Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il fratello del nostro Dio (parte II) - ROMA, martedì, 27 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la seconda parte di una riflessione su "Il fratello del nostro Dio", il dramma scritto nel 1949 da Karol Wojtyla, svolta durante un convegno tenutosi nel 1981 presso il Santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza (PG).
2) Apologetica laica - Quando la filosofia -diventa schiava della tecnoscienza - In occasione dei cento anni della "Rivista di Filosofia Neoscolastica" l'Università Cattolica del Sacro Cuore ha organizzato un convegno che si svolge il 27 e il 28 gennaio presso il Dipartimento di Filosofia. Anticipiamo le conclusioni dell'intervento del direttore del Centro di Ateneo di Bioetica. di Adriano Pessina – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
3) La scomunica ai lefebvriani non c'è più. Ma la pace resta lontana - Anzi, aumentano le ragioni di conflitto, anche con i figli d'Israele. Benedetto XVI moltiplica i gesti di apertura, ma non ottiene niente in cambio. L'incidente del vescovo negazionista, con un commento della ebrea Anna Foa di Sandro Magister
4) Il metodo di san Tommaso d'Aquino Se si tratta della verità non importa chi la dice - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
5) Un esempio di unità tra la meditazione della Parola e la riflessione sistematica - Nel passato la chiave per interpretare il futuro - In occasione della memoria liturgica di san Tommaso d'Aquino, l'arcivescovo segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica tiene all'Angelicum un'omelia della quale anticipiamo ampi stralci. - di Jean-Louis Bruguès – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
6) Storia e conseguenze della persecuzione della cultura intellettuale ebraica italiana - La memoria del danno - Il 26 gennaio si è svolta a Roma, all'università La Sapienza, una giornata di studi intitolata "Le leggi del 1938: rimozione, memoria, storia". Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi. - di Marina Beer Università di Roma La Sapienza – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2008
7) La squallida retorica del ventennio fascista - Difesa della razza indifendibile vergogna - i Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
8) UE/ I "nuovi diritti", cavallo di Troia per distruggere la tradizione - Mario Mauro - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) USA/ L’aborto, una questione non politica - Lorenzo Albacete - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) LETTURE/ Il san Tommaso di Chesterton, quando la ragione è “degna di fede” - Pigi Colognesi - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
11) IL TAR OLTRE IL DIRITTO POSITIVO - SENTENZA FORZA I TERMINI DELLA QUESTIONE - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 28 gennaio 2009
12) Eluana, è scontro fra Lombardia e Tar - Formigoni: non fanno leggi. La replica: noi corretti - DA MILANO DAVIDE RE – Avvenire, 28 gennaio 2009
Il fratello del nostro Dio (parte II) - ROMA, martedì, 27 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la seconda parte di una riflessione su "Il fratello del nostro Dio", il dramma scritto nel 1949 da Karol Wojtyla, svolta durante un convegno tenutosi nel 1981 presso il Santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza (PG).
La prima parte è stata pubblicata il 20 gennaio scorso.
* * *
FRATEL ALBERTO Non si può giudicare limitandosi ad osservare i
fenomeni in superficie. Tu ti ricordi come il vecchio
Isacco si sia sbagliato e abbia scelto male fra
Giacobbe ed Esaù. Non si può giudicare secondo i
travestimenti che l'uomo indossa durante la sua vita.
Qui si tratta solo di comprendere se lei sia stato
scelto.
MUSICISTA Come accorgersene?
FRATEL ALBERTO Innanzi tutto bisogna avere una nuova visione del
mondo. Lei non ce l'ha. Perché questa è la
differenza, mio caro signore: questa è la differenza.
Una cosa è giudicare il mondo con le misure che
valutano i vari toni musicali - e questo è molto
interessante, molto bello, splendido - un'altra cosa
è vedere il mondo nella sua dimensione di miseria e
di viltà e sapere, sapere con precisione il punto in
cui Dio si incontra con tutto questo, sapere quale
miseria lo avvicina agli uomini e quale lo allontana.
MUSICISTA Mi sembra che potrei dare un giudizio del genere.
FRATEL ALBERTO Con quali criteri? Con quelli dell'errata visione
musicale? Lei conosce almeno qual'è la vera miseria
dell'uomo davanti a Dio? Un tale miseria non si deve
cercare ai confini dell'uomo o nei suoi dintorni.
Essa si trova dentro di lui, precisamente in quel
luogo nel quale egli dovrebbe cominciare la sua vera
elevazione.
MUSICISTA Sì, intuisco di cosa il Frate stia parlando: il
significato delle contraddizioni.
FRATEL ALBERTO Noi di solito giudichiamo male: la misericordia e
l'ingiustizia hanno un significato diverso da quello
che noi diamo loro. La misericordia e l'ingiustizia
non cominciano dove di solito noi supponiamo.... Ma
per vedere questo bisogna avere quella nuova visione.
Se manca questa, si commetteranno sempre delle
sciocchezze.
Poco prima della sua morte Fratel Alberto parla con i suoi confratelli per confortarli nella loro vocazione che si fonda sulla realizzazione della misericordia cristiana.
FRATEL ALBERTO Fratelli miei. Vi ho tolto tutto. Vi ho chiesto tutto.
Non vi ho illuso con nessuna promessa. Non so, se
avevo il diritto di fare una cosa del genere. E
inoltre ho messo un giogo sulle vostre spalle. Ma ho
cercato di poggiarlo nel profondo, dentro ognuno di
voi, lì dove l'odio del peso maledetto dovrebbe
trasformarsi in amore. Vi siete certamente accorti che
sto parlando della croce, della nostra comune croce
che è la trasformazione della caduta dell'uomo nel
bene e della sua schiavitù in libertà....
Sapevo però di non essere da solo. In ognuno di voi
"sapevo" della miseria e di lui. Per tanto tempo la
miseria umana è stata così lontana da Dio; con
tutte le mie forze cercavo di avvicinare l'uno
all'altro dentro di voi. Prima c'eravate voi,
miserabili, e sulla vostra miseria si estendeva il
vuoto; ma dal momento in cui il misero si avvicina a
Dio, la sua caduta si trasforma in croce; la sua
schiavitù in libertà.
Sono sicuro di aver scelto la più grande libertà! Il dramma è stato scritto in Polonia dopo la guerra, in quegli anni in cui era in atto una rivoluzione "forzata", cioè si cercava di costruire il nuovo ordine sociale senza l'amore e senza la misericordia cristiana. Si voleva costruire anche un uomo nuovo, a partire dalla totale negazione della verità dell'uomo, cioè di quella verità che costituisce la sua tradizione. L'autore del dramma si è venuto formando nella tradizione della libertà che è indissolubilmente legata alla verità dell'uomo, vale a dire nella tradizione dell'amore a questa libertà e nella tradizione della misericordia verso l'uomo. Per una tradizione così, una rivoluzione, che non implica la metanoia culturale e morale dell'uomo, resta sempre un elemento estraneo. L'esperienza di quella tradizione ha invece un valore universale. Non è casuale allora che la Provvidenza divina l'abbia ritirata fuori dal tesoro della tradizione cristiana. E noi possiamo ritrovarla nell'Enciclica "Dives in Misericordia", di cui riportiamo i seguenti passaggi che costituiscono uno sviluppo dei temi del dramma.
"Il significato vero e proprio della misericordia non
consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più
penetrante e compassionevole, rivolto verso il male
morale, fisico o materiale: la misericordia si
manifesta nel suo aspetto vero e proprio, quando
rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di
male, esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa,
essa costituisce il contenuto fondamentale del
messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva
della sua missione. Allo stesso modo intendevano e
praticavano la misericordia i suoi discepoli e
seguaci. Essa non cessò mai di rivelarsi, nei loro
cuori e nelle loro azioni, come una verifica
particolarmente creatrice dell'amore che non si lascia
"vincere dal male", ma vince "con il bene il male".
Occorre che il volto genuino della misericordia sia
sempre nuovamente svelato. Nonostante molteplici
pregiudizi, essa appare particolarmente necessaria ai
nostri tempi" (DM, IV, 6).
"Che cosa, dunque, ci dice la croce di Cristo, che è,
in un certo senso, l'ultima parola del suo messaggio e
della sua missione messianica? - Eppure, questa non è
ancora l'ultima parola di Dio dell'alleanza: essa
sarà pronunciata in quell'alba, quando prima le donne
e poi gli Apostoli, venuti al sepolcro di Cristo
crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per
la prima volta l'annuncio: "È risorto". Essi lo
ripeteranno agli altri e saranno testimoni del Cristo
risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione del
Figlio di Dio continua ad esser presente la croce, la
quale - attraverso tutta la testimonianza messianica
dell'Uomo-Figlio, che su di essa ha subito la morte -
parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre, che è
assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo,
poiché "ha tanto amato il mondo - quindi l'uomo nel
mondo - da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna". Credere nel Figlio crocifisso significa
"vedere il Padre", significa credere che l'amore è
presente nel mondo e che questo amore è più potente
di ogni genere di male, in cui l'uomo, l'umanità, il
mondo sono coinvolti. Credere in tale amore significa
credere nella misericordia. Questa, infatti, è la
dimensione indispensabile dell'amore, è come il suo
secondo nome, al tempo stesso, è il modo specifico
della sua rivelazione ed attuazione nei confronti
della realtà del male che è nel mondo, che tocca e
assedia l'uomo, che si insinua anche nel suo cuore e
può farlo "perire nella Geenna". (DM, V, 7).
La scomunica ai lefebvriani non c'è più. Ma la pace resta lontana - Anzi, aumentano le ragioni di conflitto, anche con i figli d'Israele. Benedetto XVI moltiplica i gesti di apertura, ma non ottiene niente in cambio. L'incidente del vescovo negazionista, con un commento della ebrea Anna Foa di Sandro Magister
ROMA, 28 gennaio 2009 – A Benedetto XVI capita ripetutamente di trovarsi in difficoltà su due zone di confine che si intersecano: con i lefebvriani e con gli ebrei.
Il 24 gennaio papa Joseph Ratzinger ha revocato la scomunica ai quattro vescovi ordinati illegittimamente da Marcel Lefebvre nel 1988: scomunica nella quale erano incorsi "latae sententiae", cioè in modo automatico semplicemente compiendo quell'atto. I quattro restano comunque sospesi "a divinis", non possono cioè esercitare il loro ministero nella Chiesa cattolica, e la loro comunità resta in stato di scisma.
Uno dei quattro vescovi, l'inglese Richard Williamson, è un acceso negazionista e ha di recente rilanciato le sue tesi negatrici dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti. La coincidenza tra queste sue posizioni e la revoca della sua scomunica – per di più a ridosso della giornata mondiale di memoria della Shoah, il 27 gennaio – ha provocato le forti proteste di molti ebrei, anche di quelli generalmente più benevoli con la Chiesa cattolica e con l'attuale papa.
Un'analoga somma di circostanze aveva fatto scoppiare nei mesi scorsi una polemica similare. Quando Benedetto XVI liberalizzò per tutti i cattolici il rito antico della messa, caposaldo dei lefebvriani, molti ebrei protestarono perché vi era contenuta una preghiera da essi ritenuta inaccettabile e offensiva, in quanto mirata alla loro "conversione". Il papa riscrisse il testo della preghiera, ma alcuni ebrei respinsero anche la nuova formula.
La ragione di fondo di queste turbolenze è nella teologia antigiudaica che contraddistingue in genere i lefebvriani. Secondo molti ebrei, la Chiesa cattolica fa troppo poco per contrastare questo antigiudaismo ed esigere il ravvedimento dei suoi fautori.
* * *
In effetti, i "magnanimi gesti di pace" che Benedetto XVI ha compiuto più volte in direzione dei lefebvriani non sono stati seguiti finora, da parte di essi, da alcun passo significativo di ravvedimento e di avvicinamento.
Il primo di questi gesti è stata l'udienza accordata il 29 agosto 2005 da Benedetto XVI al successore di Lefebvre e capo della comunità, il vescovo – all'epoca scomunicato – Bernard Fellay.
Il secondo gesto è stato il discorso del papa alla curia romana del 22 dicembre 2005. Un discorso di capitale importanza, perché andava al cuore della questione su cui è nato lo scisma lefebvriano: cioè l'accettazione e l'interpretazione dei Concilio Vaticano II. Benedetto XVI mostrò che il Vaticano II non segnava alcuna rottura con la tradizione della Chiesa, anzi, era in continuità con essa anche là dove sembrava segnare una svolta netta rispetto al passato, col pieno riconoscimento della libertà religiosa come diritto inalienabile di ogni persona.
"L'Osservatore Romano" ha ripubblicato tre giorni fa quel discorso del papa, assieme al decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Il 25 gennaio era anche il cinquantesimo anniversario del primo annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII. Ma in più di tre anni, da parte della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da Lefevbre non è venuto nessun segno di adesione alle tesi di Benedetto XVI sull'interpretazione del Vaticano II.
Il terzo gesto è stato la liberalizzazione del rito antico della messa, col motu proprio "Summorum Pontificum" del 7 luglio 2007. Con questa decisione papa Ratzinger si rivolgeva anzitutto all'insieme della Chiesa cattolica, ma era nei suoi intenti anche la volontà di risanare lo scisma con i lefebvriani.
Tuttavia i lefebvriani interpretarono questo gesto semplicemente come un cedimento alle loro posizioni. In più vi fu la reazione di molti ebrei per la preghiera per la loro "conversione", nonostante Benedetto XVI l'avesse poi riformulata.
Il quarto gesto è quello dei giorni scorsi: la revoca della scomunica. Papa Ratzinger l'ha compiuto unilateralmente, come "dono di pace", nella dichiarata speranza di incoraggiare una rapida discussione e soluzione dei punti di divisione.
Va detto però che lo scorso 15 dicembre, nella sua ultima lettera scritta alle autorità della Chiesa di Roma prima del "dono", il capo dei lefebvriani Fellay non dava alcun segno di voler accettare il Vaticano II nella sua integralità:
"Noi siamo pronti a scrivere il Credo con il nostro sangue, a firmare il giuramento antimodernista, la professione di fede di Pio IV, noi accettiamo e facciamo nostri tutti i Concili fino al Vaticano II, riguardo al quale esprimiamo riserve".
In più sono arrivate le dichiarazioni negazioniste del vescovo Williamson, personaggio non nuovo a uscite del genere. Di lui si ricorda, dopo l'11 settembre 2001, un'allucinata spiegazione dell'abbattimento delle Torri Gemelle, attribuito a un fantomatico "stato di polizia" mirante a sottomettere l'America e l'Europa.
* * *
Circa i lefebvriani, la critica che nella curia romana e tra i vescovi si rivolge a Benedetto XVI è di agire solo con gesti unilaterali, senza ottenere nulla in cambio.
Si osserva che i gesti hanno tutti una nitida coerenza e consistenza teologica. Cadono però su un terreno non adeguatamente coltivato.
Anche la revoca della scomunica ai quattro vescovi ricade sotto queste critiche. Si osserva che anche tra Roma e Costantinopoli sono state cancellate le scomuniche, tuttavia questo gesto fortemente simbolico è avvenuto dentro un cammino di reale avvicinamento ecumenico. Un cammino che è invece assente tra i lefebvriani, con i quali le divisioni restano intatte.
* * *
Con gli ebrei è lo stesso. Si riconosce a Benedetto XVI di aver prodotto i testi più alti e più costruttivi per il dialogo tra le due fedi. Ma gli si imputa che contro le sue parole stridono troppi fatti.
Un esempio è ciò che è accaduto nei giorni scorsi. All'Angelus di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha pronunciato parole audaci sulla "conversione" dell'ebreo Paolo. Ha persino detto che per Paolo il termine "conversione" è improprio, "perché gli era già credente, anzi ebreo fervente, né dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo".
Ma lo stesso giorno, un vescovo che lo stesso Benedetto XVI aveva da poco assolto dalla scomunica imperversava sui media di tutto il mondo con affermazioni aberranti contro gli ebrei.
Voci cattoliche autorevoli si sono levate a rimarcare che Ratzinger non aveva colpa di tali affermazioni, né esse avevano alcun legame con la decisione papale di revocare la scomunica al vescovo che le aveva pronunciate. Ma sul piano comunicativo il nesso tra le due cose scattava inesorabile. La notizia era ovunque la seguente: il papa assolve dalla scomunica il vescovo negazionista.
Ad alcuni è stato facile rinfacciare alle autorità vaticane di tacere troppo anche su un altro, ben più pericoloso negazionismo, quello pubblicamente propugnato dai capi dell'Iran. Nei quasi quattro anni di questo pontificato, in effetti, solo una volta, e con parole vaghe, in un testo vaticano ufficiale si è condannato il programma iraniano di cancellare Israele dalla faccia della terra.
Nessun silenzio, tuttavia, può essere rimproverato alla Santa Sede oggi, di fronte alla negazione della Shoah fatta dal vescovo lefebvriano Williamson.
Una prova è in questo articolo pubblicato con grande evidenza su "L'Osservatore Romano" del 26-27 gennaio. Ne è autore Anna Foa, docente di storia all'Università di Roma "La Sapienza", ebrea:
L'antisemitismo unico movente dei negazionisti - di Anna Foa
Il negazionismo della Shoah non è un'interpretazione storiografica, non è una corrente interpretativa dello sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo, non è una forma sia pur radicale di revisionismo storico, e con esso non deve essere confuso. Il negazionismo è menzogna che si copre del velo della storia, che prende un'apparenza scientifica, oggettiva, per coprire la sua vera origine, il suo vero movente: l'antisemitismo.
Un negazionista è anche antisemita. Ed è forse, in un mondo come quello occidentale in cui dichiararsi antisemiti non è tanto facile, l'unico antisemita chiaro e palese.
L'odio antiebraico è all'origine di questa negazione della Shoah che inizia fin dai primi anni del dopoguerra, riallacciandosi idealmente al progetto stesso dei nazisti, quando coprivano le tracce dei campi di sterminio, ne radevano al suolo le camere a gas, e schernivano i deportati dicendo loro che se anche fossero riusciti a sopravvivere nessuno al mondo li avrebbe creduti.
Il negazionismo attraversa gli schieramenti politici, non è solo legato all'estrema destra nazista, ma raccoglie tendenze diverse: il pacifismo più estremo, l'antiamericanismo, l'ostilità alla modernità.
Esso nasce in Francia alla fine degli anni Quaranta a opera di due personaggi, Maurice Bardèche e Paul Rassinier, l'uno fascista dichiarato, l'altro comunista. Dopo di allora, si sviluppa largamente, e i suoi sostenitori più noti sono il francese Robert Faurisson e l'inglese David Irving, nessuno dei due storico di professione.
I negazionisti sviluppano dei procedimenti assolutamente fuori dal comune nella loro negazione della realtà storica. Innanzitutto, considerano tutte le fonti ebraiche di qualunque genere inattendibili e menzognere. Tolte così di mezzo una buona parte dei testimoni, tutta la memorialistica espressa dai sopravvissuti ebrei e la storiografia opera di storici ebrei o presunti tali, i negazionisti si accingono a demolire il resto delle testimonianze, delle prove, dei documenti.
Tutto ciò che è posteriore alla sconfitta del nazismo è per loro inaffidabile perché appartiene alla "verità dei vincitori". La storia della Shoah l'hanno fatta i vincitori, continuano instancabilmente a ripetere, mettendo in dubbio tutto quello che è emerso in sede giudiziaria, dal processo di Norimberga in poi: frutto di pressioni, torture, violenze.
Resta però ancora una parte di documentazione da confutare, quella di parte nazista che precede il 1945. Qui, i negazionisti hanno scoperto che nessuna affermazione scritta dai nazisti dopo il 1943 può dichiararsi veritiera, perché a quell'epoca i nazisti cominciavano a perdere la guerra e avrebbero potuto fare affermazioni volte a compiacere i futuri vincitori. "Et voilà", il gioco è fatto: la Shoah non esiste!
Il negazionismo si applica in particolare a dimostrare l'inesistenza delle camere a gas, attraverso complessi ragionamenti tecnici: non avrebbero potuto funzionare, avrebbero avuto bisogno di ciminiere altissime e via discorrendo. È questa la tesi che ha dotato di notorietà uno pseudo-ingegnere, Fred Leuchter, e che domina nei siti negazionisti di internet.
Oggi, il negazionismo è considerato reato in molti Paesi d'Europa, anche se una parte dell'opinione pubblica rimane restia – come chi scrive – a trasformare, mettendoli in prigione, dei bugiardi in martiri. Non mancano poi sostenitori del negazionismo in funzione antiisraeliana.
Bisogna però ripetere che dietro il negazionismo c'è un solo movente, un solo intento: l'antisemitismo. Tutto il resto è menzogna.
Apologetica laica - Quando la filosofia -diventa schiava della tecnoscienza - In occasione dei cento anni della "Rivista di Filosofia Neoscolastica" l'Università Cattolica del Sacro Cuore ha organizzato un convegno che si svolge il 27 e il 28 gennaio presso il Dipartimento di Filosofia. Anticipiamo le conclusioni dell'intervento del direttore del Centro di Ateneo di Bioetica. di Adriano Pessina - L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
Nel fondare la "Rivista di Filosofia Neoscolastica", l'idea di padre Agostino Gemelli - coltivata anche dalla generazione di chi ho avuto come maestro - era legata alla necessità di conservare una dimensione "apologetica" della filosofia nei confronti della fede cattolica. Ora, il concetto di "apologetica", oltre a prestarsi a diversi fraintendimenti, fino alla possibilità di minare la strutturale e irrinunciabile autonomia del sapere e del metodo filosofico che questa Università ha difeso con legittima chiarezza, ha però una interessante accezione sulla quale riflettere. L'apologetica della fede credente non significa subordinazione della ragione filosofica alla ragione teologica, ma, in primo luogo, la permeabilità della ragione filosofica alle questioni che riguardano il significato profondo e autentico dell'esperienza umana, fino a coinvolgere le questioni ultime. Da questo punto di vista, l'apologetica è fondamentalmente la capacità di prendere sul serio quegli interrogativi che, sollevati dalle trasformazioni dell'esistenza e del pensiero, interrogano l'esperienza e il pensiero della fede. E questa permeabilità, a quello che possiamo chiamare lo "spirito del proprio tempo", è esattamente opposta a ogni impostazione puramente deduttivistica che pretende di ricavare risposte a domande mai realmente comprese. Non si tratta di adeguarsi alle risposte dell'epoca contemporanea, ai suoi stili di pensiero, ma di confrontarsi con esse. E se, per lungo tempo, queste risposte erano fornite da correnti filosofiche chiaramente definibili, come l'idealismo, il marxismo, lo spiritualismo, oggi esse sono fornite da molte, ma non meno definite, linee di pensiero e di azione che non provengono soltanto dalla filosofia classicamente intesa. Se guardiamo alla bioetica così come si è sviluppata negli Usa e si sta lentamente affermando in Europa, possiamo constatare come di fatto essa coincida con la riduzione della filosofia a uno strumento puramente procedurale, di raccordo tra le diverse opzioni religiose, che lascia alle tecnoscienze l'autorità della ragione e il compito di fornire risposte universali alle grandi questioni di senso. Non ci si illuda. Anche quando si riconosce alla fede cristiana una funzione guida nelle questioni etiche e antropologiche, questo riconoscimento è direttamente proporzionale alla sua riduzione a pura opzione a-razionale e alla sua marginalizzazione dal discorso pubblico della ragione. Una fede sradicata dalla razionalità e interpretata alla luce del principio di autorità rimane di fatto impotente nel confronto con le proposte delle tecnoscienze ed è ridotta a una delle grandi opinioni del nostro secolo, incapace di discutere sul terreno della verità e della falsità, come certe esperienze del filosofare che si limitano a narrare nuovi racconti sulla realtà. Lo svuotamento della ragione filosofica non solo rende impossibile, sentenzia Hugo T. Engelhardt, "ricostruire la sensibilità ebraico-cristiana mediante il ragionamento morale laico generale", ma di fatto rende persino incomprensibile il messaggio stesso della fede cristiana perché non si sa più riconoscere nel Dio della Rivelazione, l'Autore e il fondamento della stessa ragione umana; quella ragione filosofica delle cui capacità non dobbiamo avere paura in quanto, per sua natura, aperta all'incontro con la Rivelazione. Così, di fronte al tentativo di ridurre la fede a fideismo e di mortificare la ragione filosofica ad ancilla tecnologiae, il compito di un'"apologetica" della filosofia non appare differente dal compito di un'apologetica della fede. Allargare la ragione e tornare a riaffermare la relazione costitutiva tra il sapere della filosofia e quello della fede significa creare di nuovo le condizioni per pensare la realtà dentro le categorie del vero e del falso, facendo diventare la filosofia interlocutrice della ragione tecnoscientifica nelle sue diverse forme e contribuire a costruire uno spazio pubblico di riflessione sul destino dell'uomo nell'epoca della sua auto-manipolazione.
La filosofia neoscolastica, ricordava Gemelli, non è l'impresa di un solo uomo, così come non lo è, secondo Sofia Vanni Rovighi, la filosofia come sapere rigoroso. Occorre far convergere idee, capacità, conoscenze intorno a un progetto condiviso, che non può essere differente, a mio avviso, da quello, per usare un'espressione inattuale, dell'apologetica.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
Il metodo di san Tommaso d'Aquino Se si tratta della verità non importa chi la dice - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
Non raramente si sente affermare che Tommaso d'Aquino è stato un modello di dialogo con le culture del suo tempo. Ed è vero, ma sarebbe anzitutto necessario precisare - e non lo si fa quasi mai - che cosa si intenda per dialogo. La parola dialogo è ripetuta oggi fino alla noia per i campi più svariati, ma la si lascia abitualmente nel vago di un significato generico, dove spesso un'ovvietà improduttiva rischia di rasentare la banalità.
Ma torniamo a Tommaso d'Aquino. Egli è entrato certamente a contatto con la cultura del suo tempo, rappresentata specialmente da Aristotele che ormai si trovava - come direbbe Congar - alla sua terza entrata in Occidente, quella dei contenuti, dopo l'entrata riguardante la Logica vetus, con Boezio, e la Logica nova.
Il commento, anche analitico, alle opere del filosofo non è sicuramente un'iniziativa originale di Tommaso, ma è sorprendente che egli, "maestro in Sacra Pagina", abbia dedicato tanto tempo e impegno all'analisi dei testi aristotelici. O forse meglio, non sorprende, se si tiene presente che il loro studio particolareggiato aveva come scopo quello di porre la verità che coglieva in esse a servizio della sua professione di teologo e quindi a servizio della sacra doctrina. Questa sua attività di commentatore - che non si limitava ad Aristotele, egli commentò anche il Liber de causis, di cui rilevò la matrice platonica - non passava, in ogni caso, senza l'attenzione e la stima dei maestri della Facoltà delle arti. Quando Tommaso partì da Parigi nella primavera del 1272, promise a questi che avrebbe inviato loro alcuni commentari di opere filosofiche, ed essi infatti lo ricordarono e li richiedevano, insieme con le reliquie di Tommaso, in una lettera del maggio 1274 al capitolo generale di Lione. Ma, di là da queste annotazioni storiche, è illuminante rilevare il metodo di Tommaso nel dialogo con la cultura del suo tempo. Si nota anzitutto il principio fondamentale della sua ricerca o della sua "etica mentale", espresso in questi termini e da lui attributo a sant'Ambrogio: "Al principio di ogni verità, chiunque sia colui che la professi, vi è lo Spirito Santo (omne verum, a quocumque dicatur a Spiritu sancto est)" (Super evangelium Joannis, capitolo 1, lectio 3). All'Angelico importa la verità, non la sua provenienza, e là dove essa sia presente riceve da lui tutto il suo riconoscimento. Ed è esattamente quello che egli ricercava in Aristotele: la verità, per altro ben consapevole quanto, senza la Rivelazione, anche le menti più alte faticassero a trovare quale fosse il fine ultimo dell'uomo: satis apparet quantam angustiam patiebantur hinc inde eorum praeclara ingenia (Summa contra gentiles, 3, 48). Tommaso aveva una confidenza assoluta nella verità, al punto da affermare nel Commento al libro di Giobbe (13, 19), che "la verità non cambia a secondo della diversità delle persone, per cui, quando uno dice la verità, chiunque sia la persona con cui disputa, non può essere vinto" (veritas ex diversitate personarum non variatur, unde cum aliquis veritatem loquitur vinci non potest cum quocumque disputet), quand'anche si tratti di Dio.
Con questa sua sensibilità non sorprende che, quando commenta un autore, non gli prema tanto la ricostruzione storica - nella misura per altro in cui gli fosse possibile - quanto lo sforzo perché secondo l'oggettiva coerenza ai loro stessi principi venga raggiunta la verità.
Così, di là dalla sua consapevolezza o meno, avviene quando egli analizza le opere di Aristotele. Non sono infatti mancate critiche alla sua esegesi quanto alla sua fedeltà al testo del filosofo. Di fatto, nel suo dialogo con lui su questa fedeltà testuale prevale la preoccupazione veritativa. D'altra parte, egli ha in certo modo teorizzato il suo metodo dialogico.
Nel De caelo et mundo afferma: "Lo studio della filosofia non mira a conoscere quello che gli uomini hanno pensato, ma quale sia la verità (studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum)" (i, 22, 8). Ora, questo primo momento, inteso alla conoscenza del pensiero umano e che potremmo chiamare della ricerca storica, non solo non manca ma è largamente presente in Tommaso, e ne è prova la sua vasta e continua attenzione culturale in campo anche profano, e in primo luogo nell'area della cultura aristotelica, senza parlare di altri autori di cui conobbe e utilizzò il pensiero, tra gli altri Boezio, Avicenna, Averroè, Mosè Maimonide.
Questo primo momento non gli è però sufficiente. Tommaso mira, come metodo, a oltrepassarlo, e lo fa nel secondo momento del suo itinerario scientifico, quando si dedica a indagare l'intenzione oggettiva - l'intentio profundior - che anima l'espressione di un autore e che a essa soggiace, di là dalla coscienza dell'autore stesso. Egli si impegna, così, a "scrutare con maggior profondità l'intenzione di Agostino (profundius intentionem Augustini scrutemur)" (De spiritualibus creaturis, 10, 8).
Sulla relazione tra espressione e intenzione, particolarmente applicata a san Tommaso, e sul ritardo della prima rispetto alla seconda, si è soffermato con singolare finezza André Hayen, gesuita di Lovanio, uno dei più acuti interpreti dell'Angelico, le cui opere - alcune delle quali tradotte in italiano - conservano intatto il loro valore.
E, tuttavia, anche questa seconda tappa non basta a san Tommaso. In ambedue i testi citati egli afferma che a importare non sono né la storia né l'intenzione profonda: lo studio della filosofia deve avere come suo fine la conoscenza non di quello che i filosofi hanno scritto, ma di quale sia la veritas rerum; e per quanto concerne Agostino il punto d'arrivo non è quello di sapere quale sia stata la sua intenzione, ma una volta ancora quello che è vero: quomodo se habeat veritas circa hoc.
Nessun dubbio che san Tommaso abbia trascorso la sua laboriosa vita di teologo in dialogo culturale, ma non per un puro conoscersi reciproco, per un ammirarsi a vicenda o per fare semplicemente della storia, bensì con lo spirito critico ed esigente di chi si propone di discernere il vero dal falso e di giungere al traguardo liberante della verità: di quella stessa verità che i principi di un autore includevano, anche se questi si era incoerentemente fermato come su un sentiero interrotto. Un simile metodo, indubbiamente, non potrebbe essere praticato da chi sia indifferente di fronte al discorso della verità, al quale Tommaso era invece sensibilissimo, e che alla fine unicamente gli interessava.
Tornando in particolare ai suoi commenti ad Aristotele, è indubbio che egli ha travalicato il testo del filosofo, che lo ha prolungato. A Tommaso non importava per se stessa "la ricostruzione storicamente esatta del pensiero di Aristotele" (Jean-Pierre Torrell), per cui ha fatto dire al filosofo cose alle quali questi "non aveva neppur pensato". Ma è proprio dal profilo di questa intenzione, di questo audace amore per la verità che Tommaso non cessa di essere il modello di un dialogo che non si rassegna a essere sterile e vuoto.
In ogni caso, è grazie a questo suo metodo che egli ha potuto lasciare una mirabile somma di teologia, dov'è inclusa una filosofia "vera" - storicamente o non storicamente aristotelica - in certo modo trasfigurata dalla fede, più che sua "ancella" e non per ciò meno filosofia.
Che è poi il compito proprio di ognuno che, come lui, voglia essere "maestro in sacra Pagina": leggere, interpretare e proporre integralmente il Mistero, nella sua verità e nella sua bellezza, che possono apparire solo al credente, e non stemperarsi in confronti alla fine inconcludenti.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
Un esempio di unità tra la meditazione della Parola e la riflessione sistematica - Nel passato la chiave per interpretare il futuro - In occasione della memoria liturgica di san Tommaso d'Aquino, l'arcivescovo segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica tiene all'Angelicum un'omelia della quale anticipiamo ampi stralci. - di Jean-Louis Bruguès – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
Nel decreto con il quale, il 25 maggio 1727, Papa Benedetto xiii erigeva lo Studium dei Domenicani, antenato diretto della Pontificia Università San Tommaso Angelicum, si presenta la dottrina di colui che sarebbe diventato il dottore comune della Chiesa, come una luce destinata a illuminare tutta la società. Una luce che ha permesso di denunciare gli errori del passato, una luce per meglio comprendere gli errori dei tempi presenti (n. 30). 1727: in molti Paesi d'Europa, una nuova visione dell'uomo e del mondo comincia a nascere nell'intellighenzia, sotto l'influsso degli enciclopedisti. La secolarizzazione della società fa i suoi primi passi. Verso chi si rivolge la Chiesa? Non certo verso i teologi del momento - si sarebbe fatta molta fatica a trovarli! - ma verso un antico che aveva anticipato l'Europa intellettuale e studiato, poi insegnato a Colonia, Parigi, Orvieto, Roma e in ultimo a Napoli. In questo inizio di millennio, quando la secolarizzazione si è imposta in più continenti, mi sembra che l'atteggiamento della nostra Chiesa deve rimanere lo stesso: rivolgersi, non tanto verso un riferimento storico peraltro molto lontano dalla nostra cultura, ma verso un maestro, nel senso assoluto di questo termine, il cui fascino trascende i secoli. Nova et vetera: Tommaso d'Aquino ebbe il genio di radicarsi nella tradizione più solida - lo testimoniano la sua conoscenza dei Padri e il suo debito verso sant'Agostino molto più forte di quanto lo si sembra riconoscere, da appena qualche decennio - al fine di cogliere dall'interno le sfide della modernità. L'assimilazione del passato prepara sempre il futuro. Sentiamolo allora darci due grandi consigli per oggi.
Primo consiglio: mai separare il lavoro intellettuale dalla vita di unione con Dio. Certamente, per san Tommaso la teologia ha una funzione speculativa e sistematica ben definita, che consiste nel proporre una intelligenza della fede, dando delle ragioni certe o probabili, per eliminare gli errori. Altrettanto, egli non separa mai questa prospettiva immediata da una finalità più spirituale, che si potrebbe riassumere in una parola: l'elevazione dello spirito. A proposito di una questione trinitaria delicata, san Tommaso rileva: "Una tale ricerca non è inutile, perché attraverso di essa lo spirito è elevato per cogliere qualcosa della verità (cum per eam elevetur animus ad aliquid veritatis capiendum)" (De potentia, 9, 5). Questa elevazione è percepita come anticipazione o preparazione della visione beatifica. Rimaniamo sempre nella prospettiva aperta dalle beatitudini proclamate nel Discorso della montagna. Ecco perché il lavoro speculativo, secondo Tommaso è fonte di gioia. "È utile, egli spiega all'inizio della Summa contra gentiles, che lo spirito umano si eserciti a queste ragioni anche se sono deboli, a condizione che non abbia la pretesa di comprendere o di dimostrare. Perché poter percepire qualcosa delle realtà più alte, anche se soltanto con uno sguardo debole e limitato, procura la più grande gioia" (libro i, capitolo 8, numero 49).
Mi pare che questo primo consiglio ci difenda contro quello che è il rischio di una auto-secolarizzazione rampante presso quelli che hanno ricevuto l'incarico di insegnare nella Chiesa: guardando le "cose dall'alto", come se si mettesse l'obiettivo fotografico sull'infinito, questi ultimi dovrebbero vedere meglio ordinarsi i diversi piani della realtà. Commemorando il centesimo anniversario del teologo Hans Urs von Balthasar, nel 2005, colui che era appena stato eletto Papa sotto il nome di Benedetto XVI, gli rendeva questo omaggio: "Egli aveva profondamente compreso che la teologia può soltanto svilupparsi nella preghiera, che coglie la presenza di Dio e che si affida a Lui nell'obbedienza".
Il secondo consiglio che ci lascia il dottore angelico raggiunge con molta precisione una proposizione fatta dai padri dell'ultimo Sinodo tenutosi a Roma nell'ottobre scorso: "Superare il dualismo tra esegesi e teologia" (Proposizione 27). Il testo riprendeva così le stesse parole di Papa Benedetto XVI: "Dove l'esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l'anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento" (martedì 14 ottobre 2008). San Tommaso ci dona un esempio meraviglioso di questa unità tra la meditazione della Parola di Dio e la riflessione sistematica. La Summa theologiae propone un andare e venire costante tra questa Parola, essa stessa riletta nella tradizione e alla luce del Magistero, e la costruzione teologica. Sappiamo che nel medioevo, il primo compito del maestro di teologia era di commentare la Scrittura ogni giorno. Il titolo più elevato all'epoca era quello di Magister in sacra pagina o Doctor sacrae scripturae. Legere, cioè commentare, disputare delle questioni più ardue e infine praedicare: Tommaso ci ha lasciato così meravigliosi commentari della Scrittura. Sono almeno la metà dei testi del Nuovo Testamento e diversi libri dell'Antico che egli ha meditato ed esposto ogni giorno. Commentando, per esempio, la parola di Gesù: "Io sono mite e umile di cuore" (Matteo, 11, 29), il nostro dottore spiega nel modo più luminoso: "Tutta la nuova legge consiste in queste due cose: nella mitezza e nell'umiltà. Per la mitezza, l'uomo si avvicina al prossimo secondo la parola del Salmo: "Ricordati, Signore, di Davide, di tutta la sua mitezza" (Salmi, 131, 1). Per l'umiltà, egli si avvicina a sé e a Dio: "Su chi riposa il mio Spirito se non sull'uomo di pace e d'umiltà?" (Isaia, 66, 2)" (Super evangelium sancti Matthaei Lectura, 970). È normale, è necessario, mi sembra, che le Università pontificie romane si interroghino sulla loro specificità. La vostra, cari amici, non lascia posto ad alcuna incertezza: fare che Tommaso d'Aquino diventi oggi, come fu nel passato, il sale della nostra dottrina e la luce degli uomini di buona volontà.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
Storia e conseguenze della persecuzione della cultura intellettuale ebraica italiana - La memoria del danno - Il 26 gennaio si è svolta a Roma, all'università La Sapienza, una giornata di studi intitolata "Le leggi del 1938: rimozione, memoria, storia". Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi. - di Marina Beer Università di Roma La Sapienza – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2008
Gli effetti delle leggi razziali sulla letteratura italiana furono molto più pesanti di quanto ci faccia intravedere la storiografia letteraria degli ultimi decenni, che pure ha iniziato a infrangere la consegna alla reticenza e al silenzio persistente dal secondo dopoguerra soprattutto nei manuali e nelle grandi opere di riferimento di letteratura italiana. Questo fatto è tanto più grave proprio perché nel nostro sistema di istruzione secondaria la storia della letteratura italiana è stata per più di centocinquanta anni il medium attraverso il quale si tramanda la memoria dell'identità del Paese. Sarebbe invece necessario che anche questa memoria letteraria contribuisse a rispecchiare la storia che essa vuole far rivivere, servisse cioè insieme a ricordare noi stessi, a conoscere il nostro passato, a meditare sul nostro futuro. La necessità di uno sguardo che sappia comprendere insieme il mondo della storia nel quale la letteratura è nata e che per vocazione essa incarna, interpreta, a volte "profeticamente" anticipa, è poi diventata un'esigenza sempre più pressante del nostro tempo. Non dimentichiamo che la funzione di "memoria", nel senso più antico del termine, è all'origine della poesia: e in questo senso la poesia - quella che noi storici della letteratura indegnamente cerchiamo di insegnare a leggere, a interpretare e amare - è figlia di Mnemosyne, "vince di mille secoli il silenzio". Ma se la memoria non si tramanda con rispetto ed esattezza diventa una memoria approssimativa e reticente, una forma di rimozione e di oblio, un ostacolo per la nascita di un senso comune condiviso dalle generazioni. Questo a mio avviso è proprio ciò che è avvenuto nella storiografia e nella manualistica per quanto riguarda le ripercussioni delle leggi del 1938 nella storia della nostra letteratura e della nostra cultura letteraria dal dopoguerra a oggi. La storia della persecuzione della cultura intellettuale ebraica italiana da parte del totalitarismo è una storia a sé all'interno di quella più ampia e sanguinosa della persecuzione e dello sterminio ebraico e manca quasi interamente dai manuali. Questa storia non racconta solo di professori che perdono la cattedra mentre i loro libri vengono cancellati dai programmi, di studenti che non possono più iscriversi all'università, di ebrei espulsi da accademie e istituzioni culturali e di editori costretti a cedere la proprietà delle loro imprese, di redattori di case editrici licenziati, scrittori e giornalisti costretti a scrivere sotto pseudonimo o a non scrivere affatto, libri scientifici di autori ebrei tolti dalla circolazione, libri scolastici scritti da autori ebrei eliminati dai programmi di scuole e università, manuali ed enciclopedie epurati dai nomi ebraici e da ogni rinvio all'ebraismo, libri di autori ebrei italiani e stranieri sequestrati, tolti dalla circolazione e non più ristampati, persino scrittori per l'infanzia amati da generazioni di bambini italiani cancellati dai cataloghi delle case editrici. In più, come sottofondo a queste vicende di sopruso e di umiliazione, questa storia ci costringe a riascoltare le voci grottesche e ignobili della pubblicistica di Stato, questa sì la sola autorizzata a parlare di ebrei e di ebraismo, la stampa antisemita finanziata quasi a fondo perduto dal regime e i livres de chevet dell'antisemitismo italiano. Parlano dunque di ebrei e di ebraismo "La difesa della razza", "Tevere", "La vita italiana", le opere di Telesio Interlandi, di Paolo Orano e magari il monumentale Sesso e carattere dell'unico autore ebreo risparmiato (fino al 1944) dall'epurazione razzista italiana, quell'Otto Weininger che Hitler giudicava come "l'unico ebreo perbene" perché si suicidò "dopo aver riconosciuto che l'ebreo vive della decomposizione di altri popoli" e che fu fin dal 1912 il principale tramite per la divulgazione degli stereotipi dell'antisemitismo razzista nella nostra cultura. Eugenio Montale evoca così il cli- ma di questi anni nelle Occasioni (1939): "Distilla veleno una fede feroce". La rimozione postbellica e la continuità istituzionale che della persecuzione furono l'epilogo gettano una luce tragica e amara sulla pervasività capillare dei meccanismi totalitari del consenso, sulla fragilità delle difese che vi furono opposte e che permisero il costituirsi di un'ampia "zona grigia" anche nel mondo della cultura, sullo sfaldamento o addirittura sulla perdita di una parte consistente dell'identità culturale italiana tra le due guerre, quella che dai rapporti con i temi ebraici, con i letterati ebrei e con il loro sapere aveva tratto linfa vitale. La cultura italiana ha subito dalle leggi razziste un vulnus gravissimo, un danno la cui estensione non può essere limitata al periodo nel quale esse furono in vigore, perché anche la rimozione e il silenzio delle pagine delle storie letterarie circa i provvedimenti razzisti messi allora in atto e i loro effetti fanno parte integrante di quello stesso danno, ed è anzi la prova estrema e paradossale della loro efficacia. È certamente vero che decine di migliaia di copie de "La Difesa della Razza" rimasero invendute, e che non mancarono anche fra gli intellettuali comportamenti verso singoli ebrei che smentirono il razzismo antisemita propagandato più o meno rumorosamente in pubblico dalle stesse persone. Giovanni Gentile non si privò della collaborazione di autori ebrei per l'Enciclopedia Treccani e protesse e aiutò a emigrare negli Stati Uniti il massimo studioso dell'umanesimo italiano e della filosofia ficiniana, Paul Oskar Kristeller. Il poeta Umberto Saba ottenne nel 1939 dalla Direzione della Demografia e della Razza la "discriminazione" (cioè la possibilità di continuare a godere dei suoi diritti ed esercitare la sua attività) concessagli per "meriti eccezionali" direttamente da Benito Mussolini, che lo aveva conosciuto molti anni prima quando il poeta triestino collaborava al "Popolo d'Italia", e la ottenne grazie ai buoni uffici di letterati non certo noti per filosemitismo, quali Enrico Falqui, Curzio Malaparte, Ardengo Soffici, Giuseppe Ungaretti. Ma la lunga lista dei comportamenti "umanitari" non deve far dimenticare la facilità con cui misure antiebraiche nel campo della cultura vennero adottate e come, già dalla prima metà degli anni Trenta, ancora prima che le leggi razziali entrassero in vigore, fosse moneta corrente nella cultura italiana il razzismo antisemita, nelle due varianti del razzismo "biologico" (gli ebrei razza inferiore) e del razzismo "ideale" (gli ebrei portatori di tutti i mali della modernità). Nell'immediato dopoguerra il silenzio pieno di vergogna e di cautela che nasconde i "tristi ricordi" della politica culturale razzista si accompagna anche a voci di rivendicazione e di sdegno, che si confondono e si perdono però ben presto nella generale e generica condanna della politica culturale del fascismo, che include implicitamente anche la denuncia delle disposizioni rivolte contro gli intellettuali ebrei. Alcuni fra i professori scacciati vengono reintegrati, magari a fianco di chi li aveva soppiantati negli anni delle persecuzioni; molti libri scomparsi dalla circolazione ritornano nelle librerie e nelle biblioteche, ma molti altri spariscono del tutto. La cultura ebraica europea fatta conoscere agli italiani tra le due guerre da tante traduzioni, i libri di Martin Buber e di Scholem Alejchem, di Israel Zangwill e di Arthur Schnitzler, di Franz Werfel e di Stefan Zweig - per non parlare delle opere dello stesso Freud - sono spariti come il mondo che hanno narrato, e impiegheranno alcuni decenni per riapparire nei cataloghi delle librerie e ritornare vivi nella cultura italiana. Un grande e diffuso patrimonio di conoscenze circa l'ebraismo è stato travolto dalle leggi razziste prima, dalla loro rimozione poi: verrà ricostruito nella cultura letteraria solamente a partire dalla fine degli anni Settanta. Della catastrofe dell'ebraismo italiano narreranno con voce ferma alcuni scrittori nuovi, non sempre immediatamente accolti dalla critica, amatissimi però dal pubblico: Giacomo Debenedetti (16 ottobre 1943, 1944); Primo Levi (Se questo è un uomo, 1947); Giorgio Bassani (Cinque storie ferraresi, 1956); Elsa Morante (La Storia, 1975). Altre però sono le tendenze che dominano la letteratura: il neorealismo, il marxismo, lo strutturalismo. La memoria di fatti troppo vicini sarebbe d'altra parte uno strumento inservibile per ricostruire il presente e progettare il futuro, in una società letteraria che muta rapidamente pelle e riferimenti politici. Nella manualistica letteraria successiva agli anni Sessanta i rari accenni alla politica culturale razzista del fascismo e all'applicazione delle leggi razziali nel campo della cultura sono prevalentemente ispirati al paradigma storiografico della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice (1961), e nella scia di questo si caratterizzano per la costante sottovalutazione della portata e dell'impatto di quei provvedimenti sulla cultura letteraria italiana. È forse arrivato il momento di scrivere anche nei libri di testo un capitolo dedicato a questa epoca della nostra storia letteraria e alle sue conseguenze.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
La squallida retorica del ventennio fascista - Difesa della razza indifendibile vergogna - i Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
Pur di difendere la teoria della razza italica, gli ideologi del fascismo non si fecero certo scrupolo ad accreditare come antisemiti nientemeno che Dante Alighieri e Giacomo Leopardi. Una strumentalizzazione che oggi appare inverosimile, ma che all'epoca non dovette sembrare troppo azzardata a Telesio Interlandi, direttore del quindicinale "La difesa della razza", che per alcuni anni fu il riferimento del movimento antiebraico di stampo razzista italiano. Autore di tale arruolamento postumo del sommo poeta - del quale in copertina si leggeva un verso del Canto v del Paradiso: "Uomini siate, e non pecore matte, sì che 'l Giudeo di voi tra voi non rida" - e dell'autore dello Zibaldone fu Massimo Lelj, ex anarchico convertito al fascio nonché seguace di Vico, che s'inserì pienamente nella linea del periodico, tesa ad asservire la cultura e la scienza ai più biechi interessi del regime. Così, nella retorica del delirante foglio, Dante veniva celebrato come l'inventore del volgare e quindi della razza italica. Leopardi, invece, attraverso un collage di citazioni, era presentato come un "agguerrito conoscitore" degli ebrei e come un illustre anticipatore dell'antisemitismo fascista. A rispolverare tutte le armi della retorica di regime è lo storico Francesco Cassata in La difesa della razza (Torino, Einaudi, 208, pagine 414, euro 34), un'analisi accurata della politica, dell'ideologia e dell'immagine del razzismo fascista attraverso gli articoli pubblicati dal periodico e dalle serrate politiche innescate da Interlandi e dai suoi collaboratori. E si scopre così che non solo letterati, ma anche esponenti delle arti figurative come Raffaello, Mantegna, il Ghirlandaio, Piero della Francesca, il Perugino e altri illustri maestri vennero utilizzati per contrapporre l'arte italiana - un'arte dell'eternità - a un'"arte ebraica", asservita agli interessi della cospirazione sionista. Non si salva neppure Leonardo da Vinci, considerato da Silvestro Baglioni, docente di fisiologia umana all'università di Roma, come l'esempio più elevato di convergenza fra arte e "razziologia". Secondo Cassata, l'apice di tale processo di "razzizzazione" dell'arte leonardesca è raggiunto dall'interpretazione del Cenacolo, scaturita dalla fantasia di un altro collaboratore della rivista, Gino Sottochiesa, filosofo e polemista sedicente cattolico, fin troppo disinvolto nel propagandare come cattoliche tesi razziste, ben lontane dal sentire della Chiesa di Pio XI, ma che evidentemente trovavano all'epoca qualcuno disposto ad accettarle e a condividerle. Ebbene, secondo il recensore, si può parlare per il dipinto di Leonardo di un vero e proprio "razzismo pittorico". Così riportato da Cassata: "I caratteri somatici degli Apostoli, circondati da un "alone mistico di grazia", rivelano, infatti, i volti di "ebrei tipici e inconfondibili", ma soltanto nell'espressione di Giuda i tratti fisionomici portano "le stigmate del delitto e della diabolica nequizia"".
Questa non è però che una delle molteplici infinite forzature che trovano spazio nelle pagine di "La difesa della razza" e, prima ancora, negli altri due giornali diretti da Interlandi, il quotidiano "Il Tevere" e il settimanale "Quadrivio". Il primo numero del quindicinale esce nelle edicole sabato 6 agosto 1938 con la data del 5, tre settimane dopo la pubblicazione del "Manifesto della razza", ospitando gli articoli di ben otto dei dieci firmatari dell'infame documento. E a quest'ultimo si richiama Interlandi nell'editoriale, sottolineando che il razzismo si inserisce nell'"intima logica del Fascismo".
Tuttavia l'avvio - e non solo - della nuova testata fu tutt'altro che lineare, tra rivalità interne al regime, carriere apparentemente inarrestabili, ambizioni prima sostenute e poi frustrate. Nel quindicinale, infatti, il direttore deve far convivere i due ambiti principali che contraddistinguono il razzismo italiano: da un lato il gruppo di giornalisti da tempo legati a Interlandi e dall'altro proprio alcuni degli intellettuali e scienziati firmatari del "Manifesto". Il direttore riesce tuttavia a saldare le due anime, facendo sì che tale nucleo originario si caratterizzi nell'impostazione prevalentemente biologica del problema razziale.
Si tratta di una linea - come ricostruito dettagliatamente dallo storico - che impegnerà la rivista in accese e non di rado aspre polemiche con le altre correnti del razzismo fascista, in particolare quella nazionalista incarnata da Acerbo e Pende e quella esoterico-tradizionalista e sostenuta da Preziosi ed Evola. Polemiche e prese di posizione più o meno articolate e "scientificamente" supportate da letture parziali e spesso fantasiose che comunque mostrano un dato di fatto centrale: così come il quindicinale non è il frutto di una improvvisazione estemporanea, allo stesso modo l'ideologia razziale che propugna, non dettata semplicemente dalle esigenze dell'alleanza con la Germania nazista, non è quindi un aspetto marginale del fascismo, ma a esso pienamente connesso nell'ottica del suo progetto di "rivoluzione antropologica".
In questo senso Cassata vede in quello mussoliniano, pur con le sue peculiarità, un antisemitismo di Stato, frutto di una lunga incubazione e prodotto di una logica tutta interna al regime, inserito in un percorso che si richiama a una parte della cultura ottocentesca, mirante alla creazione di una questione ebraica su scala nazionale.
Il libro ricostruisce questo percorso analizzando gli scritti del siciliano Interlandi - spesso considerato portavoce ufficioso di Mussolini - e dei suoi collaboratori, soffermandosi proprio sulle diversità di vedute all'interno del movimento razzista alla ricerca di una sua identità e autonomia rispetto a quello nazista. Movimento in cui comunque si preferisce parlare di razza italica anziché di razza ariana. Ci si trova così di fronte alle contrapposizioni politiche e ideologiche che animarono la fine degli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta, fino alla terribile adesione alla "soluzione finale" adottata dall'alleato tedesco.
Ma al di là di queste dispute, attraverso l'analisi dell'opera di Interlandi e degli scritti pubblicati in "La difesa della razza", emerge con chiarezza la peculiarità della rivista nel programma fascista: realizzare una macchina di propaganda sincretica in cui argomentazioni biologizzanti e culturalizzanti, diligentemente dosate e gerarchizzate a seconda degli obiettivi e dei destinatari della polemica specifica, convergono in un piano di rifondazione della società e della cultura italiane.
"Da questo punto di vista - sottolinea l'autore - la centralità e l'onnipresenza del concetto di "ebraizzazione" rappresenta forse l'esempio più persuasivo: per Interlandi e i suoi collaboratori non è sufficiente sconfiggere l'ebreo "visibile", poiché il pericolo maggiore proviene in realtà dall'ebreo "invisibile", dall'ariano "ebraizzato", dalla circoncisione "spirituale" che contamina la cultura, la società, l'economia, i comportamenti individuali". Così razzismo e antisemitismo costituiscono un dato culturale intrinseco a una interpretazione radicale e intransigente del fascismo, "nella quale confluiscono la razzizzazione del nemico politico, l'odio antiborghese, la visione cospirazionista del processo storico".
Cassata abbraccia la tesi dello storico inglese Roger Griffin che, per fornire una nuova sistemazione dei rapporti tra fascismo e modernismo, individua nel concetto di modernismo politico la chiave per superare la contrapposizione tra avanguardia e tradizionalismo. E alla luce di questa interpretazione anche lo scontro tra Interlandi e il futurista Marinetti non può essere visto, come sostenne Renzo De Felice, come una contrapposizione tra l'Italia antisemita e quella non antisemita, perché "tanto in Interlandi quanto in Marinetti, seppure in forme antagoniste, l'ebreo si configura come lo stereotipo negativo del mito dell'italianità e della modernità dell'arte fascista".
In questo ampio contesto di demonizzazione dell'ebreo, ancor prima della nascita di "La difesa della razza", alcune prese di posizione di Interlandi e di altri razzisti suscitano le proteste della Chiesa, che critica l'uso dell'antigiudaismo cattolico del passato come una delle giustificazioni dell'antisemitismo fascista. Una forzata contiguità attraverso la quale la propaganda del regime vuole raggiungere un obiettivo politico: mettere in difficoltà gli ambienti cattolici, ponendoli in posizione di difesa. L'offensiva è affidata principalmente al già citato Sottochiesa, che si addentra in discutibili interpretazioni bibliche e teologiche con l'azzardato e spesso maldestro intento di dimostrare una possibile conciliazione tra razzismo fascista e cattolicesimo.
"L'Osservatore Romano" risponde diverse volte a tali provocazioni non riconoscendo nel razzismo fascista il tanto declamato ritorno alla civiltà. Anzi "l'insistenza della rivista sul tema "razza e cattolicesimo" - rileva Cassata - produce l'irritata reazione della Segreteria di Stato del Vaticano, la quale denuncia presso la Regia Ambasciata d'Italia le "gravi offese alla Religione Cattolica"". "La Santa Sede - si legge nella nota del 20 marzo 1939 - non può non preoccuparsi seriamente del dannoso influsso che la rivista, già largamente diffusa soprattutto fra le istituzioni scolastiche, verrà ad avere sulle coscienze cattoliche, ingenerando in esse massime in contrasto con la dottrina cattolica".
Ma ancora prima non erano mancate dure prese di posizione. Nel 1937, ad esempio, il libro Il razzismo di Giulio Cogni, che diverrà una delle firme della rivista, è oggetto di un decreto di condanna da parte della Sacra Congregazione del Sant'Uffizio; decreto nel quale il vescovo Hudal, rettore del Collegio tedesco di Santa Maria dell'Anima a Roma, rileva che il libro "è pieno delle idee di Rosenberg", l'ideologo del nazismo, e rappresenta un "primo tentativo del razzismo germanico di entrare anche nelle file del Fascio".
Gli ebrei non furono gli unici bersagli di Interlandi e delle testate da lui dirette. Ben prima della pubblicazione del "Manifesto della razza" e della stessa guerra d'Etiopia egli usa concetti come "degradazione negroide" e "meticciato", con il supporto di filosofi, antropologi e fisiologi compiacenti e compiaciuti delle loro vergognose teorie.
L'esperienza di "La difesa della razza" terminò il 20 giugno 1943, ed è questa la data utilizzata da Cassata per il suo lavoro, ma essa segna tuttavia la fine delle vicende del direttore Interlandi e dei suoi collaboratori. Molti di loro, e lo stesso Interlandi, manterranno un ruolo di rilievo nella Repubblica di Salò. E anche dopo la guerra per alcuni non ci fu una cesura netta con il passato e questo non compromise certo carriere politiche o accademiche, proseguite "spesso non rinunciando a manifestare il proprio perdurante odio antiebraico e antinero".
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
UE/ I "nuovi diritti", cavallo di Troia per distruggere la tradizione - Mario Mauro - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Ci sono casi in cui le convenzioni internazionali esercitano con forza un’azione che punta a sradicare la cultura giuridica di un paese. Negli ultimi 50 anni, anche a livello europeo, abbiamo avuto la prova di questo tentativo di introdurre, talvolta anche forzatamente, i cosiddetti “nuovi diritti”. La conferma ci arriva proprio in questi giorni in cui il Parlamento europeo, sovvertendo le urgenze d’intervento iscritte nelle agende internazionali, sta discutendo attorno ad una risoluzione del 14 gennaio scorso. Una dimostrazione di cui, francamente, non avevamo bisogno.
Da tempo la miglior dottrina giuridica denuncia l’esistenza di un alto rischio che la costruzione della casa comune europea avvenga non nel rispetto delle specificità nazionali o, meglio, “dell’identità nazionale degli Stati membri”, ma alla stregua di un centralismo, di stampo ottocentesco, che impone da Bruxelles le proprie ideologie nei confronti delle varie realtà locali. Con essa, ricorrendo al pretesto di una verifica sullo stato di attuazione dei diritti umani nel territorio dell’Unione europea, si cerca di stravolgere il significato e la portata originaria dei diritti dell’uomo, in contrasto con una visione personalistica che ha costituito il fondamento delle Carte costituzionali contemporanee, tra cui quella italiana.
Le competenze delle istituzioni comunitarie sono segnate con precisione nei Trattati che si sono susseguiti nel corso degli anni a fondamento dell’Unione europea. Lascia, pertanto, stupefatti il tentativo operato dal Parlamento di travalicare tali chiarissimi limiti, ribaditi, da ultimo, anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Se queste tendenze egemoniche delle Istituzioni comunitarie non mutano è inevitabile che si diffondano negli Stati membri reazioni analoghe a quelle del popolo irlandese, con prevedibili conseguenze in ordine al fallimento del processo di integrazione. Quest’ultimo, per essere rilanciato, necessita di attente operazioni “dal basso”, volte a restaurare il primato della “orbis civilis nostrae Europae communicationis” e non certo di imposizioni verticistiche di determinate ideologie come quelle legate al concetto di identità di “genere” o di “diritti riproduttivi”.
Si è venuta ad affermare una giurisprudenza che ha cambiato il concetto di vita e di persona. Gli strumenti attraverso i quali è stata compiuta questa forzatura si ricollegano spesso al metodo nominalistico. Si elabora cioè la decisione di non chiamare più le cose con il proprio nome e svuotare con di significato quelle che possono essere aree di conflitto della giurisprudenza per favorire la diffusione di tali strumenti. Così facendo non si parla più di diritto alla vita, all’accoglienza della vita e della maternità, ma si parla di diritti della salute riproduttiva. Quando in una civiltà si ridenominano le cose, si cambia il significato delle cose. Nel momento della ridenominazione, effettuata soprattutto nelle carte internazionali, nei documenti prodotti spariscono i riferimenti fondamentali ai valori della famiglia (com’è peraltro avvenuto in Spagna con i termini padre e madre) o si addolciscono i termini che rimandano alle pratiche abortive o eutanasiche.
Ho esaminato punto per punto la risoluzione, proponendo in più parti emendamenti volti a modificare gli interventi contro il diritto e svelare le ambiguità. È significativo il fatto che l’Unione europea abbia ripreso gli Stati membri che continuano “a sottrarsi ad un controllo comunitario delle proprie politiche e pratiche in materia di diritti dell’uomo e cerchino di limitare la protezione di tali diritti ad un quadro puramente interno”. È chiaro che l’intenzione è quella di minare alla capacità di controllo sui diritti da parte degli Stati che dovrebbero così smettere di occuparsi di diritto alla salute, di famiglia, di previdenza sociale. Il ruolo degli Stati nella tutela dei diritti verrebbe così diminuita contrariamente a quanto si legge nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La risoluzione si preoccupa anche che il rispetto di tali diritti sia garantito anche all’interno delle “istituzioni chiuse”, pretendendo così di esercitare una funzione di controllo e vigilanza nei luoghi in cui si svolge la vita sociale della gente, ovvero associazioni, chiese, famiglia in primis. Il termine volutamente generico fa capire come si cerchi di non scoprire le carte e, quindi, le reali intenzioni.
Il caso emblematico di ciò che sta accadendo a livello internazionale riguarda il tema della “salute riproduttiva”. È stata in questo caso adottata la tecnica del livellamento perché in alcuni paesi non accettare di promuovere legislazioni abortiste significa non ricevere gli aiuti internazionali. Un metodo poco democratico di costringere i Paesi ad adottare tali provvedimenti.
Abbiamo avuto secoli in cui la giurisprudenza ha fatto il suo percorso intellettuale e individuale; oggi la ragione di stato è molto più incidente sulla vita della giurisprudenza di quanto non fosse in passato. Se il profilo degli accordi internazionali può snaturare la cultura giuridica di un paese a tal punto di implicare che a costituzione vigente non vale quella costituzione bensì un’altra legge, questo indica la complessità del momento giuridico e internazionale. Oggi, purtroppo, come principio generale la giurisprudenza italiana ha accettato che gli accordi internazionali vengono prima di alcune leggi, teoricamente non della costituzione.
In generale, se dovessimo riassumere il percorso evolutivo dei diritti segnalati prima, dal 1948 ad oggi abbiamo avuto tre passaggi chiari: In primo luogo c’è stato un’evoluzione del diritto alla vita che è sfociato alla generazione dei cosiddetti diritti della salute riproduttiva. Poi, la trasformazione dei diritti d’uguaglianza dove la tematica del genere, relativa al principio di non discriminazione, ha avuto una parte da protagonista. Infine ci si è soffermati sui diritti di espressione.
Come noto, con il primo concetto, e cioè quello di genere, si cerca di introdurre l’idea che gli uomini e le donne non sono tali per determinate caratteristiche naturali, ma solo in forza di una scelta culturale, come tale sempre mutabile. L’accoglimento di una tale ideologia porta a introdurre, surrettiziamente, un “matrimonio” tra persone dello stesso sesso, dal momento che sarà sufficiente che una persona affermi di essere del genere opposto rispetto a quello del partner per poter chiedere il matrimonio, come avviene oggi in Spagna. Quanto al secondo concetto, e cioè quello di “diritti riproduttivi”, esso costituisce il cavallo di Troia per l’affermazioni di politiche antidemografiche ed eugenetiche.
Quanto sia illiberale l’imposizione di tali ideologie attraverso un uso distorto delle Istituzioni comunitarie, ben al di là delle loro competenze, è comprovato dal tentativo di ricomprendere nella risoluzione anche quelle che, con un’operazione di vera e propria manipolazione terminologica, vengono definite “istituzioni chiuse”. Con tale termine , come evidenziato ieri da Marta Cartabia, si vogliono intendere “i luoghi dove si svolge la vita sociale della gente”, dalle scuole agli ospedali, dalle parrocchie alle associazioni.
I diritti dell'uomo, nella prima e piena formulazione, fotografano tutto quello che è irrinunciabile. Il primo dei diritti che si afferma è il diritto all'esistenza, il diritto alla vita. La vita è principio imprescindibile affinché l'uomo possa affermare la propria umanità. Se non è tutelata, non ci sarà nessun compimento della legge.
Oggi c'è la tendenza a fare della teoria del diritto una sorta di supermarket dei diritti, in cui i diritti finiscono col configgere e creare questa dispersione dell’umano, in cui nessuno si sente tutelato. Questa è la frontiera estrema di un complesso di norme che erano state generate per uno scopo ma che poi ne hanno raggiunto un altro. Chi si forma nella giurisprudenza deve avere il desiderio di riannodare dei fili. La casistica è minima, ma potremmo fare una lunghissima teoria di casi insoluti che sono alla cronaca da molto tempo.
In sostanza, mediante un’operazione esclusivamente politica, si cerca di imporre il rispetto d’ideologie di parte anche alle Chiese, alle comunità religiose, alle famiglie, secondo un’opera di propaganda che non solo contrasta con il principio di sussidiarietà, nelle sue dimensioni orizzontale e verticale, ma ricorda metodi e prospettive dei peggiori totalitarismi.
USA/ L’aborto, una questione non politica - Lorenzo Albacete - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Il 23 gennaio del 1974 partecipai a Washington alla prima “Marcia per la vita” per protestare contro la decisione di un anno prima della Corte Suprema (Roe vs. Wade), che aveva sancito come diritto costituzionale il procurare o effettuare aborti. A quel tempo l’atmosfera alla Marcia era piena di speranza e l’approvazione di un emendamento costituzionale per annullare la sentenza Roe vs. Wade appariva possibile a molti.
Quest’anno, trentaquattro anni dopo, l’atmosfera della Marcia era quella di un atto di testimonianza molto più che di strategia politica. L’elezione a presidente di Barack Obama, sostenitore della Roe vs. Wade (la cui costituzionalità è stata riaffermata dalla Corte Suprema), rende improbabile che la causa del movimento antiabortista trovi molti appoggi a livello politico. In effetti, la maggioranza degli americani sembra del tutto a suo agio con la legalizzazione dell’aborto.
Il giorno dopo la Marcia, il presidente Obama ha revocato il divieto dell’Amministrazione Bush di concedere finanziamenti federali a organizzazioni internazionali che promuovono l’aborto. Questo divieto fu introdotto da Ronald Reagan, rimosso da Carter, imposto di nuovo da Bush senior, cancellato da Clinton (nello stesso giorno della Marcia), ristabilito da Bush junior (nel giorno della Marcia) e ora annullato da Obama, mantenendo una promessa elettorale fatta alla sinistra del Partito Democratico. Il presidente Obama ha aspettato il giorno dopo la Marcia per emanare il suo provvedimento (e senza alcuna pubblicità alla sua firma), come gesto di rispetto, ha dichiarato, per il movimento antiabortista.
La posizione di Obama non è una sorpresa. Dopotutto, non vi è nessuna indicazione nella sua educazione che gli sia mai stato insegnato come affrontare in modo critico questo argomento. Sebbene cristiano battezzato, ha scelto di identificarsi in quanto tale solo in età adulta, sotto l’influenza di una comunità ecclesiale senza alcuna tradizione di una morale basata sulla “legge naturale”, ma piuttosto sull’enfatizzazione degli aspetti di giustizia sociale, occupandosi di discriminazione razziale e povertà seconda una secolarizzata ideologia progressista.
Nel periodo in cui si definiva un nero “americano”, l’influenza delle comunità battiste fondamentaliste nere si era indebolita parecchio, soprattutto nel Nord. La sua vita ecclesiale era essenzialmente la branca religiosa afroamericana della politica del Partito Democratico. Quando i ministri religiosi neri e i leader religiosi (come Jesse Jackson) abbandonarono le loro convinzioni religiose pro-life per essere accettati dal Partito, la causa liberal divenne essenzialmente pro aborto.
E poi c’erano i Democratici cattolici i quali, nella Chiesa divisa dalla condanna della contraccezione, trovarono preti, religiosi e teologi che li portarono a credere che potevano rimanere buoni cattolici senza opporsi alle politiche del loro partito in favore dell’aborto (solo qualche giorno fa, di fronte alle critiche anche di alcuni progressisti, la cattolica Nancy Pelosi ha difeso la promozione della contraccezione come componente necessaria del piano dell’Amministrazione per rivitalizzare l’economia).
I cattolici anti-aborto sono stati costretti a rifugiarsi tra le accoglienti braccia dei Repubblicani, ma nell’attuale disordine e tentativo di riposizionamento del Partito Repubblicano appare chiaro come, per attrarre i Democratici contrari all’aborto, molti Repubblicani avessero nascosto le loro posizioni in favore dell’aborto. Così, il movimento anti-aborto è rimasto senza una casa politica e, forse, questo si rivelerà una benedizione. Per ora, si tratta veramente in primo luogo di una questione di testimonianza piuttosto che di politica di partito.
ELUANA/ La proposta del Pdl: sì alla scelta delle cure, no alla scelta della morte
INT. Raffaele Calabrò
mercoledì 28 gennaio 2009
È approdato in commissione Sanità al Senato il dibattito sul testamento biologico (o dichiarazione anticipata di volontà). Proprio nei giorni in cui gli eventi sul caso Englaro si susseguono senza sosta, dalla decisione del Tar contro la Regione Lombardia alle ipotesi di una nuova Casa di cura di Udine disposta ad accogliere Eluana, il procedere del dibattito in sede legislativa potrebbe arrivare in tempo brevi a dire una parola definitiva su tutta la vicenda.
Relatore del ddl di maggioranza è il senatore Raffaele Calabrò (Pdl), il quale spiega che ogni ipotesi di autodeterminazione del paziente, di cui si discute in parlamento, non può certo andare a coinvolgere quelli che sono gli elementi basilari del sostegno vitale di una persona.
Senatore, quali sono gli elementi più qualificanti del disegno di legge che la maggioranza propone su questo tema così delicato?
Gli elementi che meglio qualificano questo disegno di legge sono da una parte la decisione di legiferare sulla libertà e l’autodeterminazione del paziente rispetto a determinate cure; e dall’altra parte però l’affermazione del rispetto della vita come bene indisponibile, così come la Costituzione lo determina. L’articolo 32 della Costituzione, infatti, rende disponibile per una persona il fatto di scegliere le cure che deve fare per contrastare una determinata malattia o patologia. Questa è la libertà che la Costituzione riconosce e garantisce: il fatto di dire no a un determinato intervento o a una determinata terapia. Non dice invece nel modo più assoluto che si possa scegliere se vivere o morire; anzi, è necessario anche ricordare che il Codice penale vieta l’assistenza e la cooperazione al suicidio. L’alimentazione e l’idratazione non sono cure che vanno a intervenire su una malattia, ma sono piuttosto elementi di sostegno vitale di una persona. Se noi facessimo a meno di questo ci troveremmo ad avere scelto tra vivere o morire, e non tra il fatto di accettare o non accettare una cura.
Come si sta svolgendo il dibattito parlamentare su questo tema, sia all’interno della maggioranza, sia in rapporto all’opposizione?
Per quanto riguarda le posizioni interne alla maggioranza, abbiamo avuto diversi incontri e occasioni di confronto: naturalmente esistono posizioni diverse, ma la stragrande maggioranza di noi è d’accordo sul testo che viene presentato. Per quanto riguarda i rapporti con l’opposizione, dai dibattiti che ci sono stati nei mesi precedenti è emerso chiaramente che c’è una parte del Pd che condivide la posizione espressa nel testo da noi presentato, e che apprezza quanto da noi previsto in materia di alimentazione e idratazione. L’auspicio personale che esprimo è che si possa arrivare anche a un testo migliorato rispetto al testo base da noi proposto, proprio con l’apporto anche di contributi che vengono dall’opposizione, naturalmente nell’ambito dei principi che ispirano il testo stesso.
Un altro elemento importante del ddl di maggioranza è l’affermazione della libertà e della responsabilità del medico: qual è il significato di questa sottolineatura?
Il ruolo del medico è un ruolo forte, perché è la persona che deve rappresentare consapevolmente la verità critica, che la medicina in quel momento è in grado di offrire al paziente. Come quando si va dal medico, ed egli spiega di volta in volta, di fronte a una determinata malattia, quali sono le medicine da assumere e le modalità per farlo, allo stesso modo, quando si fa il testamento biologico e le dichiarazioni anticipate, bisogna prevedere che ci potrà essere un momento in cui la medicina si sarà evoluta e modificata. Il medico ha dunque il dovere di farsi carico di questo e di renderlo manifesto; ma non potendo presentare questa situazione a una persona che magari non è più cosciente, lo dovrà fare nei confronti del fiduciario, che ha assunto le volontà del dichiarante proprio per renderle operative e attuali insieme alla consulenza del medico.
Come giudica la decisione del Tar della Lombardia di annullare il provvedimento della direzione sanitaria lombarda sul caso Englaro?
Si tratta di un altro episodio di una lunga catena di eventi, che non fanno altro che evidenziare un’unica urgenza: dobbiamo lavorare in tempi rapidi per giungere al termine di questo iter legislativo. Non possiamo continuare a rimanere alla mercè della valutazione di un giudice piuttosto che di un altro, tutte basate su considerazioni che non hanno un fondamento legislativo di riferimento.
La decisione del Tar della Lombardia entra in conflitto con l’atto del ministro Sacconi?
L’indirizzo del ministro Sacconi è un atto chiarissimo e assolutamente corretto nella sua esposizione; come tale mantiene intatta tutta la sua validità e non viene minimamente toccato dalla decisione del Tar della Lombardia.
Ritiene che in tutte queste vicende giudiziarie ci sia stata invasione di campo da parte della magistratura nei confronti della politica?
Io penso che il parlamento avrebbe dovuto legiferare prima, e che questo episodio di Eluana Englaro ha quanto meno l’effetto positivo di aver dato una forte accelerazione in questo senso. Purtroppo è una vicenda con molti elementi negativi e lati oscuri; però è servita a farci capire che è il momento di arrivare a una legge. Diciamo che è stata negativa l’interferenza della magistratura, ma positivo l’effetto che si è generato.
La conclusione dell’iter legislativo in corso in che modo influenzerà il destino di Eluana Englaro?
Se viene approvato l’impianto del nostro ddl, per i casi analoghi a quelli di Eluana Englaro è previsto un trattamento assolutamente identico a quello che Eluana adesso sta ricevendo, vale a dire l’accoglienza in una struttura esattamente come quella in cui la ragazza viene ora accudita. Ciò su cui bisogna lavorare è dunque il potenziamento delle cure palliative e delle cure del dolore, nonché la crescita del sistema sanitario dal punto di vista degli hospice e dell’assistenza domiciliare, cioè l’assistenza ai disabili, anche gravi. La situazione attuale di Eluana, comunque, non verrebbe modificata da nessun tipo di legge, perché tutti i progetti al vaglio prevedono comunque una dichiarazione scritta, che in questo caso manca.
LETTURE/ Il san Tommaso di Chesterton, quando la ragione è “degna di fede” - Pigi Colognesi - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Oggi è la festa di san Tommaso d’Aquino. Non è facilmente immaginabile che, per celebrarlo, qualcuno vada a leggersi un paio di articoli della gigantesca Summa. Semmai, qualche zelante potrebbe aver voglia di riguardarsi le pagine a lui dedicate sul suo manuale di filosofia. Del resto, quelli più recenti gli dedicano sempre meno spazio. Ma c’è una strada più agile e perfino divertente. Leggersi il ritratto che al grande filosofo e teologo del XIII secolo ha dedicato la penna arguta e ficcante di Chesterton (edizioni Lindau).
Il creatore di padre Brown ammette subito di non essere un filosofo competente. E questo per il lettore è un vantaggio, in quanto anche i contenuti più ardui gli sono resi accessibili da una scrittura brillante e molto evocativa. Pur non essendo filosofo, Chesterton ha un obiettivo squisitamente filosofico nel suo ritratto: far capire la grandiosa «svolta» che il monaco domenicano ha prodotto nel pensieri cristiano e occidentale in genere. Una svolta paragonabile a quella realizzata qualche decennio prima su un altro versante da san Francesco, cui lo stesso Chesterton aveva dedicato un precedente volume.
In cosa è consistita questa svolta? «Tommaso d’Aquino è stato uno dei maggiori artefici dell’emancipazione dell’intelletto umano… L’essenza della dottrina tomistica è che la ragione è degna di fede». Tommaso, infatti, si oppone radicalmente ad ogni scetticismo e ad ogni dualismo tra pensiero e realtà. Realtà sempre in primo piano nella sua riflessione e mai piegata alla tirannia delle idee o alla corrosione di una spiritualità evanescente. Qui sta il valore della sua riscoperta di Aristotele, che gli ha permesso di «salvare l’elemento umano nella teologia cristiana… Il suo aristotelismo significava semplicemente che lo studio dei fatti più insignificanti portava allo studio delle verità più importanti». Ne consegue l’inossidabile «ottimismo» che, secondo Chesterton, attraversa tutte pagine dell’Aquinate: «Nessuno può capire la filosofia tomista, e neanche la filosofia cattolica, a meno che non si renda conto che la sua parte fondamentale è la lode della Vita, la lode dell’Essere, la lode di Dio in quanto creatore del mondo».
Chesterton non si nasconde, anzi enfatizza, il fatto che l’impostazione tomista è oggi, dopo il trionfo di una visione pessimista e scettica, del tutto impopolare e persino difficile da comprendere. Proprio per questo egli cerca di rendere accessibili alcuni principio basilari del modo di ragionare di san Tommaso. Memorabili al riguardo le pagine in cui Chesterton spiega il significato della parola Ens, partendo dalla costatazione del prato verde fuori dalla finestra fino a giungere alla constatazione della diversità delle cose, alla loro non eternità (che non ne cancella l’essere), a Dio. «Il bambino è consapevole dell’Ens. Molto prima di sapere che l’erba è erba, e che lui è lui, sa che qualcosa è qualcosa. È su questa inezia che Tommaso costruisce tutto il lungo processo logico, che nessuno è mai riuscito a contestare, su cui fonda tutta la logica della cristianità».
Il ritratto chestertoniano non è però un trattato di filosofia in pillole. I tratti umani e spirituali di san Tommaso sono tracciati con estrema vivezza e con profonda arguzia sono contrapposti a tanti nostri modi di penare irragionevoli. Molti sono gli episodi narrati e uno merita di essere ricordato. Narrano i biografi del santo che una volta la voce di Dio chiese a san Tommaso una ricompensa per il suo grande lavoro. «Lui – annota Chesterton - non era una persona che non voleva nulla; era una persona enormemente interessata a tutto… Tra le migliaia di cose che avrebbero veramente soddisfatto il suo vasto e gagliardo appetito per l’immensità e la vastità dell’universo… Tommaso, con un’audacia quasi blasfema che è tutt’uno con l’umiltà della sua fede, disse: “Voglio avere Te”».
IL TAR OLTRE IL DIRITTO POSITIVO - SENTENZA FORZA I TERMINI DELLA QUESTIONE - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 28 gennaio 2009
Il Tar della Lombardia prende posizione sul caso di Eluana Englaro, annullando l’atto con cui la Regione Lombardia si era rifiutata di accoglierla nelle proprie strutture, per farla 'morire dolcemente' (cioè per sottoporla a 'eu-tanasia'). È giusta questa sentenza? Assolutamente no (se sia 'valida' o come se ne possa accertare la 'validità' è questione che lascio volentieri ai dibattiti dei giuristi). Perché questa sentenza è ingiusta? Perché prende posizione (con accenti indebitamente perentori) su di una delicatissima questione biogiuridica e ancor più bioetica, ignorandone gli aspetti problematici, forzando i termini della questione e lo stesso dettato del diritto positivo.
Se infatti è vero che è diritto di ogni persona quello di non essere sottoposta a trattamenti sanitari obbligatori (se non nei casi previsti dalla legge), perché questo (ma questo soltanto!) dispone l’articolo 32, secondo comma, della Costituzione, non è vero che questo diritto possa automaticamente essere interpretato come un diritto a prestazioni mediche che favoriscano l’eutanasia passiva. Il malato, ancorché gravissimo (purché maggiorenne e capace di intendere e di volere) può certamente rifiutare (se debitamente informato) l’ospedalizzazione e qualsiasi atto medico o chirurgico che gli venga proposto: non può però pretendere che medici e sanitari abbiano il dovere di operare attivamente per dare attuazione alla sua volontà di eutanasia. Sbagliano i magistrati, quando sostengono che cessare di alimentare Eluana non implichi l’eutanasia, ma solo il rispetto per una sua scelta insindacabile: rispettare una scelta, infatti, non comporta il dovere di cooperare con chi la compie per aiutarlo nel realizzarla, quando si ritiene che tale scelta sia eticamente e socialmente criticabile, oltre che deontologicamente problematica (e soprattutto quando si abbiano legittimi dubbi che la scelta sia veramente tale: siamo certi che Eluana fosse realmente informata, in modo adeguato e completo, di cosa comporta la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, di quanti giorni sono necessari per morire?). È indubbio che sia i singoli medici sia la sanità come istituzione hanno dovere di rispettare la volontà di chicchessia di non curarsi, ma è altrettanto indubbio che non possono diventare destinatari di un dovere di aiutare un paziente a morire: lo proibisce non solo l’etica medica, ma lo stesso diritto penale, quando sanziona l’aiuto al suicidio. Ma il Tar pensa il contrario e sembra non rendersi conto che questa sua pronuncia, come altre che l’hanno preceduta, feriscono gravemente lo statuto della medicina ippocratica. Non è certo questa la prima volta che l’astratto (e formalmente valido) ragionamento di un giudice fa violenza alla giustizia e non sarà certo questa l’ultima volta in cui saremo costretti a rilevarlo. L’importante è che non si pensi che in tal modo si accendono nuove inutili polemiche; qui non stiamo confondendo diritto e morale (come qualcuno si ostina a sostenere), ma stiamo difendendo il diritto e la sua vocazione prioritaria, che è la difesa della vita, contro la pericolosissima deformazione ideologica, di chi vuole ridurlo a tecnica di (dolce!) regolamentazione burocratica della morte.
Ecco perché il Parlamento (di cui il Tar in questa sentenza rileva l’inerzia, con accenti che mi sembrano molto inopportuni) ha il dovere di intervenire con la massima rapidità per approvare una legge sulla fine della vita umana e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, una legge che risponda a minimi requisiti di giustizia. È essenziale che la legge, nel riconoscere il diritto al dichiarante di chiedere o rifiutare specifici trattamenti sanitari, escluda quelli attivamente o passivamente eutanasici (e la sospensione dell’alimentazione è eutanasia!). Ed è altrettanto essenziale che la legge indichi i criteri per un rigoroso accertamento dell’autentica volontà del dichiarante e della sua compiuta competenza e informazione.
Accanto a questi requisiti un altro è assolutamente indispensabile, per strette ragioni di giustizia: una volta imposto al medico, destinatario delle dichiarazioni, il dovere di prenderle rigorosamente in considerazione, gli si deve riconoscere altresì il diritto di disattenderle, con adeguata motivazione, quando egli ritenga in scienza e coscienza che esse vadano contro il bene del malato, quel bene che egli si è impegnato con un giuramento a tutelare, sempre e comunque.
Eluana, è scontro fra Lombardia e Tar - Formigoni: non fanno leggi. La replica: noi corretti - DA MILANO DAVIDE RE – Avvenire, 28 gennaio 2009
C aso Eluana Englaro. È scontro tra Tribunale amministrativo regionale e Regione Lombardia. Il Tar intima al Pirellone di « mettere a disposizione una struttura sanitaria » , nella quale la giovane donna sia avviata alla morte.
La Regione dice no. « Abbiamo 60 giorni – ha detto il presidente della Lombardia Roberto Formigoni – per decidere il ricorso contro il Tar al Consiglio di Stato e senz’altro in questi 60 giorni non procederemo all’esecuzione di una sentenza che ci sembra aberrante». La Lombardia non indicherà quindi nessuna struttura. «Non intendiamo, almeno per il momento, ottemperare alle indicazioni della sentenza. Se fossimo noi ad eseguire la sentenza – ha spiegato Formigoni – potremmo essere chiamati a giudizio così come se un medico eseguisse la sentenza potrebbe trovare chi lo chiama in giudizio a rispondere di atti non conformi alla legge » . E ieri al Pirellone la giunta regionale, come richiesto anche dal ministro Maurizio Sacconi, ha discusso la sentenza del Tar sul caso Englaro. « A 24 ore dalla sentenza del Tar – ha sintetizzato Formigoni – non posso che confermare la convinzione già espressa che si tratti di un sentenza contraddittoria sotto molti punti di vista. Innanzitutto, non si può decidere della vita e della morte di una persona per via giudiziaria e tanto meno per via amministrativa. Inoltre, non esiste una legge su cui fondare questa deliberazione » . Ma il Tar lombardo non ci sta e replica. « Noi siamo interpreti della legge e la ap- plichiamo secondo scienza e coscienza » , ha detto l’avvocato Piermaria Piacentini, presidente del Tar della Lombardia. « La legge non c’è – ribatte ancora il governatore lombardo – . Quale legge ha applicato il Tar? Quale legge dovrebbe applicare la Regione Lombardia se la legge non c’è? Sarebbe bene che qualcuno provvedesse a ribadire che l’ordinamento costituzionale italiano è in pieno vigore ricordando a tutte le magistrature, a partire da quella amministrativa, che il compito non è quello di innovare facendo leggi, neppure in presenza di un ipotetico vuoto legislativo » . E proprio sul ' vuoto legislativo' di cui si parla in questi giorni, Formigoni ha inoltre invitato a tenere presente che « è il Parlamento che decide quali leggi fare e quando farle; ci sono innumerevoli materie non regolate da leggi ed è giusto che sia così » .
Non solo, il caso Eluana non è da valutare nella sua esclusività, ma riguarda anche altre persone che sono in condizioni simili e che l’altro ieri l’assessore alla Famiglia Giulio Boscagli ha ricordato essere 480 nella sola Lombardia. « Va sempre rammentato – ha detto ancora il presidente della Lombardia – che stiamo discutendo di un tema di fondamentale importanza, che riguarda la nostra identità e cioè se sia lecito o meno dare la morte ad una persona, che pure in stato di incoscienza non smette di essere una persona. Per quanto riguarda in particolare Eluana Englaro stiamo parlando di una donna che non è sottoposta a cure intensive e che vive in una condizione che nessuno è in grado di dire con assoluta certezza irreversibile. Qui si chiede di togliere alimentazione e idratazione a una persona, cosa che condurrebbe chiunque a morte certa » .
E se il padre di Eluana decidesse di dare attuazione lui alla sentenza la Regione metterebbe in atto misure per opporsi? «No – ha concluso Formigoni – noi non intendiamo minimamente interferire nelle scelte delle persone e del padre di Eluana in particolare; certamente non possiamo essere obbligati a fare noi quello che nessuna legge ci impone di fare; anzi, chi decidesse di agire nel senso indicato dalla sentenza potrebbe essere chiamato in giudizio » .
La Giunta regionale discute ma non decide il ricorso al Consiglio di Stato Il governatore lombardo: non ottemperiamo alle indicazioni di questa sentenza aberrante. Se un medico la eseguisse, potrebbe essere chiamato in giudizio
1) Il fratello del nostro Dio (parte II) - ROMA, martedì, 27 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la seconda parte di una riflessione su "Il fratello del nostro Dio", il dramma scritto nel 1949 da Karol Wojtyla, svolta durante un convegno tenutosi nel 1981 presso il Santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza (PG).
2) Apologetica laica - Quando la filosofia -diventa schiava della tecnoscienza - In occasione dei cento anni della "Rivista di Filosofia Neoscolastica" l'Università Cattolica del Sacro Cuore ha organizzato un convegno che si svolge il 27 e il 28 gennaio presso il Dipartimento di Filosofia. Anticipiamo le conclusioni dell'intervento del direttore del Centro di Ateneo di Bioetica. di Adriano Pessina – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
3) La scomunica ai lefebvriani non c'è più. Ma la pace resta lontana - Anzi, aumentano le ragioni di conflitto, anche con i figli d'Israele. Benedetto XVI moltiplica i gesti di apertura, ma non ottiene niente in cambio. L'incidente del vescovo negazionista, con un commento della ebrea Anna Foa di Sandro Magister
4) Il metodo di san Tommaso d'Aquino Se si tratta della verità non importa chi la dice - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
5) Un esempio di unità tra la meditazione della Parola e la riflessione sistematica - Nel passato la chiave per interpretare il futuro - In occasione della memoria liturgica di san Tommaso d'Aquino, l'arcivescovo segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica tiene all'Angelicum un'omelia della quale anticipiamo ampi stralci. - di Jean-Louis Bruguès – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
6) Storia e conseguenze della persecuzione della cultura intellettuale ebraica italiana - La memoria del danno - Il 26 gennaio si è svolta a Roma, all'università La Sapienza, una giornata di studi intitolata "Le leggi del 1938: rimozione, memoria, storia". Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi. - di Marina Beer Università di Roma La Sapienza – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2008
7) La squallida retorica del ventennio fascista - Difesa della razza indifendibile vergogna - i Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
8) UE/ I "nuovi diritti", cavallo di Troia per distruggere la tradizione - Mario Mauro - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) USA/ L’aborto, una questione non politica - Lorenzo Albacete - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) LETTURE/ Il san Tommaso di Chesterton, quando la ragione è “degna di fede” - Pigi Colognesi - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
11) IL TAR OLTRE IL DIRITTO POSITIVO - SENTENZA FORZA I TERMINI DELLA QUESTIONE - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 28 gennaio 2009
12) Eluana, è scontro fra Lombardia e Tar - Formigoni: non fanno leggi. La replica: noi corretti - DA MILANO DAVIDE RE – Avvenire, 28 gennaio 2009
Il fratello del nostro Dio (parte II) - ROMA, martedì, 27 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la seconda parte di una riflessione su "Il fratello del nostro Dio", il dramma scritto nel 1949 da Karol Wojtyla, svolta durante un convegno tenutosi nel 1981 presso il Santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza (PG).
La prima parte è stata pubblicata il 20 gennaio scorso.
* * *
FRATEL ALBERTO Non si può giudicare limitandosi ad osservare i
fenomeni in superficie. Tu ti ricordi come il vecchio
Isacco si sia sbagliato e abbia scelto male fra
Giacobbe ed Esaù. Non si può giudicare secondo i
travestimenti che l'uomo indossa durante la sua vita.
Qui si tratta solo di comprendere se lei sia stato
scelto.
MUSICISTA Come accorgersene?
FRATEL ALBERTO Innanzi tutto bisogna avere una nuova visione del
mondo. Lei non ce l'ha. Perché questa è la
differenza, mio caro signore: questa è la differenza.
Una cosa è giudicare il mondo con le misure che
valutano i vari toni musicali - e questo è molto
interessante, molto bello, splendido - un'altra cosa
è vedere il mondo nella sua dimensione di miseria e
di viltà e sapere, sapere con precisione il punto in
cui Dio si incontra con tutto questo, sapere quale
miseria lo avvicina agli uomini e quale lo allontana.
MUSICISTA Mi sembra che potrei dare un giudizio del genere.
FRATEL ALBERTO Con quali criteri? Con quelli dell'errata visione
musicale? Lei conosce almeno qual'è la vera miseria
dell'uomo davanti a Dio? Un tale miseria non si deve
cercare ai confini dell'uomo o nei suoi dintorni.
Essa si trova dentro di lui, precisamente in quel
luogo nel quale egli dovrebbe cominciare la sua vera
elevazione.
MUSICISTA Sì, intuisco di cosa il Frate stia parlando: il
significato delle contraddizioni.
FRATEL ALBERTO Noi di solito giudichiamo male: la misericordia e
l'ingiustizia hanno un significato diverso da quello
che noi diamo loro. La misericordia e l'ingiustizia
non cominciano dove di solito noi supponiamo.... Ma
per vedere questo bisogna avere quella nuova visione.
Se manca questa, si commetteranno sempre delle
sciocchezze.
Poco prima della sua morte Fratel Alberto parla con i suoi confratelli per confortarli nella loro vocazione che si fonda sulla realizzazione della misericordia cristiana.
FRATEL ALBERTO Fratelli miei. Vi ho tolto tutto. Vi ho chiesto tutto.
Non vi ho illuso con nessuna promessa. Non so, se
avevo il diritto di fare una cosa del genere. E
inoltre ho messo un giogo sulle vostre spalle. Ma ho
cercato di poggiarlo nel profondo, dentro ognuno di
voi, lì dove l'odio del peso maledetto dovrebbe
trasformarsi in amore. Vi siete certamente accorti che
sto parlando della croce, della nostra comune croce
che è la trasformazione della caduta dell'uomo nel
bene e della sua schiavitù in libertà....
Sapevo però di non essere da solo. In ognuno di voi
"sapevo" della miseria e di lui. Per tanto tempo la
miseria umana è stata così lontana da Dio; con
tutte le mie forze cercavo di avvicinare l'uno
all'altro dentro di voi. Prima c'eravate voi,
miserabili, e sulla vostra miseria si estendeva il
vuoto; ma dal momento in cui il misero si avvicina a
Dio, la sua caduta si trasforma in croce; la sua
schiavitù in libertà.
Sono sicuro di aver scelto la più grande libertà! Il dramma è stato scritto in Polonia dopo la guerra, in quegli anni in cui era in atto una rivoluzione "forzata", cioè si cercava di costruire il nuovo ordine sociale senza l'amore e senza la misericordia cristiana. Si voleva costruire anche un uomo nuovo, a partire dalla totale negazione della verità dell'uomo, cioè di quella verità che costituisce la sua tradizione. L'autore del dramma si è venuto formando nella tradizione della libertà che è indissolubilmente legata alla verità dell'uomo, vale a dire nella tradizione dell'amore a questa libertà e nella tradizione della misericordia verso l'uomo. Per una tradizione così, una rivoluzione, che non implica la metanoia culturale e morale dell'uomo, resta sempre un elemento estraneo. L'esperienza di quella tradizione ha invece un valore universale. Non è casuale allora che la Provvidenza divina l'abbia ritirata fuori dal tesoro della tradizione cristiana. E noi possiamo ritrovarla nell'Enciclica "Dives in Misericordia", di cui riportiamo i seguenti passaggi che costituiscono uno sviluppo dei temi del dramma.
"Il significato vero e proprio della misericordia non
consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più
penetrante e compassionevole, rivolto verso il male
morale, fisico o materiale: la misericordia si
manifesta nel suo aspetto vero e proprio, quando
rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di
male, esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa,
essa costituisce il contenuto fondamentale del
messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva
della sua missione. Allo stesso modo intendevano e
praticavano la misericordia i suoi discepoli e
seguaci. Essa non cessò mai di rivelarsi, nei loro
cuori e nelle loro azioni, come una verifica
particolarmente creatrice dell'amore che non si lascia
"vincere dal male", ma vince "con il bene il male".
Occorre che il volto genuino della misericordia sia
sempre nuovamente svelato. Nonostante molteplici
pregiudizi, essa appare particolarmente necessaria ai
nostri tempi" (DM, IV, 6).
"Che cosa, dunque, ci dice la croce di Cristo, che è,
in un certo senso, l'ultima parola del suo messaggio e
della sua missione messianica? - Eppure, questa non è
ancora l'ultima parola di Dio dell'alleanza: essa
sarà pronunciata in quell'alba, quando prima le donne
e poi gli Apostoli, venuti al sepolcro di Cristo
crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per
la prima volta l'annuncio: "È risorto". Essi lo
ripeteranno agli altri e saranno testimoni del Cristo
risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione del
Figlio di Dio continua ad esser presente la croce, la
quale - attraverso tutta la testimonianza messianica
dell'Uomo-Figlio, che su di essa ha subito la morte -
parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre, che è
assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo,
poiché "ha tanto amato il mondo - quindi l'uomo nel
mondo - da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna". Credere nel Figlio crocifisso significa
"vedere il Padre", significa credere che l'amore è
presente nel mondo e che questo amore è più potente
di ogni genere di male, in cui l'uomo, l'umanità, il
mondo sono coinvolti. Credere in tale amore significa
credere nella misericordia. Questa, infatti, è la
dimensione indispensabile dell'amore, è come il suo
secondo nome, al tempo stesso, è il modo specifico
della sua rivelazione ed attuazione nei confronti
della realtà del male che è nel mondo, che tocca e
assedia l'uomo, che si insinua anche nel suo cuore e
può farlo "perire nella Geenna". (DM, V, 7).
La scomunica ai lefebvriani non c'è più. Ma la pace resta lontana - Anzi, aumentano le ragioni di conflitto, anche con i figli d'Israele. Benedetto XVI moltiplica i gesti di apertura, ma non ottiene niente in cambio. L'incidente del vescovo negazionista, con un commento della ebrea Anna Foa di Sandro Magister
ROMA, 28 gennaio 2009 – A Benedetto XVI capita ripetutamente di trovarsi in difficoltà su due zone di confine che si intersecano: con i lefebvriani e con gli ebrei.
Il 24 gennaio papa Joseph Ratzinger ha revocato la scomunica ai quattro vescovi ordinati illegittimamente da Marcel Lefebvre nel 1988: scomunica nella quale erano incorsi "latae sententiae", cioè in modo automatico semplicemente compiendo quell'atto. I quattro restano comunque sospesi "a divinis", non possono cioè esercitare il loro ministero nella Chiesa cattolica, e la loro comunità resta in stato di scisma.
Uno dei quattro vescovi, l'inglese Richard Williamson, è un acceso negazionista e ha di recente rilanciato le sue tesi negatrici dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti. La coincidenza tra queste sue posizioni e la revoca della sua scomunica – per di più a ridosso della giornata mondiale di memoria della Shoah, il 27 gennaio – ha provocato le forti proteste di molti ebrei, anche di quelli generalmente più benevoli con la Chiesa cattolica e con l'attuale papa.
Un'analoga somma di circostanze aveva fatto scoppiare nei mesi scorsi una polemica similare. Quando Benedetto XVI liberalizzò per tutti i cattolici il rito antico della messa, caposaldo dei lefebvriani, molti ebrei protestarono perché vi era contenuta una preghiera da essi ritenuta inaccettabile e offensiva, in quanto mirata alla loro "conversione". Il papa riscrisse il testo della preghiera, ma alcuni ebrei respinsero anche la nuova formula.
La ragione di fondo di queste turbolenze è nella teologia antigiudaica che contraddistingue in genere i lefebvriani. Secondo molti ebrei, la Chiesa cattolica fa troppo poco per contrastare questo antigiudaismo ed esigere il ravvedimento dei suoi fautori.
* * *
In effetti, i "magnanimi gesti di pace" che Benedetto XVI ha compiuto più volte in direzione dei lefebvriani non sono stati seguiti finora, da parte di essi, da alcun passo significativo di ravvedimento e di avvicinamento.
Il primo di questi gesti è stata l'udienza accordata il 29 agosto 2005 da Benedetto XVI al successore di Lefebvre e capo della comunità, il vescovo – all'epoca scomunicato – Bernard Fellay.
Il secondo gesto è stato il discorso del papa alla curia romana del 22 dicembre 2005. Un discorso di capitale importanza, perché andava al cuore della questione su cui è nato lo scisma lefebvriano: cioè l'accettazione e l'interpretazione dei Concilio Vaticano II. Benedetto XVI mostrò che il Vaticano II non segnava alcuna rottura con la tradizione della Chiesa, anzi, era in continuità con essa anche là dove sembrava segnare una svolta netta rispetto al passato, col pieno riconoscimento della libertà religiosa come diritto inalienabile di ogni persona.
"L'Osservatore Romano" ha ripubblicato tre giorni fa quel discorso del papa, assieme al decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Il 25 gennaio era anche il cinquantesimo anniversario del primo annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII. Ma in più di tre anni, da parte della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da Lefevbre non è venuto nessun segno di adesione alle tesi di Benedetto XVI sull'interpretazione del Vaticano II.
Il terzo gesto è stato la liberalizzazione del rito antico della messa, col motu proprio "Summorum Pontificum" del 7 luglio 2007. Con questa decisione papa Ratzinger si rivolgeva anzitutto all'insieme della Chiesa cattolica, ma era nei suoi intenti anche la volontà di risanare lo scisma con i lefebvriani.
Tuttavia i lefebvriani interpretarono questo gesto semplicemente come un cedimento alle loro posizioni. In più vi fu la reazione di molti ebrei per la preghiera per la loro "conversione", nonostante Benedetto XVI l'avesse poi riformulata.
Il quarto gesto è quello dei giorni scorsi: la revoca della scomunica. Papa Ratzinger l'ha compiuto unilateralmente, come "dono di pace", nella dichiarata speranza di incoraggiare una rapida discussione e soluzione dei punti di divisione.
Va detto però che lo scorso 15 dicembre, nella sua ultima lettera scritta alle autorità della Chiesa di Roma prima del "dono", il capo dei lefebvriani Fellay non dava alcun segno di voler accettare il Vaticano II nella sua integralità:
"Noi siamo pronti a scrivere il Credo con il nostro sangue, a firmare il giuramento antimodernista, la professione di fede di Pio IV, noi accettiamo e facciamo nostri tutti i Concili fino al Vaticano II, riguardo al quale esprimiamo riserve".
In più sono arrivate le dichiarazioni negazioniste del vescovo Williamson, personaggio non nuovo a uscite del genere. Di lui si ricorda, dopo l'11 settembre 2001, un'allucinata spiegazione dell'abbattimento delle Torri Gemelle, attribuito a un fantomatico "stato di polizia" mirante a sottomettere l'America e l'Europa.
* * *
Circa i lefebvriani, la critica che nella curia romana e tra i vescovi si rivolge a Benedetto XVI è di agire solo con gesti unilaterali, senza ottenere nulla in cambio.
Si osserva che i gesti hanno tutti una nitida coerenza e consistenza teologica. Cadono però su un terreno non adeguatamente coltivato.
Anche la revoca della scomunica ai quattro vescovi ricade sotto queste critiche. Si osserva che anche tra Roma e Costantinopoli sono state cancellate le scomuniche, tuttavia questo gesto fortemente simbolico è avvenuto dentro un cammino di reale avvicinamento ecumenico. Un cammino che è invece assente tra i lefebvriani, con i quali le divisioni restano intatte.
* * *
Con gli ebrei è lo stesso. Si riconosce a Benedetto XVI di aver prodotto i testi più alti e più costruttivi per il dialogo tra le due fedi. Ma gli si imputa che contro le sue parole stridono troppi fatti.
Un esempio è ciò che è accaduto nei giorni scorsi. All'Angelus di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha pronunciato parole audaci sulla "conversione" dell'ebreo Paolo. Ha persino detto che per Paolo il termine "conversione" è improprio, "perché gli era già credente, anzi ebreo fervente, né dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo".
Ma lo stesso giorno, un vescovo che lo stesso Benedetto XVI aveva da poco assolto dalla scomunica imperversava sui media di tutto il mondo con affermazioni aberranti contro gli ebrei.
Voci cattoliche autorevoli si sono levate a rimarcare che Ratzinger non aveva colpa di tali affermazioni, né esse avevano alcun legame con la decisione papale di revocare la scomunica al vescovo che le aveva pronunciate. Ma sul piano comunicativo il nesso tra le due cose scattava inesorabile. La notizia era ovunque la seguente: il papa assolve dalla scomunica il vescovo negazionista.
Ad alcuni è stato facile rinfacciare alle autorità vaticane di tacere troppo anche su un altro, ben più pericoloso negazionismo, quello pubblicamente propugnato dai capi dell'Iran. Nei quasi quattro anni di questo pontificato, in effetti, solo una volta, e con parole vaghe, in un testo vaticano ufficiale si è condannato il programma iraniano di cancellare Israele dalla faccia della terra.
Nessun silenzio, tuttavia, può essere rimproverato alla Santa Sede oggi, di fronte alla negazione della Shoah fatta dal vescovo lefebvriano Williamson.
Una prova è in questo articolo pubblicato con grande evidenza su "L'Osservatore Romano" del 26-27 gennaio. Ne è autore Anna Foa, docente di storia all'Università di Roma "La Sapienza", ebrea:
L'antisemitismo unico movente dei negazionisti - di Anna Foa
Il negazionismo della Shoah non è un'interpretazione storiografica, non è una corrente interpretativa dello sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo, non è una forma sia pur radicale di revisionismo storico, e con esso non deve essere confuso. Il negazionismo è menzogna che si copre del velo della storia, che prende un'apparenza scientifica, oggettiva, per coprire la sua vera origine, il suo vero movente: l'antisemitismo.
Un negazionista è anche antisemita. Ed è forse, in un mondo come quello occidentale in cui dichiararsi antisemiti non è tanto facile, l'unico antisemita chiaro e palese.
L'odio antiebraico è all'origine di questa negazione della Shoah che inizia fin dai primi anni del dopoguerra, riallacciandosi idealmente al progetto stesso dei nazisti, quando coprivano le tracce dei campi di sterminio, ne radevano al suolo le camere a gas, e schernivano i deportati dicendo loro che se anche fossero riusciti a sopravvivere nessuno al mondo li avrebbe creduti.
Il negazionismo attraversa gli schieramenti politici, non è solo legato all'estrema destra nazista, ma raccoglie tendenze diverse: il pacifismo più estremo, l'antiamericanismo, l'ostilità alla modernità.
Esso nasce in Francia alla fine degli anni Quaranta a opera di due personaggi, Maurice Bardèche e Paul Rassinier, l'uno fascista dichiarato, l'altro comunista. Dopo di allora, si sviluppa largamente, e i suoi sostenitori più noti sono il francese Robert Faurisson e l'inglese David Irving, nessuno dei due storico di professione.
I negazionisti sviluppano dei procedimenti assolutamente fuori dal comune nella loro negazione della realtà storica. Innanzitutto, considerano tutte le fonti ebraiche di qualunque genere inattendibili e menzognere. Tolte così di mezzo una buona parte dei testimoni, tutta la memorialistica espressa dai sopravvissuti ebrei e la storiografia opera di storici ebrei o presunti tali, i negazionisti si accingono a demolire il resto delle testimonianze, delle prove, dei documenti.
Tutto ciò che è posteriore alla sconfitta del nazismo è per loro inaffidabile perché appartiene alla "verità dei vincitori". La storia della Shoah l'hanno fatta i vincitori, continuano instancabilmente a ripetere, mettendo in dubbio tutto quello che è emerso in sede giudiziaria, dal processo di Norimberga in poi: frutto di pressioni, torture, violenze.
Resta però ancora una parte di documentazione da confutare, quella di parte nazista che precede il 1945. Qui, i negazionisti hanno scoperto che nessuna affermazione scritta dai nazisti dopo il 1943 può dichiararsi veritiera, perché a quell'epoca i nazisti cominciavano a perdere la guerra e avrebbero potuto fare affermazioni volte a compiacere i futuri vincitori. "Et voilà", il gioco è fatto: la Shoah non esiste!
Il negazionismo si applica in particolare a dimostrare l'inesistenza delle camere a gas, attraverso complessi ragionamenti tecnici: non avrebbero potuto funzionare, avrebbero avuto bisogno di ciminiere altissime e via discorrendo. È questa la tesi che ha dotato di notorietà uno pseudo-ingegnere, Fred Leuchter, e che domina nei siti negazionisti di internet.
Oggi, il negazionismo è considerato reato in molti Paesi d'Europa, anche se una parte dell'opinione pubblica rimane restia – come chi scrive – a trasformare, mettendoli in prigione, dei bugiardi in martiri. Non mancano poi sostenitori del negazionismo in funzione antiisraeliana.
Bisogna però ripetere che dietro il negazionismo c'è un solo movente, un solo intento: l'antisemitismo. Tutto il resto è menzogna.
Apologetica laica - Quando la filosofia -diventa schiava della tecnoscienza - In occasione dei cento anni della "Rivista di Filosofia Neoscolastica" l'Università Cattolica del Sacro Cuore ha organizzato un convegno che si svolge il 27 e il 28 gennaio presso il Dipartimento di Filosofia. Anticipiamo le conclusioni dell'intervento del direttore del Centro di Ateneo di Bioetica. di Adriano Pessina - L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
Nel fondare la "Rivista di Filosofia Neoscolastica", l'idea di padre Agostino Gemelli - coltivata anche dalla generazione di chi ho avuto come maestro - era legata alla necessità di conservare una dimensione "apologetica" della filosofia nei confronti della fede cattolica. Ora, il concetto di "apologetica", oltre a prestarsi a diversi fraintendimenti, fino alla possibilità di minare la strutturale e irrinunciabile autonomia del sapere e del metodo filosofico che questa Università ha difeso con legittima chiarezza, ha però una interessante accezione sulla quale riflettere. L'apologetica della fede credente non significa subordinazione della ragione filosofica alla ragione teologica, ma, in primo luogo, la permeabilità della ragione filosofica alle questioni che riguardano il significato profondo e autentico dell'esperienza umana, fino a coinvolgere le questioni ultime. Da questo punto di vista, l'apologetica è fondamentalmente la capacità di prendere sul serio quegli interrogativi che, sollevati dalle trasformazioni dell'esistenza e del pensiero, interrogano l'esperienza e il pensiero della fede. E questa permeabilità, a quello che possiamo chiamare lo "spirito del proprio tempo", è esattamente opposta a ogni impostazione puramente deduttivistica che pretende di ricavare risposte a domande mai realmente comprese. Non si tratta di adeguarsi alle risposte dell'epoca contemporanea, ai suoi stili di pensiero, ma di confrontarsi con esse. E se, per lungo tempo, queste risposte erano fornite da correnti filosofiche chiaramente definibili, come l'idealismo, il marxismo, lo spiritualismo, oggi esse sono fornite da molte, ma non meno definite, linee di pensiero e di azione che non provengono soltanto dalla filosofia classicamente intesa. Se guardiamo alla bioetica così come si è sviluppata negli Usa e si sta lentamente affermando in Europa, possiamo constatare come di fatto essa coincida con la riduzione della filosofia a uno strumento puramente procedurale, di raccordo tra le diverse opzioni religiose, che lascia alle tecnoscienze l'autorità della ragione e il compito di fornire risposte universali alle grandi questioni di senso. Non ci si illuda. Anche quando si riconosce alla fede cristiana una funzione guida nelle questioni etiche e antropologiche, questo riconoscimento è direttamente proporzionale alla sua riduzione a pura opzione a-razionale e alla sua marginalizzazione dal discorso pubblico della ragione. Una fede sradicata dalla razionalità e interpretata alla luce del principio di autorità rimane di fatto impotente nel confronto con le proposte delle tecnoscienze ed è ridotta a una delle grandi opinioni del nostro secolo, incapace di discutere sul terreno della verità e della falsità, come certe esperienze del filosofare che si limitano a narrare nuovi racconti sulla realtà. Lo svuotamento della ragione filosofica non solo rende impossibile, sentenzia Hugo T. Engelhardt, "ricostruire la sensibilità ebraico-cristiana mediante il ragionamento morale laico generale", ma di fatto rende persino incomprensibile il messaggio stesso della fede cristiana perché non si sa più riconoscere nel Dio della Rivelazione, l'Autore e il fondamento della stessa ragione umana; quella ragione filosofica delle cui capacità non dobbiamo avere paura in quanto, per sua natura, aperta all'incontro con la Rivelazione. Così, di fronte al tentativo di ridurre la fede a fideismo e di mortificare la ragione filosofica ad ancilla tecnologiae, il compito di un'"apologetica" della filosofia non appare differente dal compito di un'apologetica della fede. Allargare la ragione e tornare a riaffermare la relazione costitutiva tra il sapere della filosofia e quello della fede significa creare di nuovo le condizioni per pensare la realtà dentro le categorie del vero e del falso, facendo diventare la filosofia interlocutrice della ragione tecnoscientifica nelle sue diverse forme e contribuire a costruire uno spazio pubblico di riflessione sul destino dell'uomo nell'epoca della sua auto-manipolazione.
La filosofia neoscolastica, ricordava Gemelli, non è l'impresa di un solo uomo, così come non lo è, secondo Sofia Vanni Rovighi, la filosofia come sapere rigoroso. Occorre far convergere idee, capacità, conoscenze intorno a un progetto condiviso, che non può essere differente, a mio avviso, da quello, per usare un'espressione inattuale, dell'apologetica.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
Il metodo di san Tommaso d'Aquino Se si tratta della verità non importa chi la dice - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
Non raramente si sente affermare che Tommaso d'Aquino è stato un modello di dialogo con le culture del suo tempo. Ed è vero, ma sarebbe anzitutto necessario precisare - e non lo si fa quasi mai - che cosa si intenda per dialogo. La parola dialogo è ripetuta oggi fino alla noia per i campi più svariati, ma la si lascia abitualmente nel vago di un significato generico, dove spesso un'ovvietà improduttiva rischia di rasentare la banalità.
Ma torniamo a Tommaso d'Aquino. Egli è entrato certamente a contatto con la cultura del suo tempo, rappresentata specialmente da Aristotele che ormai si trovava - come direbbe Congar - alla sua terza entrata in Occidente, quella dei contenuti, dopo l'entrata riguardante la Logica vetus, con Boezio, e la Logica nova.
Il commento, anche analitico, alle opere del filosofo non è sicuramente un'iniziativa originale di Tommaso, ma è sorprendente che egli, "maestro in Sacra Pagina", abbia dedicato tanto tempo e impegno all'analisi dei testi aristotelici. O forse meglio, non sorprende, se si tiene presente che il loro studio particolareggiato aveva come scopo quello di porre la verità che coglieva in esse a servizio della sua professione di teologo e quindi a servizio della sacra doctrina. Questa sua attività di commentatore - che non si limitava ad Aristotele, egli commentò anche il Liber de causis, di cui rilevò la matrice platonica - non passava, in ogni caso, senza l'attenzione e la stima dei maestri della Facoltà delle arti. Quando Tommaso partì da Parigi nella primavera del 1272, promise a questi che avrebbe inviato loro alcuni commentari di opere filosofiche, ed essi infatti lo ricordarono e li richiedevano, insieme con le reliquie di Tommaso, in una lettera del maggio 1274 al capitolo generale di Lione. Ma, di là da queste annotazioni storiche, è illuminante rilevare il metodo di Tommaso nel dialogo con la cultura del suo tempo. Si nota anzitutto il principio fondamentale della sua ricerca o della sua "etica mentale", espresso in questi termini e da lui attributo a sant'Ambrogio: "Al principio di ogni verità, chiunque sia colui che la professi, vi è lo Spirito Santo (omne verum, a quocumque dicatur a Spiritu sancto est)" (Super evangelium Joannis, capitolo 1, lectio 3). All'Angelico importa la verità, non la sua provenienza, e là dove essa sia presente riceve da lui tutto il suo riconoscimento. Ed è esattamente quello che egli ricercava in Aristotele: la verità, per altro ben consapevole quanto, senza la Rivelazione, anche le menti più alte faticassero a trovare quale fosse il fine ultimo dell'uomo: satis apparet quantam angustiam patiebantur hinc inde eorum praeclara ingenia (Summa contra gentiles, 3, 48). Tommaso aveva una confidenza assoluta nella verità, al punto da affermare nel Commento al libro di Giobbe (13, 19), che "la verità non cambia a secondo della diversità delle persone, per cui, quando uno dice la verità, chiunque sia la persona con cui disputa, non può essere vinto" (veritas ex diversitate personarum non variatur, unde cum aliquis veritatem loquitur vinci non potest cum quocumque disputet), quand'anche si tratti di Dio.
Con questa sua sensibilità non sorprende che, quando commenta un autore, non gli prema tanto la ricostruzione storica - nella misura per altro in cui gli fosse possibile - quanto lo sforzo perché secondo l'oggettiva coerenza ai loro stessi principi venga raggiunta la verità.
Così, di là dalla sua consapevolezza o meno, avviene quando egli analizza le opere di Aristotele. Non sono infatti mancate critiche alla sua esegesi quanto alla sua fedeltà al testo del filosofo. Di fatto, nel suo dialogo con lui su questa fedeltà testuale prevale la preoccupazione veritativa. D'altra parte, egli ha in certo modo teorizzato il suo metodo dialogico.
Nel De caelo et mundo afferma: "Lo studio della filosofia non mira a conoscere quello che gli uomini hanno pensato, ma quale sia la verità (studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum)" (i, 22, 8). Ora, questo primo momento, inteso alla conoscenza del pensiero umano e che potremmo chiamare della ricerca storica, non solo non manca ma è largamente presente in Tommaso, e ne è prova la sua vasta e continua attenzione culturale in campo anche profano, e in primo luogo nell'area della cultura aristotelica, senza parlare di altri autori di cui conobbe e utilizzò il pensiero, tra gli altri Boezio, Avicenna, Averroè, Mosè Maimonide.
Questo primo momento non gli è però sufficiente. Tommaso mira, come metodo, a oltrepassarlo, e lo fa nel secondo momento del suo itinerario scientifico, quando si dedica a indagare l'intenzione oggettiva - l'intentio profundior - che anima l'espressione di un autore e che a essa soggiace, di là dalla coscienza dell'autore stesso. Egli si impegna, così, a "scrutare con maggior profondità l'intenzione di Agostino (profundius intentionem Augustini scrutemur)" (De spiritualibus creaturis, 10, 8).
Sulla relazione tra espressione e intenzione, particolarmente applicata a san Tommaso, e sul ritardo della prima rispetto alla seconda, si è soffermato con singolare finezza André Hayen, gesuita di Lovanio, uno dei più acuti interpreti dell'Angelico, le cui opere - alcune delle quali tradotte in italiano - conservano intatto il loro valore.
E, tuttavia, anche questa seconda tappa non basta a san Tommaso. In ambedue i testi citati egli afferma che a importare non sono né la storia né l'intenzione profonda: lo studio della filosofia deve avere come suo fine la conoscenza non di quello che i filosofi hanno scritto, ma di quale sia la veritas rerum; e per quanto concerne Agostino il punto d'arrivo non è quello di sapere quale sia stata la sua intenzione, ma una volta ancora quello che è vero: quomodo se habeat veritas circa hoc.
Nessun dubbio che san Tommaso abbia trascorso la sua laboriosa vita di teologo in dialogo culturale, ma non per un puro conoscersi reciproco, per un ammirarsi a vicenda o per fare semplicemente della storia, bensì con lo spirito critico ed esigente di chi si propone di discernere il vero dal falso e di giungere al traguardo liberante della verità: di quella stessa verità che i principi di un autore includevano, anche se questi si era incoerentemente fermato come su un sentiero interrotto. Un simile metodo, indubbiamente, non potrebbe essere praticato da chi sia indifferente di fronte al discorso della verità, al quale Tommaso era invece sensibilissimo, e che alla fine unicamente gli interessava.
Tornando in particolare ai suoi commenti ad Aristotele, è indubbio che egli ha travalicato il testo del filosofo, che lo ha prolungato. A Tommaso non importava per se stessa "la ricostruzione storicamente esatta del pensiero di Aristotele" (Jean-Pierre Torrell), per cui ha fatto dire al filosofo cose alle quali questi "non aveva neppur pensato". Ma è proprio dal profilo di questa intenzione, di questo audace amore per la verità che Tommaso non cessa di essere il modello di un dialogo che non si rassegna a essere sterile e vuoto.
In ogni caso, è grazie a questo suo metodo che egli ha potuto lasciare una mirabile somma di teologia, dov'è inclusa una filosofia "vera" - storicamente o non storicamente aristotelica - in certo modo trasfigurata dalla fede, più che sua "ancella" e non per ciò meno filosofia.
Che è poi il compito proprio di ognuno che, come lui, voglia essere "maestro in sacra Pagina": leggere, interpretare e proporre integralmente il Mistero, nella sua verità e nella sua bellezza, che possono apparire solo al credente, e non stemperarsi in confronti alla fine inconcludenti.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
Un esempio di unità tra la meditazione della Parola e la riflessione sistematica - Nel passato la chiave per interpretare il futuro - In occasione della memoria liturgica di san Tommaso d'Aquino, l'arcivescovo segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica tiene all'Angelicum un'omelia della quale anticipiamo ampi stralci. - di Jean-Louis Bruguès – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
Nel decreto con il quale, il 25 maggio 1727, Papa Benedetto xiii erigeva lo Studium dei Domenicani, antenato diretto della Pontificia Università San Tommaso Angelicum, si presenta la dottrina di colui che sarebbe diventato il dottore comune della Chiesa, come una luce destinata a illuminare tutta la società. Una luce che ha permesso di denunciare gli errori del passato, una luce per meglio comprendere gli errori dei tempi presenti (n. 30). 1727: in molti Paesi d'Europa, una nuova visione dell'uomo e del mondo comincia a nascere nell'intellighenzia, sotto l'influsso degli enciclopedisti. La secolarizzazione della società fa i suoi primi passi. Verso chi si rivolge la Chiesa? Non certo verso i teologi del momento - si sarebbe fatta molta fatica a trovarli! - ma verso un antico che aveva anticipato l'Europa intellettuale e studiato, poi insegnato a Colonia, Parigi, Orvieto, Roma e in ultimo a Napoli. In questo inizio di millennio, quando la secolarizzazione si è imposta in più continenti, mi sembra che l'atteggiamento della nostra Chiesa deve rimanere lo stesso: rivolgersi, non tanto verso un riferimento storico peraltro molto lontano dalla nostra cultura, ma verso un maestro, nel senso assoluto di questo termine, il cui fascino trascende i secoli. Nova et vetera: Tommaso d'Aquino ebbe il genio di radicarsi nella tradizione più solida - lo testimoniano la sua conoscenza dei Padri e il suo debito verso sant'Agostino molto più forte di quanto lo si sembra riconoscere, da appena qualche decennio - al fine di cogliere dall'interno le sfide della modernità. L'assimilazione del passato prepara sempre il futuro. Sentiamolo allora darci due grandi consigli per oggi.
Primo consiglio: mai separare il lavoro intellettuale dalla vita di unione con Dio. Certamente, per san Tommaso la teologia ha una funzione speculativa e sistematica ben definita, che consiste nel proporre una intelligenza della fede, dando delle ragioni certe o probabili, per eliminare gli errori. Altrettanto, egli non separa mai questa prospettiva immediata da una finalità più spirituale, che si potrebbe riassumere in una parola: l'elevazione dello spirito. A proposito di una questione trinitaria delicata, san Tommaso rileva: "Una tale ricerca non è inutile, perché attraverso di essa lo spirito è elevato per cogliere qualcosa della verità (cum per eam elevetur animus ad aliquid veritatis capiendum)" (De potentia, 9, 5). Questa elevazione è percepita come anticipazione o preparazione della visione beatifica. Rimaniamo sempre nella prospettiva aperta dalle beatitudini proclamate nel Discorso della montagna. Ecco perché il lavoro speculativo, secondo Tommaso è fonte di gioia. "È utile, egli spiega all'inizio della Summa contra gentiles, che lo spirito umano si eserciti a queste ragioni anche se sono deboli, a condizione che non abbia la pretesa di comprendere o di dimostrare. Perché poter percepire qualcosa delle realtà più alte, anche se soltanto con uno sguardo debole e limitato, procura la più grande gioia" (libro i, capitolo 8, numero 49).
Mi pare che questo primo consiglio ci difenda contro quello che è il rischio di una auto-secolarizzazione rampante presso quelli che hanno ricevuto l'incarico di insegnare nella Chiesa: guardando le "cose dall'alto", come se si mettesse l'obiettivo fotografico sull'infinito, questi ultimi dovrebbero vedere meglio ordinarsi i diversi piani della realtà. Commemorando il centesimo anniversario del teologo Hans Urs von Balthasar, nel 2005, colui che era appena stato eletto Papa sotto il nome di Benedetto XVI, gli rendeva questo omaggio: "Egli aveva profondamente compreso che la teologia può soltanto svilupparsi nella preghiera, che coglie la presenza di Dio e che si affida a Lui nell'obbedienza".
Il secondo consiglio che ci lascia il dottore angelico raggiunge con molta precisione una proposizione fatta dai padri dell'ultimo Sinodo tenutosi a Roma nell'ottobre scorso: "Superare il dualismo tra esegesi e teologia" (Proposizione 27). Il testo riprendeva così le stesse parole di Papa Benedetto XVI: "Dove l'esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l'anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento" (martedì 14 ottobre 2008). San Tommaso ci dona un esempio meraviglioso di questa unità tra la meditazione della Parola di Dio e la riflessione sistematica. La Summa theologiae propone un andare e venire costante tra questa Parola, essa stessa riletta nella tradizione e alla luce del Magistero, e la costruzione teologica. Sappiamo che nel medioevo, il primo compito del maestro di teologia era di commentare la Scrittura ogni giorno. Il titolo più elevato all'epoca era quello di Magister in sacra pagina o Doctor sacrae scripturae. Legere, cioè commentare, disputare delle questioni più ardue e infine praedicare: Tommaso ci ha lasciato così meravigliosi commentari della Scrittura. Sono almeno la metà dei testi del Nuovo Testamento e diversi libri dell'Antico che egli ha meditato ed esposto ogni giorno. Commentando, per esempio, la parola di Gesù: "Io sono mite e umile di cuore" (Matteo, 11, 29), il nostro dottore spiega nel modo più luminoso: "Tutta la nuova legge consiste in queste due cose: nella mitezza e nell'umiltà. Per la mitezza, l'uomo si avvicina al prossimo secondo la parola del Salmo: "Ricordati, Signore, di Davide, di tutta la sua mitezza" (Salmi, 131, 1). Per l'umiltà, egli si avvicina a sé e a Dio: "Su chi riposa il mio Spirito se non sull'uomo di pace e d'umiltà?" (Isaia, 66, 2)" (Super evangelium sancti Matthaei Lectura, 970). È normale, è necessario, mi sembra, che le Università pontificie romane si interroghino sulla loro specificità. La vostra, cari amici, non lascia posto ad alcuna incertezza: fare che Tommaso d'Aquino diventi oggi, come fu nel passato, il sale della nostra dottrina e la luce degli uomini di buona volontà.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
Storia e conseguenze della persecuzione della cultura intellettuale ebraica italiana - La memoria del danno - Il 26 gennaio si è svolta a Roma, all'università La Sapienza, una giornata di studi intitolata "Le leggi del 1938: rimozione, memoria, storia". Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi. - di Marina Beer Università di Roma La Sapienza – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2008
Gli effetti delle leggi razziali sulla letteratura italiana furono molto più pesanti di quanto ci faccia intravedere la storiografia letteraria degli ultimi decenni, che pure ha iniziato a infrangere la consegna alla reticenza e al silenzio persistente dal secondo dopoguerra soprattutto nei manuali e nelle grandi opere di riferimento di letteratura italiana. Questo fatto è tanto più grave proprio perché nel nostro sistema di istruzione secondaria la storia della letteratura italiana è stata per più di centocinquanta anni il medium attraverso il quale si tramanda la memoria dell'identità del Paese. Sarebbe invece necessario che anche questa memoria letteraria contribuisse a rispecchiare la storia che essa vuole far rivivere, servisse cioè insieme a ricordare noi stessi, a conoscere il nostro passato, a meditare sul nostro futuro. La necessità di uno sguardo che sappia comprendere insieme il mondo della storia nel quale la letteratura è nata e che per vocazione essa incarna, interpreta, a volte "profeticamente" anticipa, è poi diventata un'esigenza sempre più pressante del nostro tempo. Non dimentichiamo che la funzione di "memoria", nel senso più antico del termine, è all'origine della poesia: e in questo senso la poesia - quella che noi storici della letteratura indegnamente cerchiamo di insegnare a leggere, a interpretare e amare - è figlia di Mnemosyne, "vince di mille secoli il silenzio". Ma se la memoria non si tramanda con rispetto ed esattezza diventa una memoria approssimativa e reticente, una forma di rimozione e di oblio, un ostacolo per la nascita di un senso comune condiviso dalle generazioni. Questo a mio avviso è proprio ciò che è avvenuto nella storiografia e nella manualistica per quanto riguarda le ripercussioni delle leggi del 1938 nella storia della nostra letteratura e della nostra cultura letteraria dal dopoguerra a oggi. La storia della persecuzione della cultura intellettuale ebraica italiana da parte del totalitarismo è una storia a sé all'interno di quella più ampia e sanguinosa della persecuzione e dello sterminio ebraico e manca quasi interamente dai manuali. Questa storia non racconta solo di professori che perdono la cattedra mentre i loro libri vengono cancellati dai programmi, di studenti che non possono più iscriversi all'università, di ebrei espulsi da accademie e istituzioni culturali e di editori costretti a cedere la proprietà delle loro imprese, di redattori di case editrici licenziati, scrittori e giornalisti costretti a scrivere sotto pseudonimo o a non scrivere affatto, libri scientifici di autori ebrei tolti dalla circolazione, libri scolastici scritti da autori ebrei eliminati dai programmi di scuole e università, manuali ed enciclopedie epurati dai nomi ebraici e da ogni rinvio all'ebraismo, libri di autori ebrei italiani e stranieri sequestrati, tolti dalla circolazione e non più ristampati, persino scrittori per l'infanzia amati da generazioni di bambini italiani cancellati dai cataloghi delle case editrici. In più, come sottofondo a queste vicende di sopruso e di umiliazione, questa storia ci costringe a riascoltare le voci grottesche e ignobili della pubblicistica di Stato, questa sì la sola autorizzata a parlare di ebrei e di ebraismo, la stampa antisemita finanziata quasi a fondo perduto dal regime e i livres de chevet dell'antisemitismo italiano. Parlano dunque di ebrei e di ebraismo "La difesa della razza", "Tevere", "La vita italiana", le opere di Telesio Interlandi, di Paolo Orano e magari il monumentale Sesso e carattere dell'unico autore ebreo risparmiato (fino al 1944) dall'epurazione razzista italiana, quell'Otto Weininger che Hitler giudicava come "l'unico ebreo perbene" perché si suicidò "dopo aver riconosciuto che l'ebreo vive della decomposizione di altri popoli" e che fu fin dal 1912 il principale tramite per la divulgazione degli stereotipi dell'antisemitismo razzista nella nostra cultura. Eugenio Montale evoca così il cli- ma di questi anni nelle Occasioni (1939): "Distilla veleno una fede feroce". La rimozione postbellica e la continuità istituzionale che della persecuzione furono l'epilogo gettano una luce tragica e amara sulla pervasività capillare dei meccanismi totalitari del consenso, sulla fragilità delle difese che vi furono opposte e che permisero il costituirsi di un'ampia "zona grigia" anche nel mondo della cultura, sullo sfaldamento o addirittura sulla perdita di una parte consistente dell'identità culturale italiana tra le due guerre, quella che dai rapporti con i temi ebraici, con i letterati ebrei e con il loro sapere aveva tratto linfa vitale. La cultura italiana ha subito dalle leggi razziste un vulnus gravissimo, un danno la cui estensione non può essere limitata al periodo nel quale esse furono in vigore, perché anche la rimozione e il silenzio delle pagine delle storie letterarie circa i provvedimenti razzisti messi allora in atto e i loro effetti fanno parte integrante di quello stesso danno, ed è anzi la prova estrema e paradossale della loro efficacia. È certamente vero che decine di migliaia di copie de "La Difesa della Razza" rimasero invendute, e che non mancarono anche fra gli intellettuali comportamenti verso singoli ebrei che smentirono il razzismo antisemita propagandato più o meno rumorosamente in pubblico dalle stesse persone. Giovanni Gentile non si privò della collaborazione di autori ebrei per l'Enciclopedia Treccani e protesse e aiutò a emigrare negli Stati Uniti il massimo studioso dell'umanesimo italiano e della filosofia ficiniana, Paul Oskar Kristeller. Il poeta Umberto Saba ottenne nel 1939 dalla Direzione della Demografia e della Razza la "discriminazione" (cioè la possibilità di continuare a godere dei suoi diritti ed esercitare la sua attività) concessagli per "meriti eccezionali" direttamente da Benito Mussolini, che lo aveva conosciuto molti anni prima quando il poeta triestino collaborava al "Popolo d'Italia", e la ottenne grazie ai buoni uffici di letterati non certo noti per filosemitismo, quali Enrico Falqui, Curzio Malaparte, Ardengo Soffici, Giuseppe Ungaretti. Ma la lunga lista dei comportamenti "umanitari" non deve far dimenticare la facilità con cui misure antiebraiche nel campo della cultura vennero adottate e come, già dalla prima metà degli anni Trenta, ancora prima che le leggi razziali entrassero in vigore, fosse moneta corrente nella cultura italiana il razzismo antisemita, nelle due varianti del razzismo "biologico" (gli ebrei razza inferiore) e del razzismo "ideale" (gli ebrei portatori di tutti i mali della modernità). Nell'immediato dopoguerra il silenzio pieno di vergogna e di cautela che nasconde i "tristi ricordi" della politica culturale razzista si accompagna anche a voci di rivendicazione e di sdegno, che si confondono e si perdono però ben presto nella generale e generica condanna della politica culturale del fascismo, che include implicitamente anche la denuncia delle disposizioni rivolte contro gli intellettuali ebrei. Alcuni fra i professori scacciati vengono reintegrati, magari a fianco di chi li aveva soppiantati negli anni delle persecuzioni; molti libri scomparsi dalla circolazione ritornano nelle librerie e nelle biblioteche, ma molti altri spariscono del tutto. La cultura ebraica europea fatta conoscere agli italiani tra le due guerre da tante traduzioni, i libri di Martin Buber e di Scholem Alejchem, di Israel Zangwill e di Arthur Schnitzler, di Franz Werfel e di Stefan Zweig - per non parlare delle opere dello stesso Freud - sono spariti come il mondo che hanno narrato, e impiegheranno alcuni decenni per riapparire nei cataloghi delle librerie e ritornare vivi nella cultura italiana. Un grande e diffuso patrimonio di conoscenze circa l'ebraismo è stato travolto dalle leggi razziste prima, dalla loro rimozione poi: verrà ricostruito nella cultura letteraria solamente a partire dalla fine degli anni Settanta. Della catastrofe dell'ebraismo italiano narreranno con voce ferma alcuni scrittori nuovi, non sempre immediatamente accolti dalla critica, amatissimi però dal pubblico: Giacomo Debenedetti (16 ottobre 1943, 1944); Primo Levi (Se questo è un uomo, 1947); Giorgio Bassani (Cinque storie ferraresi, 1956); Elsa Morante (La Storia, 1975). Altre però sono le tendenze che dominano la letteratura: il neorealismo, il marxismo, lo strutturalismo. La memoria di fatti troppo vicini sarebbe d'altra parte uno strumento inservibile per ricostruire il presente e progettare il futuro, in una società letteraria che muta rapidamente pelle e riferimenti politici. Nella manualistica letteraria successiva agli anni Sessanta i rari accenni alla politica culturale razzista del fascismo e all'applicazione delle leggi razziali nel campo della cultura sono prevalentemente ispirati al paradigma storiografico della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice (1961), e nella scia di questo si caratterizzano per la costante sottovalutazione della portata e dell'impatto di quei provvedimenti sulla cultura letteraria italiana. È forse arrivato il momento di scrivere anche nei libri di testo un capitolo dedicato a questa epoca della nostra storia letteraria e alle sue conseguenze.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
La squallida retorica del ventennio fascista - Difesa della razza indifendibile vergogna - i Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 28 gennaio 2009
Pur di difendere la teoria della razza italica, gli ideologi del fascismo non si fecero certo scrupolo ad accreditare come antisemiti nientemeno che Dante Alighieri e Giacomo Leopardi. Una strumentalizzazione che oggi appare inverosimile, ma che all'epoca non dovette sembrare troppo azzardata a Telesio Interlandi, direttore del quindicinale "La difesa della razza", che per alcuni anni fu il riferimento del movimento antiebraico di stampo razzista italiano. Autore di tale arruolamento postumo del sommo poeta - del quale in copertina si leggeva un verso del Canto v del Paradiso: "Uomini siate, e non pecore matte, sì che 'l Giudeo di voi tra voi non rida" - e dell'autore dello Zibaldone fu Massimo Lelj, ex anarchico convertito al fascio nonché seguace di Vico, che s'inserì pienamente nella linea del periodico, tesa ad asservire la cultura e la scienza ai più biechi interessi del regime. Così, nella retorica del delirante foglio, Dante veniva celebrato come l'inventore del volgare e quindi della razza italica. Leopardi, invece, attraverso un collage di citazioni, era presentato come un "agguerrito conoscitore" degli ebrei e come un illustre anticipatore dell'antisemitismo fascista. A rispolverare tutte le armi della retorica di regime è lo storico Francesco Cassata in La difesa della razza (Torino, Einaudi, 208, pagine 414, euro 34), un'analisi accurata della politica, dell'ideologia e dell'immagine del razzismo fascista attraverso gli articoli pubblicati dal periodico e dalle serrate politiche innescate da Interlandi e dai suoi collaboratori. E si scopre così che non solo letterati, ma anche esponenti delle arti figurative come Raffaello, Mantegna, il Ghirlandaio, Piero della Francesca, il Perugino e altri illustri maestri vennero utilizzati per contrapporre l'arte italiana - un'arte dell'eternità - a un'"arte ebraica", asservita agli interessi della cospirazione sionista. Non si salva neppure Leonardo da Vinci, considerato da Silvestro Baglioni, docente di fisiologia umana all'università di Roma, come l'esempio più elevato di convergenza fra arte e "razziologia". Secondo Cassata, l'apice di tale processo di "razzizzazione" dell'arte leonardesca è raggiunto dall'interpretazione del Cenacolo, scaturita dalla fantasia di un altro collaboratore della rivista, Gino Sottochiesa, filosofo e polemista sedicente cattolico, fin troppo disinvolto nel propagandare come cattoliche tesi razziste, ben lontane dal sentire della Chiesa di Pio XI, ma che evidentemente trovavano all'epoca qualcuno disposto ad accettarle e a condividerle. Ebbene, secondo il recensore, si può parlare per il dipinto di Leonardo di un vero e proprio "razzismo pittorico". Così riportato da Cassata: "I caratteri somatici degli Apostoli, circondati da un "alone mistico di grazia", rivelano, infatti, i volti di "ebrei tipici e inconfondibili", ma soltanto nell'espressione di Giuda i tratti fisionomici portano "le stigmate del delitto e della diabolica nequizia"".
Questa non è però che una delle molteplici infinite forzature che trovano spazio nelle pagine di "La difesa della razza" e, prima ancora, negli altri due giornali diretti da Interlandi, il quotidiano "Il Tevere" e il settimanale "Quadrivio". Il primo numero del quindicinale esce nelle edicole sabato 6 agosto 1938 con la data del 5, tre settimane dopo la pubblicazione del "Manifesto della razza", ospitando gli articoli di ben otto dei dieci firmatari dell'infame documento. E a quest'ultimo si richiama Interlandi nell'editoriale, sottolineando che il razzismo si inserisce nell'"intima logica del Fascismo".
Tuttavia l'avvio - e non solo - della nuova testata fu tutt'altro che lineare, tra rivalità interne al regime, carriere apparentemente inarrestabili, ambizioni prima sostenute e poi frustrate. Nel quindicinale, infatti, il direttore deve far convivere i due ambiti principali che contraddistinguono il razzismo italiano: da un lato il gruppo di giornalisti da tempo legati a Interlandi e dall'altro proprio alcuni degli intellettuali e scienziati firmatari del "Manifesto". Il direttore riesce tuttavia a saldare le due anime, facendo sì che tale nucleo originario si caratterizzi nell'impostazione prevalentemente biologica del problema razziale.
Si tratta di una linea - come ricostruito dettagliatamente dallo storico - che impegnerà la rivista in accese e non di rado aspre polemiche con le altre correnti del razzismo fascista, in particolare quella nazionalista incarnata da Acerbo e Pende e quella esoterico-tradizionalista e sostenuta da Preziosi ed Evola. Polemiche e prese di posizione più o meno articolate e "scientificamente" supportate da letture parziali e spesso fantasiose che comunque mostrano un dato di fatto centrale: così come il quindicinale non è il frutto di una improvvisazione estemporanea, allo stesso modo l'ideologia razziale che propugna, non dettata semplicemente dalle esigenze dell'alleanza con la Germania nazista, non è quindi un aspetto marginale del fascismo, ma a esso pienamente connesso nell'ottica del suo progetto di "rivoluzione antropologica".
In questo senso Cassata vede in quello mussoliniano, pur con le sue peculiarità, un antisemitismo di Stato, frutto di una lunga incubazione e prodotto di una logica tutta interna al regime, inserito in un percorso che si richiama a una parte della cultura ottocentesca, mirante alla creazione di una questione ebraica su scala nazionale.
Il libro ricostruisce questo percorso analizzando gli scritti del siciliano Interlandi - spesso considerato portavoce ufficioso di Mussolini - e dei suoi collaboratori, soffermandosi proprio sulle diversità di vedute all'interno del movimento razzista alla ricerca di una sua identità e autonomia rispetto a quello nazista. Movimento in cui comunque si preferisce parlare di razza italica anziché di razza ariana. Ci si trova così di fronte alle contrapposizioni politiche e ideologiche che animarono la fine degli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta, fino alla terribile adesione alla "soluzione finale" adottata dall'alleato tedesco.
Ma al di là di queste dispute, attraverso l'analisi dell'opera di Interlandi e degli scritti pubblicati in "La difesa della razza", emerge con chiarezza la peculiarità della rivista nel programma fascista: realizzare una macchina di propaganda sincretica in cui argomentazioni biologizzanti e culturalizzanti, diligentemente dosate e gerarchizzate a seconda degli obiettivi e dei destinatari della polemica specifica, convergono in un piano di rifondazione della società e della cultura italiane.
"Da questo punto di vista - sottolinea l'autore - la centralità e l'onnipresenza del concetto di "ebraizzazione" rappresenta forse l'esempio più persuasivo: per Interlandi e i suoi collaboratori non è sufficiente sconfiggere l'ebreo "visibile", poiché il pericolo maggiore proviene in realtà dall'ebreo "invisibile", dall'ariano "ebraizzato", dalla circoncisione "spirituale" che contamina la cultura, la società, l'economia, i comportamenti individuali". Così razzismo e antisemitismo costituiscono un dato culturale intrinseco a una interpretazione radicale e intransigente del fascismo, "nella quale confluiscono la razzizzazione del nemico politico, l'odio antiborghese, la visione cospirazionista del processo storico".
Cassata abbraccia la tesi dello storico inglese Roger Griffin che, per fornire una nuova sistemazione dei rapporti tra fascismo e modernismo, individua nel concetto di modernismo politico la chiave per superare la contrapposizione tra avanguardia e tradizionalismo. E alla luce di questa interpretazione anche lo scontro tra Interlandi e il futurista Marinetti non può essere visto, come sostenne Renzo De Felice, come una contrapposizione tra l'Italia antisemita e quella non antisemita, perché "tanto in Interlandi quanto in Marinetti, seppure in forme antagoniste, l'ebreo si configura come lo stereotipo negativo del mito dell'italianità e della modernità dell'arte fascista".
In questo ampio contesto di demonizzazione dell'ebreo, ancor prima della nascita di "La difesa della razza", alcune prese di posizione di Interlandi e di altri razzisti suscitano le proteste della Chiesa, che critica l'uso dell'antigiudaismo cattolico del passato come una delle giustificazioni dell'antisemitismo fascista. Una forzata contiguità attraverso la quale la propaganda del regime vuole raggiungere un obiettivo politico: mettere in difficoltà gli ambienti cattolici, ponendoli in posizione di difesa. L'offensiva è affidata principalmente al già citato Sottochiesa, che si addentra in discutibili interpretazioni bibliche e teologiche con l'azzardato e spesso maldestro intento di dimostrare una possibile conciliazione tra razzismo fascista e cattolicesimo.
"L'Osservatore Romano" risponde diverse volte a tali provocazioni non riconoscendo nel razzismo fascista il tanto declamato ritorno alla civiltà. Anzi "l'insistenza della rivista sul tema "razza e cattolicesimo" - rileva Cassata - produce l'irritata reazione della Segreteria di Stato del Vaticano, la quale denuncia presso la Regia Ambasciata d'Italia le "gravi offese alla Religione Cattolica"". "La Santa Sede - si legge nella nota del 20 marzo 1939 - non può non preoccuparsi seriamente del dannoso influsso che la rivista, già largamente diffusa soprattutto fra le istituzioni scolastiche, verrà ad avere sulle coscienze cattoliche, ingenerando in esse massime in contrasto con la dottrina cattolica".
Ma ancora prima non erano mancate dure prese di posizione. Nel 1937, ad esempio, il libro Il razzismo di Giulio Cogni, che diverrà una delle firme della rivista, è oggetto di un decreto di condanna da parte della Sacra Congregazione del Sant'Uffizio; decreto nel quale il vescovo Hudal, rettore del Collegio tedesco di Santa Maria dell'Anima a Roma, rileva che il libro "è pieno delle idee di Rosenberg", l'ideologo del nazismo, e rappresenta un "primo tentativo del razzismo germanico di entrare anche nelle file del Fascio".
Gli ebrei non furono gli unici bersagli di Interlandi e delle testate da lui dirette. Ben prima della pubblicazione del "Manifesto della razza" e della stessa guerra d'Etiopia egli usa concetti come "degradazione negroide" e "meticciato", con il supporto di filosofi, antropologi e fisiologi compiacenti e compiaciuti delle loro vergognose teorie.
L'esperienza di "La difesa della razza" terminò il 20 giugno 1943, ed è questa la data utilizzata da Cassata per il suo lavoro, ma essa segna tuttavia la fine delle vicende del direttore Interlandi e dei suoi collaboratori. Molti di loro, e lo stesso Interlandi, manterranno un ruolo di rilievo nella Repubblica di Salò. E anche dopo la guerra per alcuni non ci fu una cesura netta con il passato e questo non compromise certo carriere politiche o accademiche, proseguite "spesso non rinunciando a manifestare il proprio perdurante odio antiebraico e antinero".
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
UE/ I "nuovi diritti", cavallo di Troia per distruggere la tradizione - Mario Mauro - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Ci sono casi in cui le convenzioni internazionali esercitano con forza un’azione che punta a sradicare la cultura giuridica di un paese. Negli ultimi 50 anni, anche a livello europeo, abbiamo avuto la prova di questo tentativo di introdurre, talvolta anche forzatamente, i cosiddetti “nuovi diritti”. La conferma ci arriva proprio in questi giorni in cui il Parlamento europeo, sovvertendo le urgenze d’intervento iscritte nelle agende internazionali, sta discutendo attorno ad una risoluzione del 14 gennaio scorso. Una dimostrazione di cui, francamente, non avevamo bisogno.
Da tempo la miglior dottrina giuridica denuncia l’esistenza di un alto rischio che la costruzione della casa comune europea avvenga non nel rispetto delle specificità nazionali o, meglio, “dell’identità nazionale degli Stati membri”, ma alla stregua di un centralismo, di stampo ottocentesco, che impone da Bruxelles le proprie ideologie nei confronti delle varie realtà locali. Con essa, ricorrendo al pretesto di una verifica sullo stato di attuazione dei diritti umani nel territorio dell’Unione europea, si cerca di stravolgere il significato e la portata originaria dei diritti dell’uomo, in contrasto con una visione personalistica che ha costituito il fondamento delle Carte costituzionali contemporanee, tra cui quella italiana.
Le competenze delle istituzioni comunitarie sono segnate con precisione nei Trattati che si sono susseguiti nel corso degli anni a fondamento dell’Unione europea. Lascia, pertanto, stupefatti il tentativo operato dal Parlamento di travalicare tali chiarissimi limiti, ribaditi, da ultimo, anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Se queste tendenze egemoniche delle Istituzioni comunitarie non mutano è inevitabile che si diffondano negli Stati membri reazioni analoghe a quelle del popolo irlandese, con prevedibili conseguenze in ordine al fallimento del processo di integrazione. Quest’ultimo, per essere rilanciato, necessita di attente operazioni “dal basso”, volte a restaurare il primato della “orbis civilis nostrae Europae communicationis” e non certo di imposizioni verticistiche di determinate ideologie come quelle legate al concetto di identità di “genere” o di “diritti riproduttivi”.
Si è venuta ad affermare una giurisprudenza che ha cambiato il concetto di vita e di persona. Gli strumenti attraverso i quali è stata compiuta questa forzatura si ricollegano spesso al metodo nominalistico. Si elabora cioè la decisione di non chiamare più le cose con il proprio nome e svuotare con di significato quelle che possono essere aree di conflitto della giurisprudenza per favorire la diffusione di tali strumenti. Così facendo non si parla più di diritto alla vita, all’accoglienza della vita e della maternità, ma si parla di diritti della salute riproduttiva. Quando in una civiltà si ridenominano le cose, si cambia il significato delle cose. Nel momento della ridenominazione, effettuata soprattutto nelle carte internazionali, nei documenti prodotti spariscono i riferimenti fondamentali ai valori della famiglia (com’è peraltro avvenuto in Spagna con i termini padre e madre) o si addolciscono i termini che rimandano alle pratiche abortive o eutanasiche.
Ho esaminato punto per punto la risoluzione, proponendo in più parti emendamenti volti a modificare gli interventi contro il diritto e svelare le ambiguità. È significativo il fatto che l’Unione europea abbia ripreso gli Stati membri che continuano “a sottrarsi ad un controllo comunitario delle proprie politiche e pratiche in materia di diritti dell’uomo e cerchino di limitare la protezione di tali diritti ad un quadro puramente interno”. È chiaro che l’intenzione è quella di minare alla capacità di controllo sui diritti da parte degli Stati che dovrebbero così smettere di occuparsi di diritto alla salute, di famiglia, di previdenza sociale. Il ruolo degli Stati nella tutela dei diritti verrebbe così diminuita contrariamente a quanto si legge nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La risoluzione si preoccupa anche che il rispetto di tali diritti sia garantito anche all’interno delle “istituzioni chiuse”, pretendendo così di esercitare una funzione di controllo e vigilanza nei luoghi in cui si svolge la vita sociale della gente, ovvero associazioni, chiese, famiglia in primis. Il termine volutamente generico fa capire come si cerchi di non scoprire le carte e, quindi, le reali intenzioni.
Il caso emblematico di ciò che sta accadendo a livello internazionale riguarda il tema della “salute riproduttiva”. È stata in questo caso adottata la tecnica del livellamento perché in alcuni paesi non accettare di promuovere legislazioni abortiste significa non ricevere gli aiuti internazionali. Un metodo poco democratico di costringere i Paesi ad adottare tali provvedimenti.
Abbiamo avuto secoli in cui la giurisprudenza ha fatto il suo percorso intellettuale e individuale; oggi la ragione di stato è molto più incidente sulla vita della giurisprudenza di quanto non fosse in passato. Se il profilo degli accordi internazionali può snaturare la cultura giuridica di un paese a tal punto di implicare che a costituzione vigente non vale quella costituzione bensì un’altra legge, questo indica la complessità del momento giuridico e internazionale. Oggi, purtroppo, come principio generale la giurisprudenza italiana ha accettato che gli accordi internazionali vengono prima di alcune leggi, teoricamente non della costituzione.
In generale, se dovessimo riassumere il percorso evolutivo dei diritti segnalati prima, dal 1948 ad oggi abbiamo avuto tre passaggi chiari: In primo luogo c’è stato un’evoluzione del diritto alla vita che è sfociato alla generazione dei cosiddetti diritti della salute riproduttiva. Poi, la trasformazione dei diritti d’uguaglianza dove la tematica del genere, relativa al principio di non discriminazione, ha avuto una parte da protagonista. Infine ci si è soffermati sui diritti di espressione.
Come noto, con il primo concetto, e cioè quello di genere, si cerca di introdurre l’idea che gli uomini e le donne non sono tali per determinate caratteristiche naturali, ma solo in forza di una scelta culturale, come tale sempre mutabile. L’accoglimento di una tale ideologia porta a introdurre, surrettiziamente, un “matrimonio” tra persone dello stesso sesso, dal momento che sarà sufficiente che una persona affermi di essere del genere opposto rispetto a quello del partner per poter chiedere il matrimonio, come avviene oggi in Spagna. Quanto al secondo concetto, e cioè quello di “diritti riproduttivi”, esso costituisce il cavallo di Troia per l’affermazioni di politiche antidemografiche ed eugenetiche.
Quanto sia illiberale l’imposizione di tali ideologie attraverso un uso distorto delle Istituzioni comunitarie, ben al di là delle loro competenze, è comprovato dal tentativo di ricomprendere nella risoluzione anche quelle che, con un’operazione di vera e propria manipolazione terminologica, vengono definite “istituzioni chiuse”. Con tale termine , come evidenziato ieri da Marta Cartabia, si vogliono intendere “i luoghi dove si svolge la vita sociale della gente”, dalle scuole agli ospedali, dalle parrocchie alle associazioni.
I diritti dell'uomo, nella prima e piena formulazione, fotografano tutto quello che è irrinunciabile. Il primo dei diritti che si afferma è il diritto all'esistenza, il diritto alla vita. La vita è principio imprescindibile affinché l'uomo possa affermare la propria umanità. Se non è tutelata, non ci sarà nessun compimento della legge.
Oggi c'è la tendenza a fare della teoria del diritto una sorta di supermarket dei diritti, in cui i diritti finiscono col configgere e creare questa dispersione dell’umano, in cui nessuno si sente tutelato. Questa è la frontiera estrema di un complesso di norme che erano state generate per uno scopo ma che poi ne hanno raggiunto un altro. Chi si forma nella giurisprudenza deve avere il desiderio di riannodare dei fili. La casistica è minima, ma potremmo fare una lunghissima teoria di casi insoluti che sono alla cronaca da molto tempo.
In sostanza, mediante un’operazione esclusivamente politica, si cerca di imporre il rispetto d’ideologie di parte anche alle Chiese, alle comunità religiose, alle famiglie, secondo un’opera di propaganda che non solo contrasta con il principio di sussidiarietà, nelle sue dimensioni orizzontale e verticale, ma ricorda metodi e prospettive dei peggiori totalitarismi.
USA/ L’aborto, una questione non politica - Lorenzo Albacete - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Il 23 gennaio del 1974 partecipai a Washington alla prima “Marcia per la vita” per protestare contro la decisione di un anno prima della Corte Suprema (Roe vs. Wade), che aveva sancito come diritto costituzionale il procurare o effettuare aborti. A quel tempo l’atmosfera alla Marcia era piena di speranza e l’approvazione di un emendamento costituzionale per annullare la sentenza Roe vs. Wade appariva possibile a molti.
Quest’anno, trentaquattro anni dopo, l’atmosfera della Marcia era quella di un atto di testimonianza molto più che di strategia politica. L’elezione a presidente di Barack Obama, sostenitore della Roe vs. Wade (la cui costituzionalità è stata riaffermata dalla Corte Suprema), rende improbabile che la causa del movimento antiabortista trovi molti appoggi a livello politico. In effetti, la maggioranza degli americani sembra del tutto a suo agio con la legalizzazione dell’aborto.
Il giorno dopo la Marcia, il presidente Obama ha revocato il divieto dell’Amministrazione Bush di concedere finanziamenti federali a organizzazioni internazionali che promuovono l’aborto. Questo divieto fu introdotto da Ronald Reagan, rimosso da Carter, imposto di nuovo da Bush senior, cancellato da Clinton (nello stesso giorno della Marcia), ristabilito da Bush junior (nel giorno della Marcia) e ora annullato da Obama, mantenendo una promessa elettorale fatta alla sinistra del Partito Democratico. Il presidente Obama ha aspettato il giorno dopo la Marcia per emanare il suo provvedimento (e senza alcuna pubblicità alla sua firma), come gesto di rispetto, ha dichiarato, per il movimento antiabortista.
La posizione di Obama non è una sorpresa. Dopotutto, non vi è nessuna indicazione nella sua educazione che gli sia mai stato insegnato come affrontare in modo critico questo argomento. Sebbene cristiano battezzato, ha scelto di identificarsi in quanto tale solo in età adulta, sotto l’influenza di una comunità ecclesiale senza alcuna tradizione di una morale basata sulla “legge naturale”, ma piuttosto sull’enfatizzazione degli aspetti di giustizia sociale, occupandosi di discriminazione razziale e povertà seconda una secolarizzata ideologia progressista.
Nel periodo in cui si definiva un nero “americano”, l’influenza delle comunità battiste fondamentaliste nere si era indebolita parecchio, soprattutto nel Nord. La sua vita ecclesiale era essenzialmente la branca religiosa afroamericana della politica del Partito Democratico. Quando i ministri religiosi neri e i leader religiosi (come Jesse Jackson) abbandonarono le loro convinzioni religiose pro-life per essere accettati dal Partito, la causa liberal divenne essenzialmente pro aborto.
E poi c’erano i Democratici cattolici i quali, nella Chiesa divisa dalla condanna della contraccezione, trovarono preti, religiosi e teologi che li portarono a credere che potevano rimanere buoni cattolici senza opporsi alle politiche del loro partito in favore dell’aborto (solo qualche giorno fa, di fronte alle critiche anche di alcuni progressisti, la cattolica Nancy Pelosi ha difeso la promozione della contraccezione come componente necessaria del piano dell’Amministrazione per rivitalizzare l’economia).
I cattolici anti-aborto sono stati costretti a rifugiarsi tra le accoglienti braccia dei Repubblicani, ma nell’attuale disordine e tentativo di riposizionamento del Partito Repubblicano appare chiaro come, per attrarre i Democratici contrari all’aborto, molti Repubblicani avessero nascosto le loro posizioni in favore dell’aborto. Così, il movimento anti-aborto è rimasto senza una casa politica e, forse, questo si rivelerà una benedizione. Per ora, si tratta veramente in primo luogo di una questione di testimonianza piuttosto che di politica di partito.
ELUANA/ La proposta del Pdl: sì alla scelta delle cure, no alla scelta della morte
INT. Raffaele Calabrò
mercoledì 28 gennaio 2009
È approdato in commissione Sanità al Senato il dibattito sul testamento biologico (o dichiarazione anticipata di volontà). Proprio nei giorni in cui gli eventi sul caso Englaro si susseguono senza sosta, dalla decisione del Tar contro la Regione Lombardia alle ipotesi di una nuova Casa di cura di Udine disposta ad accogliere Eluana, il procedere del dibattito in sede legislativa potrebbe arrivare in tempo brevi a dire una parola definitiva su tutta la vicenda.
Relatore del ddl di maggioranza è il senatore Raffaele Calabrò (Pdl), il quale spiega che ogni ipotesi di autodeterminazione del paziente, di cui si discute in parlamento, non può certo andare a coinvolgere quelli che sono gli elementi basilari del sostegno vitale di una persona.
Senatore, quali sono gli elementi più qualificanti del disegno di legge che la maggioranza propone su questo tema così delicato?
Gli elementi che meglio qualificano questo disegno di legge sono da una parte la decisione di legiferare sulla libertà e l’autodeterminazione del paziente rispetto a determinate cure; e dall’altra parte però l’affermazione del rispetto della vita come bene indisponibile, così come la Costituzione lo determina. L’articolo 32 della Costituzione, infatti, rende disponibile per una persona il fatto di scegliere le cure che deve fare per contrastare una determinata malattia o patologia. Questa è la libertà che la Costituzione riconosce e garantisce: il fatto di dire no a un determinato intervento o a una determinata terapia. Non dice invece nel modo più assoluto che si possa scegliere se vivere o morire; anzi, è necessario anche ricordare che il Codice penale vieta l’assistenza e la cooperazione al suicidio. L’alimentazione e l’idratazione non sono cure che vanno a intervenire su una malattia, ma sono piuttosto elementi di sostegno vitale di una persona. Se noi facessimo a meno di questo ci troveremmo ad avere scelto tra vivere o morire, e non tra il fatto di accettare o non accettare una cura.
Come si sta svolgendo il dibattito parlamentare su questo tema, sia all’interno della maggioranza, sia in rapporto all’opposizione?
Per quanto riguarda le posizioni interne alla maggioranza, abbiamo avuto diversi incontri e occasioni di confronto: naturalmente esistono posizioni diverse, ma la stragrande maggioranza di noi è d’accordo sul testo che viene presentato. Per quanto riguarda i rapporti con l’opposizione, dai dibattiti che ci sono stati nei mesi precedenti è emerso chiaramente che c’è una parte del Pd che condivide la posizione espressa nel testo da noi presentato, e che apprezza quanto da noi previsto in materia di alimentazione e idratazione. L’auspicio personale che esprimo è che si possa arrivare anche a un testo migliorato rispetto al testo base da noi proposto, proprio con l’apporto anche di contributi che vengono dall’opposizione, naturalmente nell’ambito dei principi che ispirano il testo stesso.
Un altro elemento importante del ddl di maggioranza è l’affermazione della libertà e della responsabilità del medico: qual è il significato di questa sottolineatura?
Il ruolo del medico è un ruolo forte, perché è la persona che deve rappresentare consapevolmente la verità critica, che la medicina in quel momento è in grado di offrire al paziente. Come quando si va dal medico, ed egli spiega di volta in volta, di fronte a una determinata malattia, quali sono le medicine da assumere e le modalità per farlo, allo stesso modo, quando si fa il testamento biologico e le dichiarazioni anticipate, bisogna prevedere che ci potrà essere un momento in cui la medicina si sarà evoluta e modificata. Il medico ha dunque il dovere di farsi carico di questo e di renderlo manifesto; ma non potendo presentare questa situazione a una persona che magari non è più cosciente, lo dovrà fare nei confronti del fiduciario, che ha assunto le volontà del dichiarante proprio per renderle operative e attuali insieme alla consulenza del medico.
Come giudica la decisione del Tar della Lombardia di annullare il provvedimento della direzione sanitaria lombarda sul caso Englaro?
Si tratta di un altro episodio di una lunga catena di eventi, che non fanno altro che evidenziare un’unica urgenza: dobbiamo lavorare in tempi rapidi per giungere al termine di questo iter legislativo. Non possiamo continuare a rimanere alla mercè della valutazione di un giudice piuttosto che di un altro, tutte basate su considerazioni che non hanno un fondamento legislativo di riferimento.
La decisione del Tar della Lombardia entra in conflitto con l’atto del ministro Sacconi?
L’indirizzo del ministro Sacconi è un atto chiarissimo e assolutamente corretto nella sua esposizione; come tale mantiene intatta tutta la sua validità e non viene minimamente toccato dalla decisione del Tar della Lombardia.
Ritiene che in tutte queste vicende giudiziarie ci sia stata invasione di campo da parte della magistratura nei confronti della politica?
Io penso che il parlamento avrebbe dovuto legiferare prima, e che questo episodio di Eluana Englaro ha quanto meno l’effetto positivo di aver dato una forte accelerazione in questo senso. Purtroppo è una vicenda con molti elementi negativi e lati oscuri; però è servita a farci capire che è il momento di arrivare a una legge. Diciamo che è stata negativa l’interferenza della magistratura, ma positivo l’effetto che si è generato.
La conclusione dell’iter legislativo in corso in che modo influenzerà il destino di Eluana Englaro?
Se viene approvato l’impianto del nostro ddl, per i casi analoghi a quelli di Eluana Englaro è previsto un trattamento assolutamente identico a quello che Eluana adesso sta ricevendo, vale a dire l’accoglienza in una struttura esattamente come quella in cui la ragazza viene ora accudita. Ciò su cui bisogna lavorare è dunque il potenziamento delle cure palliative e delle cure del dolore, nonché la crescita del sistema sanitario dal punto di vista degli hospice e dell’assistenza domiciliare, cioè l’assistenza ai disabili, anche gravi. La situazione attuale di Eluana, comunque, non verrebbe modificata da nessun tipo di legge, perché tutti i progetti al vaglio prevedono comunque una dichiarazione scritta, che in questo caso manca.
LETTURE/ Il san Tommaso di Chesterton, quando la ragione è “degna di fede” - Pigi Colognesi - mercoledì 28 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Oggi è la festa di san Tommaso d’Aquino. Non è facilmente immaginabile che, per celebrarlo, qualcuno vada a leggersi un paio di articoli della gigantesca Summa. Semmai, qualche zelante potrebbe aver voglia di riguardarsi le pagine a lui dedicate sul suo manuale di filosofia. Del resto, quelli più recenti gli dedicano sempre meno spazio. Ma c’è una strada più agile e perfino divertente. Leggersi il ritratto che al grande filosofo e teologo del XIII secolo ha dedicato la penna arguta e ficcante di Chesterton (edizioni Lindau).
Il creatore di padre Brown ammette subito di non essere un filosofo competente. E questo per il lettore è un vantaggio, in quanto anche i contenuti più ardui gli sono resi accessibili da una scrittura brillante e molto evocativa. Pur non essendo filosofo, Chesterton ha un obiettivo squisitamente filosofico nel suo ritratto: far capire la grandiosa «svolta» che il monaco domenicano ha prodotto nel pensieri cristiano e occidentale in genere. Una svolta paragonabile a quella realizzata qualche decennio prima su un altro versante da san Francesco, cui lo stesso Chesterton aveva dedicato un precedente volume.
In cosa è consistita questa svolta? «Tommaso d’Aquino è stato uno dei maggiori artefici dell’emancipazione dell’intelletto umano… L’essenza della dottrina tomistica è che la ragione è degna di fede». Tommaso, infatti, si oppone radicalmente ad ogni scetticismo e ad ogni dualismo tra pensiero e realtà. Realtà sempre in primo piano nella sua riflessione e mai piegata alla tirannia delle idee o alla corrosione di una spiritualità evanescente. Qui sta il valore della sua riscoperta di Aristotele, che gli ha permesso di «salvare l’elemento umano nella teologia cristiana… Il suo aristotelismo significava semplicemente che lo studio dei fatti più insignificanti portava allo studio delle verità più importanti». Ne consegue l’inossidabile «ottimismo» che, secondo Chesterton, attraversa tutte pagine dell’Aquinate: «Nessuno può capire la filosofia tomista, e neanche la filosofia cattolica, a meno che non si renda conto che la sua parte fondamentale è la lode della Vita, la lode dell’Essere, la lode di Dio in quanto creatore del mondo».
Chesterton non si nasconde, anzi enfatizza, il fatto che l’impostazione tomista è oggi, dopo il trionfo di una visione pessimista e scettica, del tutto impopolare e persino difficile da comprendere. Proprio per questo egli cerca di rendere accessibili alcuni principio basilari del modo di ragionare di san Tommaso. Memorabili al riguardo le pagine in cui Chesterton spiega il significato della parola Ens, partendo dalla costatazione del prato verde fuori dalla finestra fino a giungere alla constatazione della diversità delle cose, alla loro non eternità (che non ne cancella l’essere), a Dio. «Il bambino è consapevole dell’Ens. Molto prima di sapere che l’erba è erba, e che lui è lui, sa che qualcosa è qualcosa. È su questa inezia che Tommaso costruisce tutto il lungo processo logico, che nessuno è mai riuscito a contestare, su cui fonda tutta la logica della cristianità».
Il ritratto chestertoniano non è però un trattato di filosofia in pillole. I tratti umani e spirituali di san Tommaso sono tracciati con estrema vivezza e con profonda arguzia sono contrapposti a tanti nostri modi di penare irragionevoli. Molti sono gli episodi narrati e uno merita di essere ricordato. Narrano i biografi del santo che una volta la voce di Dio chiese a san Tommaso una ricompensa per il suo grande lavoro. «Lui – annota Chesterton - non era una persona che non voleva nulla; era una persona enormemente interessata a tutto… Tra le migliaia di cose che avrebbero veramente soddisfatto il suo vasto e gagliardo appetito per l’immensità e la vastità dell’universo… Tommaso, con un’audacia quasi blasfema che è tutt’uno con l’umiltà della sua fede, disse: “Voglio avere Te”».
IL TAR OLTRE IL DIRITTO POSITIVO - SENTENZA FORZA I TERMINI DELLA QUESTIONE - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 28 gennaio 2009
Il Tar della Lombardia prende posizione sul caso di Eluana Englaro, annullando l’atto con cui la Regione Lombardia si era rifiutata di accoglierla nelle proprie strutture, per farla 'morire dolcemente' (cioè per sottoporla a 'eu-tanasia'). È giusta questa sentenza? Assolutamente no (se sia 'valida' o come se ne possa accertare la 'validità' è questione che lascio volentieri ai dibattiti dei giuristi). Perché questa sentenza è ingiusta? Perché prende posizione (con accenti indebitamente perentori) su di una delicatissima questione biogiuridica e ancor più bioetica, ignorandone gli aspetti problematici, forzando i termini della questione e lo stesso dettato del diritto positivo.
Se infatti è vero che è diritto di ogni persona quello di non essere sottoposta a trattamenti sanitari obbligatori (se non nei casi previsti dalla legge), perché questo (ma questo soltanto!) dispone l’articolo 32, secondo comma, della Costituzione, non è vero che questo diritto possa automaticamente essere interpretato come un diritto a prestazioni mediche che favoriscano l’eutanasia passiva. Il malato, ancorché gravissimo (purché maggiorenne e capace di intendere e di volere) può certamente rifiutare (se debitamente informato) l’ospedalizzazione e qualsiasi atto medico o chirurgico che gli venga proposto: non può però pretendere che medici e sanitari abbiano il dovere di operare attivamente per dare attuazione alla sua volontà di eutanasia. Sbagliano i magistrati, quando sostengono che cessare di alimentare Eluana non implichi l’eutanasia, ma solo il rispetto per una sua scelta insindacabile: rispettare una scelta, infatti, non comporta il dovere di cooperare con chi la compie per aiutarlo nel realizzarla, quando si ritiene che tale scelta sia eticamente e socialmente criticabile, oltre che deontologicamente problematica (e soprattutto quando si abbiano legittimi dubbi che la scelta sia veramente tale: siamo certi che Eluana fosse realmente informata, in modo adeguato e completo, di cosa comporta la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, di quanti giorni sono necessari per morire?). È indubbio che sia i singoli medici sia la sanità come istituzione hanno dovere di rispettare la volontà di chicchessia di non curarsi, ma è altrettanto indubbio che non possono diventare destinatari di un dovere di aiutare un paziente a morire: lo proibisce non solo l’etica medica, ma lo stesso diritto penale, quando sanziona l’aiuto al suicidio. Ma il Tar pensa il contrario e sembra non rendersi conto che questa sua pronuncia, come altre che l’hanno preceduta, feriscono gravemente lo statuto della medicina ippocratica. Non è certo questa la prima volta che l’astratto (e formalmente valido) ragionamento di un giudice fa violenza alla giustizia e non sarà certo questa l’ultima volta in cui saremo costretti a rilevarlo. L’importante è che non si pensi che in tal modo si accendono nuove inutili polemiche; qui non stiamo confondendo diritto e morale (come qualcuno si ostina a sostenere), ma stiamo difendendo il diritto e la sua vocazione prioritaria, che è la difesa della vita, contro la pericolosissima deformazione ideologica, di chi vuole ridurlo a tecnica di (dolce!) regolamentazione burocratica della morte.
Ecco perché il Parlamento (di cui il Tar in questa sentenza rileva l’inerzia, con accenti che mi sembrano molto inopportuni) ha il dovere di intervenire con la massima rapidità per approvare una legge sulla fine della vita umana e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, una legge che risponda a minimi requisiti di giustizia. È essenziale che la legge, nel riconoscere il diritto al dichiarante di chiedere o rifiutare specifici trattamenti sanitari, escluda quelli attivamente o passivamente eutanasici (e la sospensione dell’alimentazione è eutanasia!). Ed è altrettanto essenziale che la legge indichi i criteri per un rigoroso accertamento dell’autentica volontà del dichiarante e della sua compiuta competenza e informazione.
Accanto a questi requisiti un altro è assolutamente indispensabile, per strette ragioni di giustizia: una volta imposto al medico, destinatario delle dichiarazioni, il dovere di prenderle rigorosamente in considerazione, gli si deve riconoscere altresì il diritto di disattenderle, con adeguata motivazione, quando egli ritenga in scienza e coscienza che esse vadano contro il bene del malato, quel bene che egli si è impegnato con un giuramento a tutelare, sempre e comunque.
Eluana, è scontro fra Lombardia e Tar - Formigoni: non fanno leggi. La replica: noi corretti - DA MILANO DAVIDE RE – Avvenire, 28 gennaio 2009
C aso Eluana Englaro. È scontro tra Tribunale amministrativo regionale e Regione Lombardia. Il Tar intima al Pirellone di « mettere a disposizione una struttura sanitaria » , nella quale la giovane donna sia avviata alla morte.
La Regione dice no. « Abbiamo 60 giorni – ha detto il presidente della Lombardia Roberto Formigoni – per decidere il ricorso contro il Tar al Consiglio di Stato e senz’altro in questi 60 giorni non procederemo all’esecuzione di una sentenza che ci sembra aberrante». La Lombardia non indicherà quindi nessuna struttura. «Non intendiamo, almeno per il momento, ottemperare alle indicazioni della sentenza. Se fossimo noi ad eseguire la sentenza – ha spiegato Formigoni – potremmo essere chiamati a giudizio così come se un medico eseguisse la sentenza potrebbe trovare chi lo chiama in giudizio a rispondere di atti non conformi alla legge » . E ieri al Pirellone la giunta regionale, come richiesto anche dal ministro Maurizio Sacconi, ha discusso la sentenza del Tar sul caso Englaro. « A 24 ore dalla sentenza del Tar – ha sintetizzato Formigoni – non posso che confermare la convinzione già espressa che si tratti di un sentenza contraddittoria sotto molti punti di vista. Innanzitutto, non si può decidere della vita e della morte di una persona per via giudiziaria e tanto meno per via amministrativa. Inoltre, non esiste una legge su cui fondare questa deliberazione » . Ma il Tar lombardo non ci sta e replica. « Noi siamo interpreti della legge e la ap- plichiamo secondo scienza e coscienza » , ha detto l’avvocato Piermaria Piacentini, presidente del Tar della Lombardia. « La legge non c’è – ribatte ancora il governatore lombardo – . Quale legge ha applicato il Tar? Quale legge dovrebbe applicare la Regione Lombardia se la legge non c’è? Sarebbe bene che qualcuno provvedesse a ribadire che l’ordinamento costituzionale italiano è in pieno vigore ricordando a tutte le magistrature, a partire da quella amministrativa, che il compito non è quello di innovare facendo leggi, neppure in presenza di un ipotetico vuoto legislativo » . E proprio sul ' vuoto legislativo' di cui si parla in questi giorni, Formigoni ha inoltre invitato a tenere presente che « è il Parlamento che decide quali leggi fare e quando farle; ci sono innumerevoli materie non regolate da leggi ed è giusto che sia così » .
Non solo, il caso Eluana non è da valutare nella sua esclusività, ma riguarda anche altre persone che sono in condizioni simili e che l’altro ieri l’assessore alla Famiglia Giulio Boscagli ha ricordato essere 480 nella sola Lombardia. « Va sempre rammentato – ha detto ancora il presidente della Lombardia – che stiamo discutendo di un tema di fondamentale importanza, che riguarda la nostra identità e cioè se sia lecito o meno dare la morte ad una persona, che pure in stato di incoscienza non smette di essere una persona. Per quanto riguarda in particolare Eluana Englaro stiamo parlando di una donna che non è sottoposta a cure intensive e che vive in una condizione che nessuno è in grado di dire con assoluta certezza irreversibile. Qui si chiede di togliere alimentazione e idratazione a una persona, cosa che condurrebbe chiunque a morte certa » .
E se il padre di Eluana decidesse di dare attuazione lui alla sentenza la Regione metterebbe in atto misure per opporsi? «No – ha concluso Formigoni – noi non intendiamo minimamente interferire nelle scelte delle persone e del padre di Eluana in particolare; certamente non possiamo essere obbligati a fare noi quello che nessuna legge ci impone di fare; anzi, chi decidesse di agire nel senso indicato dalla sentenza potrebbe essere chiamato in giudizio » .
La Giunta regionale discute ma non decide il ricorso al Consiglio di Stato Il governatore lombardo: non ottemperiamo alle indicazioni di questa sentenza aberrante. Se un medico la eseguisse, potrebbe essere chiamato in giudizio