandalo, denota che l’Unione, come già avvenuto in altri paesi, si è affidata a fior di specialisti. La stessa campagna, tecnicamente è confezionata assai bene: l’autobus, tutto coperto di nuvolette azzurre, riporta un paio di affermazioni dal tono decisamente apodittico: “LA CATTIVA NOTIZIA È CHE DIO NON ESISTE. QUELLA BUONA È CHE NON NE HAI BISOGNO”. Mi informa Federico Unnìa, esperto di diritto della pubblicità, che la campagna è stata ideata da Ariane Sherine, una scrittrice di commedie che, viaggiando in autobus, un giorno rimane colpita dalla reclame di un’associazione cristiana che citava un versetto della Bibbia. S’incuriosisce e visita il sito web dell’associazione che annuncia ai non credenti: «Passerete l’eternità a tormentarvi». Così, quasi per una forma di rivincita, Ariane ha la brillante idea di avviare una “contro-campagna” per diffondere il messaggio ateista e ottiene l’appoggio della British Humanist Association, dello scienziato e scrittore Richard Dawkins e del filosofo A. C. Grayling. Basta qualche settimana e la campagna raccoglie oltre 200 mila sterline. Una cifra sufficiente a comprare gli spazi pubblicitari di 800 autobus nelle maggiori città inglesi e un migliaio di annunci nella metropolitana londinese.
L’idea fa subito presa in altri paesi. Il messaggio diffuso in America recita: «Perché credere in Dio? Sii buono per amore della bontà». In Spagna il tono è un tantino meno perentorio e più possibilista: «Probabilmente Dio non esiste. Smettila di preoccuparti e goditi la vita». Ovunque la campagna fa rumore e crea accesi dibattiti (in Australia la sua pubblicazione non è stata ancora autorizzata dagli organismi competenti. Il presidente della Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti) dichiara apertamente che la decisione di partire con Genova ha un intento volutamente provocatorio, visto che è la città del Presidente della Cei, Angelo Bagnasco. L’obiettivo evidente è quello di sfidare il Cardinale sul suo territorio, sperando di fare il maggior rumore possibile ottenendo – come già avvenuto il 13 gennaio – l’attenzione dei mass media.
Dal punto di vista del diritto, nessuno può negare a chicchessia la potestà di promuovere una campagna pro o contro principi etici o religiosi. L’unico vincolo dovrebbe essere il rispetto delle idee altrui. E le prime reazioni in campo cattolico sembrano essere improntate a un prudente fair play, a testimonianza che oggi la violenza verbale è sempre più spesso appannaggio della cultura relativista e radicale. «Questa iniziativa potrebbe anche risvegliare qualche coscienza» - sostiene Monsignor Granara, rettore del Santuario della Madonna della Guardia – «offrendo uno stimolo ai cristiani per offrire la propria testimonianza dimostrando una fede pensata e amica dell’intelligenza». Anche don Gianni Baget Bozzo, noto per la sua vis polemica, usa un tono insolitamente soft: «Preferirei che questi autobus non ci fossero – dichiara al Corriere della Sera – ma potrebbero avere l’effetto opposto di quello prefissato. C’è stato l’ateismo comunista, quello ideologico, adesso c’è quello che ti dice: goditi la vita perché nessuno ti giudica. È un messaggio di solitudine, lo trovo depressivo». Stephen Wang, uno dei tutor del Seminario Allen Hall – dove si preparano i futuri preti cattolici della diocesi di Westminster – si dice addirittura divertito dalla campagna pubblicitaria. Il religioso ne sottolinea l’aspetto positivo affermando che, in periodi come questo, «è meraviglioso spingere la gente a pensare». Insomma, quel “forse” piazzato lì all’inizio della frase (“Forse Dio non esiste”) può aiutare a sollevare domande che la gente non si pone più o che non si pone più seriamente, e che magari solo un cartellone pubblicitario è in grado di suggerire ancora. Secondo il ragionamento di Wang, l’importante è suscitare una reazione che spinga la gente a riflettere su ciò che crede veramente (sempre che creda a qualcosa) e a vivacizzare il dibattito.
Ecco, probabilmente il problema più che altro è qui: in Inghilterra l’associazione che rappresenta gli atei dimostra più rispetto delle idee altrui, e nello slogan ci mette un “forse”. In Italia no. Si preferisce essere perentori e esibire quella irridente supponenza odifreddiana nei confronti di tutti quelli che non la pensano come loro sulla fede, sulla vita e sulla morte. Alla faccia della tolleranza.
ELUANA/ Introdurre “nuovi diritti”? Ma la Costituzione tutela già il diritto alla vita - Redazione - mercoledì 14 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Caro direttore,
il presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick ha espresso ieri 12 gennaio durante la cerimonia tenutasi alla Luiss di Roma in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione alcune opinione meritevoli di approfondimento. Riferendosi, tra l’altro, al caso di Eluana Englaro, ha sollecitato il potere legislativo a fornire risposte in tema di “nuovi diritti”, affinché sia evitato il rischio che l’affermazione di tali “nuovi diritti” avvenga “solo per via giurisprudenziale”. Ha auspicato, pertanto, che sia evitato “il rischio di uno squilibrato rapporto tra legislazione e giurisprudenza, una sorta di paralisi del legislatore contrapposta ad un attivismo creativo dei giudici”.
Concordo sul rilievo del presidente Flick circa un dilagante «attivismo creativo dei giudici». Ciò costituisce un’anomalia costituzionale gravissima, che mette in crisi il principio di legalità. Su tale crisi purtroppo la Corte costituzionale non ha colto alcuna occasione utile per pronunciare parole autorevoli. Questa crisi costituisce una vera emergenza democratica.
Quanto, poi, alla denunciata “paralisi” del legislatore, non mi sento di condividere il giudizio del presidente Flick. I campi su cui egli sollecita l’intervento sono di altissimo rilievo etico e costituzionale. È quindi ben giustificata la prudenza finora mantenuta dal legislatore. Peraltro, se è vero, come dice Flick, che non vi sono lacune nella Costituzione, non è affatto detto che vi siano lacune nella legge ordinaria, che va interpretata, come la Corte costituzionale insegna, alla luce della Costituzione. Il diritto alla vita è il primo e più fondamentale dei diritti umani. La Costituzione, allo stesso modo della legge ordinaria, tutela in modo pieno la vita, sì che, al riguardo, non sono necessarie, a stretto rigore, nuove leggi.
Quanto, poi, alla necessità di “nuovi diritti”, sarebbe auspicabile dire le cose con chiarezza. Vi sono richieste di gruppi di persone che sollecitano il riconoscimento giuridico di aspirazioni soggettivistiche che non sono “diritti”. Allora: se il presidente Flick non può, in relazione al suo alto incarico, pronunciarsi nel merito su quali aspirazioni siano “diritti”, e quali “diritti” non siano, sarebbe meglio che non creasse nemmeno l’attesa pubblica circa il riconoscimento futuro di una serie indeterminata e vaga di “nuovi diritti”, tra i quali alcuni gruppi annoverano, per esempio il «diritto» al suicidio, o il «diritto» all’assistenza al suicidio. È molto triste che, in un momento come l’attuale, in cui il diritto alla vita è messo in grave pericolo, non giungano all’opinione pubblica parole ferme in sua difesa.
prof. Mauro Ronco
SULLA DISAMINA DI FLICK NUOVI DIRITTI ORA BASTA INVASIONI DI CAMPO - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 gennaio 2009
« P referisco i confini alle invasioni di campo » , ha dichiarato il presidente della Corte Costituzionale Flick, con esplicita allusione a come la Cassazione ha invaso ( e pesantemente) il campo della politica, sentenziando in merito al caso Englaro. E ha fatto anche altri esempi: le unioni tra persone dello stesso genere, l’inizio e la fine della vita, il testamento biologico, il trattamento terapeutico per malati terminali o incoscienti. Per Flick « eludere queste domande significa delegare le risposte, caso per caso, agli organi giurisdizionali, talvolta privi di precisi referenti normativi » . Bisogna quindi ritenere che sia necessario che il Parlamento intervenga, prendendo sul serio la questione dei ' nuovi diritti' della persona. Altrimenti le ' invasioni di campo' continueranno e inevitabilmente.
Sul fatto che bisogna una volta per tutte porre rigorosi sbarramenti alle invasioni di campo, sono perfettamente d’accordo con Flick ( e in particolare sul fatto che sia davvero necessaria una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento). Ma ci sono diversi modi per impedire arbitrarie invasioni di campo. Il modo peggiore è quello posto in essere da chi, per evitarle, si affretta a consegnare il campo minacciato d’invasione a coloro che vorrebbero invaderlo e ai loro ' alleati'. Se, per impedire che la Cassazione si inventi un testamento biologico aperto all’eutanasia ( e per di più orale), si auspica che il Parlamento faccia una legge obiettivamente eutanasica, cadiamo dalla padella nella brace. Se accettiamo l’idea ( carissima a tanti magistrati ' alternativi') che la dinamica sociale faccia emergere ' nuovi diritti', che il Parlamento avrebbe il dovere di formalizzare in forma legale, arriveremo prima o poi a qualificare come ' vecchi' i diritti ' tradizionali' e alla lunga apparirebbe ragionevole, per favorire il ' nuovo', allentare la tensione, trascurare o addirittura cancellare diritti 'invecchiati'.
Il punto è che, come sostiene giustamente Dworkin ( non a caso citato da Flick), i diritti ' vanno presi sul serio'; ma se i diritti esistono, esistono perché non sono né nuovi né vecchi: i diritti della persona sono diritti fondamentali e basta. Sostenere il contrario veicola l’intenzione di forzare la corretta immagine dell’uomo che emerge dal testo della nostra legge fondamentale, dilatando arbitrariamente l’elenco dei diritti che essa riconosce e difende. Non è questa di certo l’intenzione di Flick, ma è certamente quella di tanti che si sono compiaciuti del suo intervento al Convegno promosso dalla Luiss per il sessantesimo della nostra Costituzione.
Ma se si elude la questione dei ' nuovi diritti', come impedire ai magistrati di invadere un campo che non è loro? Ricordando loro, senza mai stancarsi, che essi sono vincolati alla legge e pretendendo da loro ( come da tutti i cittadini) la massima onestà intellettuale. La Costituzione non riconosce come diritto fondamentale né la richiesta di eutanasia, né il rifiuto delle cure. Essa semplicemente nega che una persona possa essere obbligata a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge (art. 32). La Costituzione non dà nessun appiglio per il riconoscimento legale delle coppie di fatto o delle coppie omosessuali come ' formazioni sociali' meritevoli di tutela ( ed etichettabili con gli appellativi più fantasiosi e stravaganti: Pacs, Dico, Cus, Didore...!). Essa si limita ad affermare che i diritti inviolabili valgono non solo per l’individuo singolo, ma anche per l’individuo integrato in una qualsiasi 'formazione sociale' ( art. 2). Potremmo continuare.
Che l’espressione ' nuovi diritti' vada oggi molto di moda e venga sempre più spesso usata dai politici è ben noto e del resto nessuno può pretendere dai politici rigore linguistico e sobrietà di espressione. Ma giuristi e giudici dovrebbero fare di tutto per non abdicare a un corretto uso del linguaggio giuridico. E, nel linguaggio giuridico, l’espressione ' nuovi diritti' non ha alcuno spazio.
OBAMA TRA IL PASTORE FONDAMENTALISTA E L’EPISCOPALIANO GAY - Non c’era un umile vice-parroco da arruolare per il giuramento? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 14 gennaio 2009
Un vescovo episcopale gay, unito in ' matrimonio' con il suo compagno, darà l’avvio domenica prossima con la sua preghiera alle celebrazioni dell’insediamento di Obama.
Le celebrazioni si concluderanno il 20 con la benedizione del giuramento del Presidente da parte di un pastore evangelico che invece ha condannato aspramente le nozze omosex. Se un comico americano avesse mai visto l’imitazione di Crozza fatta al leader pd ( e obamiano) Veltroni si potrebbe sbizzarrire con una gigantesca satira a stelle e strisce della filosofia del ' ma anche'. La scelta del neopresidente di avere tale timbro sulla partenza delle sue celebrazioni è singolare, anche perché la faccenda del vescovo Robinson ha creato alla chiesa evangelica grandi problemi fino al rischio di scisma, e dunque c’è strana mancanza di delicatezza nei confronti della comunità protestante. Forse non c’erano altri preti o vescovi disponibili nei paraggi della Casa Bianca? Uno delle decine di migliaia di pastori, o parroci, o uomini di una comunità cristiana che svolgono umilmente il loro servizio senza cercare scandali? Tutti impegnati, non c’era neanche uno straccio di pastore, di prete libero quel giorno? Forse in questa fase politica dove spesso vale più l’immagine della sostanza, più della preghiera a Dio vale chi la dice. Come se la preghiera valesse non per l’ascolto che si chiede a Dio ma per l’audience che crea nell’opinione pubblica. Se dice non è un uso politico della religione questo, mi permetta Signor Presidente eletto, come lo dobbiamo chiamare? Le esigenze di immagine e di ricerca di facile consenso hanno prevalso? Insomma, certo uno può scegliere quel che vuole. E chiedere preghiere a chi gli pare. Figurarsi se non può farlo il Presidente straosannato ( o già un po’ ex- straossanato, visto certe marce indietro su riforma sanità, Guantanamo e altro) degli Usa. Però andare a cercare l’unico vescovo protestante gay così da bilanciare il fondamentalista è una scelta molto occhiuta. Certo, per lo show è un buon colpo di teatro. E l’audience – il facile consenso – di un’esigua parte di nazione forse ne guadagna. Ma il mestiere di un Presidente eletto è andare alla ricerca di altro consenso o dare segni di impegno sui problemi della sua gente?
Una Nazione come l’America, sempre impegnata ad autocelebrarsi, è molto attenta ai simboli che impiega. Proporre questa scelta indica un modo di presentarsi che è giocare con le contraddizioni, con futili sforzi di fantasia. Forse poteva dire quella preghiera uno dei tanti travolti dalla crisi. O un familiare di una delle vittime delle Torri gemelle o dell’Iraq.
O uno di coloro che lotta per il bene del Paese nelle tante opere di solidarietà.
Insomma, un po’ più di fantasia, rispetto ai riti della ricerca del ' consenso'. Il Presidente degli Usa si avvia ad un ' mestieraccio' con una responsabilità per la quale chiunque – pastore o meno – dovrebbe invocare aiuti da Dio e da tutti i santi del Paradiso. Però c’è qualcosa che fa somigliare questo insediamento a un reality show piuttosto che all’avvio della Presidenza del Paese più potente del mondo. Speriamo che lo spettacolo non continui.
C’è qualcosa che fa somigliare l’insediamento presidenziale a un reality show