domenica 18 gennaio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 18/01/2009 12.18.43 – All'Angelus, l'appello del Papa per la pace in Terra Santa
2) 18/01/2009 11.30.44 – “La famiglia ha il diritto di essere riconosciuta nella propria identità”: così, il Papa nel video messaggio per l’Incontro mondiale delle famiglie di Città del Messico – Radio Vaticana
3) 17/01/2009 12:39 - VATICANO – TERRA SANTA - Papa invia sostegno ai cristiani di Gaza - Benedetto XVI ribadisce la solidarietà alle popolazioni e in particolare ai cattolici della Striscia. Aiuto economico per il parroco di Gaza, le Missionarie di Madre Teresa e altre congregazioni religiose che operano al “servizio delle persone più vulnerabili”.
4) Famiglia e sessualità - CITTA’ DEL MESSICO, sabato, 17 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato il 15 gennaio, nel contesto del VI Incontro Mondiale delle Famiglie, in corso a Città del Messico, dalla dott.ssa Maria Luisa Di Pietro, professore associato di Bioetica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e presidente dell'associazione “Scienza&Vita”.
5) IL CASO - San Paolo e Seneca si incontrarono? di Gian Enrico Manzoni - Avvenire 15 Gennaio 2009
6) Siglata un'intesa tra lo Stato ebraico e Washington per bloccare il traffico di armi a Gaza - Israele pronto alla tregua unilaterale Ma intanto continua a colpire – L’Osservatore Romano, 18 Gennaio 2009
7) Intervista a Mario Mauro, rappresentante dell'Osce contro le discriminazioni religiose - Un'Europa troppo laicista per difendere i cristiani - di Gabriele Nicolò – L’Osservatore Romano, 18 Gennaio 2009
8) La morte di Olivier Clément - Credo dunque sono (libero) - di Adriano Dell'Asta – L’Osservatore Romano, 18 Gennaio 2009
9) Dai primi discepoli ai giorni nostri l'itinerario che porta a Gesù Cristo - L'incontro tra storia e fede di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 18 Gennaio 2009
10) LE COLPE MAGGIORATE TRA ISRAELIANI E PALESTINESI - La specialità di questa guerra Tomba per l’infanzia - DON GIANCARLO CONTE – Avvenire, 18 gennaio 2009


18/01/2009 12.18.43 – All'Angelus, l'appello del Papa per la pace in Terra Santa – Radio Vaticana
Cari fratelli e sorelle!
Ricorre oggi la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Poiché quest’anno si celebra l’Anno Paolino, pensando proprio a san Paolo quale grande missionario itinerante del Vangelo, ho scelto come tema: “San Paolo migrante, Apostolo delle genti”. Saulo – questo il suo nome ebraico – nacque in una famiglia di ebrei emigrati a Tarso, importante città della Cilicia, e crebbe con una triplice cultura – ebraica, ellenistica e romana – e con una mentalità cosmopolita. Quando si convertì da persecutore dei cristiani in apostolo del Vangelo, Paolo divenne “ambasciatore” di Cristo risorto per farlo conoscere a tutti, nella convinzione che in Lui tutti i popoli sono chiamati a formare la grande famiglia dei figli di Dio.

Questa è anche la missione della Chiesa, più che mai in questo nostro tempo di globalizzazione. Come cristiani, non possiamo non avvertire il bisogno di trasmettere il messaggio d’amore di Gesù specialmente a quanti non lo conoscono, oppure si trovano in situazioni difficili e dolorose. Oggi penso particolarmente ai migranti. La loro realtà è senz’altro variegata: in alcuni casi, grazie a Dio, è serena e ben integrata; altre volte, purtroppo, è penosa, difficile e talora persino drammatica. Vorrei assicurare che la comunità cristiana guarda ad ogni persona e ad ogni famiglia con attenzione, e chiede a san Paolo la forza di un rinnovato slancio per favorire, in ogni parte del mondo, la pacifica convivenza tra uomini e donne di etnie, culture e religioni diverse. L’Apostolo ci dice quale fu il segreto della sua nuova vita: “Anch’io – egli scrive – sono stato conquistato da Cristo Gesù” (Fil 3,12); e aggiunge: “Fatevi miei imitatori” (Fil 3,17). Sì, ognuno di noi, secondo la propria vocazione e là dove vive e lavora, è chiamato a testimoniare il Vangelo, con una cura più grande per quei fratelli e sorelle che da altri Paesi, per diversi motivi, sono venuti a vivere in mezzo a noi, valorizzando così il fenomeno delle migrazioni come occasione di incontro tra civiltà. Preghiamo ed agiamo perché questo avvenga sempre in modo pacifico e costruttivo, nel rispetto e nel dialogo, prevenendo ogni tentazione di conflitto e di sopraffazione.

Desidero aggiungere una parola speciale per i marittimi e i pescatori, che vivono da qualche tempo maggiori disagi. Oltre alle abituali difficoltà, essi subiscono restrizioni per scendere a terra e accogliere a bordo i cappellani, come pure affrontano i rischi della pirateria e i danni della pesca illegale. Esprimo ad essi la mia vicinanza e l’augurio che la loro generosità, nelle attività di soccorso in mare, sia ricompensata da maggiore considerazione. Penso infine all’Incontro Mondiale delle Famiglie, che si conclude a Città del Messico, e alla Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani che inizia proprio oggi. Cari fratelli e sorelle, per tutte queste intenzioni vi invito a pregare, invocando la materna intercessione della Vergine Maria.

POST-ANGELUS

Continuo a seguire con profonda trepidazione il conflitto nella Striscia di Gaza. Ricordiamo anche oggi al Signore le centinaia di bambini, anziani, donne, caduti vittime innocenti dell’inaudita violenza, i feriti, quanti piangono i loro cari e coloro che hanno perduto i loro beni.

Vi invito, nello stesso tempo, ad accompagnare con la preghiera gli sforzi che numerose persone di buona volontà stanno compiendo per fermare la tragedia. Spero vivamente che si sappia approfittare, con saggezza, degli spiragli aperti per ripristinare la tregua e avviarsi verso soluzioni pacifiche e durevoli.

In questo senso, rinnovo il mio incoraggiamento a quanti, da una parte come dall’altra, credono che in Terrasanta ci sia spazio per tutti, affinché aiutino la loro gente a rialzarsi dalle macerie e dal terrore e, coraggiosamente, riprendere il filo del dialogo nella giustizia e nella verità. E’ questo l’unico cammino che può effettivamente schiudere un avvenire di pace per i figli di quella cara regione!

Inizia oggi la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, che si concluderà la prossima domenica 25 gennaio. Nell’emisfero sud, sulla scia del novenario indetto dal Papa Leone XIII alla fine del XIX secolo, la preghiera per l’unità dei cristiani si svolgerà tra l’Ascensione e la Pentecoste. Il tema biblico, invece, è comune a tutti. Quest’anno esso è stato suggerito da un gruppo ecumenico della Corea ed è tratto dal Libro del profeta Ezechiele: “Che formino una cosa sola nella tua mano” (Ez 37,17). Accogliamo anche noi questo invito e preghiamo con maggiore intensità perché i cristiani camminino in modo risoluto verso la piena comunione tra loro. Mi rivolgo particolarmente ai cattolici sparsi nel mondo affinché, uniti nella preghiera, non si stanchino di operare per superare gli ostacoli che ancora impediscono la piena comunione tra tutti i discepoli di Cristo L’impegno ecumenico è ancora più urgente oggi, per dare alla nostra società, segnata da tragici conflitti e da laceranti divisioni, un segno e un impulso verso la riconciliazione e la pace. Concluderemo questa Settimana di Preghiera nella Basilica Papale di San Paolo fuori le Mura con la celebrazione dei Vespri, domenica prossima, memoria della Conversione di San Paolo, il quale ha fatto dell’unità del corpo di Cristo un nucleo essenziale della sua predicazione.

La Diocesi di Roma celebra oggi la Giornata Diocesana della Scuola Cattolica. Saluto i responsabili, i dirigenti, i docenti, i genitori e gli alunni che sono qui convenuti. Cari amici, il servizio educativo della scuola cattolica è oggi più che mai prezioso, perché i bambini, i ragazzi e i giovani hanno bisogno di ricevere una valida istruzione all’interno di una visione coerente dell’uomo e della vita. Sono vicino con la mia preghiera a quanti insegnano e studiano nelle scuole cattoliche di Roma, e li incoraggio ad impegnarsi sempre per formare comunità educative ricche di valori umani e cristiani.


18/01/2009 11.30.44 – “La famiglia ha il diritto di essere riconosciuta nella propria identità”: così, il Papa nel video messaggio per l’Incontro mondiale delle famiglie di Città del Messico – Radio Vaticana
“La famiglia ha il diritto di essere riconosciuta nella propria identità” e di “poter contare sulla dovuta tutela”, perché ha una “funzione sociale essenziale”: sono le parole di Benedetto XVI, contenute in un video messaggio registrato per il VI Incontro mondiale delle famiglie, in corso a Città del Messico. Il video del Papa è stato trasmesso ieri pomeriggio - l’una di notte in Italia – durante la Veglia Mariana che si è svolta sul sagrato della Basilica di Nostra Signora di Guadalupe. Oggi, invece, è in programma la Messa conclusiva: a presiedere la celebrazione sarà il cardinale Tarcisio Bertone, in veste di Legato Pontificio, mentre il Papa interverrà in video collegamento ed annuncerà le date ed il luogo del prossimo raduno mondiale delle famiglie. La nostra emittente seguirà in diretta l’evento, a partire dalle ore 15.50. Ma torniamo al video messaggio del Papa, con il servizio di Isabella Piro: http://62.77.60.84/audio/ra/00146277.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00146277.RM

Erano numerose le famiglie cristiane provenienti dai cinque continenti che ieri hanno raccontato la loro esperienza, sul sagrato della Basilica di Nostra Signora di Guadalupe. Testimonianze che si sono alternate alla recita dei Misteri Gaudiosi del Rosario e che sono state – ha detto il Papa – come “un’eco e un riflesso nel nostro tempo della storia di Gesù e della sua famiglia”, perché “l’ambiente domestico è una scuola di umanità e di vita cristiana per tutti i suoi membri, con conseguenze benefiche per le persone, la Chiesa e la società”:
“En efecto, el hogar está llamado a vivir y cultivar el amor recíproco…”
“In effetti – ha aggiunto Benedetto XVI - il focolare domestico è chiamato a vivere e a coltivare l’amore reciproco e la verità, il rispetto e la giustizia, la lealtà e la collaborazione, il servizio e la disponibilità verso gli altri, specialmente verso i più deboli”.

E la famiglia deve essere “impregnata della presenza di Dio”, ha ricordato ancora il Papa, perché il Signore “sta certamente” con coloro che ascoltano la sua Parola e mettono in pratica i suoi insegnamenti:
“De este modo, se transforma y se mejora gradualmente la vida personal…”
“In questo modo, si trasforma e si migliora gradualmente la vita personale e familiare – ha ribadito il Pontefice - si arricchisce il dialogo, si trasmette la fede ai figli, si accresce il piacere di stare insieme, e il focolare domestico si unisce e si consolida ancora, come una casa costruita su una roccia (cf. Mt 7,24-25)”.

Di qui, l’importanza della preghiera, la cui forza permette alla famiglia di trasformarsi “in una comunità di discepoli e missionari di Cristo”, in cui “si annida, si trasmette e si irradia il Vangelo”:
“La familia cristiana, viviendo la confianza y la obediencia filial a Dios…”
“La famiglia cristiana – ha ricordato il Papa - vivendo la fiducia e l’obbedienza filiale a Dio, la fedeltà e l’accoglienza generosa dei figli, la cura dei più deboli e la disponibilità al perdono, si converte in un Vangelo vivo, che tutti possono “leggere” (Cf. 2 Co 3,2), in un segno di credibilità forse più persuasivo e capace di richiamare l’attenzione del mondo di oggi”.

E sono diversi gli impegni che Benedetto XVI ha affidato alla famiglia contemporanea: portare la sua “testimonianza di vita” e la sua “esplicita professione di fede” nella scuola e nelle associazioni, impegnarsi nella catechesi dei figli e nelle attività parrocchiali, soprattutto in quelle “preposte alla preparazione al matrimonio o rivolte in maniera specifica alla vita familiare”.
“La convivencia en el hogar, al mostrar que libertad y solidaridad…”
“La convivenza in casa – ha aggiunto il Papa - è un dono per le persone e una fonte di ispirazione per la convivenza sociale, perchè mostra che libertà e solidarietà sono complementari, che il bene di ciascuno deve contare sul bene dell’altro, che la richiesta di una giustizia severa deve essere aperta alla comprensione, e il perdono deve essere a favore di un bene comune”.

Poi, la sottolineatura forte che la famiglia è “cellula vitale della società, la prima e fondamentale risorsa per il suo sviluppo” e “l’ultimo rifugio” per coloro che le istituzioni non riescono a tutelare in modo soddisfacente:
“Por su función social esencial, la familia tiene derecho a ser reconocida…”
“Per la sua funzione sociale essenziale – ha affermato il Papa - la famiglia ha il diritto di essere riconosciuta nella propria identità e di non essere confusa con altre forme di convivenza, e anche di poter contare sulla dovuta tutela culturale, giuridica, economica, sociale, sanitaria e, più particolarmente, su un appoggio che, tenendo conto del numero dei figli e delle disponibilità economiche, sia tale da consentire la libertà dell’educazione e della scelta della scuola”. Chiedendo, quindi, lo sviluppo di una “cultura e una politica della famiglia” a favore delle famiglie stesse, Benedetto XVI ha incoraggiato le associazioni che promuovono l’identità e i diritti della famiglia, auspicando un loro maggiore coordinamento. Infine, l’appello a tutti a “collaborare con impegno ed allegria nella nobile causa della famiglia”, perché, ha concluso il Papa, “lavorare per la famiglia è lavorare per il futuro degno e luminoso dell’umanità”.


17/01/2009 12:39 - VATICANO – TERRA SANTA - Papa invia sostegno ai cristiani di Gaza - Benedetto XVI ribadisce la solidarietà alle popolazioni e in particolare ai cattolici della Striscia. Aiuto economico per il parroco di Gaza, le Missionarie di Madre Teresa e altre congregazioni religiose che operano al “servizio delle persone più vulnerabili”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Benedetto XVI ha espresso più volte “la Sua vicinanza ai nostri fratelli e sorelle che abitano nella Striscia di Gaza, i quali hanno già tanto sofferto a motivo del persistente conflitto che ha causato una grave crisi umanitaria”. È quanto si legge in un comunicato del Pontificio Consiglio Cor Unum, il quale informa che il Papa ha deciso di inviare “suo segno personale e concreto per aiutare e sostenere la piccola ma fervente presenza cattolica a Gaza”.
“Gli aiuti – prosegue la nota del Dicastero che ha il compito di realizzare le iniziative caritative del Pontefice – sono stati inviati a Padre Manuel Musallam, Parroco della Chiesa della Santa Famiglia, alle Missionarie della Carità e ad altre Congregazione religiose, che sono al servizio delle persone più vulnerabili nella terra natale di Gesù, ora tragicamente colpita dalla morte, dalla sofferenza, dai danni materiali, mentre le popolazioni versano lacrime che invocano la pace”.


Famiglia e sessualità - CITTA’ DEL MESSICO, sabato, 17 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato il 15 gennaio, nel contesto del VI Incontro Mondiale delle Famiglie, in corso a Città del Messico, dalla dott.ssa Maria Luisa Di Pietro, professore associato di Bioetica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e presidente dell'associazione “Scienza&Vita”.
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1. “Noi vogliamo in questa occasione - si legge al n. 22 della Lettera Enciclica Humanae vitae (HV) - richiamare l’attenzione degli educatori e di quanti assolvono compiti di responsabilità in ordine al bene comune dell’umana convivenza, sulla necessità di creare un clima favorevole all’educazione della castità, cioè al trionfo della sana libertà sulla licenza, mediante il rispetto dell’ordine morale” (HV, 22). “L’educazione della castità”, che è parte integrante dell’educazione della sessualità e della preparazione remota alla procreazione responsabile. Un richiamo fondamentale nell’Enciclica dedicata alla trasmissione della vita umana, che mette in evidenza come non sia possibile vivere una procreazione responsabile senza aver acquisito la capacità di orientare l'istinto sessuale al servizio dell'Amore e di integrarlo nello sviluppo personale. “L’educazione della castità”: un tema sul quale si è soffermato anche Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Evangelium vitae (EV): “Non ci si può, quindi, esimere dall'offrire soprattutto agli adolescenti e ai giovani l'autentica formazione alla castità, quale virtù che favorisce la maturità della persona e la rende capace di rispettare il significato sponsale del corpo” (EV, 97). “L’educazione della castità”, che richiede di creare un “clima favorevole” al suo sviluppo a fronte di una cultura fortemente condizionata dagli effetti dell’onda lunga della rivoluzione sessuale. D’altra parte, in un crescendo di frammentazione del significato della persona (divisa nelle sue componenti biologica, affettiva e spirituale), della sessualità (ridotta da dimensione strutturale a sola funzione genitale), della famiglia (non più declinata al singolare quanto piuttosto al plurale), della generazione umana (privata dell’humus della relazione interpersonale dei coniugi), non solo si è reso inutile parlare di castità ma addirittura “della castità” si è dimenticato il nome.

2. Per introdurre un discorso sulla castità è necessario chiarirne, innanzitutto, il significato. Il concetto di “castità” viene, infatti, collegato a un'immagine di sessualità - o per meglio dire di genitalità - negata e frustrata tanto da essere considerata “nociva” per l'amore. “Castità non significa affatto - si legge al n. 33 della Esortazione Apostolica Familiaris Consortio - né rifiuto né disistima della sessualità umana: significa piuttosto energia spirituale, che sa difendere l’amore dai pericoli dell’egoismo e dell’aggressività e sa promuoverlo verso la sua piena realizzazione”. La castità non è rifiuto della sessualità perché - se così fosse - si negherebbe una realtà che “[è] ricchezza di tutta la persona” (EV, 97); la castità non è disistima dei valori e delle esigenze della ses­sualità perché i valori, in quanto tali, sono da amare e le esigenze, se autentiche, sono da accogliere. “La castità - si legge nel documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia del 1995 - è l’affermazione gioiosa di chi sa vivere il dono di sé, libero da ogni schiavitù egoistica”. Ed ancora, scrive Karol Woytila in Amore e responsabilità: “la castità è la trasparenza dell’interiorità, senza la quale l’amore non è amore, e non può esserlo fino a che il desiderio di godere non viene subordinato alla disposizione ad amare in tutte le circostanze”. Questo perché la sessualità “non può restare soltanto una situazione soggettiva, in cui si manifestano le energie della sensualità o della affettività ridestate dalla tendenza sessuale, perché allora non raggiunge il proprio livello personale né può unire le persone. Perché possa unire veramente l'uomo e la donna e raggiungere il pieno valore personale bisogna che abbia una solida base nell'afferma­zione del valore della persona”.

La castità non conduce, dunque, né al disprezzo del corpo né alla svalutazione della vita sessuale, ma innalza il valore del corpo sessuato a livello del valore della persona. Questa disposizione o tendenza ad armonizzare le energie della sensualità e della affettività con il valore della persona viene definita “integrazione” e presuppone la capacità di autopossedersi e di autodominarsi Una manifestazione di questa capacità di integrazione è la continenza ovvero l'attitudine a controllare e orientare le pulsioni di carattere sessuale e le loro conseguenze: la continenza - scrive Giovanni Paolo II nella Catechesi del mercoledì 24 ottobre 1984 - “consiste nella capacità di dominare, controllare e orientare le pulsioni di carattere sessuale (concupiscenza della carne) e le loro conseguenze, nella soggettività psicosomatica dell’uomo. Tale capacità in quanto disposizione costante della volontà, merita di essere chiamata virtù”. Essere continenti non significa, dunque, esercitare un “cieco” con­trollo della concupiscenza e delle reazioni sensuali. Significa, piuttosto, agire alla luce della comprensione dei fini della sessualità: l'apertura ai più profondi valori della femminilità e della mascolinità nel­la sponsalità e l'autentica libertà del dono reci­proco delle persone. Solo in questo modo, la continenza aiuterà ad andare oltre il linguaggio delle parole e dei gesti per scoprire quel “linguag­gio ontologico” che è la vera ricchezza della persona e che si manifesta attraverso il significato nuziale del corpo.

3. Per un’adeguata comprensione del concetto di “castità” bisogna muovere dalla lettura dei valori e dei significati della sessualità. “La sessualità [è] ricchezza di tutta la persona”(EV, 97); “la sessualità - si legge al n. 3 del già citato documento del Pontifico Consiglio per la Famiglia - non è qualcosa di puramente biologico, ma riguarda piuttosto il nucleo intimo della persona”. La sessualità è ricchezza e dimensione strutturale della persona, ma anche capacità di entrare in relazione e in comunicazione con gli altri, “segno” e “luogo” dell’apertura, dell’incontro e del dialogo; la sessualità è espressione della persona intimamente orientata all’Amore e al dono, alla fecondità nella coniugalità e nella scelta verginale. La sessualità è, allora, più della genitalità e la genitalità acquista valore umano solo e nella misura in cui è integrata nell’unitotalità della persona. Dire che la sessualità è dimensione strutturale della persona non equivale, però, ad affermare che essa sia l’unica dignità dell’uomo: “La corporeità e la sessualità - scrive Giovanni Paolo II nella Catechesi del mercoledì 7 novembre 1979 - non si identificano completamente. Sebbene il corpo umano, nella sua normale costituzione, porti in sé i segni del sesso e sia, per sua natura, maschile e femminile, tuttavia il fatto che l’uomo si fa corpo appartiene alla struttura del soggetto personale più profondamente del fatto che egli sia nella sua costituzione somatica anche maschio e femmina”.

Muovendo da questa lettura il rapporto persona/corpo sessuato rientra nella categoria dell'essere e non dell'avere, per cui ciò che non si possiede non si può né usare né far usare. E allora, così come ripugna istintivamente l'idea di considerare il corpo umano come semplice oggetto di scambio, allo stesso modo si deve esigere rispetto per la propria mascolinità e femmi­nilità. Riconoscere il significato valoriale dell'essere ses­suati vuol dire comprendere che l'unica modalità di “scambio” deve essere quella del “dono”, totale, reciproco, esclusivo. E, se la sessualità è dimensione originaria, l'uomo e la don­na non possono vivere la propria esperienza terrena se non ac­cettando di essere sessuati.

La sessualità ha anche un significato in­terpersonale: questo vuol dire che la diversità maschile e femminile è una diversità rela­zionale, con una duplice funzione, personalizzante e socializzan­te. La sessualità ha una funzione personalizzante sia per il bambino, che ‑ attraverso il confronto‑dialogo con il genitore dello stesso sesso e con il genitore del sesso opposto ‑ arriva a strutturare la propria personalità e ad assumere un'identità sessuale, sia per l'adulto. La sessualità ha una funzione socializzante perché è spinta ad uscire da se stessi per entrare in comunicazione e, successi­vamente, in comune‑unione con gli altri. In tal senso, la sessualità umana esprime e realizza il “bisogno” della persona di uscire dalla propria solitudine e di comunicare con gli altri: e tale bisogno è insieme segno e frutto della povertà e della ricchezza della persona, chiamata ad amare ed a essere amata.

E’ attraverso la comunicazione e il dialogo, che l'uomo e la donna percepiscono la propria differenza e si sentono attratti e orientati ver­so l'altro sesso. Dell'altro sesso si vorrebbero scoprire e comprendere anche i più reconditi misteri: ma tra l'uomo e la donna rimane sempre una differenza, un abisso incolmabile che neanche l'imitazione di comportamenti o di atteggiamenti propri dell'altro sesso riesco­no a superare. La rela­zione tra l'uomo e la donna diviene così segno di dualità e reciprocità, ma anche di complementarità: l'uomo e la donna sono simili e differenti nello stesso tempo; non sono identici, ma hanno una uguale dignità, che deriva dall'essere persone e che è necessaria affinché tra di loro ci sia una possibilità di in­contro e di intesa. Dal momento che la sessualità umana ha un significato inter­personale, ne consegue che il fine a cui essa è intrinsecamente orientata e, pertanto, il messaggio che esprime, è l'amore nel sen­so di donare e ricevere: questa vocazione all'amore si realizza attraverso il corpo sessuato testimone così del dono reciproco, dell'essere e dell'esistere come dono con e per qualcuno; un corpo che ha un significato “sponsale” in quanto capace di esprimere amore.

Ed anche se è vero che nessuno può rifiutarsi di essere uomo o donna, ciò non si­gnifica né che il sesso esprima tutta la persona né che ogni perso­na sia necessitata ad esprimere la totalità delle proprie capacità sessuali, anche quelle fisiche. Bisogna, infatti, fare differenza tra relazione sessuata e relazione ses­suale‑genitale. La relazione sessuata è la comune relazione tra persone di sesso differente o dello stesso sesso, improntata a stima, rispetto, amicizia e, affettività, senza il coinvolgimento del corpo sessuato, la genitalità fisica: infatti, l'incontro, il dialogo o il conflitto tra due persone di sesso differente o dello stesso sesso, non possono non essere sempre segnate dalle caratteristiche e tratti tipici dell'essere uomo o donna. La relazione sessuale‑genitale ha, invece, come caratteri­stica peculiare la totalità delle componenti della persona, che danno vita all'apertura, all'incontro, al dialogo, alla comunione ed all'unità: si tratta di una reciproca donazione personale e totale, espressione di tutta la persona, che genera e alimenta una relazione unica ed esclusiva, irrevocabile e definitiva, ordinata all'integrazione reciproca dell'uomo e della donna. Nel momento in cui la relazione sessuale-genitale è inserita in un contesto di amore e di dono totale e totalizzante tra un uomo e una donna, essa acquista un valore positivo e fa da completamento di un'unione che, resa in­dissolubile dallo stato di coniugalità, si apre per sua intrinseca dinamica alla fecondità.
“Per mezzo della reciproca donazione personale - si legge al n. 8 della Lettera Enciclica Humanae vitae -, loro propria ed esclusiva gli sposi tendono alla comunione dei loro esseri in vista di un mutuo perfezionamento personale, per collaborare con Dio alla generazione ed alla educazione di nuove vite”.

4. Per vivere la “reciproca donazione personale” è necessario interpretare le esigenze dell’amore coniugale, definito aln. 9 della Lettera Enciclica Humanae vitae come un amore “umano, totale, fedele e fecondo”. Un amore, innanzitutto, umano: “E’ prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire nello stesso tempo sensibile e spirituale. Non è quindi semplice trasporto di istinto e senti-mento, ma anche e principalmente è atto della volontà libera […]” (HV, 9). E’, in altre parole, quell’Amore che scaturisce - come scrive Benedetto XVI nella Lettera Enciclica Deus Caritas est (DC) - da “un cuore che vede” (DC, 31) dove c'è bisogno e agisce in modo conseguente. Non, dunque, semplice “trasporto di istinto e sentimento”, poiché - anche se i sentimenti sono stati affettivi stabili, profondi e duraturi - essi non sono sufficienti per descrivere tutta l'esperienza dell'amore: “I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore” (DC, 17).

Per poter vedere il cuore deve conoscere la propria “storia”: non si può, infatti, vivere l’esperienza dell’amore e del dono senza conoscere l’Origine della propria “storia”, senza la consapevolezza che il nostro amore nasce da un Amore che ci precede, dall’Amore di quel Dio che “per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo” (DC, 17). E il primo grande atto di Amore è l’essere stati chiamati all’esistenza dal nulla: è questa l’Origine della “storia” dell’uomo e l’uomo è l’unico essere vivente in grado di rispondere al Creatore con il linguaggio della consapevolezza. Il cuore si apre, poi, al riconoscimento dell’altro e, nella coniugalità, al dono reciproco delle persone. E’ un amore totale [“una forma tutta speciale di amicizia personale in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa, senza indebite riserve e calcoli egoistici. Chi ama davvero il proprio consorte, non lo ama soltanto per quanto riceve da lui, ma per se stesso, lieto di poterlo arricchire del dono di sé” (HV, 9)]; è un amore fedele [“E’ ancora amore fedele e esclusivo fino alla morte (HV, 9)]. L’amore tra l’uomo e la donna diviene così l’archetipo dell’Amore per eccellenza : “l’amore tra un uomo e una donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza” (DC, 2).

5. L’Amore ha una sua manifestazione significativa nell’affettività, ovvero nella capacità che ha l’uomo di provare emozioni, sentimenti e passioni e che lo spinge ad agire nei confronti di quel chi o di quella cosa che ha procurato un tale turbamento. D’altra parte, il termine “affettività” deriva dal latino “afficere” che significa “influire”, “produrre una modificazione nel corpo o nell’anima”, “colpire”: un duplice e ininterrotto movimento, di “sistole” (unione con l’oggetto della propria attrazione) e di “diastole” (uscita da sé), vera rappresentazione di una relazione interpersonale. Tale carattere relazionale è ravvisabile anche nelle modalità dello sviluppo affettivo, che può essere schematizzato in quattro momenti: 1. la capacità di intrattenere rapporti umani positivi con tutti; 2. la capacità di instaurare rapporti amichevoli; 3. l’amicizia; 4. la capacità di Amore per un unico partner o per tutti, a seconda della scelta di vita (coniugale o verginale) che si è fatta. Ai fini dello sviluppo dell’affettività risulta, allora, chiara l’importanza della carica affettiva dei legami naturali tra i componenti del nucleo familiare in cui si cresce: l'equilibrio affettivo di una persona si imposta, infatti, fin dalla prima età e si modella nelle più semplici situazioni della quotidianità. Da qui la necessità di essere inseriti - innanzitutto - in un famiglia presente, autorevole, rielaborante e capace di mantenere relazioni soddisfacenti. E, successivamente, di: far parte di un gruppo di coetanei verso cui sperimentare sentimenti di amicizia autentica, sincera e profonda; di sostenere l’impegno a vivere i propri compiti in modo indipendente e costante; di sviluppare capacità di autocomprensione, autoaccettazione, autoaffermazione, integrazione, adattamento e controllo delle proprie pulsioni. E se tutto lo sviluppo affettivo dell’individuo sarà stato armonico, se avrà imparato a controllare se stesso, ad amare i genitori e i fratelli, a godere dell’amicizia dei coetanei e della stima degli educatori, si può sperare anche in un allargamento dello sguardo oltre il proprio mondo individuale nella considerazione dei propri doveri verso gli altri.

6. Parlando di Amore e di affettività, si è fatto riferimento alla dimensione educativa: su cosa si fonda l’educazione? E chi sono i soggetti dell’intervento educativo. I pilastri dell’educazione sono: 1. i contenuti che l'educazione presenta dal punto di vista antropologico (che idea ho dell’uomo?) e pedagogico (che progetto di uomo si vuole realizzare?); 2. le motivazioni e gli atteggiamenti dell’educatore. Entrambi possono essere sintetizzati con l’espressione “amare per educare”. Non è un caso che in tale espressione si conservino i due concetti amore-educazione: non si può pensare di guidare la crescita di un ragazzo sul piano dell’affettività se non si è dotati di quella “carità intellettuale” necessaria per rendere efficaci le proprie strategie di intervento. Si può, allora, fare educazione all’Amore solo se questa viene concepita come “amore della verità” (per i contenuti che intende trasmettere) e nel contempo “verità che si fa amore” (pensando alle caratteristiche del formatore e dell’educatore). “Sarebbe dunque - scrive Benedetto XVI nella Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008 - una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita”.

Se si rinuncia alla verità sull’uomo (all’amore della verità), che è “oggetto” non statico e immutabile ma che sa coniugare l’oggettività e la definitività di alcuni aspetti con le caratteristiche di dinamicità e del “farsi” proprie dell’uomo, si corre il rischio di compromettere proprio l’opera educativa. Essa parte dalla definitività della verità e propone la definitività di alcune scelte. Si legge nel discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa italiana del 19 ottobre 2006: “un'educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l'amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà”. Se la libertà non si innesta e radica in una verità integrale della persona, può condurre l’uomo stesso a comportamenti e scelte riduttive dell’umano, o divenire strumento di prevaricazione e di puro arbitrio o portare ad atteggiamenti di rassegnazione e pericoloso scetticismo.

Quale verità e quale bene sull’uomo? Si tratta di un problema serio e decisivo: perché solo se si individuano le caratteristiche proprie dell’uomo, ciò che determina la sua natura e, di conseguenza, la sua dignità, si è in grado di indirizzare gli sforzi educativi. Educare e formare sono parole che, etimologicamente, rimandano ad una meta (il primo) e ad una forma (il secondo). L’uomo le ha scritte entrambe dentro di sé e il cammino che deve percorrere, soprattutto nei primi anni della sua esistenza (ma il processo mai potrà avere una fine), non può non conformarsi ad esse. Non possiamo negare ciò che siamo. Rinunciare alla pretesa di alcune verità sull’uomo significa rinunciare ad educare. D’altra parte, l’educazione è proprio l’arte di “trarre fuori, far emergere” il bene iscritto nella dimensione ontologica di ogni uomo. E’ come se - seguendo Maritain - nell’uomo coesistessero due “nature”: la natura “primitiva”, da una parte, e la natura “plasmata”, risultato dell’intervento educativo. Dal momento che la natura primitiva altro non è che la manifestazione storica e parziale dell’essenza “uomo”, ogni individuo deve impegnarsi a scoprire in questa essenza contenuti e modalità per plasmare la sua natura seconda. Dall’amore della verità si passa alla verità che si fa amore. È il secondo passaggio che un educatore non può trascurare. La verità, ovvero il contenuto di un processo formativo, non può cristallizzarsi come fa l’acqua ad alte quote, che lì rimane, in posizione impervia per essere raggiunta da qualcuno. L’opera di formazione è paragonabile all’irrigazione delle pianure a seguito dello scioglimento della neve della montagna. La verità si “scioglie” e raggiunge in modo delicato ma abbondante i destinatari di tale verità. Non si tratta di una valanga che scende, trovandola magari impreparata, sulla valle ma di un fiume che sorprende per la sua freschezza

7. Se caratteristica dell’affettività è anche la capacità di contemplazione e di apertura al riconoscimento e al bene totale della persona, essa è in stretto collegamento con il sentimento morale: ovvero con la capacità di riflettere, interpretare ed interiorizzare quelle norme che inscritte nella natura umana devono divenire criterio regolativo nelle singole scelte. La formazione dell’affettività si deve accompagnare, allora, alla formazione del sentimento morale al fine di precisare le ragioni per cui l’Uomo per realizzarsi deve agire in un modo piuttosto che in un altro e di aiutare ad acquisire consapevolezza del proprio agire, responsabilità e strumenti critici, criteri di valutazione e motivazioni, affinché possa operare una sintesi tra libertà e responsabilità, offrendo criteri oggettivamente fondati e consapevolmente chiariti per l’agire. Nella sua finalità, dunque, la formazione del sentimento morale è “educazione alla libertà” o, per meglio dire, alla gestione responsabile della libertà, affinché vi possa essere una completa adesione a quella verità, che - inscritta nella natura di essenza di ogni uomo - ne svela configurazione, significazione e destina­zione: “Non meno decisiva nella formazione della coscienza è la riscoperta del legame costitutivo che unisce la libertà alla verità [...] E' essenziale che l'uomo riconosca l'originaria evidenza della sua condizione di creatura, che riceve da Dio l'essere e la vita come un dono e un compito: solo ammettendo questa sua nativa dipendenza nell'essere, l'uomo può realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona” (EV, 96).

In questo consiste la libertà morale, la libera adesione alla “legge dell'essere”. La formazione del sentimento morale deve riguardare sia la sfera dei valori che delle virtù, intese come habitus, “disposizioni”, “abitudini”, “predisposizioni”: nei due piani differenti e intersecantesi, quello naturale delle virtù morali o cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) e quello soprannaturale delle virtù infuse o teologali (fede, speranza e carità). Se, infatti, la formazione del sentimento morale deve aiutare il soggetto nella strutturazione della propria identità, nell’acquisizione di valori valutati importanti per dichiarare a sé e agli altri il proprio esserci, nell’assicurare la capacità di resistere alle forze disgreganti interne ed esterne, nel garantire un’unità interiore coerente e duratura, non è né facile né sufficiente un semplice controllo selettivo dei valori senza una loro concomitante acquisizione. La persona è formata solo quando è riuscita a costruire un filtro attraverso il quale verificare e valutare cosa accogliere e cosa respingere: quando, in altre parole, è in grado di rispondere alla domanda “che persona dovrei essere?”. L’impegno deve, essere, allora quello di aiutare il soggetto a crescere come persona virtuosa, ovvero ad acquisire un’attitudine permanente a compiere il bene e a compierlo bene. L’habitus dell’agire virtuoso, quindi, lungi dall’essere una sorta di passiva e inconsapevole ripetizione di gesti, si pone come la capacità di orientare la propria libertà con impegno e decisione verso i veri valori.

8. Alla luce di queste considerazioni risulta evidente che l'educazione della sessualità deve avere come obiettivo principale quello di indicare e di motivare il raggiungimento di grandi mete: l'accettazione del proprio essere sessuati e il riconoscimento del valore della mascolinità e della femminilità (educazione all’identità sessuata); il rafforzamento dell’Io, della stima di sé, del senso della propria dignità, della capacità di autopossesso e di autodominio (educazione alla castità), dell'apertura progettuale, della coerenza ed equilibrio interiore; l'acquisizione di una grande attenzione ai valori della procreazione, della vita e della famiglia (educazione alla procreazione responsabile e alla vita). Un tale progetto non può essere realizzato con la sola informazione: è necessaria una vera formazione finalizzata all’educazione della volontà, dei sentimenti e delle emozioni. In questo contesto va inserita l'informazione: la conoscenza dei misteri del corpo umano, dei meccanismi genetici sottesi allo sviluppo somatico e alla differenza sessuale, dell'anatomia e della fisiologia, dei fenomeni tipici della pu­bertà, della procreazione umana, è il necessario comple­tamento di un processo educativo che guarda alla persona nella sua globalità. Perché conoscersi equivale ad avere un motivo in più per accettare con serenità la propria realtà di uomo o di donna e per esigere per se stessi e per gli altri maggiore rispetto e considerazione; ed è anche una chiave di lettura di quel disegno e di quella apertura all'Amore e alla vita che è inscritto in ogni persona umana. L'informazione non può essere, allora, una fredda e asettica trasmissione di notizie, un'istruzione, ma deve essere portatrice di un messaggio: in altre parole l'informazione oltre a dare risposte biologiche deve fornire “risposte etiche” ovvero chiarire il perché di un comportamento piuttosto che di un altro. In questo contesto educativo assume grande importanza anche la conoscenza degli “indici diagnostici di fertilità”, che sono alla base dei metodi di regolazione naturale della fertilità: per avere consapevolezza di sé; per contenere l’ansia che nasce dall’ignoto; per distinguere un quadro normale da un quadro patologico. Ma, soprattutto, come modalità per educare al senso del tempo. La maggiore difficoltà che incontrano - oggi - un uomo e una donna che si sono trovati e scelti è, infatti, quella di percorrere insieme la strada che porta a maturare la consapevolezza di sé e ad educarsi reciprocamente all’attesa.

Le cause sono molteplici: i fattori culturali, sociali e ideologici, si intrecciano in modo inestricabile con la convinzione che la vera libertà sia libertà “da” qualsiasi progetto e controllo e non piuttosto libertà “per” realizzare un progetto di vita e che l’essere umano sia innanzitutto “istinto”. Non vi è dubbio, però, che la fretta di bruciare le tappe sta rendendo sempre più difficile la maturazione affettiva dei ragazzi e mettendo anche a rischio la loro salute. La fretta ben poco si addice al “tempo” e ai “tempi” della crescita personale: gli indici diagnostici di fertilità, narrando giorno dopo giorno una storia fatta di attesa (la fase preovulatoria e postovulatoria), di preparazione (il ritmico alternarsi degli ormoni) e infine di eventi (l’ovulazione e la mestruazione), segnano il “tempo” e i “tempi” e rappresentano una grande risorsa da utilizzare in un percorso educativo all’affettività, alla sessualità e alla castità. E come preparazione remota a quella procreazione responsabile della quale il senso “del tempo” e “dei tempi” è elemento fondamentale. L’individuazione dei significati e delle finalità dell’educazione della sessualità deve, poi, coniugarsi con la chiarezza sui criteri metodolo­gici da storicizzare nella situazione concreta. Si tratta di criteri (della verità, di adeguazione e individualizzazione, di pro­gressività e tempestività, di de­cenza e rispetto), che sono già noti in ambito pedagogico e a cui - nel caso specifico dell’educazione della sessualità - si aggiunge il “criterio della vocazione”.

Questo significa che, durante l’adolescenza e la prima giovinezza, è compito dei genitori aiutare il figlio a discernere la propria vocazione personale, a scoprire il progetto che Dio ha su di lui. Sia che si tratti di vocazione al matrimonio o alla verginità o al celibato, infatti, la famiglia svolge un ruolo fondamentale e l’educazione all’amore vero e casto è il più grande dono che i genitori possono fare ai propri figli. E, d’altra pare, così come si constata che chi vive in un ambiente familiare sereno, armonioso, e riceve un’immagine positiva del matrimonio, è poi in grado di riproporre la stessa esperienza nella nuova famiglia, allo stesso modo non si può non constatare che “alla disgregazione della famiglia - si legge nel già citato documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia - segue la mancanza di vocazioni; invece dove i genitori sono generosi nell’accogliere la vita è più facile che lo siano anche i figli allorché si tratta di offrirla a Dio”. Ma è solo in una lettura integrale della sessualità che si inscrive un’educazione anche alla vita verginale. Perché se non si comprende che la mascolinità o la femminilità può essere vissuta anche senza la dimensione genitale-sessuale al fine di potenziare la propria capacità di donazione, di Amore, di impegno verso Dio e verso gli altri, senza per questo sentirsi uomo o meno donna quanto detto sarebbe privo di senso.

9. Parlando di educazione, e in modo particolare della castità, si è fatto riferimento alla famigli a quale responsabile primario. Questa responsabilità è talmente radicata e radicale da poter affermare che vi è una priorità “ontologica” dei genitori nell’educazione dei figli: perché "ontologica"? Perché essa trova giustifica­zione proprio nella struttura ontologica della generazione e del­la genitorialità: “E’ infine - si legge al n. 9 della Lettera Enciclica Humanae vitae - amore fecondo, che non si esaurisce nella comunione tra i coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite. Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione e alla educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio e contribuiscono sommamente al bene degli stessi genitori”. Ed ancora, al n. 16 della Lettera alle Famiglia: i genitori “sono i primi e i principali educatori dei propri figli ed hanno anche in questo campo una fondamentale competenza: sono educatori perché genitori”.

In altre parole, il diritto/dovere dei genitori di educare i figli si fonda proprio sul fatto di aver generato la vita del bambino (i genitori sono “educatori” perché sono genitori) e in tal senso tale diritto/dovere precede ogni riconoscimento o imposizione da parte della società: L'educazione è, dunque, una generazione continua. Anche l’educazione della sessualità. E se la vita familiare è segnata dalla mutua ac­cettazione, dall'aiuto scambievole, dall'empatia, i bambini, i fanciulli, gli adolescenti vengono aiutati a fortificare quel “cuore che vede” perché “solo gli occhi del cuore - scrive Benedetto XVI nel discorso ai partecipanti del Congresso Internazionale in occasione dell’anniversario della Lettera Enciclica Humanae vitae del 2 ottobre 2008 - riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano”. Al diritto di educare i propri figli, di scegliere ‑ in con­formità con le proprie convinzioni morali e religiose e in vi­sta del bene dell’educando ‑ l'orientamento educativo, deve corrispondere un dovere educati­vo. Infatti, non offrire ai propri figli un ambiente familiare che possa consentire un'adeguata formazione all'Amore e alla castità, significa venire meno ad un preciso dovere. Un dovere, che viene eluso anche nel caso in cui si tolleri una formazione immorale o inadeguata impartita ai figli fuori casa.

E' importante che i genitori siano consapevoli che questo diritto/dovere è inalienabile e che non può essere né totalmente delegato ad altri né usur­pato da altri. E' anche vero, però, che oggi la famiglia pre­senta spesso una scarsa valenza educativa, a causa sia delle trasformazioni strutturali e culturali subite sia di una talora volontaria incompetenza e incapacità di difendersi e ri­spondere alle sollecitazioni - anche negative - che provengono da una società in continuo e radicale mutamento. In questi casi può essere di aiuto l'intervento di altre a­genzie educative, non ultima la scuola,la quale non deve - però - né imporre un'educazione di Stato né pensare di privare i genitori della loro responsabilità educativa, collaborando con la famiglia nell'educazione e nella scelta dell'orientamento educativo. Lo stesso dicasi per altre agenzie educative, come i gruppi coeducativi: qui i bambini, i fan­ciulli, gli adolescenti, sono guidati dagli adulti secondo un ben preciso programma pedagogico, che i genitori devono conoscere a priori, vigilando sulle diverse interpretazioni che degli stessi programmi possono dare i vari educatori.

L’intervento di agenzie educative esterne alla famiglia deve essere, infatti, informato a due principi: il principio della sussidiarietà e il principio della subordinazione. Sussidiarietà significa che - poiché il diritto/dovere dei genitori di educare è insostituibile e inalienabile - l'intervento delle agenzie esterne deve essere di aiuto e non di sostituzione al ruolo for­mativo della comunità familiare. In altre parole, perché un'altra agenzia possa intervenire nel processo educativo, è necessario che ci sia l'esplicito consenso da parte dei genitori, i quali delegano ad altri il proprio compito educativo: questo atto non spoglia, però, il genitore dell’originaria potestà che continua ad appartenergli e a legittimare la possibilità di effettuare una tale sostituzione. Subordinazione vuol dire che un'agenzia educativa esterna alla famiglia deve essere soggetta al controllo da parte dei genitori, che vanno informati e coinvolti nella gestione del processo educativo extra‑familiare. Di conseguenza non potrà mai essere impugnata la presunta inadeguatezza della famiglia a fare, ad esempio, educazione della sessualità per estrometterla da tale compito: la famiglia va aiutata a colmare lacune e a tracciare validi percorsi educativi. E, quando la famiglia è educativamente assente o "diseducante", le altre agenzie educa­tive non possono limitarsi a sopperire le mancanze, ma devono avvertire in modo forte l'impegno a coinvolgere il genitore o i ge­nitori nella gestione e nell'esecuzione dei propri progetti e­ducativi. Tutti gli educatori sono chiamati ad una grande responsabilità perché “dipenderà da loro se i giovani, formati ad una vera libertà, sapranno custodire dentro di sé e diffondere intorno a sé ideali autentici di vita e sapranno crescere nel rispetto e nel servizio di ogni persona, in famiglia e nella società” (EV, 97), con l'accortezza del rispetto delle priorità "ontologiche" dei genitori e l'armo­nia delle scelte.

10. Sono sufficienti poche parole a Giovanni Paolo II per sintetizzare la grande responsabilità dei genitori, degli insegnanti, dei formatori e della società tutta nei confronti dell’educazione della sessualità: “La banalizzazione della sessualità è tra i principali fattori che stanno all’origine del disprezzo della vita nascente”(EV, 97). Non solo della vita nascente: la perdita della stima e del rispetto del valore della vita riguarda ogni fase dell’umana esistenza. La dissociazione dell’attività sessuale dalla coniugalità, dalla fedeltà, dalla fecondità, ha portato a considerare i rapporti sessuali come un mezzo per il godimento individuale e materiale; a ritenere giusto - se non addirittura doveroso - soddisfare quegli istinti che non si vuole dominare; a guardare al divorzio e ai rapporti pre ed extra-matrimoniali come la “normalità” del vivere il rapporto uomo-donna. La riduzione della sessualità alla sola dimensione dell’istinto ha poi favorito, nelle sue manifestazioni più estreme ed infime il diffondersi della pornografia e della violenza sessuale: una sessualità resa cattiva e brutta fino alla ripugnanza con il conseguente smarrimento del senso morale e l’incremento dell’agire violento. Una sessualità non più a dimensione umana e di cui la persona non è sempre in grado di accettarne le dinamiche.

E’ per questi motivi che abbiamo l’obbligo morale di educare la persona nella sua mascolinità e femminilità, nella sua dimensione relazionale e affettiva: di educare la sessualità come “dono di sé nell’Amore”, di quell’amore vero che sa “custodire la vita” (EV, 97). E per i genitori tutto inizia nel momento in cui pronunciano il primo grande “sì”: “A distanza di 40 anni della pubblicazione dell’Enciclica - scrive Benedetto XVI nel citato discorso del 2 ottobre 2008 - possiamo capire meglio quanto questa luce sia decisiva per comprendere il grande sì che implica l’amore coniugale. In questa luce, i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio, sorgente prima della vita umana. Questo grande sì alla bellezza dell’amore comporta certamente la gratitudine, sia dei genitori nel ricevere il dono di un figlio, sia del figlio stesso nel sapere che la sua vita ha origine da un amore così grande e accogliente”


IL CASO - San Paolo e Seneca si incontrarono? di Gian Enrico Manzoni - Avvenire 15 Gennaio 2009
Le quattordici lettere che sono tramandate col nome del filosofo Seneca (in numero di otto) e di san Paolo (sei) costituiscono un epistolario da tempo considerato apocrifo, che sarebbe opera di uno o più autori a noi sconosciuti del IV secolo. Questi avrebbero falsificato i nomi del mittente e del destinatario di ciascuno dei quattordici scritti per inventare una corrispondenza, mai avvenuta, tra i due. Questa tesi tradizionale ha sempre trovato consenso nella maggior parte (anche se non nella totalità) degli studiosi, e ha fatto sì che nei manuali di storia letteraria latina lo spazio riservato all’argomento sia del tutto marginale. Due sono in particolare gli argomenti forti per negarne l’autenticità. Il primo è rappresentato dal fatto che l’apologeta cristiano Lattanzio, scrivendo nel 324 circa, mostra di ignorarne l’esistenza dell’epistolario, visto che afferma che Seneca avrebbe potuto essere cristiano, purché qualcuno gli avesse parlato di Cristo.

Il secondo ostacolo è dato dalla XII lettera, o XI secondo altre numerazioni, che è datata nel marzo del 64 e che è attribuita a Seneca: in essa infatti si descrive l’incendio di Roma, che invece avvenne nel luglio dello stesso anno; un errore vistoso, che è impensabile in uno scrittore contemporaneo all’avvenimento. Nonostante queste difficoltà evidenti, l’epistolario venne creduto autentico nel corso della tarda antichità e del Medioevo: si andava così dalla testimonianza di san Girolamo (che nel 392 scriveva che le lettere tra i due grandi circolavano e venivano lette da moltissime persone) a quella di intellettuali come Albertino Mussato e il Boccaccio, che non avevano dubbi sia sull’autenticità sia sulla fede cristiana di Seneca. Dall’Umanesimo iniziarono invece le critiche demolitrici, sintetizzate da Giusto Lipsio, il filologo fiammingo che affermava che queste lettere sarebbero state scritte per prendere in giro noi lettori, facendoci credere in un epistolario impossibile.

In controtendenza con questa negazione dei rapporti tra Seneca e san Paolo e dell’autenticità delle lettere, si presenta adesso (ma non è la prima volta che se ne occupa) la riflessione della storica Marta Sordi, ben nota come esperta della civiltà greco-romana e dei rapporti tra il mondo pagano e quello cristiano nei primi secoli dell’impero. La studiosa è tornata recentemente sull’argomento in uno scritto intitolato Seneca e i Cristiani, contenuto in un volume miscellaneo intitolato Amicitiae templa serena, uscito presso Vita e Pensiero. La Sordi torna a sottolineare l’importanza della definizione di Seneca come maestro dell’imperatore e come l’uomo più potente di quel momento, che di lui dà Girolamo nello stesso passo in cui nomina l’epistolario:, la duplice affermazione è infatti vera solo fino all’anno 62, quando il filosofo si staccò da Nerone e perse la posizione di potere a corte di cui godeva. Questo induce a pensare a una datazione delle lettere che non scenda sotto quel momento, che fu di progressivo distacco tra l’intellettuale e il potere.

La conseguenza è che bisogna escludere dal novero dell’epistolario almeno una delle quattordici lettere tramandate, che non si attaglia a una definizione del genere per Seneca. Marta Sordi si pronuncia innanzitutto a favore della probabilità di una conoscenza personale tra Paolo e Seneca. L’arrivo dell’apostolo a Roma andrebbe collocato nel biennio 56­58, quando Seneca era potentissimo a Roma e influente consigliere di Nerone; Paolo avrebbe avuto in quel periodo buone amicizie tra i pretoriani, guidati da quel prefetto, Afranio Burro, che sappiamo amico di Seneca: in tale contesto l’ipotesi di un incontro tra le due grandi personalità non è certo inverosimile, anche se non abbiamo alcuna prova certa in merito. Abbiamo invece la prova di un rapporto tra la famiglia di Seneca, la gens Annaea, e Paolo stesso, attraverso un’iscrizione funeraria della fine del I o dell’inizio del II secolo, trovata a Ostia, luogo del martirio di Paolo.

Anche la Sordi esclude, per varie ragioni, la paternità di due lettere dal novero di quelle autentiche: la prima è la XII (o XI) per via della descrizione prima del tempo dell’incendio di Roma; l’altra è la XIV, l’ultima, che con linguaggio diverso dalle precedenti suggerisce addirittura l’idea di una conversione di Seneca al Cristianesimo. Le altre dodici lettere sono quindi riconducibili al periodo che va dal 58 al 62, in cui realmente Seneca era l’uomo più potente del momento e Paolo era sicuramente presente nella capitale dell’impero. Caduti dunque i principali ostacoli al riconoscimento della genuinità delle dodici lettere, la Sordi giunge alla conclusione che l’insieme dell’epistolario, di scarso significato dal punto di vista religioso, è invece importante documento da quello storico. È indizio dell’esistenza di quei rapporti tra Seneca e san Paolo che anche altri elementi, citati e dibattuti nel saggio, sembrano confermare.


Siglata un'intesa tra lo Stato ebraico e Washington per bloccare il traffico di armi a Gaza - Israele pronto alla tregua unilaterale Ma intanto continua a colpire – L’Osservatore Romano, 18 Gennaio 2009
Tel Aviv, 17. Un cessate il fuoco unilaterale, ma senza alcun ritiro delle truppe e con la garanzia che il traffico di armi verso la Striscia di Gaza venga bloccato al più presto. A tre settimane dall'inizio dell'operazione "Piombo Fuso", oggi il Governo israeliano si riunisce per decidere se attuare o meno queste misure. Hamas intende continuare a combattere. "Qualsiasi cosa non preveda la fine dell'aggressione, il ritiro e l'apertura dei valichi non verrà accettata", ha detto Osama Hamdan, esponente di Hamas in Libano. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha esortato oggi da Beirut entrambe le parti a mettere fine ai combattimenti immediatamente, affermando che "le guerre non risolvono i conflitti in questa regione". Entrambe le parti "devono mettere fine ai combattimenti immediatamente", ha detto Ban Ki-moon parlando all'Assemblea nazionale libanese nel corso di una seduta che è stata boicottata dal movimento sciita Hezbollah. "Hamas - ha detto Ban Ki-moon - deve smettere di lanciare razzi su Israele, e Israele deve porre fine alla sua offensiva e ritirarsi" dalla Striscia di Gaza. Inoltre, il segretario generale ha chiesto allo Stato ebraico di ritirarsi da tutti i territori occupati nella guerra del 1967. L'apertura dell'Esecutivo israeliano a una possibile tregua unilaterale è giunta dopo la firma di un memorandum d'intesa con Washington, definito dal ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, un "salto di qualità" nelle trattative. Obiettivo è bloccare il contrabbando di armi da parte di Hamas attraverso il valico di Rafah. L'intesa raggiunta con Israele, ha spiegato Rice, "deve essere interpretata come uno degli elementi chiave che ci devono portare a un cessate il fuoco duraturo". Uno dei punti centrali dell'accordo, ha precisato il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack, è assicurarsi che "i miliziani di Hamas non possano rifornirsi di armi durante la tregua, né via mare o per via aerea, né via terra".
Secondo fonti di stampa, domani a Sharm El Sheik il premier Ehud Olmert, il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen, e il presidente egiziano, Hosni Mubarak, firmeranno un accordo per fissare i termini della tregua. L'incontro è stato promosso dall'Unione europea. Nel frattempo, oggi, il presidente dell'Egitto, Hosni Mubarak, ha chiesto "ai dirigenti israeliani un cessate il fuoco immediato ed il ritiro dalla Striscia di Gaza". Mubarak ha anche criticato il vertice di quindici Paesi arabi tenutosi ieri a Doha: "Queste riunioni non fanno che dividere il mondo arabo".
La notizia della possibile tregua da parte israeliana è arrivata al termine di una giornata di intensi contatti diplomatici per porre fine all'offensiva con decine di bombardamenti aerei e scontri di terra contro le milizie di Hamas. Esercito, aviazione e marina hanno colpito nella notte cinquanta obiettivi nella Striscia di Gaza, come riferito da un portavoce militare dello Stato ebraico. Sono stati inoltre demoliti quattordici tunnel usati per contrabbandare armi, quattro depositi di munizioni, tre bunker, due depositi di carburante e due moschee che, secondo il portavoce, contenevano armi ed esplosivi. In Israele, almeno quattro razzi, due dei quali di tipo Grad, sono caduti in diverse località nel Neghev e nei pressi di Beer Sheva senza causare vittime, ma danni materiali. Nel complesso, finora le vittime palestinesi hanno raggiunto quota 1.188 di cui 410 bambini, 5.200 i feriti. Sul fronte opposto, le vittime israeliane sono tredici, di cui tre civili.
Intanto, questa mattina, un carro armato israeliano ha colpito una scuola gestita dall'Onu nel nord della Striscia di Gaza, causando almeno sei vittime, tra cui una donna e un bambino. Lo hanno riferito medici palestinesi. Nell'attacco contro l'edificio di Beit Lahiya, che era pieno di profughi, sono rimaste ferite altre undici persone e in alcune aule è divampato un incendio. Attorno alla scuola erano in corso combattimenti tra i tank israeliani e i miliziani. Un portavoce di Tsahal ha riferito che sta verificando la notizia sul numero delle vittime nella scuola. È la quarta volta che il fuoco israeliano colpisce una scuola gestita dall'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi, nelle tre settimane dell'offensiva "Piombo Fuso".
(©L'Osservatore Romano - 18 gennaio 2009)


Intervista a Mario Mauro, rappresentante dell'Osce contro le discriminazioni religiose - Un'Europa troppo laicista per difendere i cristiani - di Gabriele Nicolò – L’Osservatore Romano, 18 Gennaio 2009
In Europa sono poche le voci che si levano in difesa delle comunità cristiane perché pregiudizi nati da atteggiamenti di laicismo deteriore vengono sbandierati come espressioni di normale laicità. Lo sottolinea in un'intervista a "L'Osservatore Romano" il vicepresidente del Parlamento europeo, Mario Mauro, nominato rappresentante personale della presidenza dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la promozione della tolleranza e la lotta al razzismo e alla xenofobia, "con particolare riguardo alla discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni". L'impegno cui ora è chiamato il politico italiano s'inserisce nella più ampia missione dell'Osce, che - come evidenzia egli stesso - "è stata la prima organizzazione internazionale a comprendere che la promozione della libertà religiosa, come degli altri diritti umani, giova alla sicurezza e alla stabilità internazionale".
Come mai l'Osce ha sentito l'esigenza di nominare un rappresentante contro la discriminazione, in particolare contro i cristiani?
In realtà la questione è stata sollevata nel 2004, quando su sollecitazione di alcuni Paesi partecipanti è stato messo bene in chiaro che, anche se nessun problema politico si risolve con la religione, è soprattutto vero che nessun problema politico può essere risolto andando contro la religione. Questo dato, visto il peso che oggi ha nella nostra società la considerazione pubblica dell'esperienza della fede, ha reso opportuna un'azione tesa a far comprendere quello che affermava Giovanni Paolo II, molti anni fa, in tempi non sospetti: cioè che la libertà religiosa non è una libertà come le altre, ma una sorta di cartina al tornasole delle altre libertà.
Il presidente Giorgio Napolitano in più occasioni - come nell'intervista a "L'Osservatore Romano", pubblicata nel numero dell'11 ottobre scorso - ha auspicato con forza la protezione delle comunità cristiane. La sua voce, però, sembra isolata nel panorama internazionale. Perché?
Rispetto alle comunità cristiane che vivono soprattutto nelle aree al di fuori dell'Osce vi è una tendenza a far coincidere, in maniera quasi immaginifica, comunità cristiana e Occidente. Questo fatto, evidentemente, detta i tempi e i modi di un atteggiamento politico verso comunità che sostanzialmente vengono considerate espressioni colonialistiche. Un esempio. In molte realtà mediorientali cristianesimo e Occidente sono identificati, quando invece in quei Paesi le comunità cristiane hanno origini ben più antiche delle attuali maggioranze religiose. Nel contesto dei Paesi aderenti all'Osce, e in particolare in quelli occidentali, la difficoltà ad avere un atteggiamento comparabile a quello del presidente Napolitano nasce invece da un pregiudizio sedimentatosi negli anni, che viene sbandierato come laico, e che finisce invece per essere un aspetto di un laicismo deteriore.
Quali sono le aree in Europa dove la situazione dei cristiani e dei seguaci di altre religioni è particolarmente difficile?
Se pensiamo all'Europa largamente intesa, è evidente che le realtà più problematiche sono rintracciabili nell'area caucasica e dei Paesi dell'est, come pure in certe situazioni di discriminazione di alcune zone dell'Unione europea. Tuttavia, mentre nei Paesi dell'ex blocco comunista il problema coincide per lo più con i tempi e i modi di restituzione di beni appartenenti alle comunità religiose di quei Paesi, nelle nazioni dell'Unione europea ci troviamo in presenza di discriminazioni, probabilmente più sottili - ma comunque più consistenti - che riguardano il diritto di considerare l'espressione della fede come un fattore di vita pubblica, e non semplicemente come un fatto privato.
Come s'inseriscono in questo contesto i concetti di secolarismo e relativismo?
Siamo portati spesso a pensare che secolarismo e relativismo servano a combattere l'intolleranza. Ma se dimentichiamo che l'elemento religioso agisce nell'uomo come fattore potente di realizzazione della propria umanità, rischiamo noi stessi di scadere in un atteggiamento di intolleranza. E questo è un fatto di non poco conto, che condiziona il rapporto tra le religioni.
In Europa si può parlare di fenomeni di xenofobia?
Credo di sì. Le difficoltà legate alle grandi migrazioni degli ultimi anni hanno generato in alcune situazioni fenomeni di vera e propria xenofobia. In questo senso, il contributo che le istituzioni possono dare a qualunque livello, sia locale che internazionale, ha come elemento strategico la strada maestra dell'educazione. È questa, del resto, è una delle priorità indicate dalla presidenza greca dell'Osce, che sollecita un piano di educazione ai diritti umani.
Ritiene quindi che la lotta contro la xenofobia e il razzismo possa partire dalla scuola?
Senz'altro. Basti pensare che in una città come Milano, oggi, in una scuola media su venti alunni per classe, dieci o dodici sono di etnie diverse: è dunque evidente che vi sono le condizioni per educare alla convivenza civile.
Quali saranno le sue competenze e strategie di intervento, anche alla luce del suo precedente impegno nel Parlamento europeo?
In questi anni ho dedicato il mio lavoro al tema della libertà religiosa, della piena espressione delle prerogative legate alla libertà religiosa, del dialogo fra le religioni. Facendo tesoro di questa esperienza, lavorerò in piena sintonia con gli altri due rappresentanti personali della presidenza greca, competenti per la lotta all'antisemitismo e per la lotta alle discriminazioni nei confronti dei musulmani.
(©L'Osservatore Romano - 18 gennaio 2009)


La morte di Olivier Clément - Credo dunque sono (libero) - di Adriano Dell'Asta – L’Osservatore Romano, 18 Gennaio 2009
Un testimone del Risorto. Olivier Clément, deceduto nella serata del 15 gennaio scorso, è stato molte cose: un grande teologo, un grande scrittore, un finissimo poeta, un esempio di spirito ecumenico, fino al punto, nel 1998, di vedersi affidare da Giovanni Paolo II il compito di preparare, lui ortodosso, le meditazioni lette nel corso dell'annuale Via Crucis al Colosseo; ma soprattutto è stato un testimone del Risorto, uno dei grandi personaggi che hanno mostrato che "si poteva essere cristiani nel xx secolo" e che questa possibilità ridava respiro e speranza alla vita. Nato nel 1921, nel sud della Francia, Clément era arrivato alla fede da adulto, alla fine degli anni Quaranta, dopo essere stato a lungo un "pagano mediterraneo", pieno di dubbi irrisolti e di finte risposte, finché nel cristianesimo, incontrato attraverso l'esperienza dei filosofi religiosi russi - soprattutto Nikolaj Berdjaev e Vladimir Losskij - aveva trovato una forza di vita; più radicalmente, aveva trovato la vita: la visione di un uomo trasfigurato dalle energie divine in un mondo assediato dal nulla, l'esperienza della bellezza luminosa e sorprendente delle cose al fondo di una personale notte dell'anima dalla quale nulla sembrava poterlo liberare. Il cristianesimo come vita, come l'esperienza del Vivente: non un discorso astratto, una serie di valori e di idee sia pur altissime, delle risposte preconfezionate e rassicuranti, ma semplicemente il gusto e il senso della vita, la capacità di tener desta una domanda e una sete di senso proprio nel momento in cui si trovava una risposta assolutamente sorprendente e convincente a tutti i propri interrogativi; come avrebbe detto molto più tardi, nel 1996: "Il cristianesimo non è né moralismo né ritualismo, ma invocazione, forza, luce. Il cristianesimo non è più né un'imposizione ideologica, la vecchia eresia dei tempi della cristianità, né un comparto della cultura in serie con tanti altri, la nuova eresia dei tempi della modernità, ma l'esorcismo, la densità, la profondità di ogni esistenza - per chi lo vuole - nell'amore e nella libertà. Per l'amore e per la libertà".
Nei libri di Olivier Clément le risposte, la salvezza, la trasfigurazione dell'uomo e del cosmo non erano mai un banale e facile lieto fine, ma la sempre drammatica sconfitta della morte attraverso la morte di Croce: non la fine della storia, ma la sempre rinnovata freschezza di un nuovo inizio nell'amore e nella libertà, la rinascita dell'uomo in Cristo.
In un mondo fatto di divisioni insuperabili, lacerato soprattutto dalla contrapposizione tra il Creatore e le sue creature, che non riuscivano più ad accettare il mondo di Dio, il mondo di Auschwitz e Hiroshima, del nuovo e temuto olocausto nucleare, il cristianesimo si presentava invece attraverso Clément come la possibilità di tornare finalmente a concepire Dio e l'uomo in una unità vivente, dove l'uomo trovava la forza di creare e di essere libero non rubandola a Dio, ma ricevendola da Lui come un dono e un compito: il dono di essere creato e il compito del figlio; era l'idea dell'immagine di Dio presente in ogni uomo come verità dell'uomo stesso, come fondamento dell'irriducibile dignità di ogni singolo uomo. All'inizio degli anni Settanta, in uno dei suoi primi libri tradotti in italiano, Riflessioni sull'uomo, cogliendo la radice del nichilismo che stava catturando l'umanità contemporanea e inchiodava l'uomo alla sua orgogliosa solitudine o alla disperata fusione in una società sempre più massificante e spersonalizzante, aveva scritto: "Abbiamo la tendenza a giustapporre il Creatore e la sua creatura mentre al contrario occorrerebbe presentire che le creature esistono solo in Dio, proprio in quella volontà creatrice che le rende diverse da Dio". Una volontà creatrice che ci rende diversi da Dio proprio mentre Dio ci fa a Sua immagine: è l'infinita antinomia dell'unità nella diversità, dell'unità dell'uomo con Dio e dell'unità degli uomini fra di loro, riaffermate proprio mentre Dio resta assolutamente trascendente e irriducibile a quanto l'uomo può pensare di Lui e mentre ogni uomo resta assolutamente irriducibile a tutti gli altri e a ogni altra realtà creata. Scriveva ancora Clément: "Il fatto che l'uomo sia formato a immagine di Dio significa dunque che è formato a immagine di Cristo ed è soltanto in Cristo che l'uomo trova la propria verità. (...) È nel Risuscitato che l'uomo scopre il senso della terra, lo scopo della creazione. Il volto del Cristo è inseparabilmente il volto di Dio nell'uomo e il volto dell'uomo in Dio, il solo volto che non si chiude mai perché la sua trasparenza è infinita, il solo sguardo che non pietrifica mai, ma che libera. Volto dei volti, chiave di tutti i volti". Il cristianesimo, dunque, come religione dei volti, non delle filosofie e dei precetti, dei discorsi, dei libri e delle parole, ma della Persona, del Verbo di Dio fatto carne e diventato esperienza per ciascun uomo. In questo sguardo che non pietrifica, in questa esperienza che ha tutto il rigore e l'esigenza del rapporto personale, il cristianesimo, liberato dalle astrazioni dei sistemi e delle loro imposizioni, ritrovava la sua capacità di investire tutto il cosmo, di liberarlo dal suo peso. Il cristianesimo non era più il rifiuto del mondo, della storia e della carne, anzi li ritrovava con una pienezza che il mondo, la storia e la carne non sapevano più di avere: questa nostra modalità di esistenza, intessuta di morte e di corruzione, non era più l'ultima parola sull'essere; come spiegava Clément citando Berdjaev, "non si può dire che la carne sia un principio malvagio e degno di morte perché sarebbe peccaminoso nella sua essenza stessa, è vero piuttosto che essa deve essere trasfigurata e risuscitata perché nello stato in cui si trova attualmente muore e va in disfacimento, soffre e patisce, non è né eterna né libera". La Chiesa e il mondo, distinti e irriducibili l'uno all'altra, non erano più separati e contrapposti, ma uniti in un progetto nel quale il mondo stesso ci veniva restituito proprio "nella profondità della Chiesa che, mediante i sacramenti, o meglio in quanto unico sacramento "pneumatico" del Risorto, altro non è se non il cosmo in via di trasfigurazione". Il cristianesimo, come esperienza dell'incontro personale con Cristo, era dunque inseparabilmente l'incontro di Cristo nella Chiesa, nell'oggettività dei sacramenti, dove l'uomo era liberato dal proprio soggettivismo e dalla propria pretesa dell'uomo di salvarsi da solo: l'io ritrovava se stesso incontrando un tu irriducibile alle proprie creazioni; l'intellettuale francese educato alla modernità cartesiana del cogito ergo sum riscopriva la maggiore attendibilità dell'es ergo sum.
Se il pensiero di Clément ha sempre avuto lo spessore della vita e ha sempre saputo comunicare questo spessore è proprio perché è nato dall'incontro con la vita sul limitare della morte, quella morte che aveva assalito gli uomini del XX secolo e che spesso questi uomini stessi si erano creati, credendo di potersi liberare da soli. Ricordando la propria conversione e ricordando che era stata la vittoria sulla solitudine del proprio io, Clément aveva scritto: "Una sera ho guardato a lungo, molto a lungo, le vene del legno sul mio tavolo. Tutto era presente, tutto era bene. Mi sono detto che Kirillov aveva ragione. Di già, traversando le strade, non evitavo più le macchine: essere nulla, essere tutto, tutto è uguale. Stavo per uscire per evitarle un po' meno. Allora Qualcuno m'ha guardato. Lui, sull'icona. Non giocherò a fare l'illuminato. Tutto era silenzio, parole del silenzio. Ma silenzio di Lui, parole di Lui, in una profondità più grande di quella dell'io, in una profondità in cui non ero più solo". L'io si era ritrovato in Cristo, non aveva perso nulla di quello che era, neppure il proprio male e i propri dolori: il primo avrebbe dovuto essere purificato nel corso di tutta la vita, i secondi sarebbero stati i mattoni di una lunga costruzione, ma intanto davanti a quel tu l'io era rinato: "Mi ha detto che esistevo, che voleva che io esistessi, e dunque che non ero nulla. Mi ha detto che non ero tutto, ma responsabile. Che il male era quello che facevo. Ma che, ancora più profondo, lui c'era. Mi ha detto che avevo bisogno di essere perdonato, guarito e ricreato. E che in lui ero perdonato, guarito e ricreato". In Cristo l'uomo non è più il nulla, ma non diventa magicamente il superuomo che si era sognato, diventa piuttosto responsabile, cioè libero: il che è molto di più. Nelle conferenze, numerosissime, che hanno segnato l'attività di Olivier Clément, di fronte alle domande che il pubblico gli poneva, non c'era problema che il suo cristianesimo lasciasse senza risposta, ma non c'era mai risposta che togliesse il dramma della libertà e che privasse quindi l'ascoltatore del fascino della vita che lo attendeva. "Tieni il tuo spirito nell'inferno e non disperare", era una delle massime che Clément evocava spesso richiamando i grandi spirituali alla cui scuola si era formato, su tutti, i Padri della Chiesa; nell'inferno del mondo contemporaneo l'uomo non era solo, era con la compagnia di Cristo disceso agli inferi e con questa compagnia poteva affrontare ogni dolore: il dolore non era tolto, ma nella forza di chi aveva vinto la morte l'uomo trovava la forza per non esserne più condizionato, per essere pronto ad affrontare ogni prova senza che quella prova potesse determinarlo. Il centro di tutto era dunque Cristo; in lui tutto diventava miracolo: "Che qualcosa esista e non il nulla, che qualcuno esista e che non sia soltanto un pezzo di materia ma un volto, non è già un miracolo? Per chi sa guardare, tutto è miracolo, tutto è immerso nel mistero, nell'infinito. La più insignificante delle cose è un miracolo. E ancor di più lo è ogni incontro". Ma questo è possibile soltanto in Cristo perché "senza di lui la religione "sarebbe rimasta un'astrazione"; senza di lui "l'unione reale con Dio sarebbe impossibile"". Ma la centralità di Cristo per Olivier Clément era la centralità della Chiesa, senza della quale Cristo rischiava ogni volta di essere ridotto alla fantasia soggettiva delle idee o dei buoni sentimenti dell'umanità, perché "fuori dalla comunione interna alla Tradizione di Cristo, non si può vederlo né comprenderlo; si vedranno sempre elementi separati, Dio nel cielo e l'uomo sulla terra". E ancor di più, ancor più dolorosamente, per un ortodosso che viveva in un Paese tradizionalmente cattolico, per un ortodosso assetato dell'unità, questa separazione tra il cielo e la terra veniva sottolineata dalla separazione storica dell'oriente e dell'occidente, alla quale Clément non è mai stato tentato di rispondere con ricette tranquillizzanti o con progetti arrischiati; a tutto ciò preferì piuttosto la via difficile ma entusiasmante della conversione personale. Quelli che lo incontravano erano conquistati da questa prospettiva e dalla sua amicizia, e con lui iniziavano uno scambio di esperienze nel quale proprio le diverse conversioni all'unico Cristo aprivano "la possibilità di ritrovare l'unione non attraverso la via - presto sbarrata - di un riaccorpamento sociologico o di un aggiustamento concettuale, ma innanzitutto attraverso il recupero creativo del senso vivente dell'unica Chiesa nella diversità delle sue tradizioni". È tra l'altro questa sfida che ci lascia oggi Olivier Clément, la sfida rivolta a ciascuno di noi perché ciascuno di noi recuperi il senso vivente dell'unica Chiesa nella diversità della tradizione in cui gli è stato dato di incontrare Cristo e di vivere in Cristo; il resto è in Dio, "il futuro è in Dio. Le volontà di Dio riposano nell'eternità. Esse entrano nel tempo quando il tempo è maturo, quando si offre. Il nostro compito è quello di far maturare il tempo".
(©L'Osservatore Romano - 18 gennaio 2009)


Dai primi discepoli ai giorni nostri l'itinerario che porta a Gesù Cristo - L'incontro tra storia e fede di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 18 Gennaio 2009
Il percorso per giungere a Gesù Cristo non può che essere un percorso di tipo storico, e coincidere con quello seguito dai discepoli che lo hanno riconosciuto e quindi dalla Chiesa che essi hanno formato. Occorre, per questo, che ne sia disponibile l'esperienza storica, al fine di poterne emettere il giudizio relativo; bisogna, cioè, che sia possibile il "Vieni e vedi" (Giovanni, 1, 46). Riportandoci esattamente al momento dell'esistenza storica di Gesù di Nazaret, noi osserviamo il succedersi dei seguenti momenti. Il primo riguarda la relazione all'avvenimento Gesù, alla storia umana della sua "normalità", avvertita dai suoi parenti e conterranei e dai discepoli che egli raccoglie. È il primo aspetto del "vedere", aperto come tale a qualsiasi forma e livello di riferimento storico. Basta essere nella condizione di constatare. Gesù non è un mito. Il secondo momento, per altro obiettivamente connesso con il primo dell'avvertenza storica, è il passaggio dal riscontro ovvio della normalità allo stupore, o alla constatazione di un'"eccedenza", che traspare dai gesti, dai "miracoli" di Gesù; un'"eccedenza" a sua volta disponibile, che viene colta allo stesso modo da quanti gli stanno dintorno, ed è motivo di interrogazione sulla sua identità: "Chi è costui?" (Matteo, 8, 27). A giudizio stesso di Gesù questa "eccedenza", che contrassegna la sua vita e le sue opere contiene in sé la capacità di suscitare il riconoscimento, avendo un intrinseco valore di testimonianza (Giovanni, 5, 36), per cui il rifiuto del riconoscimento è suscettibile di condanna (Giovanni, 15, 24). In ogni modo, fin che il senso di tale "eccedenza", presente nella storicità di Gesù, non viene compiutamente interpretato, l'identità di Gesù rimane preclusa. Senonché sorge l'interrogativo: è possibile tale compiuta interpretazione in forza del puro giudizio razionalmente fondato sui dati della constatazione della storia o fenomenologia di Cristo con i mirabilia che le accompagnano? Ed è come dire: la ragione storica sa raggiungere una lettura integrale di quanto appare di Gesù di Nazaret, e quindi di quanto egli è? Da questo profilo, è sintomatico quanto avviene nell'episodio della confessione di Pietro (Matteo, 16, 13-17). Gesù dichiara a Pietro che la sua confessione in cui viene riconosciuto nella sua perfetta identità - "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" - non risulta dalle facoltà o possibilità "naturali" di Pietro. La manifestazione dell'identità di Cristo non è frutto della "carne" e del "sangue", ma è dono del Padre: "Non la carne e il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli". Fuori di questa rivelazione soprannaturale, di questo lumen divinae inspirationis o nova lux intelligibilis - per usare il linguaggio di san Tommaso - è possibile solo un'approssimazione, alla fine priva di qualsiasi valore: Gesù sarebbe Giovanni il Battista, Elia, Geremia o uno dei profeti, ma la sua vera identità restava preclusa. Con questa rivelazione del Padre, noi diremmo, fu data a Pietro la fides oculata, cioè un vedere che non si delimitava nei confini di una pura visione fenomenologica, ma penetrava nel mistero dal quale quella fenomenologia era sostenuta. La fides oculata concludeva esemplarmente in Pietro il circolo incominciato con l'incontro storico di Simone, condotto a Gesù dal fratello Andrea (Matteo, 1, 41-42). Ma va notato: con questa stessa rivelazione alla fides oculata avveniva non un riconoscimento del Gesù della fede, nel quale si fosse trasformato il Gesù di tutt'altro genere della storia; non una traslazione dal Gesù della storia al Gesù della fede; bensì la confessione che grazie alla fede riconosceva in pienezza, secondo verità e integralità, il Gesù della storia. Fuori dall'orizzonte della fede si perde automaticamente anche il vero Gesù della storia, che non è diviso in se stesso, per una specie di "schizofrenia". Certamente, anche senza la percezione della fede, restano dei segni e delle tracce storiche di Cristo, ma se tali segni e tracce sono separati dall'identità di Gesù percepita dalla fede, il Gesù storico resta incompreso, frainteso e, potremmo persino dire, non esistente, dal momento che l'unico Gesù storicamente esistente è Gesù di Nazaret Figlio di Dio, quale venne confessato da Pietro. Quanto alla risurrezione, nella quale è sfolgorata tutta l'identità di Gesù, non ha creato un Gesù della fede, diverso da quello che era stato il Gesù della storia, ma ha esaltato e fatto riconoscere chi veramente fosse colui che l'esperienza aveva incontrato nella sua storicità. A questo punto il discorso si fa ecclesiale: la Chiesa appare la testimonianza di Cristo, il luogo della presenza di Cristo, veduto e in atto nella fede. La Chiesa, d'altronde, è nata proprio da questa visione e da questa fede. Ma qui sorgono due interrogativi. Il primo: si può dire che la Chiesa succede all'esperienza immediata dell'evento storico di Cristo, da cui la testimonianza è iniziata? Chi, come noi tutti post Christum natum, non ha più la possibilità cronologica, o per esperienza immediata, del giudizio storico - che abbiamo distinto dal giudizio di tipo metafisico - di quale base e sostegno fenomenologico dispone per il suo giudizio e la sua confessione e adesione a Gesù? La Chiesa è chiamata a fare da interferente e a sostituire con la propria testimonianza e garanzia questo giudizio personale? O invece la sua missione è quella di ripresentare in se stessa, di essere l'epifania dell'evento di Gesù nella sua storicità, così che tale giudizio possa essere veramente formulato, e possa risultare fondata l'adesione del credente? Da questo profilo può suggestivamente risaltare la funzione della documentazione della Scrittura, che è vivente nella Chiesa, come guida nell'itinerario storico su cui matura la visione della fede, restando sempre lo Spirito a sopperire all'impotenza della carne e del sangue e a rivelare Gesù Cristo mediante il dono degli "occhi illuminati del cuore"? In ogni caso, oggi e in qualsiasi tempo, Cristo è presente nel mondo perché, e nella misura in cui, è presente nella fede della Chiesa e nella testimonianza cristiana, in cui continua, quasi "sacramentalmente", la confessione di Pietro e la rivelazione del Padre. Propriamente, fuori da questo confine e dalla comunione con questa fede della Chiesa, Cristo non è in modo compiuto né presente né riconoscibile.
La cultura può recepire Cristo, ed esserne toccata, ma come riflesso operoso di questa sua presenza nella fede ecclesiale, la quale non è destinata a rimanere chiusa e sterile, ma esattamente ad "applicare" e a imprimere nel mondo, in modo multiforme, la presenza di Cristo che vive in lei, anche se tale presenza nel mondo o nella cultura rimane sempre incerta e quasi precaria, dal momento che la sua genesi e suo il fondamento non si trovano originariamente nel mondo. Ma un secondo interrogativo sembra importante: sono oggi disponibili, per quanto riguarda Gesù Cristo, strumenti o percorsi documentari di natura storico-critica tali da permettere a ogni serio ricercatore di giungere all'obiettiva storia di Gesù e di farne una valutazione, antecedentemente al giudizio e all'adesione della fede? Certamente: questi strumenti e questi percorsi sono disponibili. È possibile con essi arrivare a un insieme di fatti e di "constatazioni" relativi alla figura di Cristo, nella linea delle constatazioni di quanti lo hanno incontrato storicamente, e quindi di formulare valutazioni pertinenti. Solo che, per il giudizio ultimo e compiuto, è necessario il lumen divinum, e la percezione della fede. Questa, tuttavia, non fa aggiunte arbitrarie, non maggiora né inventa dei dati o dei fatti: permette, invece, di averne una lettura completa, e di emettere, così, un giudizio esauriente e "completo" della documentazione diligentemente raccolta e investigata. Il cultore della storia critica avente come oggetto Gesù di Nazaret, se per grazia diviene credente, non rimuove, quindi, e non altera né deprezza il suo lavoro di ricerca; non devìa dal suo itinerario e dalla sua scienza; al contrario, ne coglie tutta la imprescindibilità, ne raggiunge la soddisfazione, pervenendo obiettivamente alla sua meta. Con la fede, il ricercatore trova proprio quella Realtà che ha dato consistenza alla storia di Gesù; rinviene quel Cristo, Figlio di Dio, che fu esattamente il Gesù di Nazaret, materia immediata della sua analisi.
(©L'Osservatore Romano - 18 gennaio 2009)


LE COLPE MAGGIORATE TRA ISRAELIANI E PALESTINESI - La specialità di questa guerra Tomba per l’infanzia - DON GIANCARLO CONTE – Avvenire, 18 gennaio 2009
Ora nessuno più le chiama 'bombe intelligenti'. Dopo la bomba che fa strage in una scuola gestita dall’Onu. La guerra in corso tra i palestinesi di Hamas e gli israeliani è una delle più crudeli contro i bambini. I missili palestinesi Qassam uccidono o feriscono bimbi ebrei, mentre le bombe di cannone o di aereo israeliane massacrano bambini palestinesi. «Siamo governati da pazzi», diceva una scritta murale a Piacenza, negli anni bui del terrorismo. La si potrebbe ripetere in questa situazione di guerra senza fine. Finché il mondo sarà governato dalla legge del taglione «occhio per occhio, dente per dente», assisteremo di continuo a stragi di questo genere. I pazzi di Hamas dicono: gli ebrei uccidono i nostri figli, noi uccideremo i loro. I bambini trasformati volutamente in oggetti di vendette assurde. Perché muoiono tanti bambini palestinesi (sono già più di 350) a Gaza? Non certo perché sono presi di mira appositamente, ma perché nella Striscia con un milione e mezzo di abitanti i minori di 15 anni sono il 45%, cioè circa 700mila.
Davvero si può dire che «Gaza è la tomba dell’infanzia». Alcune famiglie muoiono per intero. Un solo esempio: in un edificio colpito da una bomba sono morti 5 adulti e 7 fratelli piccoli, l’ultimo dei quali non aveva ancora un anno. Tutti bambini che da quando sono nati hanno visto soltanto la guerra. Non va meglio nelle città israeliane colpite dai razzi Qassam.
Una bimba di 3 mesi nei giorni scorsi è scampata per miracolo alla morte, grazie a una sorellina di 7 anni che ha fatto appena in tempo a portarla nei pressi del rifugio, quando un missile è scoppiato ferendola alla fronte. C’è un cimitero ebraico pieno di piccole lapidi di bambini uccisi dai missili di Hamas.
A Gaza gli ospedali sono stracolmi all’inverosimile e nell’impossibilità di curare tutti i feriti. Addirittura alcune ambulanze (talvolta vigliaccamente usate da Hamas per spostare soldati) vengono colpite da proiettili e i feriti trasportati muoiono dissanguati perché il conducente è morto o fuggito. Le case di Gaza sono senza luce e con il forte rischio di epidemie per mancanza di acqua pulita. Il parroco dei cattolici palestinesi di Gaza dice che i bambini arabi vedono tutto, sentono la guerra e impazziscono di dolore. Molti hanno smesso di mangiare, sono passivi, non giocano più, parlano a stento e si aggrappano ai genitori. Gli stessi sintomi dei bambini ebrei che vivono al confine di Gaza.
Una psicologa israeliana afferma: «I bambini hanno ansie, attacchi di panico, vogliono dormire coi genitori, riprendono a fare la pipì a letto anche se già grandicelli». In passato si parlava di «danni collaterali alla guerra», cioè di morti e feriti accidentali tra i civili. Oggi non lo si può più dire perché – quando la guerra si combatte in un centro abitato – si sa che muoiono sempre e soprattutto civili e bambini. Possiamo – di fronte a queste guerre infinite – noi adulti di tutto il mondo assistere alle stragi di bambini (ebrei, palestinesi, congolesi...) senza reagire attivamente o almeno con lo sdegno delle parole o la preghiera? Perché ci devono essere nel mondo bambini che non fanno a tempo a gustare l’affetto dei genitori, le cose belle della vita e la gioia di vivere?
Davvero l’umanità di oggi non sa più difendere i propri bambini, speranza del domani?
Guardiamoli, noi adulti, quei piccoli volti in lacrime e disperati che tv e giornali ci mostrano ogni giorno. E diciamo ai nostri bambini che – un giorno, forse – di guerre non ce ne saranno più.