venerdì 30 gennaio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Orrore in Scozia: bimbi sottratti ai nonni per darli ad una coppia gay – due articoli dal sito Fattisentire.net
2) ELUANA/ Veronesi sbaglia, nessun dubbio di costituzionalità sulla proposta del Pdl - INT. Aldo Loiodice - venerdì 30 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
3) SCUOLA/ Rocca (Confindustria): dall’educazione le risposte a una crisi che cambierà il mondo – IlSussidiario.net - INT. Gianfelice Rocca - venerdì 30 gennaio 2009
4) FINANZA/ La lezione dei derivati non è bastata: nuovi prodotti minacciano il mercato - Mauro Bottarelli - venerdì 30 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
5) BIOLOGIA/ Vi racconto cosa c'è dietro la medusa "immortale" - INT. Ferdinando Boero - venerdì 30 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
6) UNIVERSITA'/ Dalle vette del medioevo alle riforme di oggi. Cosa rimane? - Marco Meschini - venerdì 30 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
7) Il Papa: più attenzione nelle nullità matrimoniali per immaturità psichica - Nell'udienza ai membri del Tribunale della Rota Romana - di Mirko Testa
8) Veglia per la vita all’Università Cattolica di Roma - Intervista a Leo Pergamo, responsabile dei giovani del Movimento per la Vita - di Antonio Gaspari
9) Le cure palliative nel magistero di Pio XII e Benedetto XVI - Una risposta di vita ontro il dolore - di Ferdinando Cancelli – L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2009
10) Le iniziative della Santa Sede per l'Anno dell'Astronomia - La rivoluzione di Galileo quattrocento anni dopo di Marcello Filotei – L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2009
11) A colloquio con monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio a Mosca,sulle prospettive aperte dall'elezione del nuovo Patriarca Cirillo - Sintonia sui temi morali e sociali, ricerca dell'unità sulle questioni dottrinali di Mario Ponzi – L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2009
12) "Shoah e mistero di Dio": editoriale di padre Lombardi – Radio Vaticana – 30 gennaio 2009 - Il cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione per i rapporti con l’Ebraismo, ha inviato una lettera al Gran Rabbinato di Israele proponendo di non rinviare l’incontro ebraico-cattolico in programma a marzo a Roma e messo in discussione dopo le assurde dichiarazioni negazioniste del vescovo lefebvriano Richard Williamson. Affermazioni duramente condannate dal Papa.
13) INTERVISTA. Parla il filosofo anti-relativista: «Dawkins & C. sono troppo sicuri della loro ragione scientifica. Ma la fede non è affatto irrazionale» Nagel: «Io, ateo contro lo scientismo» - «La ricerca di spiegare tutto con il naturalismo della scienza sta prosciugando la filosofia. - Invece l’insegnamento deve essere meno tecnico e tornare a occuparsi di temi alla portata di tutti» - DI ALESSANDRO NANNI – Avvenire, 30 gennaio 2009


Orrore in Scozia: bimbi sottratti ai nonni per darli ad una coppia gay – due articoli dal sito Fattisentire.net

"UNA SCELTA DEVASTANTE" RONACHE DI UN'EUROPA MALATA
Londra - Meglio adottati da una coppia gay che dai loro nonni. Due bimbi scozzesi, fratello e sorella di cinque e quattro anni, sono stati tolti dai servizi sociali di Edimburgo ai loro nonni naturali e stanno per venir adottati definitivamente da una coppia omosessuale ritenuta più adatta agli interessi dei bimbi.

Per la legge infatti i genitori della madre dei piccoli, che da tempo non è in grado di occuparsene perché eroinomane, sono troppo vecchi per crescere i nipoti. Cinquantanove anni lui, quarantasei lei, i signori, la cui identità non è stata rivelata ai giornali, hanno lottato per due anni per riottenere la custodia dei bimbi fino all’esaurimento di tutte le loro risorse finanziarie. Quando non sono più stati in grado di pagare le spese legali hanno dovuto desistere rassegnandosi all’ipotesi di un’adozione.


Di certo però, non si aspettavano che ad adottare i nipoti sarebbero stati due uomini. Come hanno raccontato ieri al tabloid inglese Daily Mail, sapevano che in lista d’attesa per l’adozione c’erano anche molte coppie eterosessuali e la decisione di dare la priorità ad una coppia gay è parsa loro profondamente squilibrata.

Eppure, quando il nonno ha osato protestare, sembra gli sia stato detto che nel caso si fossero rivelati ostili a questa decisione non avrebbero più rivisto i bambini. «Mi si spezza il cuore a pensare che i nostri nipoti siano costretti a crescere in un ambiente familiare privo di una figura materna - ha spiegato il nonno affranto - noi non abbiamo pregiudizi nei confronti dei gay, ma sfido chiunque a spiegarmi come una simile scelta possa rivelarsi la migliore nei confronti dei piccoli».

Gli stessi operatori dei servizi sociali hanno dovuto ammettere che, soprattutto la bambina, non si trova particolarmente a proprio agio con gli uomini e quindi l’inserimento in una famiglia tutta maschile potrebbe essere più problematica per lei.

Il caso ha già sollevato feroci polemiche in Scozia, un Paese dove alle coppie omosessuali è stato consentito di adottare nel 2006, nonostante una consultazione pubblica avesse chiaramente rivelato che il 90 per cento della popolazione era contro un simile provvedimento. Ora, l’opinione pubblica inizia ad interrogarsi su quale livello di interferenza nella vita privata e familiare sia accettabile da parte delle autorità locali. Soprattutto quando i protagonisti sono dei minori.

I più critici hanno sottolineato che di questi tempi, alcune autorità locali hanno negato il diritto all’adozione a coppie di fumatori o di obesi, ma hanno sostenuto fortemente l’affido e l’adozione per le coppie gay sebbene gli studi scientifici abbiano dimostrato che un bambino cresce meglio in una famiglia tradizionale composta da un padre e da una madre. Ieri anche un portavoce della chiesa cattolica ha condannato la decisione delle autorità di Edimburgo. «Si tratta di una scelta devastante - ha dichiarato - che avrà un grave impatto sul benessere dei bambini coinvolti».

Erica Orsini, Il Giornale, 29 gennaio 2009

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STRAPPANO 2 BIMBI A NONNI 50ENNI:
TROPPO VECCHI, MEGLIO I GAY...


Edimburgo (Scozia) – Cose dell’altro mondo, che accadono nell’Europa malata: due bambini, figli di una giovane tossicodipendente, sono stati strappati ai nonni e destinati in “adozione” a due uomini, cioè a una coppia omosex. Il pretesto per far cadere i piccini, fratello e sorella di 5 e 4 anni, nelle mani degli omosessuali è stato quello dell’età dei nonni: 59 anni lui, 46 lei, giudicati “troppo vecchi” per allevare dei figli. I poveri nonni, che stravedono per i loro nipotini, hanno fatto di tutto per ottenerne la custodia.

CAPITALE IN AVVOCATI. I nonni sono una coppia irreprensibile e stimata da tutti, nonostante la sventura della figlia eroinomane, in perfetta salute e adeguate condizioni economiche: hanno speso un capitale in avvocati per riavere i loro amati nipotini, ma alla fine hanno dovuto cedere davanti al muro della “giustizia” scozzese che privilegia i “diritti” dei gay a discapito di quelli dei famigliari e degli stessi legami di sangue.

MINACCE. Non solo: quando nonno e nonna hanno osato protestare sono stati minacciati. Si erano mostrati indignati perché altre coppie di persone normali, si erano fatte avanti per chiedere i bambini in adozione: persi per persi, a causa della loro età “anziana”, era meglio che i piccoli fosserro assegnati a una mamma e un papà. Niente da fare. Nel mondo “invertito”, le loro rimostranze sono state definite “omofobe”, asociali: così rischiavano di farsi negare persino la possibilità di vedere in futuro i loro nipotini, ora diventati figli di due omosessuali. A quel punto i nonni hanno desistito.

STRAZIANTE ABBANDONO. Straziante, poi, la scena dell’abbandono forzato, con i due piccini che non ne volevano sapere di andare da quegli uomini sconosciuti e chiedevano disperati di restare col nonno e la nonna, i loro famigliari. Soprattutto la bambina è caduta in uno stato di grave depressione, ma la “giustizia progressista” non ha rimorsi: gli omosex devono avere a loro disposizione i bambini degli altri. La Chiesa cattolica è intervenuta sulla vicenda definendo “devastante” la scelta di strappare i bambini ai nonni e lasciarli in balìa di due omosessuali: una decisione che “avrà grave conseguenze sui bambini coinvolti”.
Il Padano, 29 gennaio 2009


ELUANA/ Veronesi sbaglia, nessun dubbio di costituzionalità sulla proposta del Pdl - INT. Aldo Loiodice - venerdì 30 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Divampa la polemica intorno al ddl della maggioranza sul testamento biologico. A più riprese, dalle pagine dei giornali, Umberto Veronesi ha accusato di incostituzionalità il testo, soprattutto in merito all’impossibilità di decidere su alimentazione e idratazione. La scelta del paziente, infatti, secondo il ddl, riguarderebbe solo le cure; e non essendo considerate cure l’alimentazione e l’idratazione, su quelle dovrà essere stabilito per legge che non è lecito intervenire.
Aldo Loiodice, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Bari, giudica del tutto infondati dubbi in merito a questo punto.
Professore, se il testo passasse non ci sarebbe più nessuna possibilità di scegliere in merito all’alimentazione e l’idratazione somministrata in modo artificiale, come accade nel caso di Eluana Englaro. Cosa ne pensa dei dubbi di costituzionalità mossi contro questo aspetto?
Penso che non ci sia nessun dubbio. L’alimentazione e l’idratazione non costituiscono un trattamento sanitario, ma una normale componente della vita, in qualsiasi condizione, sia in salute che in malattia. Non possono considerarsi trattamenti terapeutici, e non essendo tali, ne consegue che non sono disponibili. O meglio, sono disponibili solo in termini quantitativi e qualitativi; ma non posso decidere di non assumere cibi. Altrimenti è come se si stabilisse il diritto di cadere nell’anoressia. Il problema deve dunque essere ribaltato: è proprio nel rispetto della Costituzione che rendo indisponibili l’alimentazione e l’idratazione, per evitare che si mettano in discussione le componenti essenziali della vita, che è diritto costituzionalmente garantito.
Quali sono dunque i paletti entro i quali interpretare l’articolo 32 della Costituzione?
Il paletto deve essere dato dal fatto che il comportamento in merito al quale il singolo può scegliere dev’essere strumentale al miglioramento della salute in caso di malattia. Deve cioè essere, in termini semplici, una terapia. L’alimentazione serve semplicemente per stare in vita, quindi non può rientrare nella casistica contemplata: riguarda cioè la qualità della vita e il mantenimento in vita, che sono cose diverse rispetto alla cura che si fa per tornare in salute.
Nel dibattito sul testamento biologico si parla molto di consenso informato: come può essere affrontato questo nel caso in cui la persona interessata non sia più in stato di coscienza?
Il consenso informato deve essere contestuale al trattamento che si fa, e non può mai essere preventivo. Non posso dare un consenso da qui a dieci anni, quando cioè la medicina sarà profondamente cambiata: il mio consenso potrebbe riguardare una cura che ora ha determinate implicazioni, più o meno gravi, e che magari invece tra dieci anni può essere amministrata in modo molto più semplice di adesso. Altrimenti avremmo un acconsentire rispetto a futuri eventi che uno non conosce, rispetto ai quali dunque non esiste informazione.
Quali conseguenze può avere l’iter legislativo in corso sul caso Englaro, e in particolare sulla sentenza che già è stata emessa?
In via di principio le leggi valgono solo per il futuro, quindi non dovrebbe andare a incidere su questo caso. Però rimane aperto il fatto che, se nel momento in cui entrerà in vigore la legge Eluana Englaro dovesse essere ancora in vita, allora si potrebbero anche riaprire le procedure, e vedere se quella legge può o meno essere applicata. Bisognerà dunque attendere per vedere se la legge avrà o meno i requisiti. A prescindere da questo, comunque, non si potrà mai obbligare una persona a intervenire su di un’altra per farla morire. E questo vale anche per le amministrazioni, che possono rifiutarsi di fare questo.
Eppure il Tar della Lombardia ha dato ragione a Englaro, e annullato il provvedimento che conteneva proprio le indicazioni cui ora lei faceva riferimento.
Non conosco nello specifico le motivazioni per cui è stata presa questa decisione. Faccio un’ipotesi: potrebbe essere stato per tutelare la libertà del tutore in relazione al tutelato, dicendo che l’amministrazione non può intervenire in questo tipo di rapporti. A parte il fatto che comunque questa sentenza può essere appellata presso il Consiglio di Stato, resta il fatto che comunque l’amministrazione può rifiutarsi di eseguire quanto indicato. In quel caso il Tribunale amministrativo dovrà nominare un commissario ad acta, ma non potrà certo costringere l’amministrazione ad ammazzare una persona. Il Tar nominerà un medico e gli ordinerà di andare ad ammazzare quella persona. Bisogna poi vedere se riesce a trovarlo, e soprattutto se si vuole assumere questa responsabilità.
Con la sentenza ha secondo lei dimostrato di volerlo fare?
Distinguiamo: è facile scrivere queste cose su un pezzo di carta, un’altra cosa è poi assumersi la responsabilità di realizzarle. Il Tar dunque deve stare molto accorto nel fare un po’ l’originale e, diciamo pure, il protagonista per avere visibilità sui giornali. Il tutto sulla pelle del dolore di chi ha cuore questa vicenda, e soprattutto di chi ha a cuore Eluana. Non si può speculare sulle emozioni.


SCUOLA/ Rocca (Confindustria): dall’educazione le risposte a una crisi che cambierà il mondo – IlSussidiario.net - INT. Gianfelice Rocca - venerdì 30 gennaio 2009
«Noi lasceremo alla generazione successiva una situazione molto complessa, che per certi versi potrebbe essere anche disastrosa». Gianfelice Rocca, vicepresidente di Confindustria con delega per l’Education, non usa mezzi termini per definire l’attuale crisi economica. E in una situazione così grave, le cui ripercussioni si riverseranno principalmente sui giovani, l’educazione e l’introduzione al mondo del lavoro assumono un ruolo assolutamente cruciale.
Presidente, in che modo l’educazione può essere una risposta alla crisi?
Innanzitutto dobbiamo intenderci sulla complessità di questa crisi. Ci troviamo in condizioni veramente critiche, perché non sappiamo quale sarà l’approdo di questa fase: abbiamo di fronte sei mesi di paura, dove la disoccupazione può assumere dimensione ancora non definibili. Quindi, al di là del modo con cui se ne uscirà, i giovani di oggi si troveranno certamente in un mondo diverso, in cui anche la stessa globalizzazione avrà un’altra immagine rispetto a quella attuale. Ora, è chiaro che l’educazione e l’istruzione sono l’elemento centrale: i giovani dovranno essere pronti al cambiamento e avere la capacità di muoversi in un mondo che chiederà loro più innovazione e più differenziazione. Ci vuole un’educazione che dia loro sostanza, e non apparenza, perché questa crisi ci obbliga a un’estrema concretezza.
L’educazione è dunque una priorità; eppure non sembra che in Italia questo sia percepito. Come fare per sensibilizzare l’opinione pubblica intorno a questo tema?
Si tratta di un problema profondo, che riguarda l’educazione dei genitori, prima ancora che dei figli. Certo, i media da questo punto di vista possono fare molto, soprattutto se iniziano a occuparsi di scuola con competenza, e non dando spazio – come invece troppo spesso fanno – a questioni di facciata e agli aspetti scandalistici. Bisogna cogliere il movimento di fondo che attraversa la nostra scuola, e a quello dare voce. Un’informazione corretta e approfondita è dunque la prima necessità; dopodichè ci vuole un convincimento più di lungo periodo, che riporti le famiglie a rendersi conto che l’educazione è un fatto essenziale.
Parlando di rapporto tra educazione e mondo del lavoro, un ruolo centrale spetta naturalmente all’istruzione tecnica. Gli istituti tecnici sono stati uno dei motori del nostro sviluppo economico: come recuperare questo rapporto col mondo produttivo, che negli anni un po’ si è perso?
Innanzitutto dobbiamo garantire alle scuole tecniche una maggiore flessibilità, in modo che possano adattarsi a una domanda esterna che cambia moltissimo. Primo aspetto di cui tenere conto è poi il fatto che chi esce dall’istruzione tecnica per metà va all’università, e per metà nel mondo del lavoro. Quindi i presidi devono tenere conto del problema del placement, di come collocare i ragazzi nel mondo del lavoro, e al tempo stesso porre attenzione a questa doppia domanda dei loro studenti. Il rapporto con il mondo delle imprese deve poi essere assolutamente recuperato: è da qui che può derivare quella concretezza nell’insegnamento che dà passione e vitalità all’apprendimento, e che tanto può coinvolgere i giovani. Non bisogna mai dimenticare che coloro che frequentano gli istituti tecnici non hanno un’istruzione di secondo livello, ma un modo diverso di studiare, basato sul fare per capire. Dall’istruzione tecnica può poi derivare una grande risposta al problema dell’occupazione sollevato da questa crisi.
In che senso?
Visto che c’è una grande domanda di tecnici, i giovani che escono da questi istituti sono in grado di inserirsi nel mondo del lavoro, e di garantirsi un’indipendenza economica già a 19 anni. Invece di avere molti giovani che per scelte sbagliate vanno ad alimentare una disoccupazione intellettuale di persone con una formazione “generalista”, che non sanno cosa fare, e che vivono il dramma non saper nemmeno che tipo di lavoro cercare, avremo gente che nella nuova società potrà giocare un ruolo ben preciso.
Confindustria insiste molto sul fatto che all’istruzione sia riservato un canale apposito, distinto dall’istruzione professionale. I provvedimenti del ministro Gelmini vanno in questa direzione: non le pare che ci sia il rischio di un’istruzione tecnica gestita dallo Stato, e quindi poco flessibile?
Io penso al contrario che tutta la programmazione scolastica dovrebbe passare alle Regioni, licei compresi. Creare una differenziazione per cui i licei restano in capo allo Stato, e tecnici e professionali in capo alle Regioni mi pare che rispecchi l’idea gentiliana delle due diverse culture: i licei per la formazione della classe dirigente, e gli altri istituti per le classi subalterne. Un’impostazione non adeguata alla nostra società, in cui anche la cultura classica deve sapersi adattare a quelle che sono le circostanze in cui si forma. Non dimentichiamo che in certi paesi tutte le scuole sono controllate dai Comuni, e questo accade ad esempio in Finlandia, il cui sistema riscuote un grandissimo successo. Discutere dunque su chi deve stare in capo alle Regioni e chi in capo alla Stato mi sembra un problema di carattere burocratico. Bisogna invece puntare su ben altro.
Su cosa in particolare?
Soprattutto sull’autonomia scolastica. Il vero punto di riferimento devono tornare ad essere i presidi (in passato erano molto spesso ingegneri), i quali devono essere degli imprenditori culturali, per riuscire a dare risposte a domande complesse e molto variabili. Quindi l’intervento statale o regionale è relativamente importante; quello che conta è concentrarsi sulla singola scuola e sulle reti di scuole.
Il discorso dell’autonomia si ricollega alle ipotesi di nuova governance della scuola, con ingresso dei privati in organi particolari. Qual è la sua opinione in proposito?
Soprattutto per i tecnici è importantissimo che vi sia una partecipazione organizzata del mondo delle imprese nella governance della scuola. Questa d’altronde era la ragione del successo dei tecnici fino agli anni ’70. La scuola sembra purtroppo vivere di una paura nel rapporto con il mondo esterno, perché si teme che questo possa essere un intervento per trasformare la scuola in un servizio per la formazione dei dipendenti delle aziende. Non è così. Noi avevamo imprenditori che erano anche presidenti di istituti tecnici, e avevamo laboratori con tecnici che venivano mandati dalle imprese a insegnare negli istituti. Dobbiamo assolutamente ripristinare questo circuito virtuoso, per dare un’identità alle scuole tecniche. Se non ripristiniamo questo, le svuoteremo della loro identità e della capacità di chiamare gli studenti per la loro qualità, e non come scuola di secondo scelta.


FINANZA/ La lezione dei derivati non è bastata: nuovi prodotti minacciano il mercato - Mauro Bottarelli - venerdì 30 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Per chi pensava che la sbornia di architettura finanziaria fosse terminata con l’esplosione della crisi dei derivati di vario genere, quanto sta accadendo sul mercato può suonare come una beffa.
Mentre infatti tutti pensano che le banche stiano cercando di ripulire i bilanci grazie anche agli aiuti di Stato, nella City come a New York avviene l’esatto contrario: l’ultima novità si chiama re-remics (resecuritization of real estate mortagage investment conduits), ovvero una nuova generazione di cdo (collateralized debt obligations) che rischia di creare i medesimi danni ancorché la loro entità sia decisamente minore.
Ma partiamo dai cdo per capire meglio di cosa stiamo parlando. I cdo sono dei pacchetti con un’obbligazione emessa dalla banca e con all’interno diversi debiti che cercano un investitore per coprirli, tra cui anche i tanto giubilati subprime. Accade dunque che una banca che vuole dei finanziamenti emette questi cdo cercando credito, promettendo di ripagare il tutto con relativi interessi: in caso di mancato rimborso, però, la banca ci rimetterà i soldi investiti nel mutuato e i soldi da restituire all’investitore vedendo svalutare questi titoli e quindi anche il proprio portafoglio.
Cosa sono invece i re-remics? Un fondo di investimento in mutui ipotecari su immobili. In realtà si prendono un bel po’ di mutui, molti dei quali rischiosi, li si spezzetta, li si trasferisce in bond che vengono mischiati per bene e immessi nel mercato: una macedonia di cdo.
Nei primi cinque mesi dello scorso anno, mentre la crisi esplodeva in tutta la sua virulenza, il volume di investimento in re-remics ha toccato quota 9,3 miliardi di dollari (il 47% di tutti i bond di debito emessi in quel periodo escludendo quelli di Fannie Mae e Freddie Mac, tre volte tanto rispetto allo stesso periodo del 2007).
Goldman Sachs, JP Morgan Chase e altre sei banche d’affari prima dell’estate si sono lanciate su questo mercato riassicurando pacchetti di investimenti che come cdo non riuscivano più a trovare mercato ma che come re-remics diventavano appetibili. Il perché è presto detto: i re-remics contengono meno di dodici tipi di bond a loro interno, quindi appaiono più analizzabili e soprattutto sono formalmente formati solo da debiti con rating AAA, sicurissimi sulla carta.
Solo che la differenza tra i cdo subprime e i re-remics è quantomeno comica alla luce di quanto accaduto: nel primo caso si garantivano mutui a potenziali insolventi, nel secondo caso la controparte non è tenuta a provare il proprio reddito. Ma non è tutto visto che grandi merchant bank e alcuni segmenti di hedge funds in questi giorni di turbolenza hanno creato desk appositi per l’acquisto di cdo e re-remics, investimenti che nel lungo termine possono risultare fruttuosi visto che prima o poi la crisi immobiliare finirà e il sottostante di quei veicoli sono beni immobili.
Per Simona Beretta, ordinaria di Politiche economiche internazionali presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano, niente di nuovo. «In effetti, questo comportamento non è del tutto bizzarro: l’evidenza storica sembra mostrare che il rendimento medio di lungo periodo dei titoli “buoni” e dei junk bonds sia stato abbastanza allineato (ovviamente, basso e stabile il primo; grandi guadagni che si alternano a grandi perdite per i secondi). Nel caso specifico dei re-remics la spiegazione potrebbe essere che il prezzo è precipitato ed è ovviamente il momento di comprare: chi non ha problemi di deleveraging, eccessiva esposizione, può farlo con fondi propri e fa un affare. Un’ulteriore ragione per cui ci può essere ancora domanda di attività finanziarie rischiose è che se una istituzione non ha bisogno stringente di liquidità, si tiene quello che ha e tendenzialmente lo rinnova in via automatica a scadenza, specie se i prezzi sono bassissimi».
Sarà per questo che a Londra, nonostante la recessione e la crisi nera, oltre la metà dei laureati in matematica, fisica matematica e ingegneria matematica sceglie la specializzazione in finanza. In compenso, visto che non si deve trattare tutto ciò che è finanza come il diavolo perché senza finanza e borsa non avremmo Microsoft e nemmeno Internet, chi fa le cose per bene viene premiato.
Parliamo delle aziende che trattano Cfd - contratti per differenza - cioè derivati ma su leva lineare: ovvero, se sale guadagni, se scendi perdi. Niente trucchi o scappatoie. Questo mercato cresce, giorno dopo giorno e ora la Borsa di Londra ha deciso di investire in questo mercato.
Una dei player principali di questo segmento è Ig Markets, da poco sbarcata anche in Italia. Queste le parole di Alessandro Capuano, managing director di Ig Markets Italia: «Il fatto che il London Stock Exchange abbia deciso di entrare direttamente come Borsa in questo mercato conferma sia quanto è sviluppato il business dei Cfd in termini di volumi, sia quanto è elevato l’interesse da parte dei consumatori su questi prodotti. Noi ci proponiamo in Italia come azienda leader nei Cfd e il fatto che il Gruppo London Stock Exchange-Borsa Italiana creerà un mercato di Cfd ci aiuterà a far entrare questo prodotto come una asset class sia dei trader online sia degli intermediari italiani che proprio grazie all’iniziativa del LSE non vivono più con le diffidenze degli anni scorsi su questo prodotto».
Insomma, finanza non vuol dire truffa. Fiducia e voglia di prodotto, fare, questo è il segreto per ripartire.


BIOLOGIA/ Vi racconto cosa c'è dietro la medusa "immortale" - INT. Ferdinando Boero - venerdì 30 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Si chiama Turritopsis Nutricola ed è intenzionata a non morire mai. In realtà la medusa di cui da ieri parlano tutti i giornali non è una novità. Era stata scoperta circa una decina di anni fa da un’equipe di biologi marini italiani, capeggiata dal professor Ferdinando Boero, genovese, docente presso l’università di Lecce. Il motivo per cui sembra tornata di moda questa creatura immortale è legato alla sua notevole diffusione nei sette mari. Ma il professor Boero ci tiene a non creare allarmismi inutili e ad indirizzare le preoccupazioni verso altre giuste cause
A quanto risulta è stato il suo team a scoprire questa prodigiosa medusa, come è avvenuto?
Prima di parlare della scoperta vorrei precisare che la ricerca sulla diffusione di queste meduse è stata realizzata dalla dottoressa Maria Pia Miglietta e non, come hanno scritto tutti i giornali riprendendo dall’errore del Telegraph, “Maria Maglietta”. Mi sembra una precisazione necessaria per sottolineare correttamente il merito e il lavoro di questa brava studiosa.
Il primo a scoprire le particolarità della medusa in questione fu, poco più di dieci anni fa, il professor Giorgio Bavestrello, ai tempi ancora mio studente all’università di Genova e ora professore ordinario di biologia marina ad Ancona. Egli scopri che la Turritopsis Nutricola era in grado di attuare il “transdifferenziamento” delle proprie cellule. In seguito il professor Stefano Piraino ed io studiammo il fenomeno approfondendo il punto di vista della dinamica cellulare.
Che cosa si intende per “transdifferenziamento”?
Di solito le cellule, durante lo sviluppo dell’organismo, si differenziano divenendo, a seconda dei casi, cellule muscolari, nervose, epiteliali e via dicendo. Una volta avvenuta questa trasformazione mantengono il proprio destino cellulare e ricoprono quindi sempre lo stesso ruolo fino alla fine della loro vita. Il transdifferenziamento avviene quando invece una cellula che si è differenziata, assumendo il proprio ruolo, avvia un processo di regressione e si de-differenzia per poi riassumere altre funzioni biologiche.
In questo caso dunque cosa avviene di preciso?
Le meduse hanno un ciclo biologico che prevede una fase di “medusa” appunto, quell’organismo che vive nell’acqua libera, in forma planctonica, e una fase esistenziale che le vede vivere sui fondali marini nelle sembianze di un organismo che si chiama “polipo”, da non confondere col “polpo”, il celebre mollusco.
I classici coralli, non sono altro che residui di polipi. La fase del polipo è quella iniziale e prodromica allo sviluppo delle meduse. Una volta raggiunto lo stadio “medusa”, detti organismi si riproducono sessualmente e dalla riproduzione si generano nuovi polipi.
Ora, dopo la riproduzione le meduse, di norma, muoiono.
La Turritopsis Nutricola invece raggiunge il fondo del mare dove le sue cellule si transdifferenziano fino a ricostituire un polipo. È come se una farfalla, anziché morire, tornasse ad essere un bruco.
A che punto sono le conoscenze relative a questo particolare animale?
Finora la Turritopsis è stata studiata dal professor Bavestrello, che ha descritto il fenomeno in termini morfologici generali e dalla nostra equipe che ha approfondito lo studio dei meccanismi cellulari. Per quanto invece riguarda lo studio del controllo genetico siamo ancora del tutto ignari. Questo anche per motivi di finanziamento. In effetti è una ricerca molto impegnativa che necessita di molti più fondi, i quali mancano.
Quando abbiamo pubblicato i risultati delle nostre ricerche l’ufficio stampa dell’Università ha diffuso la parola “immortalità”, che noi non avevamo mai adoperato. Non do nessuna colpa agli addetti stampa, hanno fatto bene. Altrimenti nessuno si sarebbe accorto di noi. Il problema è che al suono della parola “immortalità” si è scatenato il putiferio mediatico. Qui in università sono venute a trovarci le televisioni di ogni angolo del pianeta, Giappone, Francia, Inghilterra etc.
Ogni tanto la storia della medusa immortale, come in questo caso, ritorna alla ribalta delle cronache.
Dove risiede allora il valore scientifico della scoperta e degli studi successivi compiuti dalla dottoressa Miglietta?
La dottoressa Miglietta, per realizzare la propria tesi di dottorato, ha compiuto circa quattro volte il giro del mondo incontrando, pressoché ovunque, questi animali. In seguito ha iniziato a lavorare all’istituto di ricerca tropicale Smithsonian di Panama, con sede a Washington. Ha quindi potuto compiere un’analisi molecolare di questi esemplari ipotizzando che questa loro caratteristica ne abbia notevolmente avvantaggiato la diffusione. L’ha chiamata “silent invasion” perché, dato che la medusa in questione è molto piccola, nessuno si accorge della sua presenza. L’importanza delle conclusioni della Miglietta risiede nei suoi studi molecolari e nella sua analisi biogeografia, non certamente nel fatto che questa medusa stia per mangiarci vivi. Ciononostante il termine “invasione silenziosa” ha inevitabilmente attirato la fantasia dei giornalisti che si sono messi a parlare in termini apocalittici. Invece è di altre meduse che dovremmo preoccuparci…
Che cosa intende?
Se si cerca su Google “Giant jellyfish Japan” si possono trovare con facilità immagini di meduse che pesano 250 kg. Due anni fa un banco di meduse della lunghezza di 15 km si è letteralmente mangiato l’intera comunità di salmoni d’allevamento in Irlanda mandando in fallimento l’industria che li vendeva. Molto più banalmente chi va in vacanza al mare si sarà accorto dell’accresciuto numero di meduse negli ultimi anni. È un dato di fatto che i nostri oceani stanno subendo un notevole incremento, non poi così “silenzioso”, nella popolazione di questi animali.
Questa è una notizia positiva o negativa?
È negativa se consideriamo questo fenomeno legato all’intensissima attività di pesca attuata da tutti i paesi del mondo. È assai più che probabile che sia l’assenza dei pesci a generare la forte presenza di meduse. La natura ci insegna che in un ambiente l’assenza di un tipo di predatore porta inevitabilmente all’arrivo di un altro tipo di predatore.
Da un punto di vista medico si possono prevedere dei vantaggi nello studio di questa straordinaria creatura?
Penso che, dato che la Turritopsis compie questo lavoro di trans differenziamento anche quando sottoposta a stress come l’innalzamento della temperatura o lesioni meccaniche, ci sia una sorta di interruttore genetico che innesca tale processo. Per cui se uno dovesse trovare questo “interruttore” potrebbe anche attivarlo o inserirlo dove non c’è.
Personalmente però non sono così tanto convinto che sia una cosa giusta. È lo stesso dubbio che nutro nei confronti della moda della clonazione, un’ansia di immortalità piuttosto egoistica. Senza considerare il fatto che si tratterebbe comunque di un’immortalità virtuale, perché anche la nostra medusa, una volta che incontra il pesce che la mangia, non torna mica in vita. Per noi sarebbe lo stesso, rimarrebbe sempre la morte per incidente. Lascerei quindi perdere questa parola che, come ho detto, è finora servita soltanto ai giornalisti e mi concentrerei su una scienza un po’ più ragionevole.


UNIVERSITA'/ Dalle vette del medioevo alle riforme di oggi. Cosa rimane? - Marco Meschini - venerdì 30 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Com’è forse giusto che sia, la prestigiosa università di Cambridge festeggia quest’anno i suoi ottocento anni di vita. Al 1209 risale infatti l’avvio degli studi nell’antico centro commerciale usato dai romani secoli prima.
Un inizio casuale e polemico: infatti i primi magistri («maestri», i nostri «professori») vi si stabilirono in esilio da Oxford, dove una lite tra studenti e abitanti locali era finita nel sangue, con la conseguente sospensione delle attività di docenza. Una colonia di docenti, dunque, presto seguiti da vari gruppi di studenti, mise le tende a circa 140 chilometri a nord est di Oxford, appunto a Cambridge, dando avvio alla seconda istituzione universitaria d’Inghilterra e aprendo una rivalità ancora oggi non sopita, tanto da ricevere l’appellativo di Oxbridge. Una competizione non meramente accademica ma pure sportiva, come simboleggiato dalle mitiche regate di canottaggio e dalle partite di rugby capaci di attirare – ormai nell’Ottocento moderno – folle urlanti di tifosi ed ex-alunni con abbondante contorno di flash e riflettori dei media.
Un anniversario di questa natura insegna varie cose. Per esempio ci ricorda che dire università significa dire giovinezza – degli studenti, certo, ma anche dei docenti, almeno relativamente e per quanto riguarda il Medioevo – e dunque anche tensioni e animosità legate indissolubilmente a un’età della vita che ha energie in sovrappiù da spendere. Piaccia o non piaccia, dire università vuol dire giovani e svaghi correlati – giochi, vino, donne… – con il necessario corollario di problemi sociali. Nella sola Parigi del XIII secolo – che era con Bologna il maggior centro universitario del mondo di allora – le taverne erano oltre 4.000, un numero rilevante delle quali concentrate sulla celebre rive gauche, la «riva sinistra» della Senna dove si sviluppò l’università. E basta aggiungere un semplice cenno allo scandaloso rapporto tra Abelardo ed Eloisa – pur così geniali e magnifici, nei trentasette anni di lui e i sedici di lei, professore lui, sua studentessa lei… – per ricordare come all’incipit delle università europee vi sia stato tutto ciò che può essere rubricato sotto la parola «passione».
E, insieme, possiamo far memoria del fatto che propria quell’età troppo a lungo biasimata – il Medioevo appunto – fu capace di generare una simile impresa culturale. Perché le università dell’Europa medievale – un’Europa ormai talmente cristianizzata da auto-definirsi come Cristianità – furono un vertice assoluto a livello mondiale. Anzi furono qualcosa che né i greci né i romani avevano avuto, e tantomeno altre tradizioni culturali e religiose. Furono la manifestazione di quali vette intellettive (e poi anche pratiche) la mente umana è capace di raggiungere.
Perché si ha una bella cocciutaggine a spostare all’Età Moderna l’inizio della razionalizzazione europea. Come ormai è dimostrato a livello internazionale, fu tra XI e XIII secolo – dunque nel cosiddetto Pieno Medioevo – che l’Europa raggiunse la punta avanzata della civiltà, per non lasciarla sino al presente.
Ma saremo capaci di rimanere a quelle altezze? I nostri padri medievali utilizzarono una lingua comune: il latino medievale, erede di quello classico e insieme così diverso e così potente.
Rifondarono poi un metodo comune a tutta l’Europa: e furono le arti liberali del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (matematica, geometria, musica, astronomia).
Eressero quindi i pilastri delle facoltà: filosofia, diritto, medicina, tutte strappate al campo incolto della superstizione, della forza bruta e della magia per condurle nel dominio della ragione.
Ancora, elevarono le arti meccaniche al rango di discipline libere: e furono gli architetti delle cattedrali romaniche e gotiche.
Infine, coronarono tutta questa architettura mentale e spirituale con l’investigazione del tutto: e fu la teologia, se preferite la metafisica, ovvero la versione medievale della ricerca sull’oltre e dell’oltre, su e di ciò che infinitamente grande e infinitamente piccolo. Su e di ciò che trascende l’uomo, senza nel contempo annichilirlo.
E ora noi festeggiamo dentro uno scheletro vuoto. Perché le nostre università – per l’Italia ciò è senz’altro vero – sono morte e pochissimi hanno il coraggio di dirlo. Perché non c’è riforma che tenga: abbiamo asciugato la linfa da cui tutto questo è sorto. Abbiamo paura della ragione umana, paura di noi stessi. E può l’uomo crescere nella paura? Può la pianta del nostro intelletto vivere senza umore vitale?


Il Papa: più attenzione nelle nullità matrimoniali per immaturità psichica - Nell'udienza ai membri del Tribunale della Rota Romana - di Mirko Testa
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 29 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Ricevendo questo giovedì mattina in udienza i membri del Tribunale della Rota Romana, in occasione della solenne inaugurazione dell’Anno giudiziario, Benedetto XVI ha messo in guardia sul pericoloso dilagare delle dichiarazioni di nullità matrimoniale con il pretesto dell'immaturità psichica.
Nella sua riflessione, il Pontefice ha tratto spunto da due discorsi pronunciati da Giovanni Paolo II in merito a questa tematica (5 febbraio 1987 e 25 gennaio 1988), constatando la “grande attualità” di questo problema e la necessità per il giudice di servirsi dell’aiuto dei periti nell'accertamento dell’esistenza di una reale incapacità.
Occorre, infatti, preservare la comunità ecclesiale “dallo scandalo di vedere in pratica distrutto il valore del matrimonio cristiano dal moltiplicarsi esagerato e quasi automatico delle dichiarazioni di nullità, in caso di fallimento del matrimonio, sotto il pretesto di una qualche immaturità o debolezza psichica del contraente”.
A questo proposito, il Papa ha esortato gli operatori del diritto a “trattare le cause con la doverosa profondità richiesta dal ministero di verità e di carità che è proprio della Rota Romana”, ricordando la distinzione importante “tra una maturità psichica che sarebbe il punto d’arrivo dello sviluppo umano e la maturità canonica, che è invece il punto minimo di partenza per la validità del matrimonio”.
Il Pontefice ha quindi posto l'accento sulla differenza tra "difficoltà” e “incapacità” – in quanto solo quest'ultima rende nullo il matrimonio –; “tra la dimensione canonistica della normalità, che ispirandosi alla visione integrale della persona umana, comprende anche moderate forme di difficoltà psicologica, e la dimensione clinica che esclude dal concetto di essa ogni limitazione di maturità e ogni forma di psicopatologia”.
Il Santo Padre ha quindi chiamato a discernere “tra la capacità minima, sufficiente per un valido consenso e la capacità idealizzata di una piena maturità in ordine ad una vita coniugale felice”.
Tra le diverse cause di nullità per immaturità psichica vanno comprese tutte quelle cause che possono aver compromesso in uno dei due coniugi la capacità consensuale nell’assumere e adempiere le obbligazioni fondamentali del matrimonio.
In questi casi rientrano: la mancanza di sufficiente uso di ragione, in cui il soggetto che presenta una grave alterazione delle facoltà psichiche non è cosciente del proprio stato e non è in grado di autodeterminarsi in maniera libera; oppure il cosiddetto “difetto di discrezione di giudizio”, in cui il soggetto tuttavia è cosciente del proprio stato e non perde la razionalità necessaria, come nelle gravi forme di nevrosi e di psicopatie.
L’incapacità di assumere e adempiere gli obblighi essenziali del matrimonio può anche essere ricondotto a casi di tossicodipendenza o alcoolismo, oppure essere il prodotto di perversioni o affezioni di carattere sessuale.
Le definizioni date dai canonisti dei disturbi della personalità ricalcano da vicino quelle formulate nelle edizioni del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali elaborato dalla Società Americana di Psichiatria (DSM).
Il DSM li suddivide fondamentalmente in tre gruppi: strano-eccentrico (disturbi paranoide, schizoide e schizotipico della personalità); amplificativo-emotivo (disturbi antisociale, borderline, istrionico e narcisistico); ansioso-pauroso (disturbi di personalità evitante, dipendente e ossessivo-compulsivo). A questi tre gruppi si aggiunge una categoria residuale, denominata disturbo di personalità non altrimenti specificato o “misto”.
Tuttavia la questione della natura psicopatologica dei disturbi di personalità diventa rilevante dal punto di vista canonico solo se la presenza di una seria forma di anomalia clinica va a incidere sulle facoltà naturali della persona, ossia l’intelligenza e la volontà.
Nell'udienza ai membri della Rota Romana il Pontefice ha sottolineato in primo luogo la necessità di “riscoprire in positivo la capacità che in principio ogni persona umana ha di sposarsi in virtù della sua stessa natura di uomo o di donna”.
Successivamente ha messo in guardia contro il rischio nella società odierna di “cadere in un pessimismo antropologico che, alla luce dell’odierna situazione culturale, considera quasi impossibile sposarsi”.
“A parte il fatto che tale situazione non è uniforme nelle varie regioni del mondo – ha osservato – , non si possono confondere con la vera incapacità consensuale le reali difficoltà in cui versano molti, specialmente i giovani, giungendo a ritenere che l’unione matrimoniale sia normalmente impensabile e impraticabile”.
“Anzi – ha precisato –, la riaffermazione della innata capacità umana al matrimonio è proprio il punto di partenza per aiutare le coppie a scoprire la realtà naturale del matrimonio e il rilievo che ha sul piano della salvezza”.
“La capacità deve essere messa in relazione con ciò che è essenzialmente il matrimonio, cioè l’intima comunione di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, e, in modo particolare, con gli obblighi essenziali ad essa inerenti”.
All’interno degli obblighi essenziali dello stato coniugale va annoverato il consortium vitae oppure lo ius ad vitae communionem, che va identificato con il mutuo aiuto, non solo pratico o dal punto di vista della intimità sessuale, ma anche in senso più ampio e profondo, che orienta verso il bene dei coniugi esaltandone la dimensione oblativa.
La capacità al matrimonio, ha continuato il Papa, “non viene misurata in relazione ad un determinato grado di realizzazione esistenziale o effettiva dell’unione coniugale mediante l’adempimento degli obblighi essenziali, ma in relazione all’efficace volere di ciascuno dei contraenti, che rende possibile ed operante tale realizzazione già al momento del patto nuziale”.
Allo stesso modo, ha ricordato come alcune correnti antropologiche “umanistiche”, orientate “all’autorealizzazione e all’autotrascendenza egocentrica”, idealizzino a tal punto la persona umana e il matrimonio da finire per “negare la capacità psichica di tante persone, fondandola su elementi che non corrispondono alle esigenze essenziali del vincolo coniugale”.
Di fronte a queste concezioni, gli esperti del diritto ecclesiale devono tener conto del “sano realismo” a cui si riferiva Giovanni Paolo II, “perché la capacità fa riferimento al minimo necessario affinché i nubendi possano donare il loro essere di persona maschile e di persona femminile per fondare quel vincolo al quale è chiamata la stragrande maggioranza degli esseri umani”.
Le competenze del Tribunale della Rota Romana, che ebbe origine dalla Cancelleria Apostolica, furono fissate definitivamente da Benedetto XIV con la Costituzione Iustitiae et pacis nel 1747. Da Gregorio XVI (1834) la Rota fu anche tribunale di appello per lo Stato Pontificio, mentre le cause pertinenti il foro ecclesiastico, venivano decise di preferenza dalle Congregazioni.
Le norme vigenti sono state approvate e promulgate da Giovanni Paolo II il 7 febbraio 1994.
La Rota Romana funge da Tribunale di appello e giudica: a) in seconda istanza, le cause definite dai Tribunali ordinari di primo grado e deferite alla Santa Sede per legittimo appello; b) in terza ed ulteriore istanza, le cause trattate già in appello dalla stessa Rota o da un altro Tribunale ecclesiastico d'appello.
Inoltre, è anche Tribunale d'appello per il Tribunale ecclesiastico della Città del Vaticano.


Veglia per la vita all’Università Cattolica di Roma - Intervista a Leo Pergamo, responsabile dei giovani del Movimento per la Vita - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 29 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Si terrà sabato 31 gennaio, alle ore 20:00, nella Chiesa centrale del Sacro Cuore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore - Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli”, una veglia universitaria internazionale sul tema “La forza della vita nella sofferenza”.
Organizzata in occasione della Giornata per la Vita 2009 dal Movimento per la Vita italiano (MpV) dal MoVit-MpV UCSC in collaborazione con il Centro Pastorale - U.C.S.C. Roma e il Laboratorio Culturale “Progetto Emmaus”, la veglia ha visto l’adesione anche del Movimento dei Focolari, di Phos, della FUCI, della Comunità di S. Egidio, dell’UNITALSI, de La Quercia Millenaria e dall’associazione Ali di scorta.
Presieduta dal Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, la veglia vedrà le testimonianze: della dott.ssa Adriana Turriziani, Hospice “Villa Speranza” - U.C.S.C.; di Leo Pergamo, responsabile nazionale dei giovani del MpV Italiano e animatore della veglia; del prof. Rodolfo Proietti, docente ordinario di Anestesiologia e Rianimazione - U.C.S.C.; di don Paolo Bovini, Assistente spirituale e docente di Teologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; e del dott. Giuseppe Grande, Presidente MoVit – MpV UCSC Roma.
Per conoscere motivazioni e finalità di questa iniziativa, ZENIT ha intervistato Leo Pergamo.
Perché una veglia per la vita?
Leo Pergamo: Per apprendere insieme a costruire la vita su Cristo, accogliendone con gioia la parola e mettendone in pratica gli insegnamenti. E’ urgente che sorga una nuova generazione di apostoli radicati nella Parola di Cristo, capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo e pronti a diffondere dappertutto il Vangelo della Vita.
E questo è parte di ciò che ci ripromettiamo quotidianamente di fare e che molto più concretamente vogliamo vivere in questa veglia.
Può forse sembrare banale e ripetitivo presentare le nostre esperienze davanti ad una comunità che è sempre pronta a prendere posizioni a favore o contro gli sforzi che ognuno di noi compie.
Non è semplice presentarsi come testimoni di Dio, esporsi a testa alta senza evitare di potersi prendere le proprie responsabilità: perché essere simboli viventi e portatori del messaggio di Dio implica degli oneri non indifferenti.
Sarà forse la nostra innocenza e le nostre sempre minori certezze nella vita che ci portano ad avere una maggiore sensibilità nei confronti di Dio, che ci portano a considerare questa veglia come fonte inesauribile di emozioni, di lacrime, di gioia, di ansie, di paura di non essere all’altezza; come una serata dalla quale non puoi che imparare ad apprezzare chi continua a dimostrarti che è l’Amore l’unica cosa che conta veramente, dalla quale non puoi che trovare conforto e dalla quale puoi allontanarti solo con un sorriso…
Perché una veglia non può piacere o non piacere, non è un film o una canzone o uno spettacolo da vedere e alla fine del quale chi ha assistito deve esprimere un giudizio, non siamo una compagnia teatrale che mette in mostra ciò che ha imparato a memoria: la veglia è condivisione, è improvvisazione, è scambio di vite, è l’incontro con il Signore. Una veglia fa crescere...
Che cosa chiedete al Signore?
Leo Pergamo: «Parole, parole, parole...», cantava un vecchio motivo, divenuto popolarissimo. Non è facile districarsi nella massa di parole che ci investono quotidianamente e che noi stessi produciamo con generosa abbondanza. Ci sono quelle subdole, patinate di verità, ma prodotte da un cuore malefico, altre sono sincere, ma forse superficiali, altre ancora sono vere e potenti, dotate di dinamismo trasformante. Vorremmo, prima di tutto, chiedere al Signore di essere capaci di distinguere le parole, valutandone la qualità e la provenienza.
Vorremmo inoltre pregare per il popolo cristiano che si appresta a celebrare la XXXI giornata per la Vita, perché tra gioie, sofferenze e speranze non si stanchi di promuovere la cultura della Vita, abbandonando quella forma di relativismo che avvolge il mondo e fa vittime in ogni angolo, anche tra coloro che maggiormente si professano “figli di Dio”.
Vorremmo affidare al Signore tutti i bambini che nascono alla vita, specialmente quelli che non hanno alle spalle una famiglia “cristiana”, perché siano accolti con amore e tutta la Comunità riconosca che il frutto del grembo è, sempre e comunque, dono di Dio.
Vorremmo pregare per tutti coloro che soffrono nel corpo e nello spirito e per coloro che li assistono, perché imparando da Cristo a farsi prossimo gli uni per gli altri, possano sperimentare nella loro esistenza “la forza della Vita nella sofferenza”.
Infine pregheremo anche per tutti noi che prenderemo parte a questa veglia, perché possiamo avere la forza di accogliere, senza esitazione alcuna, la Parola di Dio e di viverla nell’esperienza quotidiana, aprendo il nostro cuore ai fratelli.
In che modo le attività terrene e materiali del Movimento per la vita possono trarre beneficio da una veglia di preghiera?
Leo Pergamo: "Quando andiamo a celebrare l’Eucarestia ricordiamoci sempre di rispettare la vita. E’ per la vita che Dio è morto. Ogni vita è dono di Dio in noi. Compreso il bambino non ancora nato". Queste parole di Madre Teresa racchiudono il senso profondo della serata che vivremo il prossimo 31 gennaio, ed alla quale invitiamo quanti vorranno unirsi a noi.
Con lo sguardo all'Eucarestia, per trovare il senso profondo, le ragioni ultime dell'impegno a servizio della vita.
Nell'Eucarestia l'impegno per una cultura a servizio di ogni uomo trova pieno compimento, il volontariato a servizio di chi è fragile e debole, in primo luogo il bambino non ancora nato, trova la propria dimensione piena.
Quale riflessione intendete svolgere sul tema "La forza della vita nella sofferenza"?
Leo Pergamo: La sofferenza, come scritto anche nel messaggio, appartiene al mistero dell'uomo. Rimane un mistero, che solo nel mistero della croce trova il proprio senso.
La sofferenza, dunque, come momento di fragilità, in cui l'uomo si sente, da un lato, bisognoso di aiuto, dall'altro privo di altro, che non sia l'alta dignità di ogni uomo.
Un malato gravemente disabile, incapace di svolgere funzioni o attività di relazione, è privato di tutto, ma non di quella dignità che deriva dall'appartenenza alla famiglia umana. La vita allora appare nella sua forza piena; davvero si dischiude agli occhi il mistero della dignità umana, mentre a tutti è chiesto un impegno a servizio di questi fratelli sofferenti.


Le cure palliative nel magistero di Pio XII e Benedetto XVI - Una risposta di vita contro il dolore - di Ferdinando Cancelli – L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2009
In molte occasioni Benedetto XVI ha ribadito con grande lucidità e attenzione il valore delle cure prestate ai malati in fase avanzata di malattia. Lo ha fatto anche il 20 ottobre 2008, di fronte ai partecipanti al cx Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia, in un discorso che offre molti spunti di riflessione. Cinquantuno anni prima, il 24 febbraio 1957, Pio XII, analogamente, si rivolgeva ai partecipanti del ix Congresso nazionale della Società Italiana di Anestesiologia. Un discorso che, prendendo le mosse da tre quesiti formulati al Papa dai medici di allora, segnava una tappa importantissima nella valutazione morale dell'operato di chi si dedica professionalmente alla terapia del dolore e in particolare alle cure palliative. È come se i due Pontefici rivolgessero un solo penetrante sguardo all'interno di uno degli ambienti più tecnici e asettici della pratica medica: quella sala operatoria dove quotidianamente chirurghi e anestesisti lavorano fianco a fianco, e, nello stesso tempo, cogliessero pienamente la parallela realtà di quei pazienti che - per usare le parole di Benedetto XVI - rischiano di essere abbandonati "nel momento in cui si avverte l'impossibilità di ottenere risultati apprezzabili". Colpisce innanzitutto proprio questo: nel rivolgersi a chirurghi e anestesisti, forse tra le categorie professionali mediche più esposte al tecnicismo e con minori occasioni di sviluppare quell'alleanza terapeutica che Benedetto XVI definisce "relazione di mutua fiducia che si instaura tra medico e paziente", i due Papi - con parole diverse, ma in unità d'intenti e grande armonia di visione - riportano l'attenzione verso quanti, non essendoci più nulla da fare per la guarigione, rischiano di essere trascurati. Proprio partendo da questo presupposto scaturiscono dai due discorsi alcune importantissime sottolineature. Già nella descrizione del compito dell'anestesista, Pio XII evidenziava con grande efficacia quelle "grandi doti di simpatia, di comprensione, di dedizione" che, unite alla "perfetta conoscenza delle tecniche della sua arte" favoriscono "tutte le disposizioni psicologiche utili alle buone condizioni del malato": sono quelle doti indispensabili che Benedetto XVI poco più di cinquant'anni dopo ricorda come basilari nella comunicazione tra medico e paziente affermando che "quanto il medico comunica al paziente direttamente o indirettamente, in modo verbale o non verbale, sviluppa un notevole influsso su di lui: può motivarlo, sostenerlo, mobilitarne e persino potenziarne le risorse fisiche o mentali, o - continua Papa Ratzinger - al contrario, può indebolirne e frustrarne gli sforzi". Entrambi i Pontefici offrono pieno sostegno alla medicina palliativa. Pio XII lo fa in un periodo in cui - ancora di là da venire i tempi del primo hospice inglese (fine anni Sessanta) - questa branca della medicina muoveva i primi passi solo grazie a madre Teresa di Calcutta, erede dell'antica tradizione cristiana di misericordia verso i morenti beatificata da Giovanni Paolo ii. Benedetto XVI leva alta la sua voce: oggi, infatti, se da un lato si ha un maggiore sviluppo di centri residenziali e di équipe di assistenza domiciliare per i morenti, dall'altro c'è il rischio di perdersi in quella che il Papa stesso definisce "esaltazione individualistica dell'autonomia" a detrimento del senso della realtà umana. Vera pietra miliare per l'esercizio della terapia del dolore, il discorso di Pio XII è stato sovente ripreso. Ad esempio dopo aver condannato ogni forma di eutanasia e riferendosi "unicamente" alla volontà di "evitare al paziente dolori insopportabili" - per esempio nel caso di cancri inoperabili o malattie inguaribili" - Papa Pacelli afferma la liceità della somministrazione dei narcotici anche se "cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l'abbreviamento dei dolori, dall'altro l'abbreviamento della vita". Con tutte le limitazioni, che il principio del doppio effetto comporta, riprese dal Pontefice nel passaggio successivo e cioè: "Se vi è tra i due effetti proporzione ragionevole, se i vantaggi dell'uno compensano gli inconvenienti dell'altro, (...) se lo stato attuale della scienza non permetta di ottenere lo stesso risultato con l'uso di altri mezzi, e poi di non oltrepassare, nell'uso del narcotico, i limiti di quello che è praticamente necessario".
Sia concessa a questo proposito una nota: il medico palliativista, avendo oggi alle spalle più di cinquant'anni di progressi scientifici da allora - ferma restando tutta la validità del discorso - sa d'altra parte che i casi di abbreviamento della vita come effetto secondario dell'uso di analgesici maggiori, come gli oppioidi, sono per lo più da imputarsi a errori nel loro utilizzo. I farmaci più utilizzati in particolare per il dolore oncologico - ad esempio morfina, fentanyl, ossicodone e più raramente metadone - permettono di controllare il sintomo in più del 90 per cento dei casi; spesso senza alterare lo stato di coscienza del paziente e, secondo molti studi, non solo non accelerandone il decesso, ma anche prolungandone la sopravvivenza. Si disinnescano infatti anche tutti quei meccanismi di stress che il dolore non idoneamente trattato può scatenare.
Anche Benedetto XVI invita i sanitari ad "alleviare la sofferenza" e ad "accompagnare il malato nel suo cammino", evitando di "estromettere dalla relazione terapeutica il contesto esistenziale del paziente, in particolare la sua famiglia"; e promuovendo il "senso di responsabilità dei familiari nei confronti del loro congiunto".
L'invito ai medici di ieri è in fondo lo stesso a quelli di oggi: senza una "sufficiente vibrazione umana" - dice Benedetto XVI sulla scia di Pio XII - la pratica stessa della medicina rischierebbe di disperdersi nei mille sterili rivoli della sola tecnologia e di perdere di vista alcune esigenze morali imprescindibili.
In conclusione lasciamoci guidare dalle parole che Papa Pacelli poneva in chiusura al suo discorso rivolgendosi direttamente ai medici: "Ben lungi dal concepire queste esigenze come restrizioni od ostacoli alla vostra libertà e alla vostra iniziativa, vogliate vedervi piuttosto l'invito ad una vita infinitamente più alta e più bella, che non può conquistarsi senza sforzi o rinunce, ma la cui pienezza e gioia sono già sensibili quaggiù per chi sa entrare in comunione con la persona di Cristo vivente nella sua Chiesa, il quale del suo Spirito la anima, e spande su tutti i membri di essa il suo amore redentore, che solo trionferà definitivamente della sofferenza e della morte".
(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2009)


Le iniziative della Santa Sede per l'Anno dell'Astronomia - La rivoluzione di Galileo quattrocento anni dopo di Marcello Filotei – L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2009
"Un giorno il leone chiamò a sé il lupo e gli chiese se il suo alito avesse un cattivo odore. Il lupo rispose "sì" e fu sbranato. Troppo presuntuoso. Alla stessa domanda la pecora rispose "no" e subì la stessa sorte. Troppa piaggeria. La volpe lamentò un forte raffreddore ed ebbe salva la vita". In questa storiella si può sintetizzare il rapporto tra scienza e potere e nel contesto storico nel quale lavorò Galileo Galilei, ha spiegato l'accademico linceo Paolo Rossi, durante l'incontro che si è tenuto giovedì 29 nella Sala Stampa della Santa Sede per presentare le iniziative per l'Anno dell'Astronomia indetto nel 2009 dalle Nazioni Unite a quattrocento anni dalle prime scoperte astronomiche, nonché il Convegno internazionale su Galileo Galilei che si terrà a Firenze dal 26 al 30 maggio. La questione è certamente ancora aperta, e il convegno - ha spiegato Rossi - "intende affrontare, con un'ampiezza finora intentata, tutti i temi essenziali, dalla condanna della dottrina di Copernico nel 1616 al processo a Galileo nel 1633, dalla genesi del cosiddetto "caso Galileo" alla sua evoluzione in Italia, Francia, Inghilterra attraversando la storia dal Seicento ai nostri giorni, con una puntata anche nella Germania nazista". Come è fisiologico, "le interpretazioni sono molteplici e l'intenzione è quella di affrontare il problema senza pregiudizi, storicizzandolo e vedendone lo sviluppo nei secoli, senza la pretesa di arrivare a una definizione assoluta, impossibile nelle scienze umanistiche".
L'auspicio di nuovi studi che riprendano in mano le carte e affrontino l'argomento sfrondandolo "di elementi "mitici" che si sono sedimentati nel tempo" è stato formulato dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura. "Galilei è una sorta di vessillo del rapporto tra fede e scienza, con aspetti a volte mitologici", ha aggiunto ricordando che lo stesso Bertolt Brecht nella sua Vita di Galileo, più volte rimaneggiata "fornisce almeno tre versioni della figura del protagonista: prima egoista, che dà ragione a chi lo accusa per quieto vivere; poi traditore degli scienziati che rinnega le proprie scoperte per il proprio tornaconto personale; infine eroe della libertà intellettuale e martire della scienza". Comunque si è trattato di un genio che quattrocento anni fa per la prima volta nella storia ha avuto l'idea di puntare il cannocchiale verso il cielo. Prima lo strumento era usato dagli ammiragli per avvistare la terra all'orizzonte, o dai capitani degli eserciti per spiare il nemico. L'oggetto era contestato da quanti lo ritenevano inaffidabile, perché restituiva un'immagine falsata del reale. Ma il cambio di prospettiva, pochi centimetri di alzo, cambiarono il modo di vedere l'uomo in rapporto all'universo che lo circonda. L'Anno dell'Astronomia è dunque un'occasione per ripercorrere la strada battuta, nella consapevolezza che la "Chiesa deve fare autocritica, come ha fatto, ma allo stesso tempo chiede agli esperti una interpretazione delle carte senza pregiudizi", ha rilevato Ravasi. Indubbio è comunque il carattere rivoluzionario dell'interpretazione stessa dell'astronomia da parte di Galileo. L'idea che uno strumento meccanico venisse utilizzato per far progredire la scienza, nel Seicento era considerata semplicemente assurda. "Meccanico", secondo il dizionario dell'epoca, significava "vile, basso", concordemente a una visione scientifica che ignorava la tecnologia. Proprio su questo punto ha posto l'accento Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, sottolineando come Galileo rappresenti una sorta di traghettatore dal vecchio al nuovo. Prima di lui, ha rilevato l'esperto "Tolomeo e Copernico consideravano l'astronomia una scienza geometrica, fu Galileo a intuire che invece si trattava di una scienza fisica, fatta di corpi reali che hanno un peso e una massa, come aveva anticipato in qualche modo già Giordano Bruno nella sua teoria dei multimondi, oggi di particolare attualità".
E di questioni attuali legate a quest'Anno dell'Astronomia ce ne sono più di una. Le celebrazioni - ha sottolineato il gesuita José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana - forniscono l'occasione per sollevare alcune questioni importanti come l'inquinamento luminoso, che non consente di osservare il cielo togliendo, soprattutto a chi vive in città, non solo la possibilità di godere di un eccezionale spettacolo, ma anche di una vista che aiuta a comprendere la posizione e quindi il ruolo stesso dell'uomo nell'universo.
(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2009)


A colloquio con monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio a Mosca,sulle prospettive aperte dall'elezione del nuovo Patriarca Cirillo - Sintonia sui temi morali e sociali, ricerca dell'unità sulle questioni dottrinali di Mario Ponzi – L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2009
Insieme per testimoniare all'Europa come sia possibile riempire di contenuti concreti, valori che rischiano di restare scatole vuote senza riferimenti al Cristo, Signore della storia. È l'augurio con il quale l'arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, Paolo Pezzi, accoglie l'elezione del nuovo Patriarca Cirillo. Di concretezza l'arcivescovo Pezzi ha parlato anche in riferimento al dialogo tra cattolici ed ortodossi "in modo tale - ha detto nell'intervista rilasciata al nostro giornale - che si possa tradurre in fatti concreti per il bene della Chiesa di Cristo e non corra il rischio di trasformarsi in contrapposizioni ideologiche".

L'elezione di Cirillo, sedicesimo Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, ha dato due segnali forti. La rapidità dell'elezione, oltre alla grande maggioranza raggiunta, ha reso l'immagine di un Patriarcato unito e concorde, nonostante voci contrarie a Cirillo abbiano agitato la vigilia. E poi la scelta di una guida che ha già mostrato di guardare avanti. Cosa ne pensa?
È stata senza dubbio la testimonianza di quanto anche la Chiesa ortodossa russa abbia bisogno della sua unità, della sua comunione vissuta. Con questa elezione ha dimostrato di possedere questa unità e di volerla vivere. Credo che il nuovo Patriarca continuerà a camminare sulla linea di fede tracciata dal suo predecessore Alessio ii. È, del resto, una strada inevitabile. Lo è nella misura in cui una Chiesa vive della fede in Cristo e la testimonia. Nella continuità della testimonianza dei suoi Pastori recupera la propria identità, la propria comunione vissuta nell'unità e diventa anche capace di dialogare e di rapportarsi con il mondo esterno. Usando categorie che appartengono al mondo, il Patriarca Cirillo è stato da qualcuno definito liberale, riformista, aperturista; altri, al contrario, lo hanno descritto come conservatore, difensore dell'ortodossia. Niente di più sbagliato. Come ripeto, si tratta di categorie che appartengono al mondo, ma che nulla hanno a che fare con la dimensione ecclesiale della figura del nuovo Patriarca.
Può aiutarci a conoscerlo meglio?
Del Patriarca Cirillo credo si possa dire che è una persona capace di cogliere il bisogno di una riforma continua per tornare sempre di nuovo all'unità in Cristo, alla comunione in Cristo attraverso la fede in Cristo vissuta. Credo che questo sia un punto importante e decisivo per la propria Chiesa. Ma questo vuol dire muoversi nella continuità del cammino tracciato da Alessio ii.
Il Patriarca Cirillo ha seguito per anni, delegato a ciò proprio da Alessio ii, il dialogo con i cattolici. Dunque c'è da ritenere che della Chiesa cattolica abbia una conoscenza profonda. Ritiene che ciò possa influire positivamente sul futuro del dialogo con la Chiesa ortodossa russa?
Certamente il nuovo Patriarca, oltre che una conoscenza profonda, ha con la Chiesa cattolica un rapporto di familiarità. Anche nei momenti più difficili questo clima è stato sempre mantenuto tra di noi. Sino ad oggi il dialogo è sempre andato in una direzione precisa, cioè verso la delineazione delle nostre rispettive identità di Chiesa. Con molta chiarezza. Inutile nasconderlo o tentare di minimizzare, che ci sono stati anche momenti di difficoltà e di tensione nei nostri rapporti. Credo però che tutto si possa ricondurre al desiderio di riaffermare la propria identità di Chiesa. E che la volontà sia stata sempre e comunque quella di favorire un dialogo costruttivo e non mirante a creare un clima mascherato, in cui gli uni e gli altri si accontentano di far finta di stare insieme. Credo che il dialogo con il Patriarcato di Mosca possa proseguire mosso dall'unico desiderio di andare verso una piena unione.
Ma in quale direzione ci si è mossi sino ad oggi in questo dialogo?
I nostri rapporti sino ad oggi sono stati caratterizzati da due aspetti. Un primo aspetto mi sembra sia determinato dalla volontà di mantenere e approfondire una certa cordialità tra di noi. Ciò avviene a diversi livelli, dal basso sino al vertice delle nostre Chiese. C'è poi un aspetto che riguarda la valutazione del livello raggiunto nella comune testimonianza della fede in Cristo. Una testimonianza sostenuta certamente dal desiderio di camminare insieme verso la comunione che Dio ci donerà, quando lui vorrà. Ciò che da parte nostra chiediamo a Dio è proprio la grazia di non essere mai noi un ostacolo a questo suo disegno.

Quali sono i punti di maggiore convergenza?
Direi tanti, e sono punti di incontro molto interessanti. Per esempio ci troviamo in sintonia su temi morali e sociali. Recentemente abbiamo avuto un incontro misto tra cattolici ed ortodossi allargato a tutta l'Europa, sul tema della famiglia. Abbiamo dialogato con sano interesse per conoscere effettivamente la posizione delle nostre Chiese ed abbiamo scoperto di avere molto, se non proprio tutto in comune su questi argomenti. Concordiamo perfettamente, per esempio, su ciò che riguarda la difesa della vita, sui principi fondamentali della bioetica, sul valore della famiglia. Ci siamo ritrovati al punto di decidere subito per un nuovo incontro su altri temi comuni di particolare importanza, come l'educazione, la formazione dei giovani, l'istruzione, il valore del bene comune in una società tendenzialmente individualista. Cerchiamo dunque tutte le possibilità di dialogare su cose concrete, senza lasciarci andare a mere preoccupazioni, astratte, che sanno tanto di ideologia. C'è da considerare anche un altro tratto di cammino aperto, un po' più difficoltoso forse da percorrere, ma che tuttavia dobbiamo cercare di approfondire ad un livello più teologico e dogmatico. È il cammino che ci porta a comprendere le posizioni dottrinali vissute nelle rispettive Chiese, come si sono poi declinate. E qui ci sono chiaramente delle differenze che richiedono di essere, se non colmate, almeno chiarite per valutare come possono essere ricomposte nell'unità. C'è una commissione mista che sta affrontando in questo momento particolare il significato del primato.

Questi incontri allargati all'Europa tra cattolici ed ortodossi sono anche un modo per riproporre la questione delle radici cristiane del continente.

Certamente. Anzi la cosa sulla quale dobbiamo insistere è proprio il fondamento in Cristo. Altrimenti rischiamo ancora una volta di fare esercitazioni linguistiche senza scendere nel concreto. È Cristo la nostra concretezza. Senza un riferimento a Cristo i valori restano come scatole vuote. Quindi io credo che il contributo che insieme, cattolici e ortodossi, possono dare all'Europa è proprio aiutarla a tornare verso il fondamento di tutti i suoi valori. Quel fondamento è Cristo. Un fondamento non solo storico ma per la storia.

Rientrerete a Mosca dopo aver parlato con Benedetto XVI e vi troverete a dialogare con il nuovo Patriarca. Un cammino nuovo o un cammino che riparte?
Quando si è radicati in Cristo il rapporto della nostra fede in lui con la realtà che ci troviamo davanti si vive con maggiore passione. Incontrandoci con il Papa abbiamo rinvigorito il nostro senso di appartenenza a Cristo, la nostra radicalità in lui. E questo ci fa senza dubbio tornare alle nostre Chiese con rinnovata passione. Sul futuro, come sempre, si aprono luci ed ombre. La luce direi ci viene dal rinnovato desiderio di vivere e testimoniare la nostra fede insieme ai nostri fedeli. Per ciò che riguarda le ombre vedo realmente incombente il male che noi possiamo fare se tentiamo di far prevalere una posizione individualista come Chiesa a scapito di una testimonianza per il bene di tutta la comunità cristiana e perché Cristo sia conosciuto e amato. È una preoccupazione che dobbiamo sempre avere davanti. Alla Madonna chiediamo che la luce sia sempre più forte, in modo che possa sciogliere le ombre.
(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2009)


"Shoah e mistero di Dio": editoriale di padre Lombardi – Radio Vaticana – 30 gennaio 2009 - Il cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione per i rapporti con l’Ebraismo, ha inviato una lettera al Gran Rabbinato di Israele proponendo di non rinviare l’incontro ebraico-cattolico in programma a marzo a Roma e messo in discussione dopo le assurde dichiarazioni negazioniste del vescovo lefebvriano Richard Williamson. Affermazioni duramente condannate dal Papa. Ascoltiamo in proposito la nota del direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi. http://62.77.60.84/audio/ra/00147921.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00147921.RM
“La Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo”. Con queste parole al termine dell’udienza di mercoledì 28 gennaio, il Papa ha ripreso la profonda meditazione del suo discorso nel campo di concentramento di Auschwitz. Non ha solo condannato ogni forma di oblio e di negazione della tragedia dello sterminio di sei milioni di ebrei, ma ha richiamato i drammatici interrogativi che questi eventi pongono alla coscienza di ogni uomo e di ogni credente. Perché è la fede nella stessa esistenza di Dio che viene sfidata da questa spaventosa manifestazione della potenza del male. La più evidente per la coscienza contemporanea, anche se non la sola. Benedetto XVI lo ha riconosciuto lucidamente nel discorso di Auschwitz, facendo sue le domande radicali dei salmisti a un Dio che appare silente ed assente.

Di fronte a questo duplice mistero – della potenza orribile del male, e dell’apparente assenza di Dio – l’unica risposta ultima della fede cristiana è la passione del Figlio di Dio. Queste sono le questioni più profonde e decisive dell’uomo e del credente di fronte al mondo e alla storia. Non possiamo e non dobbiamo evitarle e tanto meno negarle. Se no, la nostra fede è ingannevole e vuota. Chi nega il fatto della Shoah non sa nulla né del mistero di Dio, né della Croce di Cristo. Tanto più è grave, quindi, se la negazione viene dalla bocca di un sacerdote o di un vescovo, cioè di un ministro cristiano, sia unito o no con la Chiesa cattolica.


INTERVISTA. Parla il filosofo anti-relativista: «Dawkins & C. sono troppo sicuri della loro ragione scientifica. Ma la fede non è affatto irrazionale» Nagel: «Io, ateo contro lo scientismo» - «La ricerca di spiegare tutto con il naturalismo della scienza sta prosciugando la filosofia. - Invece l’insegnamento deve essere meno tecnico e tornare a occuparsi di temi alla portata di tutti» - DI ALESSANDRO NANNI – Avvenire, 30 gennaio 2009
«Sono ancora anti-relati­vista come lo ero ai tempi del mio libro L’ultima parola ». Thomas Nagel è uno dei più eminenti filosofi con­temporanei, ha ricevuto da poco il premio Balzan a Roma «per i suoi fondamentali contributi alla teoria etica contemporanea». Se dovesse guardare indietro a cercare due nu­mi tutelari del suo pensiero questi sarebbero Cartesio e Hobbes «che hanno reso possibile l’uscita del­l’uomo da un certo 'egocentri­smo' nelle questioni della cono­scenza e della politica». Dei con­temporanei, si sente discepolo di John Rawls, il più importante filo­sofo della politica del XX secolo, e ammira molto Bernard Williams.
Sono già dei classici le riflessioni di Nagel sull’oggettivismo e i para­dossi del soggettivismo, come quelle contenute in Uno sguardo da nessun luogo (1986) oppure quelle sulla mente e la coscienza dell’illuminante soggetto dedicato al mondo visto con gli occhi di un pipistrello ( What is it Like to Be a Bat? 1974). Continua imperterrito a definirsi anti-relativista sebbene sia consapevole di come in questi dieci anni – dall’uscita di Last Word a oggi – il significato e l’uso di quel concetto sia cambiato molto, al­meno nella discussione pubblica.
Anzi, da espressione sulla quale si scontravano filosofi e antropologi, l’anti-relativismo si è fatto largo sui giornali e addirittura in tv. Sono ac­caduti eventi come l’11 settembre, la crisi – almeno parziale – dei pro­getti di multiculturalismo in Euro­pa, il successo di uno slogan e di u- na teoria come quella «scontro di civiltà» di Samuel Huntington e al­tri ancora. Insomma, dirsi oggi re­lativisti o anti ha più il senso di una scelta politica che culturale o filo­sofica. Soprattutto, la religione è entrata a pieno titolo nel dibattito. Benedetto XVI è uno dei protago­nisti di questa campagna contro il relativismo culturale. Come ci si sente in compagnia del Papa? «Non credo che l’anti-relativismo per essenza appartenga alla reli­gione e solo a essa. Credere che e­sista una ragione e una verità og­gettiva non significa affidarle a una religione, a una garanzia fondata sulla fede». Per un verso, la filosofia deve tirarsi fuori dallo scontro nel quale si è cercato di trascinarla, rie­sumando i paradossi del razionali­smo scientista e del relativismo.
«La ragione – prosegue Nagel – ha una sua propria autorità e ci ha permesso di conoscere molto, e in maniera indipendente dalla fede.
Non mi disturba affatto questa di­visione tra le posizioni della ragio­ne e quelle della religione». E pro­prio questa indipendenza tra i due orizzonti, permette a Nagel di fare un passo ulteriore. Non condivide l’ostilità nei confronti della religio­ne delle star dell’ateismo america­no (Dawkins, Dennett, Harris).
«Sono un ateo – spiega – ma non dirò nulla nei confronti del cattoli­cesimo romano e della Chiesa in particolare. Non c’è niente di irra­zionale nell’avere una fede religio­sa. Richard Dawkins e Daniel Den­nett sono troppo sicuri – oltre ogni ragione – del fatto che la spiegazio­ne generale avvenga attraverso le linee guida del naturalismo della scienza moderna». Questa tenden­za molto diffusa in America, ma anche da noi, a ridurre il pensiero razionale e filosofico a quello scientifico è molto criti­cata da Nagel. «Questo trend sta prosciugando il campo della filosofia.
Molti professori di o­rientamento analitico – spiega il filosofo – si so­no occupati di questio­ni con un atteggiamen­to scientifico esaspera­to. E questo è stato ed è un forte limite. Credo che nel futuro prossimo l’insegnamento debba essere me­no tecnico e debba tornare a occu­parsi di temi più generali e alla portata di tutti». Nagel non abban­dona un certo equilibrio e una cer­ta moderazione nel valutare le po­sizioni del Papa. «Il ruolo che svol­ge la religione nella vita delle per­sone è molto differente da quello giocato dalla conoscenza basata sulla razionalità. Il conflitto nasce quando la religione compie affer­mazioni sul mondo che sono in conflitto con i risultati delle scien­ze empiriche. Esistono ancora nu­merose forme di credo religioso che hanno una interpretazione let­terale della Bibbia, ma si tratta di e­spressioni che tendono sempre più a essere rimosse nelle religioni mo­derne. Allora la domanda è: cosa rimane se si toglie ciò? Rimane qualcosa che può essere testato con i metodi scientifici? Ecco, io credo che ancora non sia chiaro per esempio, che esiste un conflit­to tra la razionalità scientifica e il credere, qualsiasi cosa voglia dire, che esista una spiegazione del per­ché esista un universo e che ciò di­penda da Dio».