giovedì 29 gennaio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: Scrittura e Tradizione sono il fondamento della fede - Catechesi all’udienza generale del mercoledì
2) 28/01/2009 10:44 – MYANMAR - Minoranza cristiana Chin vittima di persecuzioni della dittatura birmana - Lo denuncia l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch. Il documento è frutto di tre anni di indagini in cui sono raccolte 140 interviste che descrivono abusi, torture, lavori forzati e discriminazioni a sfondo confessionale. “Siamo un popolo dimenticato”.
3) Il T.A.R. Lombardia e l'eutanasia - Autore: Spinelli, Stefano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 29 gennaio 2009
4) Lettera fuori stagione di Celestino a Babbo Natale - Autore: Corbetta, Stefano Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 28 gennaio 2009 - L'altra sera mi sono imbattuto nella nota trasmissione "Parla con Me", condotta da Serena Dandini su Rai Tre. All'interno, uno spazio in cui il comico Ascanio Celestini leggeva una letterina a Babbo Natale. Ho pensato che fosse un ottimo manifesto nichilista e poichè sono convinto che, come scrive il filosofo Umberto Galimberti nel bellissimo libro "L'Ospite Inquietante", i giovani hanno bisogno di tutto fuorchè di questo nichilismo imperante, mi sono permesso di scrivere una letterina al povero Babbo Natale, immaginando un bambino diverso. Il suo nome è Celestino.
5) La ricerca di una speranza dalla filosofia alla letteratura - L'uomo di fronte al male - Nella serata di giovedì 29 gennaio al Teatro Argentina di Roma si svolge un colloquio organizzato dall'Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato. Al tavolo dei relatori Pierluigi Celli, direttore generale dell'università Luiss Guido Carli, e l'arcivescovo di Chieti-Vasto. Dell'intervento di quest'ultimo anticipiamo ampi stralci. - di Bruno Forte – L’Osservatore Romano, 29 gennaio 2009
6) Dalla Russia nove storie di eroi - Roberto Fontolan - giovedì 29 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
7) UE/ Dall'Europa un attacco ai diritti e alla vita sociale - INT. Paolo Carozza - giovedì 29 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) ELUANA/ In attesa di un commissario “ad mortem”… - Nicolò Zanon - giovedì 29 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) CASO ELUANA, SEMPRE NUOVI INTERROGATIVI - Forzature, discriminazioni, silenzi Ma un giudice c’è a Milano? - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 29 gennaio 2009
10) 100 milioni di dollari per abortire - I più felici erano quelli dell’Interna­tional Planned Parenthood Federation (Ippf), una delle lobby abortiste più agguerrite d’America: «Abolendo questa legge Obama ha fatto riguadagnare agli Stati Uniti il consenso internazionale sulla salute delle donne». - La lobby antinatalista batte già cassa: «Bush ci ha tolto un sacco di soldi, avremmo evitato 36 milioni di gravidanze indesiderate nel Sud del mondo». Come a dire: altrettanti bimbi non sarebbero nati – di Lorenzo Fazzini – Avvenire, 29 gennaio 2009
11) Scartati perché difettosi: bebè ostaggio della genetica - L’allarme del genetista Giovanni Neri sulla deriva della diagnosi prenatale: i medici sono in grado di individuare mutazioni minuscole del patrimonio genetico di un feto ma non di dire se esse sono patologiche E non di rado si sentenzia l’eliminazione di un essere umano per il solo sospetto che possa avere forse un imprecisato problema – di Luisella G. Daziano – Avvenire, 29 gennaio 2009
12) Fine vita: scacco al diritto in tre sentenze - di Michele Aramini – Dal pronunciamento della Corte di Cassazione del 2007 a quanto deciso lunedì dal Tribunale amministrativo della Lombardia Così la giurisprudenza è diventata strumento della battaglia per introdurre in Italia l’eutanasia, pur senza chiamarla per nome Il tutto con ragionamenti a una sola direzione, ridando attualità al detto latino: «Summum ius summa iniuria»Avvenire, 29 gennaio 2009
13) Tar lombardo, quanti motivi per bocciarlo - Il giudice avrebbe dovuto accertare se quel «trattamento» che la Cassazione ha giudicato lecito sia anche un trattamento dovuto nell’ambito del servizio sanitario nazionale Così non ha fatto. Parla Aristide Police – di Andrea Galli – Avvenire, 29 gennaio 2009


Benedetto XVI: Scrittura e Tradizione sono il fondamento della fede - Catechesi all’udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 28 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi nell'aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, riprendendo il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulle Lettere a Timoteo e a Tito.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
le ultime Lettere dell'epistolario paolino, delle quali vorrei parlare oggi, vengono chiamate Lettere Pastorali, perché sono state inviate a singole figure di Pastori della Chiesa: due a Timoteo e una a Tito, collaboratori stretti di san Paolo. In Timoteo l’Apostolo vedeva quasi un alter ego; infatti gli affidò delle missioni importanti (in Macedonia: cfr At 19,22; a Tessalonica: cfr 1 Ts 3,6-7; a Corinto: cfr 1 Cor 4,17; 16,10-11), e poi scrisse di lui un elogio lusinghiero: "Io non ho nessuno di animo uguale come lui, che sappia occuparsi così di cuore delle cose che vi riguardano" (Fil 2,20). Secondo la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, del IV secolo, Timoteo fu poi il primo Vescovo di Efeso (cfr 3,4). Quanto a Tito, anch'egli doveva essere stato molto caro all'Apostolo, che lo definisce esplicitamente "pieno di zelo... mio compagno e collaboratore" (2 Cor 8,17.23), anzi "mio vero figlio nella fede comune" (Tt 1,4). Egli era stato incaricato di un paio di missioni molto delicate nella Chiesa di Corinto, il cui risultato rincuorò Paolo (cfr 2 Cor 7,6-7.13; 8,6). In seguito, per quanto ci è tramandato, Tito raggiunse Paolo a Nicopoli nell’Epiro, in Grecia (cfr Tt 3,12), e fu poi da lui inviato in Dalmazia (cfr 2 Tm 4,10). Secondo la Lettera a lui indirizzata, egli risulta poi essere stato Vescovo di Creta (cfr Tt 1,5).
Le Lettere indirizzate a questi due Pastori occupano un posto tutto particolare all'interno del Nuovo Testamento. La maggioranza degli esegeti è oggi del parere che queste Lettere non sarebbero state scritte da Paolo stesso, ma la loro origine sarebbe nella "scuola di Paolo", e rifletterebbe la sua eredità per una nuova generazione, forse integrando qualche breve scritto o parola dell’Apostolo stesso. Ad esempio, alcune parole della Seconda Lettera a Timoteo appaiono talmente autentiche da poter venire solo dal cuore e dalla bocca dell’Apostolo.
Senza dubbio la situazione ecclesiale che emerge da queste Lettere è diversa da quella degli anni centrali della vita di Paolo. Egli, adesso, in retrospettiva si autodefinisce "araldo, apostolo, e maestro" dei pagani nella fede e nella verità, (cfr 1 Tm 2,7; 2 Tm 1,11); si presenta come uno che ha ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo – così scrive – "ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta la sua magnanimità, perché io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna". (1 Tm 1,16). Quindi essenziale è che realmente in Paolo, persecutore convertito dalla presenza del Risorto, appare la magnanimità del Signore a incoraggiamento per noi, per indurci a sperare e ad avere fiducia nella misericordia del Signore che, nonostante la nostra piccolezza, può fare cose grandi. Oltre gli anni centrali della vita di Paolo vanno anche i nuovi contesti culturali qui presupposti. Infatti si fa allusione all'insorgenza di insegnamenti da considerare del tutto errati e falsi (cfr 1 Tm 4,1-2; 2 Tm 3,1-5), come quelli di chi pretendeva che il matrimonio non fosse buono (cfr 1 Tm 4,3a). Vediamo come sia moderna questa preoccupazione, perché anche oggi si legge a volte la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come parola dello Spirito Santo, nella quale possiamo sentire la stessa voce del Signore e conoscere la sua presenza nella storia. Potremmo dire che, con questo breve elenco di errori presenti nelle tre Lettere, appaiono anticipati alcuni tratti di quel successivo orientamento erroneo che va sotto il nome di Gnosticismo (cfr 1 Tm 2,5-6; 2 Tm 3,6-8).
A queste dottrine l'autore fa fronte con due richiami di fondo. L'uno consiste nel rimando a una lettura spirituale della Sacra Scrittura (cfr 2 Tm 3,14-17), cioè a una lettura che la considera realmente come "ispirata" e proveniente dallo Spirito Santo, così che da essa si può essere "istruiti per la salvezza". Si legge la Scrittura giustamente ponendosi in colloquio con lo Spirito Santo, così da trarne luce "per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia" (2 Tm 3,16). In questo senso aggiunge la Lettera: "perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" (2 Tm 3,17). L’altro richiamo consiste nell’accenno al buon "deposito" (parathéke): è una parola speciale delle Lettere pastorali con cui si indica la tradizione della fede apostolica da custodire con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi. Questo cosiddetto "deposito" è quindi da considerare come la somma della Tradizione apostolica e come criterio di fedeltà all’annuncio del Vangelo. E qui dobbiamo tenere presente che nelle Lettere pastorali come in tutto il Nuovo Testamento, il termine "Scritture" significa esplicitamente l’Antico Testamento, perché gli scritti del Nuovo Testamento o non c’erano ancora o non facevano ancora parte di un canone delle Scritture. Quindi la Tradizione dell’annuncio apostolico, questo "deposito", è la chiave di lettura per capire la Scrittura, il Nuovo Testamento. In questo senso, Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio apostolico come chiave di lettura, vengono accostate e quasi si fondono, per formare insieme il "fondamento saldo gettato da Dio" (2 Tm 2,19). L’annuncio apostolico, cioè la Tradizione, è necessario per introdursi nella comprensione della Scrittura e cogliervi la voce di Cristo. Occorre infatti essere "tenacemente ancorati alla parola degna di fede, quella conforme agli insegnamenti ricevuti" (Tt 1,9). Alla base di tutto c'è appunto la fede nella rivelazione storica della bontà di Dio, il quale in Gesù Cristo ha manifestato concretamente il suo "amore per gli uomini", un amore che nel testo originale greco è significativamente qualificato come filanthropía (Tt 3,4; cfr 2 Tm 1,9-10); Dio ama l’umanità.
Nell’insieme, si vede bene che la comunità cristiana va configurandosi in termini molto netti, secondo una identità che non solo prende le distanze da interpretazioni incongrue, ma soprattutto afferma il proprio ancoraggio ai punti essenziali della fede, che qui è sinonimo di "verità" (1 Tm 2,4.7; 4,3; 6,5; 2 Tm 2,15.18.25; 3,7.8; 4,4; Tt 1,1.14). Nella fede appare la verità essenziale di chi siamo noi, chi è Dio, come dobbiamo vivere. E di questa verità (la verità della fede) la Chiesa è definita "colonna e sostegno" (1 Tm 3,15). In ogni caso, essa resta una comunità aperta, dal respiro universale, la quale prega per tutti gli uomini di ogni ordine e grado, perché giungano alla conoscenza della verità: "Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità", perche "Gesù Cristo ha dato se stesso in riscatto per tutti" (1 Tm 2,4-5). Quindi il senso dell’universalità, anche se le comunità sono ancora piccole, è forte e determinante per queste Lettere. Inoltre tale comunità cristiana "non parla male di nessuno" e "mostra ogni dolcezza verso tutti gli uomini" (Tt 3,2). Questa è una prima componente importante di queste Lettere: l’universalità e la fede come verità, come chiave di lettura della Sacra Scrittura, dell’Antico Testamento e così si delinea una unità di annuncio e di Scrittura e una fede viva aperta a tutti e testimone dell’amore di Dio per tutti.
Un’altra componente tipica di queste Lettere è la loro riflessione sulla struttura ministeriale della Chiesa. Sono esse che per la prima volta presentano la triplice suddivisione di episcopi, presbiteri e diaconi (cfr 1 Tm 3,1-13; 4,13; 2 Tm 1,6; Tt 1,5-9). Possiamo osservare nelle Lettere pastorali il confluire di due diverse strutture ministeriali e così la costituzione della forma definitiva del ministero nella Chiesa. Nelle Lettere paoline degli anni centrali della sua vita, Paolo parla di "episcopi" (Fil 1,1), e di "diaconi": questa è la struttura tipica della Chiesa formatasi all’epoca nel mondo pagano. Rimane pertanto dominante la figura dell’apostolo stesso e perciò solo man mano si sviluppano gli altri ministeri.
Se, come detto, nelle Chiese formate nel mondo pagano abbiamo episcopi e diaconi, e non presbiteri, nelle Chiese formate nel mondo giudeo-cristiano i presbiteri sono la struttura dominante. Alla fine nelle Lettere pastorali, le due strutture si uniscono: appare adesso "l’episcopo", (il vescovo) (cfr 1 Tm 3,2; Tt 1,7), sempre al singolare, accompagnato dall’articolo determinativo "l’episcopo". E accanto a "l’episcopo" troviamo i presbiteri e i diaconi. Sempre ancora è determinante la figura dell’Apostolo, ma le tre Lettere, come ho già detto, sono indirizzate non più a comunità, ma a persone: Timoteo e Tito, i quali da una parte appaiono come Vescovi, dall’altra cominciano a stare al posto dell’Apostolo.
Si nota così inizialmente la realtà che più tardi si chiamerà "successione apostolica". Paolo dice con tono di grande solennità a Timoteo: "Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri" (1 Tim 4, 14). Possiamo dire che in queste parole appare inizialmente anche il carattere sacramentale del ministero. E così abbiamo l’essenziale della struttura cattolica: Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio, formano un insieme, ma a questa struttura, per così dire dottrinale, deve aggiungersi la struttura personale, i successori degli Apostoli, come testimoni dell’annuncio apostolico.
Importante infine notare che in queste Lettere la Chiesa comprende se stessa in termini molto umani, in analogia con la casa e la famiglia. Particolarmente in 1 Tm 3,2-7 si leggono istruzioni molto dettagliate sull'episcopo, come queste: egli dev'essere "irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria casa, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre... è necessario che egli goda buona testimonianza presso quelli di fuori". Si devono notare qui soprattutto l'importante attitudine all'insegnamento (cfr anche 1 Tm 5,17), di cui si trovano echi anche in altri passi (cfr 1 Tm 6,2c; 2 Tm 3,10; Tt 2,1), e poi una speciale caratteristica personale, quella della "paternità". L’episcopo infatti è considerato padre della comunità cristiana (cfr anche 1 Tm 3,15). Del resto l'idea di Chiesa come "casa di Dio" affonda le sue radici nell'Antico Testamento (cfr Nm 12,7) e si trova riformulata in Eb 3,2.6, mentre altrove si legge che tutti i cristiani non sono più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari della casa di Dio (cfr Ef 2,19).
Preghiamo il Signore e san Paolo perché anche noi, come cristiani, possiamo sempre più caratterizzarci, in rapporto alla società in cui viviamo, come membri della "famiglia di Dio". E preghiamo anche perché i pastori della Chiesa acquisiscano sempre più sentimenti paterni, insieme teneri e forti, nella formazione della Casa di Dio, della comunità, della Chiesa.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un saluto cordiale ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai rappresentanti delle Equipes Notre-Dame e agli esponenti del Segretariato Pellegrinaggi Italiani. Cari amici, auspico che questo incontro accresca il vostro impegno di testimonianza evangelica nella società.
Saluto poi i giovani, i malati e gli sposi novelli. Celebriamo quest’oggi la memoria liturgica di San Tommaso d’Aquino, patrono delle Scuole cattoliche. Il suo esempio spinga voi, cari giovani, specialmente voi studenti dell’Associazione Erasmus, a seguire Gesù come autentico maestro di vita e santità. L’intercessione di questo Santo Dottore della Chiesa ottenga per voi, cari malati, la serenità e la pace che si attingono al mistero della croce, e per voi, cari sposi novelli, la sapienza del cuore perchè compiate generosamente la vostra missione.
COMUNICAZIONI DEL SANTO PADRE
Dopo il saluto in polacco, il Papa ha aggiunto:
Prima dei saluti ai pellegrini italiani ho ancora tre comunicazioni da fare. La prima:
Ho appreso con gioia la notizia dell’elezione del metropolita Kirill a nuovo Patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Invoco su di lui la luce dello Spirito Santo per un generoso servizio alla Chiesa ortodossa russa, affidandolo alla speciale protezione della Madre di Dio.
La seconda.
Nell’omelia pronunciata in occasione della solenne inaugurazione del mio Pontificato dicevo che è "esplicito" compito del Pastore "la chiamata all’unità", e commentando le parole evangeliche relative alla pesca miracolosa ho detto: "sebbene fossero così tanti i pesci, la rete non si strappò", proseguivo dopo queste parole evangeliche: "Ahimè, amato Signore, essa – la rete - ora si è strappata, vorremmo dire addolorati". E continuavo: "Ma no – non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa che non delude e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità che tu hai promesso…. Non permettere, Signore, che la tua rete si strappi e aiutaci ad essere servitori dell’unità".
Proprio in adempimento di questo servizio all’unità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di Successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro Vescovi ordinati nel 1988 da Mons. Lefebvre senza mandato pontificio. Ho compiuto questo atto di paterna misericordia, perché ripetutamente questi Presuli mi hanno manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare. Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II.
La terza comunicazione.
In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi ritornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite ad Auschwitz, uno dei lager nei quali si è consumato l’eccidio efferato di milioni di ebrei, vittime innocenti di un cieco odio razziale e religioso. Mentre rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La Shoah sia per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. Nessun uomo è un’isola, ha scritto un noto poeta. La Shoah insegni specialmente sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità dell’uomo!
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


28/01/2009 10:44 – MYANMAR - Minoranza cristiana Chin vittima di persecuzioni della dittatura birmana - Lo denuncia l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch. Il documento è frutto di tre anni di indagini in cui sono raccolte 140 interviste che descrivono abusi, torture, lavori forzati e discriminazioni a sfondo confessionale. “Siamo un popolo dimenticato”.
Yangon (AsiaNews/Agenzie) – Il regime militare birmano è responsabile di abusi sistematici contro l’etnia Chin, a maggioranza cristiana, vittima di lavori forzati, torture e persecuzioni a sfondo confessionale. Lo denuncia oggi l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch all’interno di un nuovo rapporto in cui sono contenute le testimonianze di diversi esponenti di etnia Chin: essi sono vittime di abusi e violazione dei diritti di base, perpetrati dall'esercito su ordine della giunta militare al potere in Myanmar.
Il documento è frutto di una ricerca elaborata tra il 2005 e il 2008 all’interno del quale vi sono 140 interviste di esponenti della minoranza, alcuni dei quali vivono oggi all’estero mentre altri risiedono nei luoghi di appartenenza. L’etnia Chin è sottoposta a intimidazioni e minacce da parte della giunta, che vuole reprimere qualsiasi forma di dissenso. Le principali violazioni denunciate da Human Rights Watch sono: restrizioni alla libertà di movimento; confisca di terreni o denaro, sequestri cibo e proprietà; lavoro forzato e persecuzioni di carattere confessionale.
“Siamo come schiavi, dobbiamo fare tutto quello che [l’esercito] ci dice di fare” racconta un uomo di etnia Chin che accusa: “Siamo un popolo dimenticato”. Anche quanti cercano rifugio all’estero, soprattutto nel Mizoram – stato nel nord-est dell’India, al confine con il Myanmar – sono vittime di discriminazioni e di abusi a sfondo confessionale. Spesso uomini e donne Chin vengono utilizzati dai militari dell’eserito birmano come portantini o mandati all’avanscoperta nei terreni minati: “Una volta mi sono rifiutata di portare le loro attrezzature – dice una donna Chin della città di Thantlang – perché ero stanca morta e il bagaglio era davvero pesante. Loro mi hanno picchiata, dicendo: ‘Tu vivi sotto la nostra autorità. Non hai scelta. Devi fare ciò che diciamo”.
In Myanmar vi sono circa 57 milioni di abitanti – suddivisi in 135 diversi gruppi etnici – la maggior parte dei quali è di religione buddista. Alcuni di questi gruppi sono in conflitto con il regime birmano per ottenere l'indipendenza. L’etnia Chin – l’1% del totale della popolazione del Myanmar – è al 90% di religione cristiana e vive nella regione montuosa del nord-ovest, al confine con l’India. Anche i Chin hanno ingaggiato una guerra con il potere centrale, condotta dall’esercito ribelle Chin National Front.


Il T.A.R. Lombardia e l'eutanasia - Autore: Spinelli, Stefano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 29 gennaio 2009
Dall’autorizzazione alla sospensione dell’alimentazione, in capo al tutore di Eluana; all’obbligo di sospensione dell’alimentazione di Eluana, in capo a tutte le strutture sanitarie, pubbliche o private, del territorio nazionale.

Il Tar della Lombardia accoglie il ricorso di Beppino Englaro e annulla il provvedimento con cui la Regione Lombardia, il 3 settembre, aveva negato alle cliniche lombarde l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione di Eluana, la donna in stato vegetativo da ormai 17 anni.
Sostiene il tribunale che «il diritto costituzionale di rifiutare le cure è un diritto di libertà assoluto, il cui dovere si impone nei confronti di chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura, non importa se operante all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata».
Così, Eluana «quale malata in fase terminale avrà anche il diritto a che le siano apprestate tutte le misure» che le garantiscano «un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona, durante tutto il periodo successivo alla sospensione del trattamento di sostegno vitale».

E’ dunque sancita la pretesa nei confronti dello Stato di ottenere la sospensione dell’alimentazione.
E’ dunque sancito il diritto ad ottenere dalle strutture sanitarie l’accompagnamento di Eluana ad una morte “dignitosa” (la cd. “buona morte”).
E’ dunque sancita, in altre parole, l’eutanasia (però solo per via giudiziale; dal momento che, anzi, il nostro ordinamento giuridico contiene norme opposte, punendo l’omicidio del consenziente o l’aiuto al suicidio!).

Si ha un bel dire – sia da parte della Corte di Cassazione, che da parte del T.A.R. Lombardia – che «tale ipotesi non costituisce, secondo il nostro ordinamento, una forma di eutanasia, bensì la scelta insindacabile del malato a che la malattia segua il suo corso naturale fino all’inesorabile exitus».

Qui non si è meramente di fronte al rispetto di una scelta personalissima (come quella di non farsi curare) (libertà negativa, che impedisce allo stato di imporre comunque la cura, salvo che nei casi espressamente previsti per legge dall’art. 32, secondo comma, Cost.).
Qui si è di fronte alla pretesa che la struttura sanitaria ponga in essere – lei stessa – comportamenti commissivi e “facere” specifici, che realizzino ed attuino un aiuto/accompagnamento all’exitus inesorabile della malattia, ossia alla morte (come detto vietata al momento nel nostro ordinamento).

Non si può giocare con le parole.
Come chiamare ciò se non con il termine eutanasia?

Allora, mi pare si dovrebbe ripensare seriamente alla decisione assunta dalla Corte Costituzionale, ed alla sua ordinanza peraltro preliminare (senza quindi affrontare la questione nel merito) che non ha ravvisato nella fattispecie una invasione di campo da parte della giurisprudenza nel terreno normativo.
Non si tratta di riservare determinate materie al Parlamento.
Si tratta di non utilizzare sentenze (in tutti i campi) per “creare” diritti non (non ancora) previsti dall’ordinamento, colmando veri e propri vuoti normativi, in presenza anzi di norme di contenuto addirittura opposto a quelle create.


Lettera fuori stagione di Celestino a Babbo Natale - Autore: Corbetta, Stefano Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 28 gennaio 2009 - L'altra sera mi sono imbattuto nella nota trasmissione "Parla con Me", condotta da Serena Dandini su Rai Tre. All'interno, uno spazio in cui il comico Ascanio Celestini leggeva una letterina a Babbo Natale. Ho pensato che fosse un ottimo manifesto nichilista e poichè sono convinto che, come scrive il filosofo Umberto Galimberti nel bellissimo libro "L'Ospite Inquietante", i giovani hanno bisogno di tutto fuorchè di questo nichilismo imperante, mi sono permesso di scrivere una letterina al povero Babbo Natale, immaginando un bambino diverso. Il suo nome è Celestino.
Caro Babbo Natale,
ieri sera avevo mal di pancia, mi veniva da vomitare… mi sa che mi sono preso l’influenza.
Comunque, stavo seduto in cucina aspettando che la mamma mi preparasse la camomilla calda, quella con tanto limone, quella che fa passare ogni cosa. La televisione era accesa e ad un certo punto è apparso un buffo personaggio con la faccia da folletto. Ha incominciato a leggere una lettera, una lettera per te. Che strano, mi sono detto… Natale è già passato! Poi il buffo signore dalla barbetta lunga ha subito spiegato che la lettera non serviva per chiederti dei regali… no no! Continuava a dire che tu non esisti. Sai cosa ho pensato? Ho pensato che quella lettera non l’aveva scritta un bambino… E poi, perché ti scrive se pensa che tu non esisti? Allora ho capito. La stava leggendo per me quella letterina, e per tutti i bambini con l’influenza che stavano aspettando la mamma con la camomilla calda, quella con tanto limone, quella che fa passare ogni cosa.
Eh sì, lui è diventato grande, e non crede più in te. Dice che sei grasso… beh, su questo devo ammettere che ha ragione! E’ diventato grande, lui. E diceva che non credeva più nemmeno in Dio. Anzi, diceva che è impossibile credere in Dio. Diceva che aveva perso la fede, ed era contento, perché la fede è come la verginità: prima o poi bisogna perderla. Io questa cosa non l’ho capita sai? Sono un bambino! Però lo so cos’è la fede: è quando credi a qualcosa che non si può vedere, giusto? Io non ho capito perché è così sicuro che tu non esisti, che Dio non esiste. Perché non me l’ha spiegato… anzi no! Ha detto che è impossibile credere in Dio. Il mio papà però mi ha detto che tanto tempo fa un signore ha scritto che un uomo osò sperare l’impossibile, e fu il più grande di tutti. Quell’uomo si chiamava Abramo. Secondo te chi ha ragione, il buffo signore dalla faccia da folletto o il mio papà? Io voglio essere il più grande di tutti, come Superman, come Abramo.
Poi ha continuato a leggere e io mi sono un po’ spaventato. Parlava di uomini che morivano, di guerre, e diceva che la colpa non è di Dio, ma degli uomini. Il buffo signore ha ragione… forse intendeva dire che magari certe volte gli uomini litigano e fanno la guerra perché pensano che il loro Dio sia più bello e forte di quello degli altri. Sì sì, mi sa che è proprio così. Mio cugino Andrea l’altro giorno in cortile ha rotto il naso ad un altro bambino perché diceva che il Milan è più forte dell’Inter… Comunque, noi bambini, quelli piccoli intendo, non le facciamo mica queste cose, non ci pensiamo nemmeno… Non è che a perdere la fede si diventa così? La fede vera, intendo. Quella della nonna, quella che fa passare ogni cosa. Quella che, quando è morto il nonno, lei ha pianto ma poi mi ha abbracciato e mi ha detto che il nonno era in cielo, e mi ha sorriso.
Comunque, il momento in cui ho avuto più paura è stato quando il buffo signore ha detto che ci sono delle mamme che vogliono uccidere i bambini che hanno nella pancia. E non possono farlo perché c’è il crocefisso… Sì, il crocefisso, quello di Gesù. Certo che Gesù non vuole una cosa così brutta! Lui è morto, e lo sa cosa vuol dire! Perché dovrebbe essere contento di vedere morire un bambino? Comincio a pensare che il buffo signore con la faccia da folletto non volesse affatto bene ai bambini.
Diceva anche di essere libero, ora. Libero perché aveva perso la fede. Adesso è felice perché può fare quello che vuole… Io non l’ho mica capita questa cosa, sono un bambino!
Comunque, alla fine ho bevuto la camomilla e ho vomitato lo stesso. Una nottataccia!
Per consolarmi mi sono guardato il libro con le figure, quello che mi hai portato a Natale, quello sui dinosauri.
Ah, Babbo Natale, senti, prima o poi dovevo dirtelo… Lo so che il libro sui dinosauri me l’ha regalato la mamma e che tu non vieni nelle case di ogni bambino con la slitta e le renne. Sto diventando grande, lo sai?
Ma non ti preoccupare, non ho pianto quando l’ho scoperto. La mamma mi ha detto che anche le cose che si vedono qualche volta non esistono. Io questa cosa l’ho capita, anche se sono un bambino.
E… Babbo Natale, tu non mangiare troppo, se fai indigestione e muori, chi mi porterà i regali l’anno prossimo?
Celestino


La ricerca di una speranza dalla filosofia alla letteratura - L'uomo di fronte al male - Nella serata di giovedì 29 gennaio al Teatro Argentina di Roma si svolge un colloquio organizzato dall'Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato. Al tavolo dei relatori Pierluigi Celli, direttore generale dell'università Luiss Guido Carli, e l'arcivescovo di Chieti-Vasto. Dell'intervento di quest'ultimo anticipiamo ampi stralci. - di Bruno Forte – L’Osservatore Romano, 29 gennaio 2009
Di fronte al male si misura l'impotenza dell'uomo, la condizione tragica del suo esistere. Tragico è il non poter fare il bene che vorremmo e il non riuscire a impedire il male. L'apostolo Paolo ha descritto con incisività la condizione tragica dell'essere umano sfidato dal male nel capitolo settimo della Lettera ai Romani: è la condizione dell'"io", impotente di fronte al bene che non fa e al male che fa. Per Paolo è questa impotenza che il Figlio di Dio ha fatto propria, per la forza di un amore senza misura, grazie al quale il tragico viene a essere accolto negli abissi della divinità. È l'inquietante rivelazione di Romani: Dio "non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi" (8, 32), costruita sul modello del sacrificio che Abramo si dispone a fare del suo figlio amato, Isacco (Genesi, 22). Abissalmente proiettato in Dio, il tragico è abitato dal suo Spirito, i cui gemiti - descritti in Romani - segnalano la distanza fra il male presente e il promesso bene, fra l'esperienza e l'attesa. Il tragico in Dio diventa così la vera rivelazione di ciò che siamo: solo grazie a questa rivelazione è possibile percepire in tutta la sua tragicità la contingenza del mondo. Proprio così, però, la redenzione è possibile: se Dio abita l'impotenza, questa è redenta. Solo l'infinita compassione riscatta la scena di questo mondo che passa, senza indebolirne la contingenza, esaltandola anzi nella sua dignità perché fatta propria dal Redentore. Un'attenta lettura della Lettera ai Romani dimostra che il messaggio cristiano è tutt'altro che la distruzione del tragico attraverso un moralismo a buon mercato, bensì l'evoluzione del tragico nella condizione stessa di quanti sperimentano la debolezza e la sofferenza, pur essendo stati giustificati per la loro adesione a Cristo. Il tragico cristiano coinvolge non soltanto il Figlio, ma anche Dio che non lo ha risparmiato per noi, e lo Spirito che condivide il nostro gemito e quello di tutta la creazione. Solo un Dio che abita la tragicità porta in essa la buona novella della grazia: solo il Dio umano, che si carica del peso del male che devasta la terra, può liberarci e liberare il mondo. Il male è stato assunto in Dio, l'unico che così poteva vincerlo. Questo dice la Lettera ai Romani, di così bruciante attualità di fronte al nostro presente e alla sua condizione di naufragio, che non cerca salvatori a buon mercato, ma una prossimità altra e profonda capace di restituire il senso del cammino comune. È Paolo a dirci che in Cristo Dio si è fatto compagno del dolore umano, e proprio così fondamento della speranza possibile: in questa "follia" il suo messaggio. Nel paradosso di questo "vangelo tragico" sta tutta la sua provocatoria attualità: è qui che la speranza cristiana si mostra per quello che è, non evasione consolatoria, ma anticipazione militante dell'avvenire entrato in questo mondo nel Figlio, che ha abitato il nostro dolore, il male che ci ferisce e la morte. Alla condizione "tragica" dell'esistere umano ha dedicato la sua attenzione più alta Fëdor Dostoevskij: scavando nelle profondità del cuore umano, da vero "psicologo del sottosuolo", egli ne scopre le ambiguità strutturali, l'abisso dei "doppi pensieri". "Chiunque sia passato per Dostoevskij e abbia sofferto con lui - afferma Nikolaj Berdjaev - ha conosciuto il mistero dello sdoppiamento, ha ottenuto la conoscenza degli opposti, si è armato nella lotta contro il male di una nuova potentissima arma, la conoscenza del male". E proprio in questo Dostoevskij è cristiano, in quanto unisce in maniera inseparabile, e al tempo stesso carica di eccezionale tensione, il problema di Dio e il problema dell'uomo, che solo nel cristianesimo si sono incontrati fino all'abissale esperienza del Dio crocifisso nelle tenebre del Venerdì Santo: "Dostoevskij è lo scrittore più cristiano in quanto al centro della sua opera c'è sempre l'uomo, l'amore umano e la rivelazione dell'anima umana. Egli stesso è la rivelazione del cuore dell'essere umano, del cuore di Gesù". Pellegrino nei meandri dello spirito, Dostoevskij ne esprime la radicale e costitutiva ambiguità. Attraverso paradossi spinti fino all'estremo, in cui esercita tutta la sua potenza di negazione, egli scopre la tragicità dell'esistenza nel suo essere permanentemente assediata dal nichilismo: il nulla fascia lo spirito nella sua conoscenza del vero, nella sua volontà del bene, nel suo sentimento del bello. Lungo le vie della conoscenza del vero, la questione del male si presenta come la sfida alla fede in un Dio, che sia la verità eterna e assoluta del mondo. Il ragionamento è stringente, terribile: se Dio esiste, l'orrore del male che devasta la terra è senza fine. Ma questo orrore è infinito: dunque, Dio esiste. Al tempo stesso però l'argomento si rovescia nel suo contrario: se Dio esiste, non può essere ammesso l'orrore di un male infinito. Ma questo orrore c'è: dunque, Dio non esiste. Dal paradosso non si esce che per una radicale conversione del concetto di Dio: solo se Dio fa sua la sofferenza infinita del mondo abbandonato al male, solo se egli entra nelle tenebre più fitte della miseria umana, il dolore è redento ed è vinta la morte. Questo è avvenuto sulla Croce del Figlio: perciò Cristo è la verità, alternativa alle presunte verità che la ragione è capace di costruirsi con le sue dimostrazioni. La "singolarità del Vero", la verità incarnata in un Singolo, identificata con la sua persona, è quanto di più lontano possa esserci rispetto a un pensiero euclideo. È quanto Dostoevskij sceglie, precisamente in alternativa all'esito nichilista della metafisica occidentale: "Se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo, anziché con la verità". La verità che dà ragione di tutto e tutto organizza in un'armonia universale, l'"apoteosi della conoscenza" di cui parla Ivan Karamazov, non vale il suo prezzo: al Dio di questa verità lo stesso Ivan non esita a restituire il biglietto d'ingresso nel suo regno. Solo la verità che è passata attraverso il fuoco della negazione e si è lasciata lambire dal nulla, solo quella verità salverà il mondo: è la risposta di Alësa a Ivan. "Fratello (...) tu mi hai chiesto dianzi se esiste in tutto il mondo un essere che possa perdonare e abbia il diritto di farlo. Ma questo essere c'è, e lui può perdonare tutto, tutti, e per tutti, perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto". Solo dal suo interno, insomma, il nichilismo si lascia confutare: dalle tenebre del Venerdì Santo, dove Dio soffre e muore per amore del mondo, è possibile proclamare la vittoria della vita, perché quella morte è la morte della morte. Il Dio che è morto non è che la verità concepita metafisicamente come ragione e fondamento del mondo, garante di questa totalità, tutta pervasa dall'orrore dell'infinita sofferenza umana. Sta qui appunto la tragicità ineliminabile dalla conoscenza del vero: non si arriva alla luce che attraverso la croce; non si entra nella vita che conoscendo la morte. Perciò la fede deve passare nel travaglio del dubbio, l'affermazione nella notte della negazione, e la verità farsi strada nello scandalo e nelle tenebre più fitte, dove ci aspetta il Dio vivo. Anche per questo "è terribile cadere nelle mani del Dio vivente" (Ebrei, 10, 31). La tragicità dell'esistenza umana si affaccia non di meno sul piano etico: la dignità del patire - che pure appare fra le forme più alte di purificazione e di accesso al bene - si rivela anch'essa ambigua all'uomo del sottosuolo! Egli non esita a smascherare le torbide delizie e l'equivocità della volontà, che si accompagnano tanto spesso alla sofferenza: "Il godimento proveniva dalla troppo chiara coscienza che avevo della mia bassezza (...) non c'era scampo, non potevo diventare un altro uomo: che se anche fossero rimasti ancora tempo e fede per trasformarmi in qualche cosa di diverso, io non avrei potuto mutarmi". Ma è appunto in questa affermazione tragica di sé, nutrita dei godimenti più ardenti della disperazione, che il nulla s'affaccia: "Noi siamo nati morti, e già da molto nasciamo da padri che non sono vivi; e ciò ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto". Ed è qui che la volontà di vivere impone un rovesciamento morale, un atto coraggioso, che si esprime in un'etica della decisione. L'alternativa è fra l'abbandonarsi al nulla e il reagire. Ma essa può porsi soltanto a chi ha toccato il fondo disperante del nichilismo: è lì che l'espiazione diventa possibile, precisamente per chi si pone davanti al Dio entrato nell'abisso, come compagno del dolore umano e insieme supremo e misericordioso giudice del peccato del mondo. Solo chi accetta di fare compagnia alla sofferenza di Dio di fronte al male per amore del mondo, può sperare di vincere il male. È infine sulla via del sentimento, che anela alla gioia e alla bellezza, che si sperimenta la tragicità dell'esistenza umana e possibilità di una via di uscita: pochi, come Dostoevskij, hanno percepito la rilevanza del piano estetico in ordine alla redenzione del mondo. È al principe Myskin - il protagonista de L'idiota, enigmatica figura dell'innocente che soffre per amore del mondo - che il giovane nichilista Ippolit pone la domanda: "È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza?". E il giovane - condannato a morte dalla tisi - si sente in diritto di aggiungere: "Quale bellezza salverà il mondo?". Lo spettacolo della sofferenza è tale che nessuna redenzione può essere cercata nella direzione di un'armonica conciliazione, che salti sullo scandalo del dolore del mondo. Ecco perché la bellezza deve essere altra rispetto a tutti i sogni e i desideri possibili di armonia: senza passare attraverso la sua negazione - che è lo scandaloso spettacolo del male che copre la terra - nessuna bellezza potrà salvarsi e salvare. Ed ecco che è proprio l'avvicinarsi della fine che rivela la bellezza nascosta: il tempo rimanda all'eternità proprio perché passa con tanta, inesorabile fugacità. Solo la morte conferisce all'attimo la profondità di una totalità e di un'eternità raggiunte: solo se ci si approssima al nulla del morire si percepisce la meraviglia del tempo, la gioia della vita. Anche la bellezza si offre allora nel segno dell'ambiguità, sulla frontiera fra l'essere e il nulla, carica di un'aura tragica: "La bellezza - dice Dmitrij Karamazov - è una cosa terribile e paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono (...) La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini". Solo alla fine la bellezza si manifesterà vittoriosa: "Quando sarà passato il presente e sarà venuto il futuro, allora il futuro artista troverà forme bellissime anche per la rappresentazione del trascorso disordine e caos". Nel presente resta aperto verso la bellezza l'approccio della conversione del cuore, del "dono delle lacrime", di cui parla lo starec Zosima: "La natura è bella e innocente, solo noi siamo empi e sciocchi, e non vediamo che la vita è un paradiso! Perché basterebbe che noi volessimo capire, e subito avremmo il paradiso in tutta la sua bellezza, e allora ci abbracceremmo piangendo". Il piano del vero si congiunge così a quello del bene, e questo alla ricerca della bellezza. Se è la decisione di fede che apre alla singolarità del vero, rivelata nel Dio crocifisso, la via della verità si incontra con quella della decisione morale; e se è la conversione del cuore che apre al riconoscimento della bellezza che salva, la via estetica si congiunge a quella etica. La rilevanza della dimensione morale emerge in primo piano: in realtà è proprio in essa che si gioca più intensamente il conflitto fra nichilismo e redenzione. Ed è qui che si rivela il livello più profondo della tragicità dell'esistenza umana, quello che maggiormente è in gioco nell'eticità dell'atto: il livello della libertà. In questo senso, la Leggenda del grande inquisitore è il grande apologo dell'eterno conflitto che rende tragica la vita umana: il conflitto fra l'audacia della libertà e la tentazione rassicurante della rinuncia a essa. Il cardinale inquisitore di cui narra la Leggenda è la figura di chi ha sacrificato la libertà alla felicità; il Cristo, che gli sta davanti come imputato, è invece il paladino della libertà a prezzo anche della felicità. Il conflitto fra i due è insanabile: essi rappresentano l'alternativa radicale che si annida nel cuore di ogni uomo. Fra le due opzioni non c'è via di mezzo, soluzione conciliatoria: l'aut aut è senza remissione, totale. Ecco perché è in ultima analisi nel mistero del Dio crocifisso che la profonda tragicità dell'esistenza umana è rivelata e redenta: se Dio ha fatto sua la morte, pagando fino in fondo il prezzo della libertà, la via della croce resterà per sempre su questa terra la via della libertà. E, proprio perché l'amaro calice è stato bevuto fino all'ultima goccia dal Figlio eterno, sarà questa anche la via che porterà alla vita. Della tragicità dell'esistenza sfidata dal male è consapevole anche un genio speculativo come Immanuel Kant. Nel rigore della sua onestà intellettuale egli non esita a riconoscere le aporie della ragione: idee, ad esempio, come quelle di Dio e della vita futura, non suscettibili di dimostrazione per via speculativa, costituiscono per lui presupposti inseparabili degli obblighi morali che la ragione ci impone. Ciò che viene a mostrarsi nell'opera sulla religione entro i limiti della semplice ragione è però tutt'altro che la constatazione pacifica del limite della ragione, quanto piuttosto il quadro di una lotta, il disegno di quelle che potrebbero definirsi le "agonie della ragione" lungo il cammino della libertà: "La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, "di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia" (Romani, 6, 17). Nondimeno, l'uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta". In questo quadro, "quello che meraviglia non è che il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (...) bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale". "Radicale" è tale male "perché corrompe il fondamento di tutte le massime e a un tempo perché, essendo una tendenza naturale, non può essere sradicato da forze umane". Il fondamento del male radicale è presentato da Kant come in qualche modo intrecciato con l'umanità stessa e, per così dire, radicato in essa. Al tempo stesso Kant muove dalla considerazione che non può darsi male morale senza libertà: il fondamento del male, allora, "dev'essere necessariamente un atto di libertà". Ciò che emerge è una vera e propria aporia: come può la libertà essere al tempo stesso la fonte della moralità e il luogo e principio della sua negazione? È giocoforza cercare la causa altrove, fuori del soggetto. Lo ammette lo stesso Kant: "Risulta facile capire come dei filosofi, poco inclini ad ammettere un principio esplicativo eternamente avvolto nell'oscurità (ma indispensabile), abbiano potuto misconoscere il vero avversario del bene, pur credendo di combatterlo". Quest'avversario il pensatore di Königsberg non esita a chiamarlo Spirito maligno (böser Geist), ricorrendo per descriverlo alle parole dell'apostolo Paolo lì dove egli presenta la condizione umana come lotta contro i principati e le potestà. A presentare il principe di questo mondo, il Satana, quale coprotagonista del dramma del male, è dunque il razionalissimo Kant. Lontano da ogni spirito illuministico accecato, il filosofo descrive con rara efficacia la tragicità della condizione umana facendo ricorso a Paolo: "La fragilità della natura umana ha trovato espressione anche nel lamento dell'apostolo: "Io ho senz'altro la volontà, ma mi manca l'esecuzione" (cfr. Romani, 7, 18); vale a dire: io accolgo il bene (la legge) nella massima del mio arbitrio, ma questo bene - che oggettivamente, nell'idea (in thesi), è un movente invincibile - soggettivamente (in hypothesi), quando la massima dev'essere applicata, è invece il movente più debole (nei confronti dell'inclinazione)". Le sorprese, però, non finiscono qui: l'alterità irriducibile e inspiegabile che si affaccia nel volto conturbante del male radicale, proprio a partire da questa esperienza si affaccia anche in un altro volto, quello della grazia del Dio onnipotente e misericordioso. La domanda che porta Kant a riconoscere quest'altra forma dell'esperienza dell'Altro è l'antica domanda della salvezza, che nasce dalla conoscenza del male: come essere liberati dal principio maligno? La risposta del filosofo si muove all'interno della tradizione teologica cristiana: "Se in virtù di quel bene che è nella fede siamo esonerati da ogni responsabilità, ciò avviene sempre e soltanto per un decreto di grazia pienamente conforme alla giustizia eterna". La formulazione che Kant dà all'idea della giustificazione per fede giunge a identificarsi alla lettera con quella della più pura ortodossia luterana: "Certo, si tratterà pur sempre di una giustizia che non è la nostra". Non mancano, però, passi in cui la sintonia con la teologia cattolica della giustificazione sembra evidente: "La ragione non ci lascia del tutto senza consolazione. Essa ci dice infatti che l'uomo che, animato da una sincera intenzione verso il dovere, fa tutto il possibile per adempiere ai propri obblighi (...) può lecitamente sperare che quanto non è in suo potere verrà in qualche modo completato dalla saggezza suprema". Lo stesso Barth, riscontrando l'ambivalenza delle posizioni, conclude che Kant risulta più vicino all'anima cattolica, che a quella protestante del cristianesimo. Al di là dell'interesse teologico che queste tesi comportano, ciò che le rende significative è che esse fanno proprio dell'etica senza trascendenza di Kant la testimonianza dell'impossibilità di una simile etica: mai si affronterà il male e lo si potrà superare senza la presenza dell'Altro, trascendente e sovrano! Negli abissi della stessa forma "a priori" della moralità - il mondo dell'arbitrio libero e della legge morale - è innegabile la presenza conturbante di un'alterità negativa, cui Kant riconosce la dignità di "princi". Proprio l'esperienza e il riconoscimento di questo "male radicale" appellano a un più grande bene, che non può esser frutto solo della carne e del sangue, ma viene da altrove. Le kantiane "agonie della ragione" sono così una sorta di prova sub contraria specie della necessità ineliminabile della trascendenza per la vittoria sul male in questo mondo. Il "razionalista puro" in campo etico-religioso riconosce nelle "agonie della ragione" le sorprendenti, ineliminabili e inquietanti "tracce dell'Altro". Dal male solo Dio ci può salvare: non un qualunque Dio, ma quello che ha abitato nella nostra condizione tragica, e l'ha fatta sua, per vincerla al posto nostro e per noi. Il Dio della carità infinita: il Dio di Gesù Cristo.
(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2009)


Dalla Russia nove storie di eroi - Roberto Fontolan - giovedì 29 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Venti anni dopo l’89, cosa sappiamo della Russia? Il crollo del muro di Berlino aprì una fase conclusa e drammatica: le incertezze di Gorbaciov e l’improvviso eroismo di Eltsin capace di issarsi su un carro armato per bloccare, quasi da solo, il tentativo golpista; il caos minaccioso e incontrollabile che sembrava impadronirsi di una società senza più anima e talmente depressa da precipitare in una crisi demografica paurosa, con aspettativa di vita a livello “africano”; l’emergere di un cocktail di poteri forti e fortissimi composto da ex comunisti e miliardari dalle sospette fortune. Per un decennio la Russia è stata nel panico e ha seminato il panico: chi e come avrebbe controllato il suo arsenale nucleare? Chi e come avrebbe avuto ragione delle variegate mafie che si disputavano il cadavere dell’ex “impero del male”? In questo 2009 “celebriamo” anche i dieci anni del sorgere della stella di Vladimir Putin, entrato nella stanza del potere nel 1999 grazie a Boris Eltsin e oggi capo supremo e solidissimo, incontrastabile (nel senso che chi ci ha provato è finito male) manager del Cremino e dei suoi segreti. Il doppio “anniversario” consentirà di affrontare approfonditamente i grandi temi della Russia odierna, che per tanti aspetti resta un continente misterioso.
Ma prima delle analisi geopolitiche e delle esplorazioni sulla personalità di Putin, non si può cominciare a parlare di Russia senza leggere un magnifico libro, recentemente pubblicato da Rizzoli nella collana “I libri dello spirito cristiano”. Lo ha scritto Giovanna Parravicini, “russologa” di grande valore, animatrice del Centro Biblioteca dello Spirito di Mosca e da pochissimo nominata consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura. Il libro, che ha come titolo “Liberi”, racconta nove biografie di uomini e donne della Russia recente e contemporanea, personalità che hanno vissuto in parte o per intero i lunghi decenni del potere comunista e che non hanno mai rinunciato. A cosa? Al proprio desiderio umano. Storie commoventi e sconvolgenti. La pianista Marija Veniaminovna Judina, ad esempio, artista straordinaria, adorata dai grandi russi del secolo scorso, da Bachtin a Pasternak, interprete geniale di Bach e Stravinski. Sciostakovic narra che una sua esecuzione radiofonica di Mozart incantò Stalin al punto che il dittatore pretese di avere immediatamente il disco, ma il disco non esisteva e il concerto era stato eseguito dal vivo; perciò i commissari della radio organizzarono in fretta e furia un nuovo concerto che venne registrato e mandato all’impaziente “padre della patria”. Egli ne fu grato al punto che fece avere alla Judina l’incredibile somma di ventimila rubli. Lei lo ringraziò con queste parole: «Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso e la perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della chiesa in cui vado». Ma il libro è ricco di pagine intense e sorprendenti. Come quelle dedicate a Vera Laskova, la “dattilografa del samizdat”, la cui storia fa rivivere la stagione del dissenso e ci riporta i volti e i nomi, che noi smemorati di Occidente abbiamo dimenticato, della rivolta giovanile anticomunista degli anni Sessanta. E la figura schiva e immensa di Sergej Averincev, un vero “uomo colto” del XX secolo, alla pari di De Lubac e di von Balthasar, capace di ipnotizzare centinaia di studenti parlando dell’estetica bizantina.
Le storie raccontate da Giovanna Parravicini ci fanno attraversare un tempo segnato dalla Grande Menzogna (Evgenija Ginzburg) e da un dolore senza fine: la morte, la violenza, la prigionia, le vessazioni, l’ostracismo, la solitudine, la perdita delle persone amate. Nessuno potrà mai risarcire i russi di tutto questo. Eppure queste storie dicono che la luce non si spegne mai del tutto, che la speranza si attacca alla vita non come un augurio ma come un fatto vivente persino nel campo di concentramento. A venti anni dall’89 la Russia di oggi dovrebbe tornare a guardare i suoi veri e non retorici eroi. E noi con lei.


UE/ Dall'Europa un attacco ai diritti e alla vita sociale - INT. Paolo Carozza - giovedì 29 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Assistiamo alla pretesa della Ue, come dimostra la risoluzione del 14 gennaio scorso, di estendere il controllo comunitario alla tutela dei diritti dei singoli negli Stati membri. E di vigilare sul rispetto dei diritti nelle non meglio specificate “istituzioni chiuse”: famiglia compresa. «Pare di assistere ad un’“offensiva” della burocrazia europea - dice Paolo Carozza, presidente della Commissione interamericana dei diritti dell’uomo e docente di diritto internazionale nell’Università di Notre Dame (Usa) - che è anche il tradimento di quanto c’è di buono nella sua cultura millenaria».
Dal punto di vista di un osservatore americano, che impressione fa l’enfasi che sta assumendo il discorso sui diritti nell’Unione europea? È una tendenza generale o è particolarmente accentuata in Europa?
Dal punto di vista non solo statunitense, ma di un osservatore internazionale dei diritti umani, devo dire che nel mio lavoro mi imbatto in fatti e problemi legati ai diritti umani che, là dove questi vengono negati, toccano le questioni decisive della dignità umana. Ma da quello che leggo nelle risoluzioni del Parlamento europeo – come quella che lei mi ha citato – è come se mancasse la coscienza più acuta di una certa realtà.
A cosa si riferisce?
Parlo di violazioni non solo in termini di numeri ma anche di particolare gravità. Di quelle che si chiamano in inglese gross violations, per esempio nel caso di governi che usano la repressione come politica sistematica. Questi sono problemi che toccano gli interessi realmente primari delle persone. In Europa pare di assistere ad una “offensiva” della burocrazia europea, dalle conseguenze non meno importanti ma più sottili. Un attacco che non viene dai popoli, dalla gente, ma da una certa componente burocratica del governo europeo che ha assunto già da qualche anno un ruolo di primo piano nell’elaborazione della politica europea.
Stiamo parlando di una risoluzione del Parlamento europeo che rimprovera agli Stati di sottrarsi al controllo comunitario in materia di diritti dell’uomo, ed esprime preoccupazione per la tutela dei diritti dei singoli in quelle che vengono definite “istituzioni chiuse”.
Mi sembra un tradimento della tradizione europea, di quella parte buona di sé che l’Europa ha dato al mondo e che dovrebbe continuare a dare. Una riduzione dei diritti umani e della dignità umana ispirata da un individualismo estremo. È proprio questo individualismo che non mi sembra far parte dell’eredità buona della tradizione europea. Negli Stati Uniti l’eccesso di individualismo è uno dei rischi della nostra cultura e della nostra democrazia, e quindi del nostro approccio ai diritti. Per questo abbiamo sempre guardato all’Europa come ad un contrappeso, come alla memoria storica delle dimensioni più solidali e comunitarie della vita umana. Per questo vedere l’Europa che sta cercando di irrompere e intromettersi in ogni comunità sociale e intermedia tra l’individuo e lo Stato, è assistere al tradimento di uno degli elementi più importanti della cultura europea per il resto del mondo.
Lei trova dunque una contraddizione tra il deposito originario dell’Europa e una certa sua giurisprudenza?
Sì. Nell’Ue, per come si è sviluppata negli ultimi anni, la politica ha abbandonato le questioni più fondamentali, e la burocrazia ha tentato di sostituirsi alla vita sociale delle persone; ovvero, ha tentato di sostituirsi proprio a quella vita che interessa maggiormente i cittadini nell’aspetto materiale e sostanziale dell’esistenza, e nelle decisioni sul loro futuro.
Quali sono a suo avviso i diritti umani che avrebbero bisogno di maggiore attenzione e che sfuggono alle agende delle istituzioni competenti?
Sono quelli che aiutano le persone e i gruppi sociali a partecipare in un modo più profondo alla vita della società: innanzitutto i diritti riguardanti l’educazione, i diritti di partecipazione politica, di espressione e associazione, che creano un ambiente di libertà ma anche di responsabilità per l’altro. Mi pare invece che l’approccio del Parlamento europeo sia quello di sostituire la libertà della società e di decidere al suo posto che cos’è il bene dell’uomo, cioè di che cosa l’uomo ha bisogno. Ma questo è ingiusto, perché ciò che non viene da una scelta e non viene da me non può costituire il mio bene. Quello che definisce il mio bene è quello che io faccio da me e con quelli che sono in comunità con me; nessuno lo può fare per me, al mio posto.
Il Parlamento europeo intende vigilare sul rispetto dei diritti nelle “istituzioni chiuse”. Esiste una preoccupazione simile negli Stati Uniti?
Sì, perché si tratta di una tentazione insita nella vita moderna, non solo europea. Però negli Usa questo fenomeno lo si vede molto meno tradotto in una politica del diritto, perché finora abbiamo conservato alcune protezioni strutturali che limitano fortemente l’intervento delle istituzioni politiche nella vita sociale, nelle famiglie, nelle scuole e nei gruppi religiosi. Il pluralismo sociale risulta più protetto dai limiti strutturali che abbiamo posto all’azione del governo: il federalismo per esempio è uno di questi.
Nel documento approvato il 14 gennaio da parte del Parlamento europeo si coglie una certa sfiducia nella capacità degli Stati nazionali e dei governi locali di tutelare i diritti fondamentali. Secondo lei c’è una dimensione ottimale per la garanzia dei diritti? È più efficace il lavoro di organismi internazionali o di quelli nazionali e regionali?
L’esperienza dell’Europa dimostra che c’è bisogno di tutti e due. Le istituzioni internazionali per la tutela dei diritti, della dignità dell’uomo, della democrazia, non sono nate semplicemente da un’ideologia ma da un’esperienza concreta, quella di Stati nazionali che non sono riusciti a mettere in atto le loro responsabilità fondamentali. Ma col passare del tempo hanno manifestato la progressiva tendenza a integrare gli ordinamenti preesistenti senza più corrispondere allo scopo originale e dando luogo a sviluppi contrari all’idea di sussidiarietà. Questo approccio ai diritti fondamentali schiaccia ogni differenza eccetto che a livello dell’individuo. Mentre proprio l’idea di sussidiarietà, come unità nella diversità, fa parte del patrimonio originario dell’Europa.
Si è osservato che la legislazione europea riformula, in termini diversi, i contenuti che la tradizione ha espresso nel modo che conosciamo. Non si parla più, per esempio, di diritto alla vita o alla maternità, ma di diritto alla salute riproduttiva. Risulta difficile, tuttavia, dare a queste formulazioni un riscontro nella nostra esperienza di persone realmente esistenti. Si è parlato, a questo proposito, di nominalismo. Il diritto non deve più esprimere le istanze che definiremmo naturali, e che sono depositate nella vita dei popoli? Il termine “naturale” ha ancora qualche significato oggi?
L’idea di una natura che fa valere dal suo interno un significato si è svuotata. La si può ancora utilizzare: a patto, però, di ritornare in continuazione a esplorare lo spazio che sussiste tra i principi connaturati e generali della vita umana e l’esperienza umana concreta. Di ricondurre, in altre parole, i primi a quest’ultima. Il problema si presenta quando si parla di diritti naturali e di diritti umani solo a livello astratto e si perde il fatto che essi dovrebbero essere rappresentazioni di quello che le persone provano e che corrisponde ai loro desideri e alla loro vita. Si può parlare della certezza naturale della dignità umana, rendendosi conto però che alla fine la dignità è vissuta in una vita concreta. Uno può dire di amare, e può dire di amare l’umanità, ma se poi odia le persone?
Secondo lei la riformulazione dei diritti - o la promozione di nuovi diritti - che viene fatta in ambito europeo quali possibilità ha di interferire negli ordinamenti degli Stati e con quali conseguenze?
Per gli esempi concreti lascio il campo agli esperti italiani di diritto comunitario. Ma direi che una delle condizioni necessarie perché questa interferenza da parte delle istituzioni comunitarie vada a “buon” fine, è una certa indifferenza da parte dei popoli. Non c’è semplicemente l’imposizione da parte di una burocrazia: essa necessariamente riempie un vuoto. Se la gente è soddisfatta di una Unione europea che dice semplicemente “aumentiamo i livelli economici e materiali dello spazio europeo”, se questo basta a soddisfare le esigenze della vita sociale della gente, allora non importa quali sono o saranno le forme del diritto e della sovranità, perché l’Ue potrà fare quello che vorrà. Un errore da evitare è quello di limitarsi ad un’opposizione ideologica del tipo: vogliamo la sola sovranità italiana, no all’Unione europea. Equivarrebbe ad una resa incondizionata. Serve invece una politica che si assuma la responsabilità di rappresentare e tradurre in progetti le esigenze fondamentali della persona e dei corpi intermedi.


ELUANA/ In attesa di un commissario “ad mortem”… - Nicolò Zanon - giovedì 29 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Oltre che interrogativi etici, il caso Englaro continua a porre a porre questioni giuridico-istituzionali di enorme importanza. Questa è del resto la conseguenza della consapevole e insistita trasposizione della vicenda sul terreno giudiziario, per farla diventare un caso esemplare. Dopo la nota sentenza della Corte di Cassazione, è ora la sentenza del TAR Lombardia a suscitare perplessità.
Si ricorderà che un atto della direzione generale della sanità lombarda negava che il personale del Servizio pubblico sanitario regionale potesse procedere, all’interno di una delle sue strutture, alla sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiale di cui goda l’ammalato in “stato vegetativo permanente”, il quale – tramite manifestazione di volontà del tutore e autorizzazione del giudice tutelare – intenda rifiutare tale trattamento. Ora, su ricorso dei legali di Eluana, il TAR annulla tale atto e dispone, pertanto, che l’amministrazione sanitaria indichi la struttura sanitaria più adatta allo scopo.
Con questa sentenza, diventa chiarissimo il passaggio dalla sfera privata a quella pubblica dell’intera vicenda. Una decisione che, fin qui, si inseriva in un procedimento di volontaria giurisdizione - come tale riferibile a rapporti di natura privatistica tra Eluana, il suo tutore e il suo curatore speciale - acquista ora anche rilievo pubblico, coinvolgendo le strutture sanitarie anche pubbliche.
Secondo il TAR, a giustificare la pronuncia è l’assolutezza del diritto costituzionale a rifiutare il “trattamento sanitario” consistente nell’idratazione e alimentazione artificiale. Ora, nessun dubbio che i diritti costituzionali, se esistono, si debbano proteggere nei confronti dei poteri pubblici che, in ipotesi, li neghino. Ma si potrebbe discutere molto se dall’art. 32 della Costituzione, che ragiona di un diritto individuale alla salute, si possa non solo desumere un diritto assoluto a rifiutare ogni sostegno vitale e a disporre così della propria vita, ma anche un corrispondente e assoluto obbligo delle strutture pubbliche a prestarsi, senza eccezione alcuna, a soddisfare questo desiderio (espresso, per di più, non direttamente, ma tramite un tutore). Se la Regione non volesse “ubbidire”, vedremo la nomina di un commissario ad mortem da parte del TAR?
Inoltre, visto che la sentenza opportunamente richiama il principio di legalità come faro dell’attività amministrativa, ci si potrebbe chiedere se un preciso e obbligato facere dell’amministrazione possa desumersi non già da una fonte legislativa, ma da una regola di diritto ricavata in via interpretativa proprio in una materia caratterizzata dall’assenza di una legislazione specifica. La sentenza afferma nettamente che una tale regola di diritto non avrebbe minore effetto conformativo, sull’amministrazione, di una disposizione legislativa esplicita. Ma specialmente in materie così delicate, che coinvolgono diritti davvero fondamentalissimi, sarebbe meglio essere più cauti.
Ancora: ha davvero efficacia di giudicato – come tale vincolante anche per l’amministrazione - il provvedimento su Eluana della Corte d’appello, emanato al termine di un procedimento di volontaria giurisdizione? Per definizione, i provvedimenti assunti in una sede non contenziosa non hanno questa forza, ma sono anzi revocabili e modificabili in ogni momento, proprio perché preordinati all’esigenza prioritaria della tutela dei diritti e degli interessi di soggetti deboli. Il TAR sostiene invece che il provvedimento in questione avrebbe forza di giudicato, opponibile all’amministrazione, perché sarebbe scaturito da procedimento in contraddittorio, concluso con una decisione che si impone su contrapposte posizioni di diritto soggettivo. Ma, parlando seriamente, dov’era, nel caso di Eluana, il contraddittorio e dov’erano le contrapposte posizioni di diritto soggettivo? Tutti sanno che, in ogni passaggio giudiziario di questa vicenda, il curatore speciale, nominato proprio per dare spazio a interessi divergenti rispetto a quelli del tutore (il padre), ha sempre appoggiato tutte le scelte di quest’ultimo. Ed è allora paradossale richiamare quel finto contraddittorio per giustificare l’effetto conformativo sull’amministrazione della decisione della Corte d’appello! Inoltre: secondo il TAR, neppure può ammettersi, nella vicenda, un rifiuto dei medici a conformarsi alla richiesta del tutore, richiamandosi all’obiezione di coscienza, poiché – dice testualmente la sentenza - nessuna legge oggi esplicitamente disciplina “modalità e limiti entro i quali possono assumere rilevanza i convincimenti intimi del singolo medico”. E’ un soprassalto di legalità tradizionale che va benissimo. Peccato che, allo stesso modo, nessuna legge oggi esplicitamente disciplini modalità e limiti entro i quali un malato possa esprimere le proprie volontà di fine vita, eppure si sono trovati tanti giudici e tante sentenze pronti a ricostruire per via pretoria una regolamentazione tanto delicata.
Verrebbe da dire che, forse, anche qui hanno avuto peso i “convincimenti intimi” di chi doveva giudicare…


CASO ELUANA, SEMPRE NUOVI INTERROGATIVI - Forzature, discriminazioni, silenzi Ma un giudice c’è a Milano? - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 29 gennaio 2009
Una surreale gara fra alcune regioni per 'accogliere' Eluana verso la morte per fame e per sete, una discutibilissima sentenza di un tribunale amministrativo, un governatore coraggioso che la contesta perché la giudica infondata: gli ultimi eventi della vicenda Englaro ruotano soprattutto intorno a un fatto ritenuto certo, e cioè che Eluana non avrebbe mai voluto vivere nello stato in cui si trova, e ad una percezione errata di tale condizione. Parlare di una persona in stato vegetativo come di una pianta, oltre che essere profondamente offensivo per chi si trova in quelle condizioni, è sbagliato e fuorviante. Continuare a utilizzare l’aggettivo 'permanente' per lo stato vegetativo, e rifarsi a una letteratura scientifica obsoleta e contestata dai maggiori esperti del settore è antiscientifico, e svela il pregiudizio ideologico che c’è dietro certe prese di posizione. Ma anche l’accertamento delle volontà di Eluana ha delle ombre. Non mettiamo in dubbio le parole di suo padre: un giudice però dovrebbe inserirle in un contesto, quello di una ragazza di vent’anni che sicuramente avrà usato le espressioni riferite, ma le ha pronunciate in momenti di estrema emozione, di fronte all’amico gravissimo, e non dopo un colloquio con uno specialista per un consenso informato. Ci sono poi testimonianze che inspiegabilmente non sono state presentate in tribunale: riportate mesi fa da questo giornale, sono state raccolte in un esposto alla Procura di Milano. Lo scorso 25 luglio su queste colonne potevamo leggere le parole di una compagna di classe e di due insegnanti di Eluana, che dichiaravano di non aver mai sentito dalla ragazza affermazioni come quelle riportate nel decreto della Corte di Appello. Significativo il racconto di suor Rina Gatti, sua insegnante di italiano al Liceo Linguistico 'Maria Ausiliatrice' di Lecco: il 30 luglio scorso suor Rina ricordava una lettera ricevuta prima dell’incidente. Due pagine di auguri per le festività natalizie, in cui Eluana scrive: «Ho deciso di ricominciare con te che sei la mia educatrice». E poi: «Volevo dirti sinceramente che mi manchi». E ancora: «E adesso chi mi sgrida quando ne combino una delle mie?» E poi: «una supernotizia» e scrive: «Ho cambiato facoltà e... per la tua gioia sono andata in Cattolica. Mi trovo molto bene! Ho professori eccezionali. Pensa te che da quando sono iniziate le lezioni, il 6 novembre, non ho perso neanche una lezione. Sono brava». Nel decreto si legge invece che la ragazza giudicava l’ambiente ed i docenti del suo liceo «refrattari al confronto e al dialogo» e che ne avrebbe tratto un rigetto ed un’insofferenza tali da volersi trasferire in un liceo statale, dopo i primi tre anni, ma non aveva potuto farlo.
Si dice che ha cambiato università, ma si 'dimentica' di specificare che dalla Statale è andata alla Cattolica. Inoltre, a sostegno della bontà dei rapporti fra la ragazza e i suoi genitori, la curatrice speciale ha acquisito agli atti una lettera scritta in occasione del Natale prima dell’incidente, nella quale Eluana manifestava loro fiducia, affetto e riconoscenza. Esistono almeno due lettere quindi, una all’insegnante e quella ai genitori, contestuali, scritte nello stesso periodo, ma una è agli atti e l’altra no.
Perché? Non lo sappiamo. Testimonianze contraddittorie? Forse, ma non necessariamente: è anche possibile che nel tempo la ragazza abbia cambiato idea e sentimenti verso l’ambiente scolastico, riconoscendo per buono quello che prima avrebbe rifiutato. Essere determinati e intelligenti – così come ci è stata presentata da tutti Eluana – non impedisce di cambiare le proprie convinzioni. Certo, è che siamo di fronte a un quadro più complesso di quello finora descritto, e se non spetta a noi ricostruire la reale volontà di Eluana (anche perché a differenza della Cassazione pensiamo che non sarebbe sufficiente per farla morire di fame e di sete), sicuramente il fatto ci riguarda.
Abbiamo visto che c’è un governatore, in Lombardia. Ma un giudice, a Milano, ci sarà?


100 milioni di dollari per abortire - I più felici erano quelli dell’Interna­tional Planned Parenthood Federation (Ippf), una delle lobby abortiste più agguerrite d’America: «Abolendo questa legge Obama ha fatto riguadagnare agli Stati Uniti il consenso internazionale sulla salute delle donne». - La lobby antinatalista batte già cassa: «Bush ci ha tolto un sacco di soldi, avremmo evitato 36 milioni di gravidanze indesiderate nel Sud del mondo». Come a dire: altrettanti bimbi non sarebbero nati – di Lorenzo Fazzini – Avvenire, 29 gennaio 2009
Già, perché sono i gruppi pro-abortisti i primi beneficiari dell’ordine esecutivo firmato la scorsa settimana dal nuovo inquilino della Casa Bianca con cui viene abolita la «Mexico City Policy», la norma voluta del presidente Reagan, con cui gli Usa decisero di non finanziare le organizzazioni internazionali che promuovevano l’aborto nei Paesi in via di sviluppo come metodo di controllo della nascite. Ora con la mossa di Obama, fanno sapere dall’Ippf, sarà possibile «offrire consulenza per l’aborto e promuovere campagne per rendere legale l’aborto o più accessibile» ovunque, anche in quegli Stati dove esso non è legale. Ma non è solo una questione 'ideale' quella che ha fatto esultare i gruppi abortivi; vi sono anche questioni economiche in ballo: «Abbiamo stimato – afferma il direttore generale della Ippf, Gill Greer – che durante l’amministrazione Bush sono stati tolti almeno 100 milioni di dollari in progetti di salute riproduttiva in 100 Paesi in via di sviluppo». È lo stesso Greer ad offrire poi la misura della vittoria 'pro-life' della dottrina Bush: «In base a cifre riconosciute a livello internazionale, possiamo dire che questi fondi sarebbero serviti a prevenire 36 milioni di gravidanze non desiderate». Come a dire: i fondi tolti da Bush con la sua azione anti-aborto hanno permesso la nascita di 36 milioni di bambini.

Alle critiche giunte da diversi ambienti per la scelta di Obama si è aggiunta anche quella del rabbino Yehuda Levin, portavoce della Rabbinical Alliance of America, rappresentante di oltre 800 rabbini ortodossi statunitensi: «Apprezziamo la franchezza del Vaticano nel difendere il valore della vita umana». Intanto Obama ha lanciato un segnale al mondo pro-life, chiedendo al suo partito, i democratici, di togliere dal piano anti-crisi da 825 miliardi di dollari le misure destinate alla «pianificazione familiare», in modo da poter concordare l’intervento insieme ai repubblicani.


Scartati perché difettosi: bebè ostaggio della genetica - L’allarme del genetista Giovanni Neri sulla deriva della diagnosi prenatale: i medici sono in grado di individuare mutazioni minuscole del patrimonio genetico di un feto ma non di dire se esse sono patologiche E non di rado si sentenzia l’eliminazione di un essere umano per il solo sospetto che possa avere forse un imprecisato problema – di Luisella G. Daziano – Avvenire, 29 gennaio 2009
Non basta più che sia una femminuccia o un maschietto, a seconda delle preferenze. Lo vogliamo perfetto, il figlio. La genetica, più che concentrarsi sulla cura delle malattie, sembra ormai sconfinare nel pericoloso terreno dell’eliminazione, prima della nascita del bambino, di ogni ' variazione' che potrebbe allontanare il nascituro dall’assoluta perfezione. Ma il desiderio di un figlio che non abbia alcun difetto, a partire dallo stato embrionale, e il conseguente ricorso a tecniche genetiche spregiudicate– come la selezione dell’embrione migliore nel caso di fecondazione assistita – è un’illusione.
Dice Giovanni Neri, ordinario di Genetica Medica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma: « La perfezione, dato e non concesso che sia raggiungibile, è per definizione arbitraria. La forza e la ricchezza della specie umana stanno invece nella diversità genetica degli individui che la compongono. Sopravviviamo e cresciamo proprio grazie alla nostra diversità. Se si pretende il figlio perfetto – aggiunge – anche il più piccolo difetto diventa inaccettabile, né più né meno di quanto accade quando si va a comprare un oggetto e si pretende che sia in perfette condizioni » .
Per Neri lo spostamento in avanti delle frontiere della genetica può creare problemi. Nessun allarmismo, avverte, ma un invito a una presa di coscienza, individuale e collettiva, per non restare passivamente « in attesa di soluzioni dall’alto, e per essere concretamente artefici delle nostre scelte, orientandoci grazie a quel senso critico che può formarsi soltanto dopo un’autentica e completa informazione » .
Per evitare che la scienza genica si travesta da ricerca spregiudicata, capace di arrivare a sposare ipotesi eugenetiche, suggerisce il genetista, è necessario continuare a denunciare che la capacità attuale d’individuare ' lesioni' sempre più piccole nel nostro patrimonio genetico sta gradualmente spostandosi nel riconoscimento di varianti genetiche non patologiche, e che il confine tra queste e quelle non è sempre netto e riconoscibile.
Ne consegue che a una diagnosi genetica certa ( ad esempio la mancanza di un piccolo segmento genomico) può non seguire una prognosi inequivocabile.
«Per intenderci, il medico sa che nel Dna di quel feto manca un piccolo tratto, ma non sa dire se questa mancanza causerà nel neonato un quadro patologico – spiega Neri –.
Basti ricordare i variabilissimi fenotipi della fibrosi cistica, date le grandi dimensioni del gene e delle sua sequenza codificante, che rendono problematica l’individuazione delle mutazioni che possono essere responsabili di manifestazioni cliniche. La drammatica conseguenza di tutto ciò è che non di rado si sentenzia l’eliminazione di un piccolo essere umano per il solo sospetto che possa avere, forse, un imprecisato tipo di difetto » .
Non siamo forse già di fronte a una situazione paradossale, ad uno stravolgimento del rapporto naturale di genitorialità e persino del codice deontologico del medico? « Proprio così – riprende l’ordinario di Genetica –. Se bastasse un piccolo difetto nel feto per scegliere di abortire, allora saremmo alla deriva. Chi ci dice, ad esempio, che l’embrione eliminato in quanto predisposto alla sordità non avesse quei geni che avrebbero fatto di lui un genio della musica? O, viceversa, che l’embrione prescelto, in quanto non tarato, non porti con sé geni che lo predispongono a un comportamento antisociale? » . In effetti, allo stato attuale delle conoscenze mediche, chi lo potrebbe dire? « Questa arroganza della ragione scientifica, supportata dalla pressione tecnologica, gli antichi greci l’avrebbero chiamata hùbris, ossia tracotanza » , puntualizza Neri.
La nostra è un’epoca di paradossi, ed è generosa di vicende che permettono di fotografare la situazione limite alla quale siamo arrivati. Eccone una: il famoso biologo molecolare Craig Venter, tra i protagonisti del Progetto genoma umano, dopo aver completato l’analisi del proprio genoma ( l’intera sequenza del Dna), non ha esitato a riconoscervi la presenza di numerose varianti associate al rischio di alcolismo, tabagismo, abuso di sostanze, infarto, malattia di Alzheimer. Sorridendo, il professor Neri fa notare che « il minimo che si possa dedurre da questa storia è che se queste varianti geniche fossero state riscontrate in una diagnosi preimpianto, cioè al momento di scegliere quali embrioni impiantare in utero durante la fecondazione assistita, il grande scienziato non sarebbe mai nato ». Ma la pressione sulle donne perché effettuino test prenatali è crescente. Sabato scorso sono stati resi noti gli esiti del primo censimento italiano fatto su amniocentesi e villocentesi. Ne è risultato che l’Italia è un Paese unico al mondo, con il numero record di 200 mila diagnosi stimate oggi, con un aumento del 15 per cento l’anno. Si stima anche che le donne con meno di 35 anni, che per la loro giovane età eseguono questi esami in regime privatistico, spendano per la diagnosi prenatale tra gli 80 e i 100 milioni l’anno.


Fine vita: scacco al diritto in tre sentenze - di Michele Aramini – Dal pronunciamento della Corte di Cassazione del 2007 a quanto deciso lunedì dal Tribunale amministrativo della Lombardia Così la giurisprudenza è diventata strumento della battaglia per introdurre in Italia l’eutanasia, pur senza chiamarla per nome Il tutto con ragionamenti a una sola direzione, ridando attualità al detto latino: «Summum ius summa iniuria»Avvenire, 29 gennaio 2009
INSINTESI
1Per ben sette volte la magistratura, in vari gradi di giudizio, aveva respinto la richiesta di sospendere l’idratazione e l’alimentazione della giovane donna di Lecco
2Poi è arrivata la precipitosa e improvvida decisione della Corte di Cassazione del 16 ottobre 2007, con la quale si stabilivano i criteri in base ai quali si sarebbe potuto dare corso alla richiesta di Beppino Englaro

Summum ius, summa iniuria. L’antichità del detto latino ci fa capire che nella tradizione giuridica si è sempre avuta consapevolezza dei limiti intrinseci all’attività giurisdizionale. Più vicino a noi, è stato il romanziere Franz Kafka a ricordarci nel suo celebre Il Processo a quali livelli di assurdità possano arrivare sia la burocrazia sia l’applicazione del diritto. La consapevolezza dei limiti umani e culturali dovrebbe rimanere sempre nel bagaglio professionale dei magistrati, perché essa sarebbe fonte di umiltà e saggezza.
Purtroppo sono qualità che non si riesce a vedere nelle varie sentenze che si sono succedute nel caso Englaro.
Innanzitutto vale la pena di rammentare che per ben sette volte la magistratura, in vari gradi di giudizio, aveva respinto la richiesta di sospendere l’idratazione e l’alimentazione della giovane donna di Lecco.
Poi è arrivata la precipitosa e improvvida decisione della Corte di Cassazione del 16 ottobre 2007, con la quale si stabilivano i criteri in base ai quali si sarebbe potuto dare corso alla richiesta di Beppino Englaro. Questa decisione è stata accolta da alcuni come una sorta di nuova carta costituzionale.
Questo richiamo serve al fine di non sopravvalutare come se fosse un oracolo la decisione della Cassazione, che ha dato il via all’ultima fase della vicenda Englaro.
A partire dalla pronuncia del 2007 si sono succedute altre sentenze: quella della Corte d’appello di Milano, con la quale si dava il via libera alla sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione, quella ulteriore della Cassazione, che ha respinto il ricorso del procuratore generale di Milano, quella della Corte Costituzionale che ha rigettato l’istanza del Parlamento sul conflitto di poteri tra Magistratura e potere legislativo.
A tutte queste sentenze si aggiunge quella recentissima del Tar della Lombardia che impone alla Regione di trovare un struttura adatta per far morire Eluana.
Dove sta l’aspetto di insensatezza della questione, per cui abbiamo parlato di vicenda kafkiana?
Il punto sta esattamente nel fatto che le sentenze successive non hanno usato il necessario senso critico per valutare quella sentenza iniziale, ma si sono limitate a una sua recezione passiva e hanno rigettato i vari ricorsi non tanto sulla base di una valutazione di merito dei fatti in oggetto, ma solo sulla base di cavilli giuridici che escludevano per ragioni formali i ricorsi stessi.
Ora, è noto che il diritto vive di procedure, ma qui vogliamo dire che quando le procedure sopravanzano la sostanza è necessario un rapido intervento del potere legislativo per sanare storture inammissibili.
La lettura della sentenza emessa dal Tar lascia sconcertarti non solo per questa citata ragione, ma anche per due altri aspetti.
In primo luogo perché essa obbliga la Regione Lombardia a offrire il ricovero ospedaliero sulla base del diritto di ogni cittadino che sia affetto da patologie ad essere curato. La sentenza dimentica che Eluana non è affetta da alcuna patologia e non richiede alcuna cura, semmai dovrebbe essere ricoverata per essere assistita non nella malattia che non c’è, ma nel suo decorso verso la morte. Ora questo è proprio il punto su cui si sorvola superficialmente. Infatti il servizio è obbligato a curare, mentre Eluana non necessita di cure, a meno che non si voglia chiamare cura la sua uccisione per fame e sete.
In secondo luogo si resta colpiti dal dogmatismo presente nella sentenza: l’articolo 32 della Costituzione sul consenso informato è interpretato in senso estremistico, dimenticando che tutto l’impianto della nostra Costituzione è solidaristico e non individualistico. La sentenza della Cassazione è riportata in parti importanti per ribadire che i giudici della Cassazione sono stati bravi e che bene hanno fatto a considerare l’idratazione e l’alimentazione come presidi sanitari che si possono sospendere. Mentre è noto a tutti che su questo punto in tutto il mondo esiste un forte discussione. Evidentemente il Tar ha ritenuto, in modo improprio, di dover difendere e rafforzare la decisione della Cassazione, come se una volta aperta la breccia dell’interpretazione individualistica della Costituzione, occorresse allargarla perché non potesse più essere chiusa.
In realtà nella sentenza del Tar c’è una forte dose di ideologia e di prepotenza giuridica che, neppure tanto velatamente, abolisce perfino l’obiezione di coscienza.
Dobbiamo infine ricordare che anche la Cassazione qualche volta sbaglia. Ha sbagliato altre volte ed è poi tornata sui suoi passi. Nel caso di Eluana ha sbagliato gravemente e dobbiamo auspicare che al più presto riveda la sua posizione.


Tar lombardo, quanti motivi per bocciarlo - Il giudice avrebbe dovuto accertare se quel «trattamento» che la Cassazione ha giudicato lecito sia anche un trattamento dovuto nell’ambito del servizio sanitario nazionale Così non ha fatto. Parla Aristide Police – di Andrea Galli – Avvenire, 29 gennaio 2009
Aristide Police, ordinario di Diritto amministrativo all’Università degli Studi di Roma 'Tor Vergata', ha in mano le sette pagine della discussa sentenza del Tar della Lombardia, quella che ha accolto il ricorso di Beppino Englaro e annullato il provvedimento con cui la Regione Lombardia, il 3 settembre scorso, aveva negato alle cliniche lombarde l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione e l’idratazione di Eluana.
Professore, la sentenza tocca diversi aspetti.
Liquida per esempio come «inidonea» la circolare del ministro Sacconi con cui si ribadiva che le strutture sanitarie pubbliche non possono interrompere il sostegno vitale dei pazienti nelle condizioni di Eluana. Cosa ne pensa?
«La circolare non era impugnata da parte dei ricorrenti e quindi il Ministero non era parte del giudizio. Che il Tar Lombardia si occupi di questo è assai singolare. Se ne occupa, appunto, in una situazione processuale in cui non è presente in giudizio la parte e soprattutto la sua difesa».
Quale doveva essere, di preciso, l’oggetto degli accertamenti del Tar?
«Si contestava una nota del direttore generale della sanità della Regione Lombardia e si chiedeva l’accertamento della pretesa del tutore dell’incapace, cioè di Eluana Englaro, di ottenere un 'trattamento con l’applicazione della scienza medica'. La direttiva del ministro non entra in questo ambito. È qui l’equivoco che vizia la sentenza del Tar sotto diversi profili».
Quali per la precisione?
«Il ministro ha emanato una direttiva nell’ambito delle sue competenze, che riguardano il servizio sanitario nazionale. Il giudice del Tar avrebbe dovuto accertare se quel trattamento che la Cassazione ritiene lecito sia anche un trattamento dovuto, cioè se debba essere reso nell’ambito del servizio sanitario. Questo aspetto è del tutto assente nella sentenza del Tar. Il giudice ricopia la sentenza della Cassazione e ci dice che quello è un trattamento sanitario e da ciò deduce che sia dovuto. Ora, con tutto il rispetto per la tristezza della vicenda, anche un’operazione di rinoplastica è un trattamento che implica e richiede l’applicazione della scienza medica, nessuno però si sogna di dire che sia anche un trattamento dovuto da parte del servizio sanitario nazionale».
È stato detto comunque che la direttiva di Sacconi era un tentativo di sabotaggio della sentenza della Cassazione...
«Anche su questo non sono d’accordo. Affinché una prestazione che implica l’applicazione della scienza medica sia riconosciuta come servizio pubblico è necessario un atto, che sia di fonte legislativa o amministrativa, che riconosca quel trattamento come rientrante nelle prestazioni del servizio sanitario nazionale. Ora, il fatto che il ministero della Salute ci dica che quella prestazione non rientra fra quelle del servizio sanitario nazionale non è affatto una violazione del provvedimento giurisdizionale della Cassazione. Il Tar ipotizza che questa prestazione sia un servizio pubblico, ma la scelta sulla natura o meno di servizio pubblico da erogarsi nell’ambito del servizio sanitario nazionale è una scelta di tipo puramente politico: un servizio è pubblico perché c’è un’istanza politica democraticamente legittimata che lo abbia riconosciuto come tale».
La sentenza del Tar sembra negare anche il diritto all’obiezione di coscienza per i medici coinvolti.
«Qui la tecnica di affrontare una questione così delicata con una sentenza breve, come si chiama nel diritto amministrativo, è stata un errore. Questa è una materia molto complessa e richiedeva tutto il respiro necessario per esplicitare e approfondire questi passaggi. E comunque, anche questa osservazione sull’obiezione di coscienza è inficiata dall’equivoco di partenza: dal considerare che la prestazione di cui si parla come una prestazione dovuta».