Nella rassegna stampa di oggi:
1) All'Angelus il Papa parla del vi Incontro mondiale delle famiglie che si apre mercoledì a Città del Messico - La responsabilità dell'educazione – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
2) Storie di conversione: attraverso il suo personale itinerario uno scrittore e giornalista racconta i sogni e le delusioni della generazione del Sessantotto - Il sabotaggio della speranza di John Waters – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
3) 12/01/2009 15:09 – INDIA - Orissa, insicurezza e odio per i cristiani cacciati dai campi profughi - di Nirmala Carvalho - Il governo chiude i campi e dà compensi irrisori. I cristiani che tornano alle loro case distrutte devono vivere affianco ai loro persecutori. Ai fedeli si rifiuta di offrire lavoro a giornata e i negozianti si rifiutano di vendere qualunque provvista.
4) Due articoli di Antonio Socci: 2009 CROLLO DEL CAPITALISMO ? LEGGERE RATZINGER E CAPIRE …. - IN ATTESA DEL FILM SUL GULAG SAVIANO S’ISPIRA A SALAMOV, MA EGLI E’ ….
5) Crisi economica e dottrina sociale della Chiesa - Il fallimento delle scorciatoie finanziarie - Il 16 gennaio uscirà il numero 6/2008 della rivista bimestrale "Vita e pensiero". Anticipiamo stralci di uno degli articoli. - di Simona Beretta Università Cattolica del Sacro Cuore – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
6) Natale in India. "Non c'era posto per loro nell'alloggio" - Ancora in fuga nelle foreste migliaia di vittime dei massacri anticristiani. Le autorità vaticane si mobilitano per contrastare il fanatismo induista. Ma sul terrorismo musulmano sono elusive. L'islamologo Troll denuncia i rischi di questa inerzia - di Sandro Magister
7) MEDIO ORIENTE/ A Gaza una guerra in cui perdono tutti - Redazione - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) BIOETICA/ Quando “giocare” con gli embrioni non migliora la qualità della vita - Marco Bregni, Roberto Colombo - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) STORIA/ Negri: per capire la Chiesa occorre liberarsi dai pregiudizi della modernità - Luigi Negri - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) TV/ Beppino Englaro e la Hack nel talk di Fazio: il triste catechismo del nichilismo di sinistra - Gianni Foresti - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
11) QUEI FIGLI – DICE IL PAPA – NON SONO VOSTRI - Sono in buone mani. Fidiamoci di Dio - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 gennaio 2008
All'Angelus il Papa parla del vi Incontro mondiale delle famiglie che si apre mercoledì a Città del Messico - La responsabilità dell'educazione – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
La responsabilità dell'educazione dei figli che spetta ai genitori è stata sottolineata all'Angelus di domenica 11 gennaio da Benedetto XVI, che ha ricordato il vi Incontro mondiale delle famiglie, in programma a Città del Messico dal 14 al 18 gennaio. Nella festa del Battesimo del Signore, al termine della messa nella Cappella Sistina durante la quale ha amministrato il sacramento a tredici neonati, il Papa si è affacciato dalla finestra dello studio privato per la preghiera mariana con i fedeli convenuti numerosissimi in piazza San Pietro.
Cari fratelli e sorelle!
Nell'odierna Domenica che segue la solennità dell'Epifania, celebriamo il Battesimo del Signore. Fu questo il primo atto della sua vita pubblica, narrato in tutti e quattro i Vangeli. Giunto all'età di circa trent'anni, Gesù lasciò Nazaret, si recò al fiume Giordano e, in mezzo a tanta gente, si fece battezzare da Giovanni. Scrive l'evangelista Marco: "Uscendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento" (Mc 1, 10-11). In queste parole: "Tu sei il Figlio mio, l'amato", si rivela che cos'è la vita eterna: è la relazione filiale con Dio, così come Gesù l'ha vissuta e ce l'ha rivelata e donata.
Stamani, secondo la tradizione, nella Cappella Sistina, ho amministrato il Sacramento del Battesimo a tredici neonati. Ai genitori, ai padrini e alle madrine, il celebrante di solito domanda: "Che cosa chiedete alla Chiesa di Dio per i vostri bambini?"; alla loro risposta: "Il Battesimo", egli replica: "E il Battesimo che cosa ci dona?". "La vita eterna", essi rispondono. Ecco la stupenda realtà: la persona umana, mediante il Battesimo, viene innestata nella relazione unica e singolare di Gesù con il Padre, così che le parole risuonate dal cielo sul Figlio Unigenito diventano vere per ogni uomo e ogni donna che rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo: Tu sei il figlio mio, l'amato.
Cari amici, quant'è grande il dono del Battesimo! Se ce ne rendessimo pienamente conto, la nostra vita diventerebbe un "grazie" continuo. Quale gioia per i genitori cristiani, che hanno visto sbocciare dal loro amore una nuova creatura, portarla al fonte battesimale e vederla rinascere dal grembo della Chiesa, per una vita che non avrà mai fine! Dono, gioia, ma anche responsabilità! I genitori, infatti, insieme con i padrini, devono educare i figli secondo il Vangelo. Questo mi fa pensare al tema del vi Incontro Mondiale delle Famiglie, che si svolgerà nei prossimi giorni a Città del Messico: "La famiglia formatrice nei valori umani e cristiani". Questo grande meeting familiare, organizzato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, si svilupperà in tre momenti: dapprima il Congresso Teologico-Pastorale, nel quale verrà approfondita la tematica, anche mediante lo scambio di esperienze significative; quindi, il momento di festa e di testimonianza, che farà emergere la bellezza di incontrarsi tra famiglie di ogni parte del mondo, unite dalla stessa fede e dallo stesso impegno; e infine la solenne Celebrazione eucaristica, come azione di grazie al Signore per i doni del matrimonio, della famiglia e della vita. Ho incaricato il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone di rappresentarmi, ma io stesso seguirò con viva partecipazione lo straordinario evento, accompagnandolo con la preghiera e intervenendo in videoconferenza. Fin da ora, cari fratelli e sorelle, vi invito ad implorare su quest'importante incontro mondiale delle famiglie l'abbondanza delle grazie divine. Lo facciamo invocando la materna intercessione della Vergine Maria, Regina della famiglia.
Storie di conversione: attraverso il suo personale itinerario uno scrittore e giornalista racconta i sogni e le delusioni della generazione del Sessantotto - Il sabotaggio della speranza di John Waters – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
Forse ogni generazione è destinata a commettere un reato contro quella successiva, sebbene la natura di questi reati sembri mutare nel tempo. Nelle nostre culture il rancore per i presunti errori commessi dalla generazione dei nostri padri più di 40 o 50 anni fa viene ampiamente alimentato. Questi presunti errori hanno avuto a che fare con l'imposizione di regole non spiegate correttamente, che quindi sono apparse arbitrarie e, in qualche modo, ricattatorie. Ad ascoltare le voci più altisonanti nelle nostre culture, si immagina che questi errori proseguano tutt'ora, quando invece, nella misura in cui ci sono stati, appartengono al passato. Oggi le generazioni che all'epoca si appropriarono del potere culturale attraverso la ribellione contro i vecchi guastafeste, scatenata dal desiderio di essere liberi, commettono un errore collegato, ma completamente diverso: il rifiuto di essere sinceri sull'esperienza della libertà.
A quel tempo, negli anni Sessanta, la libertà era definita per un'intera generazione in termini che lasciavano capire che non era stata mai provata prima. Era stata provata molte volte certo, ma forse non da un'intera generazione contemporaneamente. La definizione era semplice: la libertà è il diritto di fare ciò che si vuole. Secondo la logica di tale definizione solo la misantropia e i divieti si interponevano fra gli esseri umani e la perfetta soddisfazione.
La rivoluzione scaturita da quest'idea ha cambiato il mondo, ma senza modificare la natura umana. Ora gli esseri umani sono molto più liberi di quanto lo siano mai stati prima secondo questi criteri. Tuttavia non sono più felici, e forse lo sono di meno. Nonostante questo, la nostra cultura continua a tenere alta la fiaccola di questa idea di libertà, come se non fosse mai stata messa in discussione o confutata, trasmettendo ai giovani di oggi lo stesso messaggio sulla natura della libertà e condannandoli a entrare negli stessi vicoli ciechi.
Essenzialmente ciò accade perché coloro che quaranta anni fa sottrassero la loro libertà alle autorità dell'epoca hanno poi rifiutato di descrivere in maniera veritiera la natura delle loro esperienze. Quindi nelle nostre culture restano le stesse delusioni che, come trappole per orsi, attendono i giovani. Consideriamo qualcosa che accade tutti i giorni: sei sull'autobus e ascolti la conversazione fra due giovani su come si sono ubriacati la sera precedente. Uno dice di aver bevuto 14 pinte di birra e di essersi sentito male. L'altro risponde di aver bevuto talmente tanto da svenire. Ridono fragorosamente. Uscendo per un attimo dalla mentalità diffusa, non è forse evidente che, oggettivamente, si tratta di un fenomeno strano? Due giovani sani che si vantano del danno che hanno inferto all'unico corpo che possiedono? Che cosa significa?
Perché si vantano in realtà? Perché hanno sperimentato ciò che intendono per libertà. Hanno sfidato alcuni aspetti di un divieto immaginato e hanno fatto qualcosa che viene disapprovato. Sono ribelli. Da giovane ho fatto questi discorsi molte volte. Nel mio libro Lapsed agnostic, pubblicato lo scorso anno, ho descritto le mie esperienze di libertà, ricorrendo all'esempio dell'alcol e cercando di essere sincero su quanto avevo vissuto.
Quando ne parlo mi chiedono perché sono così sincero e io rispondo "perché nessun altro lo è". Questa storia non è una confessione, ma la descrizione della scoperta dei limiti della mia umanità. Ho seguito la via consigliata verso la libertà finché ho raggiunto il precipizio della mia personale capacità di soddisfazione. Solo da lì sono riuscito a guardare, a distanza, la realtà assoluta alla quale ero strutturalmente legato.
Sono nato nel 1955, per cui ho più o meno l'età del rock 'n 'roll. Questo è importante per me perché sento di aver vissuto in un'epoca in cui stava accadendo qualcosa di coerente, qualcosa con un inizio, una metà, e, non così lontano nel tempo, una fine, una destinazione fantasma che prometteva la perfetta felicità.
L'elemento rock 'n' roll non è casuale: dal punto di vista culturale e ideologico esprime il concetto di libertà approvato dall'umanità occidentale nel corso della mia vita. Il rock 'n' roll ha una sorta di aura di rivoluzione permanente, senza tempo, di sfida a tutto, inclusa la natura stessa. Quarantatré anni fa, il gruppo musicale inglese The Who, nel suo inno di rifiuto, cantava "spero di morire prima di diventare vecchio", trasmettendo la mentalità di quell'epoca di libertà.
La cosa importante era rimanere giovani perché da giovani era possibile evitare di affrontare la questione del significato ultimo. Il problema dell'aldilà non si poneva non solo perché, parlando relativamente, era lontano, ma anche perché la sua logica si frapponeva fra noi e il raggiungimento della felicità e della soddisfazione qui e ora. La giovinezza divenne il centro della cultura che abbiamo creato emergendo dalla rivoluzione degli anni Sessanta. Se ci si potesse autocongelare culturalmente in un determinato momento di tempo, non ci sarebbe bisogno di credere in null'altro che nella propria capacità di essere felici secondo il proprio concetto di felicità. A vent'anni, cinque anni sembravano un'eternità in cui divertirsi a infrangere tutte le regole imposte dai vecchi per ridurre la libertà. Morire non era tanto andare in un posto migliore, una questione che la cultura rimuoveva, ma risparmiarsi l'umiliazione del decadimento. Lo straordinario è che le generazioni entrate nella sfera pubblica fra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta e che oggi controllano le leve del potere nelle nostre società sono riuscite a perpetuare l'idea del rimanere giovani anche molto tempo dopo la fine della loro stessa giovinezza. Hanno creato una cultura in cui l'essere senza età è fondamentale, sebbene la delusione insita nel carattere di questa aspirazione sia ovvia e inevitabile.
Ho fatto parte di queste generazioni, crescendo al centro di questa cultura, profondamente immerso in essa come critico del rock e scrittore. Sto cominciando a trovare modi per descrivere in modo autentico questa esperienza, ma non è facile. Poiché la cultura era definita dall'etica della ribellione e la morale di tale ribellione era evidente per chiunque vi fosse implicato, è difficile descrivere cosa si è vissuto senza apparire come uno che ha cambiato posizione, ha tradito l'idea di libertà o semplicemente è impazzito. Tentare di descrivere la realtà al di fuori della campana di vetro della cultura significa assumere le sembianze di un traditore, divenire reazionario, il che viene subito attribuito di solito alla crisi di un uomo di mezz'età.
Forse è proprio così, ma questa crisi cosa può significare se non che il viaggio dell'essere umano sulla terra è definito, fra le altre cose, dalla scoperta graduale del paradosso definitivo: la mortalità che apre la strada all'eternità? Ora sento che solo di recente ho cominciato a pensare a me stesso per quello che sono veramente e che, fino a poco tempo fa, la cultura cospirava insieme al mio desiderio di rendere razionale il mio sogno di libertà per impedirmi di parlare della verità su me stesso. Sento che, per la maggior parte della mia vita, la cultura è riuscita a bloccarmi o a dissuadermi dal percepire me stesso in maniera autentica. Poiché abbiamo creato una cultura che resta giovane anche se noi invecchiamo, una cultura che istilla in ognuno di noi un senso di alienazione a cui rispondiamo o ritirandoci nella vita privata oppure stando al gioco e cercando di non perdere la presa della giovinezza più a lungo possibile.
Questa cultura nasconde un significato centrale, ma nega di farlo. In tutto il suo sproloquiare di promesse non riesce a suggerire una meta ultima, ma, al contempo, sostiene la sua esistenza. La questione è rimossa non tanto nel dibattito formale delle nostre società, dove la questione dello scopo della vita dell'uomo è in un certo senso "coperta", ma proprio negli atomi stessi della cultura, negli assunti e nelle convenzioni che governano la realtà, in ciò che si trasmette con le parole, nelle ombre dei concetti che diamo per scontati nella vita quotidiana.
Si tratta di una cultura che sabota la speranza; la speranza è possibile, ma viene allontanata dallo sguardo l'unica fonte che esiste al di là della paccottiglia e delle emozioni offerte dal mercato. Una cultura formatasi in duemila anni sulla base della consapevolezza di Cristo è stata ridotta in quarant'anni a una cultura in cui la speranza è definita solo dalla prospettiva di qualcosa in più rispetto a ciò che già non è riuscita a soddisfare. La cultura ci dice con insistenza che se abbiamo vissuto di chiacchiere e sensazioni e non siamo soddisfatti è solo perché abbiamo fatto le cose in modo sbagliato. Non abbiamo indossato la paccottiglia nel modo giusto oppure non ci siamo esercitati abbastanza a vivere appieno le emozioni. È una questione di tecnica o di atteggiamento o, forse, di scarsi "aiuti chimici".
E, stranamente, non importa quante volte la nostra esperienza personale ci dice che queste promesse sono sospette, la forza del messaggio continua a convincerci che la causa dell'insoddisfazione è in qualcosa di non adeguato dentro di noi. Nei casi più estremi, gli abitanti insoddisfatti e quindi inadeguati del mondo del mercato vengono definiti vittime di patologie o di malattie. Sono depressi o tossicodipendenti o semplicemente disturbati.
Poiché le nostre società sono guidate da questi malintesi sulla libertà e noi temiamo che se le nostre illusioni venissero messe a nudo non avremmo più nulla per cui vivere, rifiutiamo di guardare all'orizzonte assoluto della realtà, che nelle nostre culture non è giunto a significare altro che l'orlo dell'abisso, a cui occasionalmente diamo una sbirciatina con la coda dell'occhio. Quando, di tanto in tanto, forse al funerale di un amico o davanti allo sfogo di disperazione di un altro, ci troviamo faccia a faccia con la realtà, distogliamo lo sguardo con terrore e sconcerto.
In questa cultura la fede è condannata ad avere la funzione di consolazione per quanti non sono all'altezza.
La mentalità diffusa rende impossibile abbracciare Cristo senza apparire, anche a se stessi, come qualcuno che si è arreso al sentimento e alla paura. E la stessa cultura religiosa spesso accetta di essere ridotta a questo concetto limitato. La parola "secolarizzazione" non è in grado di comunicare alle società moderne che cosa è accaduto. È una parola strana. Ha un significato ambiguo. Suggerisce un ritiro dal sacro, ma anche un rifiuto della religione organizzata. Viene utilizzata anche per descrivere il processo di separazione fra Stato e Chiesa. Tende a essere utilizzata in riferimento a un processo politico che usurpa il ruolo della fede e della religione nella società. Tuttavia, curiosamente, la stessa parola è usata sia da quanti approvano questo processo e lo guidano sia da quanti lo contrastano.
Ma è inadeguata a descrivere la situazione, la divisione tra mondo religioso e mondo materiale, e la scomparsa della consapevolezza che esiste una realtà "assoluta".
In effetti, le nostre società vengono costruite per celare alla vista la possibilità della coscienza di una dimensione infinita, eterna o assoluta: riceviamo un nuovo soffitto che crea l'illusione che gli esseri umani possano funzionare entro uno spazio autodefinito e perfino autocreato.
Il concetto di secolarizzazione non fa nulla per metterci in guardia contro l'enormità di questo mutamento nella nostra cultura, significando semplicemente una liberazione dalle catene dell'autorità religiosa, cosa che è ambigua al massimo. Per descrivere quello che sta accadendo abbiamo bisogno di un'altra parola. Quella che mi è venuta in mente è "deassolutizzazione", che descrive un processo esistenziale e politico, l'esclusione di Cristo dalla cultura. Tuttavia, come per molti aspetti dei mutamenti culturali fondamentali che si stanno verificando, parliamo poco di questo fenomeno. I cristiani mettono continuamente in guardia contro le sue conseguenze, ma, in qualche modo, sembrano parlare di qualcosa che è preoccupante da un punto di vista solo istituzionale. Cristo è invocato nel contesto dell'autorità ecclesiale o almeno così sembra. Ad ascoltarli, le conseguenze della perdita di Cristo sembrano avere a che fare con la perdita di valori morali e forse con la perdita della possibilità di consolazione nelle prove e nelle sofferenze della vita.
Data la natura superficiale dell'esperienza educativa cristiana da parte delle nostre società, ciò appare come la perdita di qualcosa di opzionale e non di qualcosa che è centrale per l'esistenza. Dal momento che la dottrina cattolica ha evidenziato la morale rispetto ad altri aspetti della proposta cristiana, tutti i riferimenti a Cristo tendono a essere letti nelle nostre culture come ammonimenti contro la perdita del Suo amore a causa del peccato. L'idea che, nel perdere il contatto con Cristo, perdiamo qualcosa di fondamentale per la nostra natura umana, semplicemente non viene espressa. Può anche essere presente nell'intenzione di chi parla, ma non si comunica attraverso la nebbia della cultura.
La nostra idea culturale semplicemente non comprende il significato dell'amore di Cristo, che non è qualcosa di opzionale e sentimentale, un accessorio a scelta che si può abbandonare senza conseguenze immediate. L'idea che la persona e la presenza di Cristo incarnano qualcosa di vitale, qualcosa di indispensabile alla natura umana, qualcosa di non negoziabile all'interno della condizione umana, è talmente strana nelle nostre culture cristiane che molte persone che non hanno difficoltà a dirsi cristiane, in questi altri termini rimarrebbero scioccate da queste implicazioni.
È possibile aver sentito parlare di Cristo per tutta la vita ed esserci lasciati sfuggire questo aspetto? Sicuramente no. Perché nessuno ce lo ha detto prima? Le implicazioni di questo, di certo, hanno una portata ancor più vasta. Quello che suggerisce è infatti che il processo di deassolutizzazione stava verificandosi già prima di quella che chiamiamo secolarizzazione. Quest'ultima ha quindi trovato un terreno già fertile e ha potuto piantare i suoi semi senza molto sforzo. Ciò suggerisce che il messaggio cristiano stesso, come viene trasmesso in numerose nostre società cristiane, ha evidenziato molti elementi secondari e discorsi sull'essenza della proposta cristiana, ma non è riuscito a trasmettere alla cultura che il significato essenziale è che Cristo ci può liberare dai limiti della nostra umanità.
Se questo sembra ovvio ad alcuni lettori, posso assicurarvi che sembrerà oscuro alla maggior parte di essi. Le parole stesse con le quali questa idea viene espressa non riescono a trasmettere il suo significato perché sono ormai abusate, limitate e ridotte a sentimentalismo.
Le dichiarazioni sul significato di Cristo nella nostra cultura sono ascoltate solo da chi è già convinto ed è impossibile capire dalle loro risposte che cosa intendano precisamente.
A giudicare dalle parole che utilizzano per rispondere, pare che abbiano recepito soltanto l'idea sentimentale o l'idea autoritaria o l'idea morale o una delle idee superficiali che sono state "appiccicate" alle nostre culture nel nome di Cristo. Ma talvolta sembrano consapevoli dell'idea più sensazionale che sia mai stata espressa.
Nell'agosto scorso, in occasione del "Meeting per l'amicizia fra i popoli" di Rimini ho parlato sul tema "il cristianesimo non è una dottrina, ma un incontro". Quando ho cominciato a pensare a questo tema prima dell'intervento sono rimasto colpito dal fatto che, per me, Cristo è ancora un'idea e che, sebbene io abbia ora, dopo molti anni di ricerca, il desiderio di incontrarlo, non l'ho ancora veramente fatto. Ho conosciuto molte persone che lo hanno incontrato o che mi hanno detto di averlo incontrato, ma sono ragionevolmente certo che per me rimane un'astrazione.
Ascoltando molte persone parlare di questo non mi ha convinto il contenuto letterale delle loro descrizioni ma il loro modo di vivere: sono certo che hanno incontrato qualcosa di eccezionale. Non ho dubitato che avessero incontrato Cristo, ma non sono riuscito a trarre dai loro discorsi qualcosa capace di portarmi nel luogo dove lo avevano incontrato.
Era come se le parole cadessero in pezzi appena pronunciate e non potessero essere riassemblate nelle mie orecchie. Peggio ancora: notavo in me stesso la tendenza a pretendere di comprendere quando invece non lo facevo, a imporre al mio comportamento una condivisione di quell'esperienza che di fatto restava per me misteriosa.
Da bambino ho ricevuto quella che immaginavo fosse una relazione profonda con Cristo. Crescendo nell'Irlanda degli anni Sessanta ero un bambino pio e devoto. Amavo Gesù oppure pensavo di amarlo. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Sarebbe stato impossibile non amare quell'essere perfetto, quel bel Gesù che era morto per salvarmi. Tuttavia, sulla soglia dell'età adulta, sedotto dalle libertà del mondo, gli ho voltato le spalle. Questo allontanamento è stato accompagnato da una grande carica emotiva, per lo più rabbia per gli abusi percepiti nella gestione del cristianesimo nella mia cultura, sebbene provassi anche altre emozioni. Ora mi colpisce che nemmeno una volta ho rivolto la mia rabbia alla persona di Gesù, nemmeno una volta gli ho rivolto un pensiero negativo, nemmeno una volta ho pensato di doverlo biasimare per qualcosa. È interessante perché non credo di essere l'unico.
Stranamente, sebbene le nostre culture abbiano voltato le spalle a Gesù, non l'hanno mai veramente rifiutato. Nonostante le numerose accuse contro la fede, la religione, la Chiesa e la Bibbia, nella nostra cultura nulla suggerisce che Gesù non sia stato un essere eccezionale. Questo è bizzarro e interessante.
È come se, sebbene l'impulso alla libertà ci abbia chiesto di allontanarci da Lui, l'abbiamo fatto con una certa riluttanza, un certo rimpianto. Infatti, se si tentasse di individuare l'emozione centrale che domina il nostro attuale rifiuto di Cristo, non si troverebbe rabbia o disprezzo, ma piuttosto qualcosa di simile alla vergogna. Ci vergogniamo di aver rifiutato Gesù, ma il nostro desiderio di libertà non sembrava offrirci alternativa perché Gesù era diventato inestricabilmente collegato alla precedente cultura di oppressione e negazione.
Capiamo o pensiamo di capire noi stessi fin troppo bene. Le nostre culture creano logiche chiuse ermeticamente che ci seducono con la loro simmetria. Le nostre idee autoreferenziali sulla nostra natura ci sembrano sempre più plausibili. Essendoci staccati da una coscienza assoluta della realtà, è difficile tornare a vedere noi stessi nella vecchia maniera, soprattutto perché non ce n' è un bisogno immediato e perché così facendo potremmo dover abbandonare certe idee sulla libertà. Il nome stesso di Gesù è stato contaminato da pregiudizi e timori che rendono impossibile pronunciarlo senza far suonare i campanelli di allarme che la cultura ha installato nelle nostre teste.
Cristo, dunque, viene reso periferico sia nel linguaggio sia nella realtà, anzi forse soprattutto nel linguaggio. Non viene completamente rifiutato, ma collocato in un limbo culturale, una figura alla quale associamo amore, consolazione e misericordia, ma nulla di concreto che ha a che fare con il presente.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 gennaio 2009)
12/01/2009 15:09 – INDIA - Orissa, insicurezza e odio per i cristiani cacciati dai campi profughi - di Nirmala Carvalho - Il governo chiude i campi e dà compensi irrisori. I cristiani che tornano alle loro case distrutte devono vivere affianco ai loro persecutori. Ai fedeli si rifiuta di offrire lavoro a giornata e i negozianti si rifiutano di vendere qualunque provvista.
Bhubaneshwar (AsiaNews) – Non ha fine il calvario dei cristiani in Orissa: il governo sta chiudendo tutti i campi profughi e sta cacciando via i cristiani. Allo stesso tempo, nessuno garantisce loro sicurezza contro le violenze e vi sono ancora segnali di odio e rifiuto verso di loro.
P. Nithiya, ofm, è fra i testimoni di queste nuove sottili violenze contro i cristiani di Kandhamal. Nella zona, dall’agosto scorso, gruppi di radicali indù hanno ucciso centinaia di persone, bruciato chiese e case, distrutto coltivazioni. Degli oltre 50 mila sfuggiti ai massacri, circa 20 mila hanno trovato rifugio in campi approntati dal governo. P. Nithiya, segretario esecutivo di Giustizia e pace, ha visitato alcuni di questi scampati nel villaggio di Gobalpur, usando terapie neuro-linguistiche per aiutare le persone a superare i traumi che ne sono seguiti.
“I campi di rifugio del governo vengono chiusi – dice ad AsiaNews – e la gente viene mandata via con un piccolo compenso di 10 mila rupie (circa 153 euro). La gente, piena di paura sta tentando di emigrare in altri distretti o altri Stati. La sicurezza la si mantiene nei grandi centri, ma nei villaggi lontani nulla è sicuro per i cristiani. É davvero ridicolo che il governo si sbarazzi dei cristiani con questo misero dono di 10 mila rupie”.
Kesamati Pradhan del villaggio di Kajuri, insieme ad altri suoi compagni di sventura, hanno presentato una denuncia all’Alta Corte dell’Orissa contro l’evacuazione forzata dei campi per le vittime di Kandhamal, senza “adeguate misure protettive per la vita, l’assistenza e il compenso per i danni”.
Le vittime, oltre a 10 mila rupie ricevono anche 50 kg di riso e un rotolo di polietilene, per riparare alla meglio le loro case danneggiate. Molti di loro ritornati nei villaggi, vivono fra le rovine; fogli di plastica vengono usati come tetto e qualche legno o pianta usata come muro. “I cristiani di Kandhamal sono trattati come animali: vivono ormai nella paura e non trovano riparo da nessuna parte. Non possono vivere con dignità: la somma data loro non è sufficiente nemmeno a comprare il cibo; i loro campi sono stati bruciati; le loro case sono ormai distrutte”.
Insicurezza e razzismo
La sicurezza però non esiste. “Due giorni fa – racconta una fonte da Raikia, dove sono avvenuti diversi massacri – nel villaggio di Mokobili, i gruppi estremisti indù hanno rintracciato i cristiani ritornati dai campi profughi, li hanno svegliati nella notte e li hanno minacciati. Davanti a questo, i ritornati non hanno nemmeno il desiderio di mettersi a riparare le loro case, per paura che i radicali indù gliele distruggano ancora. Si fa pressione su di loro perché ritirino le denunce contro le violenze perpetrate dai loro vicini, ma questo non è possibile. In più, da quando sono state presentate le denunce, non è stato compiuto nessun arresto e la nostra gente è costretta a vivere nelle loro case distrutte, a fianco dei loro persecutori o assassini”.
Fratel Oscar Tete, superiore dei Missionari della carità, il ramo maschile dell’ordine fondato da Madre Teresa, confessa che anche per loro “non vi è futuro certo”. La loro case e il lebbrosario a Srasananda (Kandhamal) sono stati distrutti due volte: nel dicembre 2007 e nell’agosto 2008. Ora essi hanno base a Berhampur, ma ogni settimana vanno a visitare i cristiani e i lebbrosi a Srasananda perché la loro presenza “è un conforto per la nostra gente”.
“Non sappiamo ancora se ripareremo la casa a Srasananda. Aspettiamo che si concludano le elezioni, poi ci penseremo. Ma la situazione è ancora più dolorosa per tanti nostri fedeli: questi sono lavoratori a giornata e nessuno offre loro lavoro. Anche se qualcuno ha dei soldi, i negozianti si rifiutano di vedere qualunque roba ai cristiani, perfino il cibo”.
Due articoli di Antonio Socci: 2009 CROLLO DEL CAPITALISMO ? LEGGERE RATZINGER E CAPIRE …. - IN ATTESA DEL FILM SUL GULAG SAVIANO S’ISPIRA A SALAMOV, MA EGLI E’ ….
2009 CROLLO DEL CAPITALISMO ? LEGGERE RATZINGER E CAPIRE ….
Il 1989 segnò il crollo dell’Est comunista. Venti anni dopo, il 2009, vedrà il crollo dell’Occidente? Nouriel Roubini parla della “più grande bolla finanziaria e creditizia della storia”. E afferma senza indugio: “Il sistema finanziario del mondo ricco si sta dirigendo verso un crollo”. Non è solo un disastro finanziario, perché il Mercato è stato la moderna religione dell’Occidente: è anche un fallimento ideologico e morale.
La tempesta è appena cominciata e non si sa quando e come ne usciremo. Personalmente consiglio di tener presenti due bussole per non smarrirvisi del tutto. Dirò dopo i loro nomi. Ma prima facciamo un passo indietro. Prima bisogna riconoscere l’enormità del fallimento dell’Occidente. Bisogna evitare di usare lo stesso paraocchi ideologico dei comunisti, che, incuranti delle smentite della storia, continuavano a professare il “dottrina marxista” come la scienza economica e sociale definitiva e infallibile. Certi liberisti puri e duri oggi sono egualmente dogmatici.
Il muro di Ostellino
Ieri, sul Corriere della sera, Piero Ostellino, commentando i recenti dati natalizi sul ribasso dei prezzi e il relativo aumento del potere d’acquisto delle famiglie, ne traeva questa singolare conclusione: “il mercato ha messo le cose a posto da solo. Non c’è stato bisogno dell’intervento della politica. Che avrebbe fatto danni. I prezzi sono scesi a causa della crisi economica”.
Non c’è stato bisogno dell’intervento della politica? Viene da chiedersi in che pianeta viva Ostellino. Forse non gli è giunta la notizia del più gigantesco intervento degli Stati nelle economie americane ed europee degli ultimi 50 anni, intervento che (solo) per ora che ha evitato la catastrofe finanziaria del mondo (facendoci trascorrere un Natale non tragico). Intervento tuttora in corso che molto altro dovrà fare.
Certo, bastava già tener presente la crisi del ’29 e quello che ne seguì per rendersi che lo Stato è un attore fondamentale dell’economia moderna. Forse la novità di oggi è che pure l’intervento pubblico potrebbe non bastare più. Il “rischio Argentina”, la bancarotta, è un fantasma che agita i sonni di tanti. In ogni caso per evitarlo o per limitare il disastro o per rinascere dalle macerie, bisogna disporre di un pensiero della crisi, capire l’errore e trovare una diversa strada.
I due avversari
Il crollo del comunismo del 1989 ebbe un’interpretazione ufficiale, tanto sbandierata quanto sbagliata. Fu il testo di Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo” (1992). Vi si proclamava l’Occidente democratico e capitalistico come universale approdo della storia del mondo. Il “trionfo dell’Occidente” che pretendeva di concludere idealmente la storia fu tradotto dagli Usa di Clinton con il “pensiero unico” del mercato e dell’uomo consumatore (il primato assoluto dell’economia ebbe la sua traduzione tecnocratica anche nell’Europa della moneta unica).
Al regno universale del mercato fu annessa anche la Cina (ufficialmente nel 1994 con l’ingresso nel WTO) e nacque quella che Giulio Tremonti ha chiamato la “Chimerica”, ovvero Cina più America. Con la new economy e con il sistema statunitense che continuava a indebitarsi per finanziare i consumi privati e la Cina che produceva per l’Occidente comprando il debito degli americani. Sono le premesse del collasso odierno.
Nel 2001 ci fu la prima smentita della storia: l’11 settembre, le “Torri gemelle”, così vicine a Wall Street. Cosa significava quel fatto lo aveva spiegato in anticipo Samuel Huntington nel suo “Lo scontro di civiltà” (1996). Huntington criticava il “nuovo ordine mondiale”, in polemica con Fukuyama, spiegando che non esiste solo il mercato e che la storia è fatta di diverse civiltà, culture, religioni e identità. Le quali non si fanno spazzar via dalla religione del produrre e consumare. Huntington ammonì che quella mercatista era una “illusione di armonia destinata ben presto a rivelarsi appunto tale”.
Infatti arrivò l’11 settembre 2001. Confermando l’analisi di Huntington che vedeva la cultura islamica fra le più refrattarie all’omologazione occidentale. Paradossalmente il testo di Huntington fu poi usato (suo malgrado) in chiave “neocon” come premessa ideologica del progetto di esportazione della democrazia, ovvero delle guerre di Bush. Che è stato un altro tentativo – fallito – di omologare il mondo al modello occidentale.
Finché è esplosa definitivamente la crisi del sistema americano. Ma perché siamo arrivati a questo? Dove abbiamo sbagliato? E’ inverosimile che ad accendere una luce siano coloro che hanno provocato la notte. Ma dov’è un intellettuale, un libro, un pensiero che può accendere una luce diversa nella notte?
Buttare Smith
Consiglio un profetico saggio di Joseph Ratzinger del 1985 che annunciava (con anni di anticipo) sia il crollo del comunismo che del capitalismo liberista. E li prevedeva provocati da uno stesso errore filosofico. Da una stessa ideologia. Il saggio sarà ripubblicato su “Communio” di gennaio 2009 e probabilmente rappresenta una premessa dell’annunciata enciclica a cui si dice abbia collaborato pure Giulio Tremonti (che ha citato questo testo di Ratzinger nella sua recente prolusione alla Cattolica di Milano). In sintesi Ratzinger punta il dito sull’idea “risalente a Adam Smith” che sta alla base del pensiero liberista e della rapacità e degli errori che hanno portato gli Usa al collasso. Per questa idea “il mercato è incompatibile con l’etica, giacché i componenti volontaristicamente ‘morali’ sono contrari alle regole del mercato e non farebbero altro che tagliar fuori dal mercato gli imprenditori ‘moraleggianti’. Per questo l’etica economica è stata considerata per molto tempo come un ‘ferro di legno’, perché nell’economia si deve guardare solo all’efficienza e non alla moralità. La logica interna del mercato ci dispenserebbe dalla necessità di dover fare affidamento sulla moralità più o meno grande del singolo soggetto economico, in quanto il corretto gioco delle regole del mercato garantirebbe al massimo il progresso e pure l’equità della distribuzione”. Sebbene si definisca “liberista”, obietta Ratzinger, questa filosofia, nella sua essenza, è “deterministica” perché presuppone che “il libero gioco delle forze di mercato spinga verso una sola direzione, cioè verso l’equilibrio fra offerta e domanda, verso l’efficienza economica e il progresso”, con lo “sconcertante presupposto” che “le leggi naturali del mercato sono essenzialmente buone e conducono necessariamente al bene, senza dipendere dalla moralità della singola persona”.
La realtà dice l’opposto e non solo con la crisi attuale, ma – già prima - con le grandi contraddizioni planetarie prodotte dall’economia capitalistica: la fame e la miseria di tre quarti dell’umanità, squilibri e tensioni sociali crescenti e gravissime devastazioni ambientali. Il marxismo, spiega Ratzinger, è un “determinismo” ancora più spinto, perciò più violento e fallimentare (“promette la totale liberazione come frutto di un determinismo”). Entrambi i casi si basano sull’utopia ideologica di un meccanismo così perfetto – come diceva Eliot – da rendere inutile all’uomo essere buono. Invece, spiega Peter Koslowski, “l’economia non è retta solo dalle leggi economiche, ma è guidata dagli uomini”.
L’eliminazione del “fattore uomo” nel marxismo è stata radicale. Nel liberismo più sfumata, ma simile e alla fine il profitto come regola a se stesso ha prodotto il disastro. Occorre qualcosa che stia sopra al profitto e sopra al meccanismo della produzione. Ma qua la crisi planetaria si intreccia con la scelta individuale, con ciò che rende personalmente “buono” l’essere umano. Quindi con Dio. Tremonti nel suo libro “La paura e la speranza” ha il merito di averlo intuito. E di aderire all’appello della Chiesa – davanti a questa grande crisi di civiltà - di un radicale ripensamento delle nostre scelte individuali e collettive, di un’autocritica e di una grande conversione.
Antonio Socci Da “Libero”, 4 gennaio 2009
IN ATTESA DEL FILM SUL GULAG SAVIANO S’ISPIRA A SALAMOV, MA EGLI E’ ….
A 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, mentre nelle scuole circolano tuttora libri di testo secondo i quali tale Muro fu eretto dagli Occidentali e fu abbattuto dai comunisti, il comunismo e i suoi orrori rappresentano il grande rimosso della coscienza moderna e della cultura mondiale, il grande buco nero che si è ingoiato perfino la memoria di centinaia di milioni di vittime.
Cosicché oggi, su questa immane rimozione, di fronte al collasso del mercatismo, capita che si parli sui giornali di una “riscoperta di Marx” e addirittura il ministro tedesco delle Finanze Peer Steinbruck dichiara che le risposte di Marx ai problemi attuali “possono non essere irrilevanti”. Allegria!
Non un solo film, in venti anni, è stato dedicato alla sterminata macelleria del Gulag planetario e alle milioni di storie falciate dalla sistematica pratica dello sterminio e dell’oppressione, che ha caratterizzato i regimi marxisti sempre e dovunque, a tutte le latitudini e in tutte le loro stagioni. Neanche un film, né una grande opera teatrale. Qualcuno potrà indicare una pellicola come “Le vite degli altri”, ma questo film, che pure fotografa il clima poliziesco di menzogna e paura dei regimi dell’Est, non è un film sul Gulag. Ed è un lodevole, ma isolatissimo caso.
Alain Besançon, nel suo recente pamphlet “Novecento. Il secolo del male” (Lindau) ha scritto: “Il nazismo, nonostante sia scomparso completamente da più di mezzo secolo, è a giusto titolo l’oggetto di un’esecrazione che non accenna a diminuire. Gli studi carichi di orrore al riguardo aumentano ogni anno di profondità e di ampiezza. Il comunismo, invece, nonostante sia vicino nel tempo e caduto di recente, fruisce di un’amnesia e di un’amnistia che raccolgono il consenso quasi unanime, non solamente dei suoi partigiani – ne esistono ancora – ma anche dei suoi nemici più determinati; e perfino delle sue vittime. Tutti trovano disdicevole trarlo fuori dall’oblio. Qualche volta capita che la bara di Dracula si socchiuda. E così, alla fine del 1997, un’opera (‘Il libro nero del comunismo’) ha osato fare la somma dei morti che gli si possono ascrivere. Proponeva una forbice da 85 a 100 milioni di morti. Lo scandalo è durato poco, e la bara si è già richiusa, senza che questi numeri siano stati seriamente contestati”.
Quando il Mostro era ancora al potere la denuncia dei suoi orrori in Occidente era un tabù per una quantità di motivi, di bavagli e di impedimenti. Basti dire che riuscirono perfino a condizionare il Concilio Vaticano II che – in piena persecuzione rossa – non pronunciò mai la parola comunismo, né la sua esplicita condanna. Fra gli intellettuali, gli anticomunisti erano mosche bianche e isolate. Sartre arrivò a dire (lo riferì Gustaw Herling) che “non si doveva parlare dei lager sovietici perché gli operai di Billancourt non potevano perdere la speranza”.
Quando in Italia arrivò la bomba di Solzenicyn, “Arcipelago Gulag”, a squarciare i veli sull’orrore – era il 1974 – fu accolto con gelida indifferenza o con disprezzo. Pierluigi Battista sottolinea “la singolare esiguità numerica di recensioni per un libro così importante e decisivo” e, per dire il clima, ricorda la diffusione della “leggenda nera di un Solzenicyn nientemeno che al soldo del dittatore Pinochet”. Quando poi crollò il Muro e travolse quei regimi si disse che essendo – il comunismo – morto e sepolto solo dei fanatici, dei maniaci o gente con doppi fini inconfessabili poteva ancora “accanirsi” e attardarsi nella denuncia dei crimini rossi, che ormai dovevano essere consegnati agli storici. Sennonché quando Giampaolo Pansa, nel 2003, ha disseppellito “Il sangue dei vinti”, ignorato dagli storici, è stato “scomunicato” da quegli stessi storici come revisionista, storico abusivo e peggio ancora. Non doveva osare raccontare la storia per intero.
Negli anni Novanta, peraltro, la rimozione del “comunismo” è stata praticata pure dagli stati occidentali: mentre erano ancora caldi i corpi degli studenti cinesi macellati in Piazza Tien an men, mentre i cristiani sono ancora rinchiusi nel Laogai e il Tibet sanguina, gli Stati Uniti di Clinton e l’Europa tecnocratica integrarono la Cina nel mercato globale facendo finta che non fosse più un regime comunista (comunismo che continua a dominare pure a Cuba, in Corea del nord e Vietnam).
Così, nel senso comune, l’amnesia del comunismo è stata un’amnistia. Facciamo un confronto. Consideriamo il successo oceanico del libro “Gomorra” di Roberto Saviano. Nelle ultime ore perfino Ronaldinho ha fatto sapere di aver letto l’opera. Ormai siamo al gran completo. Personalmente apprezzo Saviano e il suo libro, ma trovo singolare questa passione planetaria, con relativa indignazione civile, per i crimini camorristici della provincia di Caserta, da parte di un’opinione pubblica e di un’intellighentsia che per decenni ha deliberatamente ignorato il clan criminale più potente, sanguinario e vasto della storia, quello comunista, che aveva in pugno metà del pianeta, da Trieste fino ai confini dell’Alaska, da Cuba alla Cina, dall’Angola all’Albania.
Come si spiega tutto questo interesse, anche fuori d’Italia, per il malaffare di Secondigliano o Casal di Principe mentre si continua a (voler) ignorare l’oceano planetario di crimini, oppressione e menzogna che, dalla rivoluzione bolscevica, ha investito miliardi di persone, ha avallato lo scatenamento della Seconda guerra mondiale e poi, con la sfida atomica, ha messo a repentaglio le stesse sorti dell’umanità?
Quanti dei milioni di lettori di “Gomorra” hanno mai letto “Arcipelago Gulag” ? Quanti ne conoscono almeno l’esistenza? Quanti, fra gli intellettuali, i professori, i giornalisti lo hanno mai letto? Quando si pubblicherà in Italia tutta l’opera di Solzenicyn? Quando vedremo una grande produzione cinematografica ispirata a una delle tante storie che egli ha raccontato? Penso che dovremo aspettare ancora a lungo. Mentre il libro di Saviano, uscito nel 2006, è già diventato un film, che ovviamente ha già riscosso enorme successo, che ha sbancato gli “oscar europei” (5 premi su 5 candidature) e ora sembra prepararsi a prendere pure l’Oscar americano. Qualcuno mi obietterà: ma che c’entra?
L’aspetto singolare è che proprio Saviano, che è un uomo serio, ha dichiarato di ispirarsi, sul piano etico, nella sua battaglia civile, a un bellissimo racconto di Varlam Salamov, contenuto nell’opera “I racconti di Kolyma”. Sarebbe interessante sapere quanti dei lettori (anche colti) di Saviano sanno qualcosa di quel libro e di quell’autore. Salamov trascorse venti anni nei lager comunisti, nell’inferno ghiacciato di Kolyma. La sua opera fu pubblicata nel 1978 a Londra e New York e lui nel 1982 viene chiuso in un ospedale psichiatrico dove muore solo come un cane, nell’orrore. Il suo è un capolavoro letterario del Novecento. La prima edizione italiana (parziale) nel 1976 fu del tutto ibernata: “attorno al libro si stese un silenzio pressoché assoluto e il volume fu per noi uno degli insuccessi più clamorosi” dirà Dino Audino.
Invece in America e in Europa l’impressione fu enorme. Quando finalmente, nel 1999, la Einaudi ha pubblicato l’opera (che aveva rifiutato di pubblicare nel 1975), è accaduta una cosa singolare. Fu chiesta una prefazione a Piero Sinatti e Gustaw Herling (che ha vissuto due anni nel Gulag e scrisse, fra i primi, nel 1951, una testimonianza su questo). Ma la loro prefazione ovviamente trattava a fondo del comunismo, così la Einaudi la rifiutò perché “eccessivamente sbilanciata sul versante storico-politico”. Infatti l’opera è uscita con una prefazione che si diffonde sulla “struttura narrativa”, ma non parla di comunismo. Ed ha molte altre cose incredibili. L’assurda vicenda è stata ricostruita da Herling e Sinatti nel bellissimo pamphlet “Ricordare, raccontare”.
Questa è ancora la situazione da noi, nella nostra cultura e nei media. Non resta che attendersi da Saviano il coraggio di rompere finalmente l’omertà che da sempre circonda l’orrore criminale chiamato: “comunismo”. Noi siamo con lui.
Antonio Socci - Da Libero, 11 gennaio 2009
Crisi economica e dottrina sociale della Chiesa - Il fallimento delle scorciatoie finanziarie - Il 16 gennaio uscirà il numero 6/2008 della rivista bimestrale "Vita e pensiero". Anticipiamo stralci di uno degli articoli. - di Simona Beretta Università Cattolica del Sacro Cuore – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
È sempre un'operazione interessante ripercorrere i documenti del Magistero sociale. Scritti in un particolare momento, parlano delle "cose nuove" di quel tempo, dei loro pericoli e delle loro opportunità. Letti a distanza di decenni, si possono mettere alla prova per verificare se e come è vero che la dottrina sociale è davvero uno scrigno da cui trarre "cose nuove e cose antiche" (Centesimus annus, 3), capaci di illuminare le radici e le prospettive delle "cose nuove" di oggi. In questo momento di grave crisi finanziaria, vorrei rivisitare un documento del Magistero che parla di finanza, ripresentando i testi letteralmente.
Siamo nel 1931. Il mondo sta cominciando a rendersi conto delle conseguenze sistemiche reali di quella che, a posteriori, avremmo chiamato la "grande crisi" (solo nel 1933 Franklin Delano Roosevelt lancerà il New deal). Ricorre anche il quarantesimo anniversario della prima enciclica sociale, la Rerum novarum, che nel 1891 era intervenuta sulla questione operaia sostenendo la priorità del lavoro rispetto al capitale e il principio di collaborazione, contro la lotta di classe. In quei quarant'anni l'economia e la società erano cambiate: i processi di industrializzazione si erano accompagnati al rafforzamento del potere dei gruppi finanziari, nazionali e internazionali; lo stesso "capitale produttivo" - espressione del potere dei capitalisti di quarant'anni prima - era ormai uno strumento concentrato nelle mani dei proprietari del "capitale finanziario", forma del potere emergente.
Così, dunque, dalla Quadragesimo anno pubblicata in quel 1931 leggiamo la ricognizione della situazione: "Ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell'economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento" (105). Proprio la concentrazione del potere di mercato finisce per distruggere il mercato stesso: "La libera concorrenza cioè si è da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia economica (...) l'internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene" (109).
L'enciclica registra dunque un evidente problema: il "libero" mercato tende ad autodistruggersi. Dove sta la radice della contraddizione? L'enciclica risponde con tre passaggi.
Ecco il primo: "Poiché l'instabilità della vita economica, e specialmente del suo organismo, richiede uno sforzo sommo e continuo di quanti vi si applicano, alcuni vi hanno indurito la coscienza a tal segno che si danno a credere lecito l'aumentare i guadagni in qualsiasi modo (...). I facili guadagni, che l'anarchia del mercato apre a tutti, allettano moltissimi allo scambio e alla vendita, e costoro unicamente agognando di fare guadagni pronti e con minima fatica, con la sfrenata speculazione fanno salire e abbassare i prezzi secondo il capriccio e l'avidità loro, con tanta frequenza, che mandano fallite tutte le sagge previsioni dei produttori" (132). Ossia: quando si offusca negli operatori la consapevolezza della natura e del significato del fare finanza, la finanza smette di perseguire il suo scopo, essere il ponte fra risparmi e investimenti, e si autocondanna al fallimento nel medio e lungo periodo.
Il secondo passaggio: "Le disposizioni giuridiche poi, ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza; (...) e sotto la coperta difesa di una società che chiamano anonima, si commettono le peggiori ingiustizie e frodi, e i dirigenti di queste associazioni economiche, dimentichi dei loro impegni, tradiscono non rare volte i diritti di quelli di cui avevano preso ad amministrare i risparmi" (132). Ossia: anche le innovazioni giuridiche più "intelligenti", ordinate al miglior funzionamento del mercato, possono ritorcersi contro il mercato stesso. L'esempio dell'enciclica sono le società per azioni, che consentono la partecipazione diffusa alla proprietà d'impresa limitando il rischio individuale, ma concentrano il potere decisionale nelle mani di pochi. Oggi potremmo riferirci all'utilizzo dei contratti derivati, elemento dominante della finanza globale, che consentono a taluno di assicurarsi contro il rischio ma si prestano a costruire ardite piramidi finanziarie virtuali.
Terzo, un passaggio sulla dimensione culturale della crisi: "Avendo il nuovo ordinamento economico cominciato appunto quando le massime del razionalismo erano penetrate in molti e vi avevano messo radici, ne nacque in breve una scienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere a ogni costo la loro fortuna (...). I primi poi che si misero per questa via larga che conduce alla perdizione (cfr. Matteo, 7, 13), trovarono molti imitatori della loro iniquità sia per l'esempio della loro appariscente riuscita, sia per il fasto insolito delle loro ricchezze, sia per il deridere che fecero, quasi vittima di scrupoli insulsi, la coscienza altrui, sia infine schiacciando i loro competitori più timorosi" (133). Ossia: la "iniquità" nei comportamenti si origina nella sfera della conoscenza. Il "razionalismo" non è sufficiente a rendere ragione della realtà economica. Solo "allargando la ragione" ci attrezziamo a capire la realtà, inclusa la crisi presente, e a tentare delle soluzioni. Queste ultime non appartengono solo alla sfera "tecnica" delle competenze economiche, politiche e giuridiche; ma onestamente non mi accontenterei di invocare "più etica": il raffinatissimo codice etico Enron non l'ha salvata dallo sfacelo; molte banche che offrono prodotti nel segmento della "finanza etica" sono le stesse che, finché è durata la fase di euforia, hanno rincorso i profitti che venivano dai segmenti innovativi della finanza (ora li chiamiamo "tossici").
Per la soluzione della crisi, naturalmente, "la Chiesa non ha modelli da proporre" (Centesimus annus, 43), ma ha molto da dire. Le encicliche sociali prendono di petto la questione del potere anche utilizzando espressioni forti e pongono sempre in evidenza la centralità concreta e umile del lavoro umano. La Rerum novarum difende il lavoro salariato, schiacciato dal potere di chi detiene la proprietà dei mezzi fisici di produzione. La Quadragesimo anno difende "le sagge previsioni dei produttori" dal potere di un mercato finanziario internazionale autoreferenziale. Più recentemente, la Centesimus annus, nel 1991, parla ancora di lotta: "contro un sistema economico, inteso come metodo che assicura l'assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti di produzione e della terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell'uomo" (35), e mette in evidenza la forza dirompente della centralità del lavoro sulle strutture di potere: l'"integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso, anche se ciò può indebolire assetti di potere consolidati" (43).
Cosa può voler dire nell'attuale crisi finanziaria, che è certamente la crisi di un sistema di potere economico, politico e culturale, la centralità dell'integrale sviluppo della persona, del lavoro umano nel suo pieno significato? Pensiamo al lavoro di chi fa intermediazione finanziaria, nella sua forma più semplice: raccoglie risparmi che devono essere prontamente disponibili ai depositanti che li ritirino, da un lato; dall'altro, individua impieghi del risparmio stesso "scommettendo" sulla capacità dell'imprenditore di realizzare la sua opera, crescere, restituire. Quando si "scommette" ciascuno confida nell'abilità dell'altro. Questa è una finanza "generativa": sostiene imprese, opere, occasioni di lavoro; fa anche profitti, forse non mirabolanti, ma non virtuali. Tuttavia, nel mondo della finanza si possono anche prendere scorciatoie, prestando e prendendo a prestito dentro relazioni anonime, "di mercato", appiattite sul presente, con controparti che si intende abbandonare velocemente quando il vento cambia direzione. La tentazione della scorciatoia è forte, perché sembra permettere di fare i propri affari in tutta libertà, senza creare legami stabili con nessuno: una finanza "liquida" per una società "liquida".
"Sarebbe fatale, se la cultura (...) di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami", si legge nel discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins. Almeno nel mercato finanziario, abbiamo la prova provata che la "libertà" di comprare e vendere rischi finanziari su un mercato anonimo che non chiede l'impegno dei legami, alla lunga, si è davvero rivelata fatale.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 gennaio 2009)
Natale in India. "Non c'era posto per loro nell'alloggio" - Ancora in fuga nelle foreste migliaia di vittime dei massacri anticristiani. Le autorità vaticane si mobilitano per contrastare il fanatismo induista. Ma sul terrorismo musulmano sono elusive. L'islamologo Troll denuncia i rischi di questa inerzia - di Sandro Magister
ROMA, 13 gennaio 2009 – Nelle aree dell'Orissa teatro di attacchi anticristiani le feste di questo Natale sono passate senza incidenti di rilievo. All'opposto di quanto era avvenuto nel Natale del 2007, quando più di cento chiese e un migliaio di case furono devastate e bruciate.
Ma circa 20 mila cristiani del distretto di Kandhamal, epicentro degli attacchi, continuano a tenersi lontani dai loro villaggi, da cui sono fuggiti tra agosto e settembre. Hanno avuto le case distrutte e soprattutto non si sentono sufficientemente protetti. Vivono sotto le tende ai margini della foresta, in una decina di campi profughi. Ad uno ad uno la polizia sta chiudendo i campi, forzando gli sfollati a rientrare in cambio di 10 mila rupie (circa 150 euro), 50 chili di riso e un rotolo di plastica da usare come riparo.
Il 4 gennaio la corte suprema dell'India – dopo aver dato udienza al'avvocato dell'arcivescovo di Bhubaneswar, Raphael Cheenath – ha criticato il governo dell'Orissa per la tardiva e debole reazione al pogrom anticristiano della scorsa estate, e gli ha ingiunto di "dimettersi se incapace di proteggere le minoranze". Al governo dell'Orissa ci sono il Bharatiya Janata Party e il Biju Janata Dal, cioè due partiti di riferimento dei gruppi induisti autori delle aggressioni.
Nelle stesse ore in cui la corte suprema ha emesso il suo pronunciamento, nel quartier generale della polizia a Cuttack suor Mena Barwa, la giovane religiosa che era stata stuprata il 25 agosto nel villaggio di Nonagon da un gruppo di fanatici, ha riconosciuto due dei suoi violentatori, tra i dieci ora in arresto.
Ma John Dayal, presidente dell’All India Christian Council e del United Christian Forum for Human Rights, avverte che, a quattro mesi dal pogrom, i rischi di una ripresa delle violenze restano alti. Specie dopo che a fine gennaio i 6 mila agenti federali inviati dalle autorità centrali di Delhi lasceranno l'Orissa.
Benedetto XVI, nel discorso sullo stato del mondo rivolto l'8 gennaio al corpo diplomatico, ha dedicato all'India solo due fuggevoli accenni, il primo alludendo alla strage terroristica di fine novembre a Mumbai, il secondo ai pogrom anticristiani dell'Orissa. Ma entrambi questi fatti seriamente preoccupano le autorità vaticane.
Per quanto riguarda l'estremismo induista, così si è espresso il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, in un'intervista a "L'Osservatore Romano" del 4 gennaio:
"Per capire la dinamica dei fatti si deve risalire al 1989, quando il Partito Nazionalista Indù è salito al potere nello stato dell'Orissa. Più che un conflitto di natura religiosa, si tratta di un problema di stampo sociale e politico. Ai cattolici viene rimproverato di occuparsi delle caste inferiori che costituiscono la mano d'opera per le caste superiori. Viene contestato al cristianesimo il fatto che esso è anche un fattore di emancipazione sociale. Ovviamente, noi cattolici proseguiremo il dialogo. Un dialogo, conviene sottolinearlo, che viene portato avanti soprattutto dalla Chiesa locale, sotto l'attenta guida dei vescovi, con l'aiuto del nunzio apostolico. Io stesso ho intenzione di recarmi in India nei prossimi mesi per un incontro con i vescovi e i leader religiosi indù per fare il punto della situazione. Comunque sia, continueremo a chiedere il rispetto della libertà religiosa che suppone il rispetto della libertà di coscienza, ossia la possibilità di scegliere la propria religione o di cambiarla, di praticarla in privato e in pubblico. Un altro dialogo, invece, deve essere portato avanti parallelamente con le autorità politiche, il cui compito è quello di assicurare le condizioni di una reale ed effettiva libertà religiosa, senza discriminazione o segregazione, nella libera adesione a una comunità religiosa organizzata. Tutto ciò non è nient'altro che quanto richiesto dal diritto internazionale e dalle convenzioni internazionali, a cui del resto, l'India aderisce. E, infine, compete a ogni governo assicurare la sicurezza fisica dei suoi cittadini, soprattutto quando una parte di loro è vittima di violenze fisiche, come nel caso di cui parliamo. Penso, da un punto di vista pratico, che tutti abbiano interesse a un effettivo rispetto della libertà religiosa: credenti che si sentono rispettati e difesi nella professione della propria fede saranno ancora più disposti a collaborare al benessere materiale, sociale e spirituale della società di cui sono membri a tutti gli effetti. Vorrei ricordare che le violenze ingiustificabili di cui parliamo non riguardano la maggioranza degli indù e dei loro capi, tradizionalmente pacifici. Ecco perché, nel mio messaggio in occasione della recente celebrazione del Diwali, ho voluto riaffermare la necessità che cristiani e indù lavorino insieme alla luce del comune principio della non-violenza".
* * *
Per quanto riguarda invece il terrorismo musulmano in India, le autorità vaticane sono più elusive. Tra i cristiani e i musulmani dell'India non vi sono state negli anni passati particolari frizioni. Anzi, in più occasioni queste due minoranze si sono ritrovate alleate, sia nel combattere le discriminazioni di casta, sia nel difendersi dalle aggressioni degli induisti fanatici.
Ma l'attacco terroristico di Mumbai ha mutato pericolosamente il quadro. L'ha proiettato su scala internazionale. I suoi organizzatori avevano nel Pakistan la loro centrale e il nemico da colpire era in definitiva l'Occidente giudaico-cristiano.
E ciò in India ha ridato vita all'islam più puritano e combattivo, quello delle madrase Deoband, quello dei discepoli di Mawdudi: un islam in permanente conflitto col “mondo del negativo”, con quella "jahiliyya" che nel Corano rimanda al mondo dei faraoni e al politeismo, ma che oggi è identificata nell’Occidente.
Dalla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona in poi, questo distruttivo rapporto tra l'islam e la violenza è un nodo critico del dialogo che faticosamente si sta conducendo tra la Chiesa cattolica ed esponenti musulmani.
L'India sarebbe un terreno ideale per sviluppare questo dialogo. Qui l'islam è pluriforme ed eredita una storia anch'essa variegata. I mogol musulmani del XVI secolo instaurarono con l'induismo un rapporto pacifico. E in tempi recentissimi cristiani e musulmani hanno agito assieme per rivendicare i loro diritti di cittadinanza, insidiati dal fanatismo induista.
Ma in realtà che cosa accade? Il gesuita tedesco Christian W. Troll, professore alla Pontificia Università Gregoriana e alla Sankt Georgen Graduate School di Francoforte, uno degli islamologi più ascoltati da Joseph Ratzinger, dopo aver partecipato a Roma al primo colloquio del Forum cattolico-islamico nato dalla lettera aperta "A Common Word" indirizzata al papa nel 2007 da 138 esponenti musulmani, si è recato in India per ragioni di studio e lì ha scoperto che nulla è stato fatto per migliorare i rapporti tra le due comunità, proprio ora che se ne ha più bisogno che mai.
Troll ha incontrato in India numerosi esponenti cristiani e musulmani, vescovi, sacerdoti, professori e rettori di seminario, insegnanti e dirigenti di scuole coraniche. Ebbene, nessuno di questi aveva la più pallida conoscenza dei passi di dialogo fin lì compiuti a Roma e altrove. Sia nella Chiesa cattolica, sia nella comunità musulmana dell'India nessuno aveva fatto qualcosa per diffondere la conoscenza della lettera dei 138, degli interventi di Benedetto XVI sul tema e degli incontri interreligiosi fin lì compiuti.
"Tutto ciò è tragico", ha commentato Troll. "In India cristiani e musulmani sono minoranze e questo costituisce un imperativo in più perché vivano in armonia. È quindi di fondamentale importanza che le iniziative di dialogo ad alto livello, a cui hanno partecipato un numero significativo di leader cristiani e musulmani, siano comunicate in ambiti sempre più vasti delle comunità di entrambe le religioni. Bellissime dichiarazioni comuni a livello internazionale aumentano le aspettative. Ma se non vengono attuate, se non ci si sforza nemmeno di far questo, i risultati saranno la frustrazione e il ridicolo".
MEDIO ORIENTE/ A Gaza una guerra in cui perdono tutti - Redazione - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Sono già trascorsi più di 15 giorni dall’inizio della guerra dichiarata da Israele ad Hamas. I morti sono saliti a più di 800, i feriti a oltre 3.000. La distruzione di Gaza prosegue. Le condizioni della popolazione palestinese peggiorano ogni volta di più... Hamas si interessa realmente della sorte del suo popolo? Sembra di no. Se ci atteniamo ai fatti sembra proprio il contrario.
Il suo ultimo no al piano egiziano e alla risoluzione dell’Onu che proponeva un cessate il fuoco mostrano chiaramente che l’interesse principale di Hamas è il proprio progetto ideologico di lotta contro Israele. Per il bene della popolazione, la cosa più ragionevole da fare sarebbe stata accogliere la proposta di una tregua. Questa avrebbe permesso l’arrivo di aiuti massici dai paesi occidentali e arabi; un periodo in cui rispondere con maggiore coscienza alle necessità più urgenti; un tempo di riflessione per favorire l’inizio di negoziati di pace.
Hamas tuttavia ha respinto tassativamente entrambe le proposte. Perché? Sebbene sia una forza politica eletta dai palestinesi che vivono in quel piccolo territorio che è Gaza, Hamas non ha cambiato le sue posizioni idelogiche né i suoi obiettivi. Resta dominata dall’odio contro Israele.
Da parte sua, il Governo di Israele ha giustificato la decisione di iniziare questa guerra, e continua a ripeterlo all’opinione pubblica, facendo appello al suo diritto di difendersi dalle aggressioni di Hamas, proteggendo la sicurezza del proprio paese. In nome di questa ragione ha giustificato anche il proprio rifiuto alla risoluzione dell’Onu. «Israele ha il diritto di proteggere i propri cittadini», dice un comunicato stampa del primo ministro. Anche Olmert ha affermato davanti alla stampa che «lo Stato di Israele non ha accettato che alcun organismo esterno determini il suo diritto a difendere la sicurezza dei propri cittadini».
Come è ben noto, Hamas ha attaccato con i suoi missili in varie occasioni alcune delle città israeliane al confine con Gaza. È vero che uno Stato ha il diritto di difendersi dalle aggressioni e a cercare la sicurezza dei propri cittadini, ma questa guerra favorirà la sicurezza dei cittadini di Israele? Non è chiaro se l’esercito di Israele riuscirà a distruggere Hamas; sembra poco probabile. Quindi perchè decidere di iniziare questa guerra?
Sicuramente, tra le conseguenze di questa azione bellica, dovremo conteggiare una maggiore violenza nella società e un odio più forte verso Israele nella popolazione palestinese. Queste distruzioni massicce da parte dell’esercito israeliano saranno utilizzate da Hamas come giustificazione per una nuova ondata di attentati. In ultima istanza, non saranno forse i cittadini israeliani a soffrire sulla propria pelle il dolore e la distruzione?
La guerra è sempre un male. Porta sempre più problemi nella vita quotidiana delle persone e normalmente aggrava i problemi politici. Questa terra, Israele/Palestina, è un buon esempio: in essa abitano due popoli chiamati necessariamente a capirsi, ma resi nemici fin dalla nascita dello Stato di Israele e dalla immediata guerra arabo-israeliana. E, a quanto pare, manca il desiderio di affrontare insieme un problema che è fonte continua di violenza e sofferenza.
La maggioranza della popolazione civile israeliana e palestinese desidera vivere in pace. Perché allora si continua in questa spirale di violenza? Certamente il male può colpire il cuore di ogni uomo; chiunque può farsi dominare dall’odio o dalla vendetta e rendere in mille modi impossibile la vita di chi considera suo nemico o rivale. Ma a volte uno si domanda se situazioni come quella che si vive in questa terra non provengano da posizioni ideologiche radicate in coloro che detengono il potere.
Benedetto XVI nell’Angelus del 28 dicembre ha chiesto che cessi la violenza e ha chiesto «alla comunità internazionale di non lasciare nulla di intentato per aiutare israeliani e palestinesi ad uscire da questo vicolo cieco e a non rassegnarsi alla logica perversa dello scontro e della violenza, ma a privilegiare invece la via del dialogo e del negoziato». Ma il Governo di Israele e Hamas vogliono realmente questo dialogo? Il potere palestinese e israeliano favoriscono la tensione utilizzando i media per alimentare l’odio e il rancore, invece di promuovere le condizioni più favorevoli al negoziato.
Circa un paio di anni fa, nel giorno della commemorazione della morte di Yitzhak Rabin, David Grossman pronunciò a Gerusalemme un discorso in cui chiedeva ai governanti del suo paese una maggior decisione nella ricerca di un accordo di pace con i palestinesi.
Nel discorso fece anche una forte denuncia di ciò che stava avvenendo nella società israeliana. Tra le altre cose disse: «Guardate cosa è successo a una nazione giovane, piena di entusiasmo e spirito. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele è passato da una fase di infanzia e gioventù a uno stato di costante lamento, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un’occasione. Come è successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita diversa, migliore? [...] Israele è caduto nell’insensibilità, nella crudeltà, nell’indifferenza verso i deboli, i poveri, coloro che soffrono, che hanno fame, verso i vecchi, i malati e gli invalidi; nell’indifferenza di fronte al commercio di donne, l’esplosione e le condizioni di schiavitù in cui vivono i lavoratori stranieri, indifferenza verso il razzismo radicale, istituzionale, nei confronti della minoranza araba. Dato che tutto questo succede con totale naturalezza, senza suscitare scandali e proteste, comincio a pensare che anche se la pace arrivasse domani, anche se un giorno arrivassimo a una situazione normale, forse avremmo perso l’opportunità di curarci».
La guerra indebolisce sempre, poiché favorisce la crudeltà e le ingiustizie. E gli uomini che la compiono, anche se utilizzano ragioni idelogiche per giustificarsi, non ne escono immuni; si rendono peggiori. Per il bene di Israele, per il bene di questa terra, per il bene dell’Occidente, questa guerra si fermi quanto prima! Speriamo che non sia già tardi per un vero rinnovamento degli uomini che abitano questa terra considerata santa dalle tre religioni monoteiste. Speriamo che queste previsioni di Grossman non si avverino!
(José Miguel García)
BIOETICA/ Quando “giocare” con gli embrioni non migliora la qualità della vita - Marco Bregni, Roberto Colombo - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
È di venerdì 9 gennaio la notizia della nascita della bambina selezionata ex-vivo in una clinica dell’University College di Londra perché non abbia mutazioni nei geni di suscettibilità al carcinoma della mammella. Questa operazione biotecnologica è stata salutata dai media come un portentoso avanzamento della scienza e della medicina. Ma è tutto oro quello che luccica nel tempio britannico della procreazione medicalmente assistita? Il futuro della prevenzione oncologica passa davvero attraverso la nuova “eugenetica liberale”?
È nota da più di dieci anni l’esistenza di mutazioni in alcuni geni (BRCA1, BRCA2) che aumentano il rischio familiare di ammalarsi di carcinoma della mammella e di altri tumori (come quelli all’ovaio, alla prostata, e ad altri organi). Nelle donne portatrici di mutazioni nel gene BRCA1 il rischio di sviluppare il carcinoma aumenta nel corso della vita e si avvicina al 70% verso gli 80 anni; il rischio è minore (20-30%) nelle donne con una mutazione nel gene BRCA2, mentre è frequente l’insorgenza del carcinoma della mammella nei maschi portatori della mutazione. Se non sono presenti mutazioni in questi due geni, come nella bambina geneticamente selezionata ad hoc e nelle moltissime persone naturalmente prive di queste mutazioni, non ci si ammala di tumori ginecologici o urologici? Osservando la realtà clinica, le cose non stanno proprio così.
Circa una donna su 12-14 si ammala di carcinoma della mammella nel corso della propria vita. Le mutazioni nei geni di suscettibilità spiegano solo una piccola percentuale (5-10%) dei tumori della mammella; la grande maggioranza dei casi di questi tumori (90-95%) ha altre cause, di natura non ereditaria. Eliminando le cause genetiche, non si annulla il rischio di ammalarsi di tumore della mammella sporadico (anche la neonata inglese potrebbe un giorno ammalarsi di carcinoma mammario od ovarico).
Nei paesi occidentali, il rischio di ammalarsi di un tumore per un uomo è di uno su tre, e di uno su quattro per la donna; eliminando il rischio del tumore della mammella non si elimina il rischio dei tumori tout court.
Come per tutti i tumori della mammella, la diagnosi precoce (mediante mammografia ed ecografia) è efficace nell’identificare il carcinoma mammario in fase iniziale. Quando in una famiglia è presente un rischio genetico per questo tipo di tumore, esso esordisce tipicamente in età più giovanile rispetto al tumore sporadico. Esistono sistemi efficienti per la diagnosi precoce del carcinoma della mammella in età giovanile, quando la mammografia non è altamente sensibile e specifica: la risonanza magnetica è in grado di identificare fino al 94% dei tumori in fase iniziale.
Anche se appare maggiore la frequenza di tumori a prognosi peggiore tra i casi ascrivibili ad una suscettibilità genetica, non esistono casistiche definitive a questo riguardo. Inoltre, in presenza di un fattore genetico di rischio, esiste la possibilità di prevenire l’insorgenza del carcinoma della mammella e dell’ovaio mediante farmaci o chirurgia selettiva (attualmente, non è sempre necessario ricorrere all’asportazione profilattica dell’intero organo).
Infine, la ricerca ha identificato una categoria di farmaci (gli inibitori della poli-ribosio polimerasi) che, negli studi preclinici, si sono dimostrati estremamente efficaci nell’eliminare le cellule del tumore in cui sono presenti mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2.
Per le ragioni sopra ricordate, la vita di una persona con mutazioni genetiche che predispongono ai tumori – in particolare, al tumore della mammella e dell’ovaio – non è destinata a finire precocemente o ad essere mutilata: pur essendo una vita più “a rischio” di altre, la medicina moderna ha scoperto e mette in atto una serie di provvedimenti e di procedure che in alcuni casi riducono il rischio, in altri lo prevengono. Per non illudere o ingannare nessuno, occorre essere realisti: non esiste la possibilità per nessuna donna di eliminare del tutto il rischio di un tumore ginecologico. Diffondere notizie che alludono (o aprono irragionevoli prospettive) a questa pretesa possibilità della tecnologia biomedica costituisce un atto di irresponsabilità culturale e sociale.
Ci chiediamo quale senso clinico ed epidemiologico abbia la selezione genetica degli embrioni umani. Sembra più un complicato gioco tecnologico che una reale apertura verso nuove prospettive di prevenzione oncologica generale. Peccato che questo “gioco” comporti l’eliminazione di essere umani all’inizio della loro vita. L’eliminazione dei “difettosi” è il volto disumano dell’eugenetica di sempre: quella totalitaria di ieri e quella liberale di oggi, che sembra trovare nell’alleanza con la procreatica uno sviluppo foriero di preoccupanti, azzardate avventure sperimentali.
STORIA/ Negri: per capire la Chiesa occorre liberarsi dai pregiudizi della modernità - Luigi Negri - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Secondo le categorie della cultura dominante a tutti i livelli - da quelli accademici universitari, fino a quelli dei manuali scolastici, a quelli dei mass media - si ha la sensazione che la storia della Chiesa sia sostanzialmente la storia di una istituzione inguaribilmente reazionaria, controcorrente nel senso deteriore, che non sa assecondare i ritmi della evoluzione intellettuale, morale, politica, sociale ed economica. La storia della Chiesa sarebbe, soprattutto quella recente, la storia di una serie di occasioni mancate, ed inoltre sarebbe la storia di una ferrigna egemonia a carattere integralistico posta su tutti gli aspetti della vita culturale e sociale. Da questo punto di vista si comprende il terribile equivoco su una età come quella medievale, considerata, anche nel linguaggio comune, come qualche cosa di assolutamente negativo; “roba da medioevo” si dice oggi da parte di molti, anche da parte di sinceri cattolici, sinceri come sentimento ma non come mentalità.
La ragione di questa riduzione della Chiesa a istituzione culturale, politica, sociale ha le sue radici in quel grande rivolgimento di carattere antropologico e culturale che caratterizza l’età moderna e che dall’età moderna rilegge anche l’età pre-moderna, brutalmente definita da rivoluzionari francesi “l’ancien regime”, il vecchio ordine delle cose. In che cosa consiste questo rivolgimento di tipo antropologico e culturale? Consiste nella messa al centro della vita personale e sociale dell’individuo che si considera autonomo, autosufficiente, autoreferenziale, che non ha bisogno di nessun rapporto che lo costituisca nella sua identità e lo promuova nella realizzazione della sua personalità. Il progetto antropologico moderno e contemporaneo è quello dell’auto realizzazione dell’uomo nell’esercizio rigoroso della sua capacità, del suo potere intellettuale, conoscitivo, scientifico, morale, sociale, politico. L’uomo si realizza da solo o al massimo in quelle solidarietà che egli costituisce e crea: il proletari di tutto il mondo, piuttosto che i giacobini o i fascisti, o coloro che confidano incrollabilmente nel reich o che ritengono che la scienza sia la panacea di tutti i mali, che è l’ideologia attualmente al potere in tutto il mondo. Sono solidarietà create dall’individuo, che lo aiutano nella realizzazione di questo potere. Non solo lo aiutano, ma qualche volta lo sostituiscono, o meglio, è questa individualità di massa, è questo soggetto sociale il vero individuo, come ci ha insegnato gorgheggiando nel suo tipico modo pseudo culturale, Jean Jaques Rousseau.
In questa impostazione evidentemente la Chiesa non trova posto, non per le conseguenze presunte di carattere culturale, sociale e politico, ma non trova posto perché non ha più spazio una realtà che si proclama testimone dell’avvenimento di Cristo che è la Via, la Verità e la Vita, che cioè si proclama l’annunciatrice di quella redenzione senza la quale l’uomo non può diventare se stesso.
È dunque una incompatibilità di fondo, sul piano direi della concezione ultima dell’uomo, della persona, della vita, della società e della storia. Un uomo che non ha bisogno di salvezza non può che respingere una realtà che proclama la necessità della salvezza e la proclama come realizzata pienamente nel mistero della passione, della morte, della resurrezione di Gesù di Nazareth, figlio dell’uomo e figlio di Dio. Quindi l’ottica non è quella delle “conseguenze” ma quella dei “principi”. Si vede chiarissimamente questo confronto a tutto campo in quel Papa dell’inizio dell’età contemporanea che ha saputo leggere questa alternativa antropologica o culturale fra la modernità laicistica e la tradizione cattolica che è stato Pio IX, infamato da più di due secoli esattamente perché ha colto la radice della questione nel suo Sillabo del 1864.
Allora, qual è il filo conduttore della storia della Chiesa, della storia che la Chiesa vive e di cui prende coscienza e che cerca di comunicare attraverso le espressioni di quella sana storiografia cattolica che comincia all’inizio dell’età moderna e non è ancora finita, fortunatamente, anche se nel mondo cattolico e nella cosiddetta storiografia cattolica c’è stata una forte interferenza della mentalità laicista che ha prodotto delle storiografie della Chiesa cattolica fatte da cattolici, ma sostanzialmente condotte con criteri di carattere laicistico?
Val la pena di ricordare che l’impostazione storiografica di carattere individualista, razionalista, laicista o fideista è alla base delle Centurie di Magdeburgo, che sono il primo tentativo di rileggere tutta la storia della Chiesa a partire dal protestantesimo radicale, quindi a partire dall’idea che la Chiesa storica, reale, la Chiesa che vive nel mondo, non solo è negativa perché luogo di corruzione, di tradimento della verità evangelica, ma soprattutto che la Chiesa non deve esistere perché rappresenta una non necessaria mediazione fra Dio e l’uomo. L’unica mediazione possibile sarebbe invece la parola scritta e interpretata dal singolo. Ad essa si contrappone la straordinaria storia della Chiesa scritta dal gesuita cardinale Cesare Baronio, che tutta la storiografia cattolica del XIX e XX secolo ha letto come l’antesignano di una autentica storiografia cattolica. Hubert Jedin, il grande storico del Concilio di Trento, ha dedicato pagine straordinarie a questo evento e un piccolo, significativo saggio sulla figura del Baronio fondatore di una autentica storiografia ecclesiale.
Qual è l’identità fondamentale che la Chiesa gioca in ogni momento della sua storia, pur nel variare della condizioni in cui essa vive o dei condizionamenti che subisce? È la coscienza di un popolo. La Chiesa concepisce se stessa come un popolo che è generato dallo Spirito del Signore, crocifisso e risorto, e quindi rappresenta una realtà di carattere speciale, non riducibile a nessun riferimento storico, culturale, antropologico. Plinio, con l’occhio acuto dell’ordinatore, scriveva all’imperatore: è un popolo di terzo genere, diverso dai due grandi popoli che si contendevano la vita della società: il popolo degli uomini liberi romani e il popolo-non-popolo dei barbari. Un popolo di terzo genere, perfettamente inserito nella realtà sociale, ma che non ha una sua identificazione ultima in una ragione di carattere sociale: «non c’è più né greco né barbaro, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché voi tutti siete un essere solo, in Cristo Gesù», ha detto san Paolo.
Questo popolo, cosciente della sua «identità sacramentale» come avrebbe detto il Concilio Ecumenico Vaticano II, si impianta e vive nella storia investendo gli uomini di quel tempo e quindi di ogni tempo: i problemi, i condizionamenti, le ansie, le gioie, i dolori dell’umanità come tale. È un popolo che vive nella storia, pienamente inserito nella storia, ma che pone nella storia un annunzio che è l’espressione della sua novità di vita, della sua communio come nei primi secoli diceva di sé, cioè di essere una communio vivente.
Questo popolo, consapevole della sua identità sacramentale, ha coscienza della inderogabile necessità di dare a questa identità sacramentale una concretezza storica, carnale: è il corpo storico di Cristo, come il corpo dell’uomo Gesù di Nazareh è il corpo del figlio di Dio incarnato. Questa presenza, questa presenza sociale è caratterizzata da tre grandi dimensioni che sono assolutamente evidenti fin dai primi giorni della cristianità e che arrivano, senza soluzione di continuità, fino ai giorni nostri.
Questo popolo è presente nel mondo, incontra gli uomini per annunziare agli uomini quella verità di umanità e di salvezza che l’uomo desidera e non può darsi con le sue mani. Quindi, è un popolo che vive la missione come dimensione fondamentale; senza tenerla presente non si può capire nessun gesto della vita ecclesiale e quindi non si può giudicare la correttezza o la scorrettezza di gesti posti da singoli cristiani, come da gruppi cristiani, come da una comunità diocesana o da una Chiesa nazionale o, addirittura, dalla stessa Chiesa universale. Il criterio di giudizio è sempre quello della missione: quello che è stato compiuto ha incrementato la missione oppure non l’ha incrementata ma ha reso più vulnerabile la Chiesa nei confronti della mentalità dominante?
Il filo di interpretazione profondo della storia della Chiesa è la missione, una missione che si sostanzia in secondo luogo di una capacità di cultura. Questo popolo, infatti, contiene una concezione autentica - Giovanni Paolo II diceva una concezione adeguata - dell’uomo e della realtà e quindi porta nel mondo dei criteri di conoscenza, di giudizio, di comportamento assolutamente originali, che aprono il confronto, il dialogo, la possibilità di valorizzazione o di rifiuto dei criteri di giudizio o di comportamento che ogni realtà, culturale e sociale della storia dell’uomo mette in campo. Quindi una cultura che nasce dalla fede, che apre il confronto con le culture mondane, ma che soprattutto si esprime in quella straordinaria fioritura di cultura della fede che ha dato le grandi espressioni culturali, teologiche, filosofiche, artistiche che accompagnano la vita della Chiesa in ogni età della sua storia, raggiungendo vertici inarrivabili.
Accanto alla cultura, la capacità di carità, quindi di condivisone della vita degli uomini in qualsiasi condizione e sotto qualsiasi cielo e in qualsiasi difficoltà. Questa capacità di condivisione ha determinato, nella storia, un punto di reale novità sociale in grado di confrontarsi e di contestare qualsiasi principio di socialità che peschi i suoi criteri non nel rispetto assoluto della persona e dei suoi diritti inviolabili, ma in considerazioni di carattere strettamente ideologico o politico.
In questo movimento - la Chiesa, come movimento missionario caratterizzato da cultura e da capacità di carità - sta la forza di inculturazione della fede. La Chiesa ha contribuito a creare momenti di civiltà in cui i cristiani hanno dato il loro contributo originale, qualche volta prevalente sul piano qualitativo; penso alla grande stagione medioevale. Ma la creazione di una civiltà è sempre espressione del tentativo, del sacrificio, della positività o della negatività di uomini o di gruppi umani; non è una deduzione dalla fede. Chi pensa alla cristianità come a una deduzione dalla fede pensa secondo l’ottica del totalitarismo marxista, nazista, laicista, tecnoscientifico.
La fede fa nascere l’avventura della civiltà e in questo senso la Chiesa è sempre stata singolarmente libera da ciò che i cristiani avevano prodotto; non esiste nessuna forma di realizzazione del cristianesimo nella storia che faccia corpo in modo essenziale con la natura del cristianesimo. Per questo la Chiesa è forte e orgogliosa di tutti i successi che storicamente ha avuto e singolarmente consapevole dei limiti che i suoi figli possono avere vissuto nelle varie fasi della storia (in questo senso di comprendono le “richieste di perdono” di Giovanni Paolo II) e pertanto sempre costantemente protesa ad attuare la propria missione qui ed ora e per il futuro.
Io credo che questo sia il filo d’oro della storia della Chiesa, ma è anche la vera, grande ermeneutica della storia della Chiesa. Se ci si mette da questo punto di vista, come io tento di mettermi da una trentina di anni, non si fa nessuna indebita sacralizzazione e nessuna indebita criminalizzazione. Lo storico deve riconoscere la storia della Chiesa così com’è: degli uomini, dei pastori, dei gruppi sociali, delle comunità la cui azione va letta dal punto di vista della missione, della carità, della cultura, individuando fattori di maggiore o minore coerenza ideale dei gesti con i principi che si vivevano e quindi non si potevano non affermare.
Un’ultima considerazione vorrei fare; è così ovvia che provo vergogna a farla, ma, vedendone l’assenza in tanta storiografia e in tanta pubblicistica, vi sono costretto. Leggere la storia della Chiesa dal 1600 in poi come se la Chiesa fosse nella stessa posizione che ha avuto dall’editto di Costantino fino al 1600, vuol dire non avere il minimo di percezione del grande rivolgimento che ha dato luogo alla “modernità”. La Chiesa, dal 1600 alla fine del secolo XX, vive una condizione di “resistenza”; non è che la Chiesa si opponga alla modernità ma, come ho detto e scritto tante volte, è la modernità che si oppone alla Chiesa. La Chiesa, dunque, si trova costretta a resistere al progetto di tipo antropologico, ateistico, razionalista, scientista, totalitario, mostrando che quello non è l’unico modo di concepire l’uomo e quindi non è l’unico modo di vivere la società.
Pagine straordinarie di questa resistenza ci sono consegnate nel magistero sociale della Chiesa moderna, che comincia con Gregorio XVI e giunge fino al compiersi della modernità alla fine del XX secolo, con la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Tale magistero dimostra che la storia della Chiesa non può prescindere dall’ottica che ho sopra ricordato della grande “resistenza”. Essa non è una resistenza ideologica o intellettualistica, ma la difesa della vita concreta del popolo di Dio, fatto dalle famiglie, dalle Parrocchie, dagli ordini religiosi, dalle confraternite, dai movimenti che la Chiesa moderna ha saputo creare; era la vita nuova e diversa del popolo cristiano che faceva resistenza al progetto ideologico, massificante, totalitario. Questa resistenza di base popolare trovava poi nel magistero sociale dei Papi una grande indicazione e un grande conforto, che la vita del popolo cristiano verificava poi nel concreto.
Io ho la convinzione, da me ampiamente sperimentata nei miei studi e nelle mie produzioni, che se ci si mette da questo punto di vista si capisce bene la storia della Chiesa, la storia della società e si trovano magari spunti per confronti positivi e per individuare, nel tessuto della storia, inedite collaborazioni che hanno reso possibile dare un aiuto sostanziale al bene dei popoli in quel determinato momento.
TV/ Beppino Englaro e la Hack nel talk di Fazio: il triste catechismo del nichilismo di sinistra - Gianni Foresti - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Avrebbe potuto essere una trasmissione da annoverare nella storia della tv, parlo di Chetempochefa di sabato sera, ma non lo è stata. Il programma ha ospitato Beppino Englaro papà di Eulana e l’astrofisica Margherita Hack, con due temi impegnativi ed importanti, la vita ed il mistero dell’universo.
Il papà di Eulana aveva chiesto il silenzio mediatico sulla vicenda della figlia, per poi invece scrivere un libro ed accettare la partecipazione al talk di Fabio Fazio. Non si è parlato di vita, ma di morte, della morte che il papà vuole della figlia, anzi del diritto di Eluana di morire e della discriminazione che invece è in atto. Diritto umano, fisico e costituzionale, legislativo.
E così papà Englaro ha parlato del contenuto del libro. Le domande cortesi di Fazio e le nuvole bianche sugli schermi hanno solo avvallato l’odore della dolce morte. Una cosa mi ha colpito, Fazio gli ha chiesto come mai in 17 anni non avesse trovato qualche altro espediente per far terminare la sofferenza di Eluana, ed il papà ha risposto che il morire deve essere un diritto per questo ha sempre agito solo per vie legali. Così avrebbe l’avvallo e la giustificazione di una società e di una legge che tutela la morte e non il diritto alla vita.
Domanda: forse bisogna avere troppo coraggio per staccare la spina con la propria mano?
Dal canto suo Fazio faceva la parte del conduttore compito e commosso, l’utile menestrello di una marcia funebre annunciata, l’utile cerimoniere che rispetta i desideri e voleri di una società decaduta, cui la tv fa da giullare.
E così senza contraddittorio, ma con le sue domande poste in maniera delicata è passato il terribile messaggio di papà Englaro: l’uomo come giudice della vita.
Poco dopo è arrivata Margherita Hack a presentare un suo libro, un commento alle favole, da Pinocchio a Harry Potter. Una scusa questa per parlare del cosmo, della sua nascita, della materia, del bosone di Higgs, di 13 miliardi di anni luce, del Big Bang, della materia oscura. Nessuna domanda su Chi può aver creato ciò.
Deludente sia la scienziata (forse è ora di pensionarla e lasciare libero qualche posto per i poveri ricercatori precari) sia il conduttore, che continuava a far trasparire che non capiva nulla e che il discorso della Hack era oro colato.
Il format Endemol (ma non era un prodotto targato Rai?) va bene, fa salire gli ascolti di Raitre, ed è considerato un talk d’opinione. Il conduttore ligure, ha avuto un’ascesa professionale eccellente: da imitatore a conduttore per Odeon della trasmissione sportiva Forza Italia (qui Berlusconi non c’entrava ancora), ma l’esplosione la ebbe con Quelli che il calcio e la consacrazione con Anima Mia, con lo sdoganamento di Claudio Baglioni, considerato fino ad allora un cantante “qualunquista”.
Il suo apice è stato il Festival di Sanremo, per poi andarsene a La7, restando a piedi quasi subito ma con un cospicuo conto in banca. Un po’ di silenzio e poi l’approdo a mamma Raitre. Dalle imitazioni alla cultura, dall’intrattenimento puro al pretender d’essere un maestro di pensiero.
Il nostro conduttore può sempre dire di essere laureato in Lettere, ciò non toglie che in questi anni si è tolto la maschera dell’intrattenitore per mettersi quella dell’anchorman illuminato.
La trasmissione ha una struttura molto semplice: si susseguono alcuni ospiti intervallati dai comici del calibro di Antonio Albanese e Luciana Littizzetto. Gli ospiti sono vari, dal politico allo scrittore, dal cantante al calciatore, etc.. ed ogni tanto riesce in alcuni colpi grossi, come l’ospitata di Veltroni sbattendosene della par-condicio (esiste solo per Emilio Fede), l’intervista a Ingrid Betancourt e sabato sera al papà di Eluana.
Lo studio è all’insegna di Fazio: una postazione trono da cui intervista gli ospiti, grandi schermi con un cielo azzurro con belle nuvole bianche in stile new-age. Un look informale, camicia con colletto piccolo e cravatte con nodini da bambini (che abbiano l’elastico?), una faccia pulita, capello corto, pizzetto regolare con aria da conduttore un po’ ingenuo. Un tono sempre positivo e buonista senza mai però un contraddittorio con gli ospiti, anzi con quelli politici quasi uno zerbino camuffato.
Chetempochefa ha la pretesa di essere una trasmissione culturale, che crea opinione, e che lancia messaggi, soprattutto sotto l’aspetto morale. E lo fa, in maniera pacata e camuffata, schierata Faziosamente (scusate il gioco di parole ma ci sta bene) con un pensiero di sinistra illuminato e giusto moralmente alla Eugenio Scalfari. Un conduttore che si impone per i modi cortesi ed apparentemente ingenui che forse prima o poi vedremo a fianco di Veltroni.
QUEI FIGLI – DICE IL PAPA – NON SONO VOSTRI - Sono in buone mani. Fidiamoci di Dio - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 gennaio 2008
Domenica, Benedetto XVI ha battezzato dei bambini. «Ne sono veramente contento», ha detto, con una semplicità che si è fatta, nell’austerità della Sistina, linguaggio familiare. E felici erano quelle madri, quei padri, che si vedevano battezzato dal Papa il proprio figlio: l’eco di quella gioia l’avevano scritto sulla faccia, e negli sguardi commossi e umanamente orgogliosi, fissi sul 'loro' bambino. Ma a queste madri, e padri, e a tutti gli altri padri e madri, Benedetto XVI ha detto una cosa importante, anzi fondamentale: «Il bambino non è proprietà dei genitori, ma è affidato dal Creatore alla loro responsabilità, liberamente e in modo sempre nuovo, affinché essi lo aiutino ad essere un libero figlio di Dio». Questi figli, ha detto dunque il Papa, non sono 'vostri'. Affermazione non nuova, eppure per niente scontata in un tempo in cui di figli se ne hanno pochi, e su quei pochi, o quell’unico, si concentrano aspettative, e possesso. Provate a immaginare di dire a una coppia in contemplazione estatica del proprio primogenito davanti alla nursery di un ospedale: questo figlio, non vi appartiene. Come, non ci appartiene? – obietterebbero in molti. Ma se ci somiglia così tanto, anzi, è identico a suo padre; ma se l’abbiamo voluto, e anzi programmato, e lo chiameremo come il nostro calciatore preferito – che bello, se gli somigliasse. Cosa significa, che questo figlio non è 'nostro'? Significa appunto che è di un altro, dice il Papa, fedele alla più antica tradizione cristiana: «Il battesimo è questo: restituiamo a Dio ciò che da Lui è venuto». Ciò che non ci può appartenere, in quanto non l’abbiamo fatto noi. E questo lo sanno più istintivamente le donne, o almeno quelle non totalmente distratte. Che quando sono incinte, e quando poi avvertono in sé i primi movimenti del bambino, hanno un istante di naturale stupore, al manifestarsi di quella vita spuntata da due infinitesimali cellule. E spesso, se si fermano a pensare, tremano: si sta formando il suo cervello, il suo cuore, e io non so neppure lontanamente come. La coscienza di questa abissale inadeguatezza oggi si declina facilmente in un’ansia: superesami, supercontrolli, ecografie continue a spiare, sospettose di 'difetti', il buio uterino. È il principio del possesso: 'nostro figlio', deve essere perfetto. È la propria pretesa sullo sconosciuto misteriosamente in arrivo. E d’altra parte, come liberarsi dalla paura, se nessuna scienza può davvero garantirci la piena salute di un figlio? La risposta per i cristiani sta proprio nella certezza che i figli appartengono a Dio. Che chi li ha suscitati dal nulla ne è il vero padre, colui che prima che la madre li concepisse già li conosceva, come dice un salmo. Un Dio padre che trae i suoi figli dentro un disegno buono, anche nella più estrema drammaticità. Questo 'altro' padre tacitamente presente è il punto di equilibrio fra la possessività viscerale che fa dei figli cose proprie, e l’abbandono alle pure istintive inclinazioni di quei figli cresciuti – in molti da trent’anni a questa parte – come senza alcun padre. Tra questi due estremi, di cui oggi vediamo ogni giorno esempi che smarriscono nelle cronache dei giornali, il Papa ricorda una antica terza via: «affidare i figli alla bontà di Dio», e insegnare loro a chiamarlo Padre. Come un allargarsi del cielo sulle nostre preoccupazioni: cosa farà, dove andrà, chi diventerà. Come nelle parole di quel contadino di Charles Peguy, disperato perché i suoi bambini erano malati: che decide affidarli, anzi di metterli fra le braccia della Madonna, perché in realtà sono figli 'suoi'. E se ne va poi sgravato da una troppo grande angoscia: comunque certo ora, per quei figli, di un destino buono.
1) All'Angelus il Papa parla del vi Incontro mondiale delle famiglie che si apre mercoledì a Città del Messico - La responsabilità dell'educazione – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
2) Storie di conversione: attraverso il suo personale itinerario uno scrittore e giornalista racconta i sogni e le delusioni della generazione del Sessantotto - Il sabotaggio della speranza di John Waters – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
3) 12/01/2009 15:09 – INDIA - Orissa, insicurezza e odio per i cristiani cacciati dai campi profughi - di Nirmala Carvalho - Il governo chiude i campi e dà compensi irrisori. I cristiani che tornano alle loro case distrutte devono vivere affianco ai loro persecutori. Ai fedeli si rifiuta di offrire lavoro a giornata e i negozianti si rifiutano di vendere qualunque provvista.
4) Due articoli di Antonio Socci: 2009 CROLLO DEL CAPITALISMO ? LEGGERE RATZINGER E CAPIRE …. - IN ATTESA DEL FILM SUL GULAG SAVIANO S’ISPIRA A SALAMOV, MA EGLI E’ ….
5) Crisi economica e dottrina sociale della Chiesa - Il fallimento delle scorciatoie finanziarie - Il 16 gennaio uscirà il numero 6/2008 della rivista bimestrale "Vita e pensiero". Anticipiamo stralci di uno degli articoli. - di Simona Beretta Università Cattolica del Sacro Cuore – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
6) Natale in India. "Non c'era posto per loro nell'alloggio" - Ancora in fuga nelle foreste migliaia di vittime dei massacri anticristiani. Le autorità vaticane si mobilitano per contrastare il fanatismo induista. Ma sul terrorismo musulmano sono elusive. L'islamologo Troll denuncia i rischi di questa inerzia - di Sandro Magister
7) MEDIO ORIENTE/ A Gaza una guerra in cui perdono tutti - Redazione - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) BIOETICA/ Quando “giocare” con gli embrioni non migliora la qualità della vita - Marco Bregni, Roberto Colombo - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) STORIA/ Negri: per capire la Chiesa occorre liberarsi dai pregiudizi della modernità - Luigi Negri - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) TV/ Beppino Englaro e la Hack nel talk di Fazio: il triste catechismo del nichilismo di sinistra - Gianni Foresti - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
11) QUEI FIGLI – DICE IL PAPA – NON SONO VOSTRI - Sono in buone mani. Fidiamoci di Dio - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 gennaio 2008
All'Angelus il Papa parla del vi Incontro mondiale delle famiglie che si apre mercoledì a Città del Messico - La responsabilità dell'educazione – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
La responsabilità dell'educazione dei figli che spetta ai genitori è stata sottolineata all'Angelus di domenica 11 gennaio da Benedetto XVI, che ha ricordato il vi Incontro mondiale delle famiglie, in programma a Città del Messico dal 14 al 18 gennaio. Nella festa del Battesimo del Signore, al termine della messa nella Cappella Sistina durante la quale ha amministrato il sacramento a tredici neonati, il Papa si è affacciato dalla finestra dello studio privato per la preghiera mariana con i fedeli convenuti numerosissimi in piazza San Pietro.
Cari fratelli e sorelle!
Nell'odierna Domenica che segue la solennità dell'Epifania, celebriamo il Battesimo del Signore. Fu questo il primo atto della sua vita pubblica, narrato in tutti e quattro i Vangeli. Giunto all'età di circa trent'anni, Gesù lasciò Nazaret, si recò al fiume Giordano e, in mezzo a tanta gente, si fece battezzare da Giovanni. Scrive l'evangelista Marco: "Uscendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento" (Mc 1, 10-11). In queste parole: "Tu sei il Figlio mio, l'amato", si rivela che cos'è la vita eterna: è la relazione filiale con Dio, così come Gesù l'ha vissuta e ce l'ha rivelata e donata.
Stamani, secondo la tradizione, nella Cappella Sistina, ho amministrato il Sacramento del Battesimo a tredici neonati. Ai genitori, ai padrini e alle madrine, il celebrante di solito domanda: "Che cosa chiedete alla Chiesa di Dio per i vostri bambini?"; alla loro risposta: "Il Battesimo", egli replica: "E il Battesimo che cosa ci dona?". "La vita eterna", essi rispondono. Ecco la stupenda realtà: la persona umana, mediante il Battesimo, viene innestata nella relazione unica e singolare di Gesù con il Padre, così che le parole risuonate dal cielo sul Figlio Unigenito diventano vere per ogni uomo e ogni donna che rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo: Tu sei il figlio mio, l'amato.
Cari amici, quant'è grande il dono del Battesimo! Se ce ne rendessimo pienamente conto, la nostra vita diventerebbe un "grazie" continuo. Quale gioia per i genitori cristiani, che hanno visto sbocciare dal loro amore una nuova creatura, portarla al fonte battesimale e vederla rinascere dal grembo della Chiesa, per una vita che non avrà mai fine! Dono, gioia, ma anche responsabilità! I genitori, infatti, insieme con i padrini, devono educare i figli secondo il Vangelo. Questo mi fa pensare al tema del vi Incontro Mondiale delle Famiglie, che si svolgerà nei prossimi giorni a Città del Messico: "La famiglia formatrice nei valori umani e cristiani". Questo grande meeting familiare, organizzato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, si svilupperà in tre momenti: dapprima il Congresso Teologico-Pastorale, nel quale verrà approfondita la tematica, anche mediante lo scambio di esperienze significative; quindi, il momento di festa e di testimonianza, che farà emergere la bellezza di incontrarsi tra famiglie di ogni parte del mondo, unite dalla stessa fede e dallo stesso impegno; e infine la solenne Celebrazione eucaristica, come azione di grazie al Signore per i doni del matrimonio, della famiglia e della vita. Ho incaricato il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone di rappresentarmi, ma io stesso seguirò con viva partecipazione lo straordinario evento, accompagnandolo con la preghiera e intervenendo in videoconferenza. Fin da ora, cari fratelli e sorelle, vi invito ad implorare su quest'importante incontro mondiale delle famiglie l'abbondanza delle grazie divine. Lo facciamo invocando la materna intercessione della Vergine Maria, Regina della famiglia.
Storie di conversione: attraverso il suo personale itinerario uno scrittore e giornalista racconta i sogni e le delusioni della generazione del Sessantotto - Il sabotaggio della speranza di John Waters – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
Forse ogni generazione è destinata a commettere un reato contro quella successiva, sebbene la natura di questi reati sembri mutare nel tempo. Nelle nostre culture il rancore per i presunti errori commessi dalla generazione dei nostri padri più di 40 o 50 anni fa viene ampiamente alimentato. Questi presunti errori hanno avuto a che fare con l'imposizione di regole non spiegate correttamente, che quindi sono apparse arbitrarie e, in qualche modo, ricattatorie. Ad ascoltare le voci più altisonanti nelle nostre culture, si immagina che questi errori proseguano tutt'ora, quando invece, nella misura in cui ci sono stati, appartengono al passato. Oggi le generazioni che all'epoca si appropriarono del potere culturale attraverso la ribellione contro i vecchi guastafeste, scatenata dal desiderio di essere liberi, commettono un errore collegato, ma completamente diverso: il rifiuto di essere sinceri sull'esperienza della libertà.
A quel tempo, negli anni Sessanta, la libertà era definita per un'intera generazione in termini che lasciavano capire che non era stata mai provata prima. Era stata provata molte volte certo, ma forse non da un'intera generazione contemporaneamente. La definizione era semplice: la libertà è il diritto di fare ciò che si vuole. Secondo la logica di tale definizione solo la misantropia e i divieti si interponevano fra gli esseri umani e la perfetta soddisfazione.
La rivoluzione scaturita da quest'idea ha cambiato il mondo, ma senza modificare la natura umana. Ora gli esseri umani sono molto più liberi di quanto lo siano mai stati prima secondo questi criteri. Tuttavia non sono più felici, e forse lo sono di meno. Nonostante questo, la nostra cultura continua a tenere alta la fiaccola di questa idea di libertà, come se non fosse mai stata messa in discussione o confutata, trasmettendo ai giovani di oggi lo stesso messaggio sulla natura della libertà e condannandoli a entrare negli stessi vicoli ciechi.
Essenzialmente ciò accade perché coloro che quaranta anni fa sottrassero la loro libertà alle autorità dell'epoca hanno poi rifiutato di descrivere in maniera veritiera la natura delle loro esperienze. Quindi nelle nostre culture restano le stesse delusioni che, come trappole per orsi, attendono i giovani. Consideriamo qualcosa che accade tutti i giorni: sei sull'autobus e ascolti la conversazione fra due giovani su come si sono ubriacati la sera precedente. Uno dice di aver bevuto 14 pinte di birra e di essersi sentito male. L'altro risponde di aver bevuto talmente tanto da svenire. Ridono fragorosamente. Uscendo per un attimo dalla mentalità diffusa, non è forse evidente che, oggettivamente, si tratta di un fenomeno strano? Due giovani sani che si vantano del danno che hanno inferto all'unico corpo che possiedono? Che cosa significa?
Perché si vantano in realtà? Perché hanno sperimentato ciò che intendono per libertà. Hanno sfidato alcuni aspetti di un divieto immaginato e hanno fatto qualcosa che viene disapprovato. Sono ribelli. Da giovane ho fatto questi discorsi molte volte. Nel mio libro Lapsed agnostic, pubblicato lo scorso anno, ho descritto le mie esperienze di libertà, ricorrendo all'esempio dell'alcol e cercando di essere sincero su quanto avevo vissuto.
Quando ne parlo mi chiedono perché sono così sincero e io rispondo "perché nessun altro lo è". Questa storia non è una confessione, ma la descrizione della scoperta dei limiti della mia umanità. Ho seguito la via consigliata verso la libertà finché ho raggiunto il precipizio della mia personale capacità di soddisfazione. Solo da lì sono riuscito a guardare, a distanza, la realtà assoluta alla quale ero strutturalmente legato.
Sono nato nel 1955, per cui ho più o meno l'età del rock 'n 'roll. Questo è importante per me perché sento di aver vissuto in un'epoca in cui stava accadendo qualcosa di coerente, qualcosa con un inizio, una metà, e, non così lontano nel tempo, una fine, una destinazione fantasma che prometteva la perfetta felicità.
L'elemento rock 'n' roll non è casuale: dal punto di vista culturale e ideologico esprime il concetto di libertà approvato dall'umanità occidentale nel corso della mia vita. Il rock 'n' roll ha una sorta di aura di rivoluzione permanente, senza tempo, di sfida a tutto, inclusa la natura stessa. Quarantatré anni fa, il gruppo musicale inglese The Who, nel suo inno di rifiuto, cantava "spero di morire prima di diventare vecchio", trasmettendo la mentalità di quell'epoca di libertà.
La cosa importante era rimanere giovani perché da giovani era possibile evitare di affrontare la questione del significato ultimo. Il problema dell'aldilà non si poneva non solo perché, parlando relativamente, era lontano, ma anche perché la sua logica si frapponeva fra noi e il raggiungimento della felicità e della soddisfazione qui e ora. La giovinezza divenne il centro della cultura che abbiamo creato emergendo dalla rivoluzione degli anni Sessanta. Se ci si potesse autocongelare culturalmente in un determinato momento di tempo, non ci sarebbe bisogno di credere in null'altro che nella propria capacità di essere felici secondo il proprio concetto di felicità. A vent'anni, cinque anni sembravano un'eternità in cui divertirsi a infrangere tutte le regole imposte dai vecchi per ridurre la libertà. Morire non era tanto andare in un posto migliore, una questione che la cultura rimuoveva, ma risparmiarsi l'umiliazione del decadimento. Lo straordinario è che le generazioni entrate nella sfera pubblica fra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta e che oggi controllano le leve del potere nelle nostre società sono riuscite a perpetuare l'idea del rimanere giovani anche molto tempo dopo la fine della loro stessa giovinezza. Hanno creato una cultura in cui l'essere senza età è fondamentale, sebbene la delusione insita nel carattere di questa aspirazione sia ovvia e inevitabile.
Ho fatto parte di queste generazioni, crescendo al centro di questa cultura, profondamente immerso in essa come critico del rock e scrittore. Sto cominciando a trovare modi per descrivere in modo autentico questa esperienza, ma non è facile. Poiché la cultura era definita dall'etica della ribellione e la morale di tale ribellione era evidente per chiunque vi fosse implicato, è difficile descrivere cosa si è vissuto senza apparire come uno che ha cambiato posizione, ha tradito l'idea di libertà o semplicemente è impazzito. Tentare di descrivere la realtà al di fuori della campana di vetro della cultura significa assumere le sembianze di un traditore, divenire reazionario, il che viene subito attribuito di solito alla crisi di un uomo di mezz'età.
Forse è proprio così, ma questa crisi cosa può significare se non che il viaggio dell'essere umano sulla terra è definito, fra le altre cose, dalla scoperta graduale del paradosso definitivo: la mortalità che apre la strada all'eternità? Ora sento che solo di recente ho cominciato a pensare a me stesso per quello che sono veramente e che, fino a poco tempo fa, la cultura cospirava insieme al mio desiderio di rendere razionale il mio sogno di libertà per impedirmi di parlare della verità su me stesso. Sento che, per la maggior parte della mia vita, la cultura è riuscita a bloccarmi o a dissuadermi dal percepire me stesso in maniera autentica. Poiché abbiamo creato una cultura che resta giovane anche se noi invecchiamo, una cultura che istilla in ognuno di noi un senso di alienazione a cui rispondiamo o ritirandoci nella vita privata oppure stando al gioco e cercando di non perdere la presa della giovinezza più a lungo possibile.
Questa cultura nasconde un significato centrale, ma nega di farlo. In tutto il suo sproloquiare di promesse non riesce a suggerire una meta ultima, ma, al contempo, sostiene la sua esistenza. La questione è rimossa non tanto nel dibattito formale delle nostre società, dove la questione dello scopo della vita dell'uomo è in un certo senso "coperta", ma proprio negli atomi stessi della cultura, negli assunti e nelle convenzioni che governano la realtà, in ciò che si trasmette con le parole, nelle ombre dei concetti che diamo per scontati nella vita quotidiana.
Si tratta di una cultura che sabota la speranza; la speranza è possibile, ma viene allontanata dallo sguardo l'unica fonte che esiste al di là della paccottiglia e delle emozioni offerte dal mercato. Una cultura formatasi in duemila anni sulla base della consapevolezza di Cristo è stata ridotta in quarant'anni a una cultura in cui la speranza è definita solo dalla prospettiva di qualcosa in più rispetto a ciò che già non è riuscita a soddisfare. La cultura ci dice con insistenza che se abbiamo vissuto di chiacchiere e sensazioni e non siamo soddisfatti è solo perché abbiamo fatto le cose in modo sbagliato. Non abbiamo indossato la paccottiglia nel modo giusto oppure non ci siamo esercitati abbastanza a vivere appieno le emozioni. È una questione di tecnica o di atteggiamento o, forse, di scarsi "aiuti chimici".
E, stranamente, non importa quante volte la nostra esperienza personale ci dice che queste promesse sono sospette, la forza del messaggio continua a convincerci che la causa dell'insoddisfazione è in qualcosa di non adeguato dentro di noi. Nei casi più estremi, gli abitanti insoddisfatti e quindi inadeguati del mondo del mercato vengono definiti vittime di patologie o di malattie. Sono depressi o tossicodipendenti o semplicemente disturbati.
Poiché le nostre società sono guidate da questi malintesi sulla libertà e noi temiamo che se le nostre illusioni venissero messe a nudo non avremmo più nulla per cui vivere, rifiutiamo di guardare all'orizzonte assoluto della realtà, che nelle nostre culture non è giunto a significare altro che l'orlo dell'abisso, a cui occasionalmente diamo una sbirciatina con la coda dell'occhio. Quando, di tanto in tanto, forse al funerale di un amico o davanti allo sfogo di disperazione di un altro, ci troviamo faccia a faccia con la realtà, distogliamo lo sguardo con terrore e sconcerto.
In questa cultura la fede è condannata ad avere la funzione di consolazione per quanti non sono all'altezza.
La mentalità diffusa rende impossibile abbracciare Cristo senza apparire, anche a se stessi, come qualcuno che si è arreso al sentimento e alla paura. E la stessa cultura religiosa spesso accetta di essere ridotta a questo concetto limitato. La parola "secolarizzazione" non è in grado di comunicare alle società moderne che cosa è accaduto. È una parola strana. Ha un significato ambiguo. Suggerisce un ritiro dal sacro, ma anche un rifiuto della religione organizzata. Viene utilizzata anche per descrivere il processo di separazione fra Stato e Chiesa. Tende a essere utilizzata in riferimento a un processo politico che usurpa il ruolo della fede e della religione nella società. Tuttavia, curiosamente, la stessa parola è usata sia da quanti approvano questo processo e lo guidano sia da quanti lo contrastano.
Ma è inadeguata a descrivere la situazione, la divisione tra mondo religioso e mondo materiale, e la scomparsa della consapevolezza che esiste una realtà "assoluta".
In effetti, le nostre società vengono costruite per celare alla vista la possibilità della coscienza di una dimensione infinita, eterna o assoluta: riceviamo un nuovo soffitto che crea l'illusione che gli esseri umani possano funzionare entro uno spazio autodefinito e perfino autocreato.
Il concetto di secolarizzazione non fa nulla per metterci in guardia contro l'enormità di questo mutamento nella nostra cultura, significando semplicemente una liberazione dalle catene dell'autorità religiosa, cosa che è ambigua al massimo. Per descrivere quello che sta accadendo abbiamo bisogno di un'altra parola. Quella che mi è venuta in mente è "deassolutizzazione", che descrive un processo esistenziale e politico, l'esclusione di Cristo dalla cultura. Tuttavia, come per molti aspetti dei mutamenti culturali fondamentali che si stanno verificando, parliamo poco di questo fenomeno. I cristiani mettono continuamente in guardia contro le sue conseguenze, ma, in qualche modo, sembrano parlare di qualcosa che è preoccupante da un punto di vista solo istituzionale. Cristo è invocato nel contesto dell'autorità ecclesiale o almeno così sembra. Ad ascoltarli, le conseguenze della perdita di Cristo sembrano avere a che fare con la perdita di valori morali e forse con la perdita della possibilità di consolazione nelle prove e nelle sofferenze della vita.
Data la natura superficiale dell'esperienza educativa cristiana da parte delle nostre società, ciò appare come la perdita di qualcosa di opzionale e non di qualcosa che è centrale per l'esistenza. Dal momento che la dottrina cattolica ha evidenziato la morale rispetto ad altri aspetti della proposta cristiana, tutti i riferimenti a Cristo tendono a essere letti nelle nostre culture come ammonimenti contro la perdita del Suo amore a causa del peccato. L'idea che, nel perdere il contatto con Cristo, perdiamo qualcosa di fondamentale per la nostra natura umana, semplicemente non viene espressa. Può anche essere presente nell'intenzione di chi parla, ma non si comunica attraverso la nebbia della cultura.
La nostra idea culturale semplicemente non comprende il significato dell'amore di Cristo, che non è qualcosa di opzionale e sentimentale, un accessorio a scelta che si può abbandonare senza conseguenze immediate. L'idea che la persona e la presenza di Cristo incarnano qualcosa di vitale, qualcosa di indispensabile alla natura umana, qualcosa di non negoziabile all'interno della condizione umana, è talmente strana nelle nostre culture cristiane che molte persone che non hanno difficoltà a dirsi cristiane, in questi altri termini rimarrebbero scioccate da queste implicazioni.
È possibile aver sentito parlare di Cristo per tutta la vita ed esserci lasciati sfuggire questo aspetto? Sicuramente no. Perché nessuno ce lo ha detto prima? Le implicazioni di questo, di certo, hanno una portata ancor più vasta. Quello che suggerisce è infatti che il processo di deassolutizzazione stava verificandosi già prima di quella che chiamiamo secolarizzazione. Quest'ultima ha quindi trovato un terreno già fertile e ha potuto piantare i suoi semi senza molto sforzo. Ciò suggerisce che il messaggio cristiano stesso, come viene trasmesso in numerose nostre società cristiane, ha evidenziato molti elementi secondari e discorsi sull'essenza della proposta cristiana, ma non è riuscito a trasmettere alla cultura che il significato essenziale è che Cristo ci può liberare dai limiti della nostra umanità.
Se questo sembra ovvio ad alcuni lettori, posso assicurarvi che sembrerà oscuro alla maggior parte di essi. Le parole stesse con le quali questa idea viene espressa non riescono a trasmettere il suo significato perché sono ormai abusate, limitate e ridotte a sentimentalismo.
Le dichiarazioni sul significato di Cristo nella nostra cultura sono ascoltate solo da chi è già convinto ed è impossibile capire dalle loro risposte che cosa intendano precisamente.
A giudicare dalle parole che utilizzano per rispondere, pare che abbiano recepito soltanto l'idea sentimentale o l'idea autoritaria o l'idea morale o una delle idee superficiali che sono state "appiccicate" alle nostre culture nel nome di Cristo. Ma talvolta sembrano consapevoli dell'idea più sensazionale che sia mai stata espressa.
Nell'agosto scorso, in occasione del "Meeting per l'amicizia fra i popoli" di Rimini ho parlato sul tema "il cristianesimo non è una dottrina, ma un incontro". Quando ho cominciato a pensare a questo tema prima dell'intervento sono rimasto colpito dal fatto che, per me, Cristo è ancora un'idea e che, sebbene io abbia ora, dopo molti anni di ricerca, il desiderio di incontrarlo, non l'ho ancora veramente fatto. Ho conosciuto molte persone che lo hanno incontrato o che mi hanno detto di averlo incontrato, ma sono ragionevolmente certo che per me rimane un'astrazione.
Ascoltando molte persone parlare di questo non mi ha convinto il contenuto letterale delle loro descrizioni ma il loro modo di vivere: sono certo che hanno incontrato qualcosa di eccezionale. Non ho dubitato che avessero incontrato Cristo, ma non sono riuscito a trarre dai loro discorsi qualcosa capace di portarmi nel luogo dove lo avevano incontrato.
Era come se le parole cadessero in pezzi appena pronunciate e non potessero essere riassemblate nelle mie orecchie. Peggio ancora: notavo in me stesso la tendenza a pretendere di comprendere quando invece non lo facevo, a imporre al mio comportamento una condivisione di quell'esperienza che di fatto restava per me misteriosa.
Da bambino ho ricevuto quella che immaginavo fosse una relazione profonda con Cristo. Crescendo nell'Irlanda degli anni Sessanta ero un bambino pio e devoto. Amavo Gesù oppure pensavo di amarlo. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Sarebbe stato impossibile non amare quell'essere perfetto, quel bel Gesù che era morto per salvarmi. Tuttavia, sulla soglia dell'età adulta, sedotto dalle libertà del mondo, gli ho voltato le spalle. Questo allontanamento è stato accompagnato da una grande carica emotiva, per lo più rabbia per gli abusi percepiti nella gestione del cristianesimo nella mia cultura, sebbene provassi anche altre emozioni. Ora mi colpisce che nemmeno una volta ho rivolto la mia rabbia alla persona di Gesù, nemmeno una volta gli ho rivolto un pensiero negativo, nemmeno una volta ho pensato di doverlo biasimare per qualcosa. È interessante perché non credo di essere l'unico.
Stranamente, sebbene le nostre culture abbiano voltato le spalle a Gesù, non l'hanno mai veramente rifiutato. Nonostante le numerose accuse contro la fede, la religione, la Chiesa e la Bibbia, nella nostra cultura nulla suggerisce che Gesù non sia stato un essere eccezionale. Questo è bizzarro e interessante.
È come se, sebbene l'impulso alla libertà ci abbia chiesto di allontanarci da Lui, l'abbiamo fatto con una certa riluttanza, un certo rimpianto. Infatti, se si tentasse di individuare l'emozione centrale che domina il nostro attuale rifiuto di Cristo, non si troverebbe rabbia o disprezzo, ma piuttosto qualcosa di simile alla vergogna. Ci vergogniamo di aver rifiutato Gesù, ma il nostro desiderio di libertà non sembrava offrirci alternativa perché Gesù era diventato inestricabilmente collegato alla precedente cultura di oppressione e negazione.
Capiamo o pensiamo di capire noi stessi fin troppo bene. Le nostre culture creano logiche chiuse ermeticamente che ci seducono con la loro simmetria. Le nostre idee autoreferenziali sulla nostra natura ci sembrano sempre più plausibili. Essendoci staccati da una coscienza assoluta della realtà, è difficile tornare a vedere noi stessi nella vecchia maniera, soprattutto perché non ce n' è un bisogno immediato e perché così facendo potremmo dover abbandonare certe idee sulla libertà. Il nome stesso di Gesù è stato contaminato da pregiudizi e timori che rendono impossibile pronunciarlo senza far suonare i campanelli di allarme che la cultura ha installato nelle nostre teste.
Cristo, dunque, viene reso periferico sia nel linguaggio sia nella realtà, anzi forse soprattutto nel linguaggio. Non viene completamente rifiutato, ma collocato in un limbo culturale, una figura alla quale associamo amore, consolazione e misericordia, ma nulla di concreto che ha a che fare con il presente.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 gennaio 2009)
12/01/2009 15:09 – INDIA - Orissa, insicurezza e odio per i cristiani cacciati dai campi profughi - di Nirmala Carvalho - Il governo chiude i campi e dà compensi irrisori. I cristiani che tornano alle loro case distrutte devono vivere affianco ai loro persecutori. Ai fedeli si rifiuta di offrire lavoro a giornata e i negozianti si rifiutano di vendere qualunque provvista.
Bhubaneshwar (AsiaNews) – Non ha fine il calvario dei cristiani in Orissa: il governo sta chiudendo tutti i campi profughi e sta cacciando via i cristiani. Allo stesso tempo, nessuno garantisce loro sicurezza contro le violenze e vi sono ancora segnali di odio e rifiuto verso di loro.
P. Nithiya, ofm, è fra i testimoni di queste nuove sottili violenze contro i cristiani di Kandhamal. Nella zona, dall’agosto scorso, gruppi di radicali indù hanno ucciso centinaia di persone, bruciato chiese e case, distrutto coltivazioni. Degli oltre 50 mila sfuggiti ai massacri, circa 20 mila hanno trovato rifugio in campi approntati dal governo. P. Nithiya, segretario esecutivo di Giustizia e pace, ha visitato alcuni di questi scampati nel villaggio di Gobalpur, usando terapie neuro-linguistiche per aiutare le persone a superare i traumi che ne sono seguiti.
“I campi di rifugio del governo vengono chiusi – dice ad AsiaNews – e la gente viene mandata via con un piccolo compenso di 10 mila rupie (circa 153 euro). La gente, piena di paura sta tentando di emigrare in altri distretti o altri Stati. La sicurezza la si mantiene nei grandi centri, ma nei villaggi lontani nulla è sicuro per i cristiani. É davvero ridicolo che il governo si sbarazzi dei cristiani con questo misero dono di 10 mila rupie”.
Kesamati Pradhan del villaggio di Kajuri, insieme ad altri suoi compagni di sventura, hanno presentato una denuncia all’Alta Corte dell’Orissa contro l’evacuazione forzata dei campi per le vittime di Kandhamal, senza “adeguate misure protettive per la vita, l’assistenza e il compenso per i danni”.
Le vittime, oltre a 10 mila rupie ricevono anche 50 kg di riso e un rotolo di polietilene, per riparare alla meglio le loro case danneggiate. Molti di loro ritornati nei villaggi, vivono fra le rovine; fogli di plastica vengono usati come tetto e qualche legno o pianta usata come muro. “I cristiani di Kandhamal sono trattati come animali: vivono ormai nella paura e non trovano riparo da nessuna parte. Non possono vivere con dignità: la somma data loro non è sufficiente nemmeno a comprare il cibo; i loro campi sono stati bruciati; le loro case sono ormai distrutte”.
Insicurezza e razzismo
La sicurezza però non esiste. “Due giorni fa – racconta una fonte da Raikia, dove sono avvenuti diversi massacri – nel villaggio di Mokobili, i gruppi estremisti indù hanno rintracciato i cristiani ritornati dai campi profughi, li hanno svegliati nella notte e li hanno minacciati. Davanti a questo, i ritornati non hanno nemmeno il desiderio di mettersi a riparare le loro case, per paura che i radicali indù gliele distruggano ancora. Si fa pressione su di loro perché ritirino le denunce contro le violenze perpetrate dai loro vicini, ma questo non è possibile. In più, da quando sono state presentate le denunce, non è stato compiuto nessun arresto e la nostra gente è costretta a vivere nelle loro case distrutte, a fianco dei loro persecutori o assassini”.
Fratel Oscar Tete, superiore dei Missionari della carità, il ramo maschile dell’ordine fondato da Madre Teresa, confessa che anche per loro “non vi è futuro certo”. La loro case e il lebbrosario a Srasananda (Kandhamal) sono stati distrutti due volte: nel dicembre 2007 e nell’agosto 2008. Ora essi hanno base a Berhampur, ma ogni settimana vanno a visitare i cristiani e i lebbrosi a Srasananda perché la loro presenza “è un conforto per la nostra gente”.
“Non sappiamo ancora se ripareremo la casa a Srasananda. Aspettiamo che si concludano le elezioni, poi ci penseremo. Ma la situazione è ancora più dolorosa per tanti nostri fedeli: questi sono lavoratori a giornata e nessuno offre loro lavoro. Anche se qualcuno ha dei soldi, i negozianti si rifiutano di vedere qualunque roba ai cristiani, perfino il cibo”.
Due articoli di Antonio Socci: 2009 CROLLO DEL CAPITALISMO ? LEGGERE RATZINGER E CAPIRE …. - IN ATTESA DEL FILM SUL GULAG SAVIANO S’ISPIRA A SALAMOV, MA EGLI E’ ….
2009 CROLLO DEL CAPITALISMO ? LEGGERE RATZINGER E CAPIRE ….
Il 1989 segnò il crollo dell’Est comunista. Venti anni dopo, il 2009, vedrà il crollo dell’Occidente? Nouriel Roubini parla della “più grande bolla finanziaria e creditizia della storia”. E afferma senza indugio: “Il sistema finanziario del mondo ricco si sta dirigendo verso un crollo”. Non è solo un disastro finanziario, perché il Mercato è stato la moderna religione dell’Occidente: è anche un fallimento ideologico e morale.
La tempesta è appena cominciata e non si sa quando e come ne usciremo. Personalmente consiglio di tener presenti due bussole per non smarrirvisi del tutto. Dirò dopo i loro nomi. Ma prima facciamo un passo indietro. Prima bisogna riconoscere l’enormità del fallimento dell’Occidente. Bisogna evitare di usare lo stesso paraocchi ideologico dei comunisti, che, incuranti delle smentite della storia, continuavano a professare il “dottrina marxista” come la scienza economica e sociale definitiva e infallibile. Certi liberisti puri e duri oggi sono egualmente dogmatici.
Il muro di Ostellino
Ieri, sul Corriere della sera, Piero Ostellino, commentando i recenti dati natalizi sul ribasso dei prezzi e il relativo aumento del potere d’acquisto delle famiglie, ne traeva questa singolare conclusione: “il mercato ha messo le cose a posto da solo. Non c’è stato bisogno dell’intervento della politica. Che avrebbe fatto danni. I prezzi sono scesi a causa della crisi economica”.
Non c’è stato bisogno dell’intervento della politica? Viene da chiedersi in che pianeta viva Ostellino. Forse non gli è giunta la notizia del più gigantesco intervento degli Stati nelle economie americane ed europee degli ultimi 50 anni, intervento che (solo) per ora che ha evitato la catastrofe finanziaria del mondo (facendoci trascorrere un Natale non tragico). Intervento tuttora in corso che molto altro dovrà fare.
Certo, bastava già tener presente la crisi del ’29 e quello che ne seguì per rendersi che lo Stato è un attore fondamentale dell’economia moderna. Forse la novità di oggi è che pure l’intervento pubblico potrebbe non bastare più. Il “rischio Argentina”, la bancarotta, è un fantasma che agita i sonni di tanti. In ogni caso per evitarlo o per limitare il disastro o per rinascere dalle macerie, bisogna disporre di un pensiero della crisi, capire l’errore e trovare una diversa strada.
I due avversari
Il crollo del comunismo del 1989 ebbe un’interpretazione ufficiale, tanto sbandierata quanto sbagliata. Fu il testo di Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo” (1992). Vi si proclamava l’Occidente democratico e capitalistico come universale approdo della storia del mondo. Il “trionfo dell’Occidente” che pretendeva di concludere idealmente la storia fu tradotto dagli Usa di Clinton con il “pensiero unico” del mercato e dell’uomo consumatore (il primato assoluto dell’economia ebbe la sua traduzione tecnocratica anche nell’Europa della moneta unica).
Al regno universale del mercato fu annessa anche la Cina (ufficialmente nel 1994 con l’ingresso nel WTO) e nacque quella che Giulio Tremonti ha chiamato la “Chimerica”, ovvero Cina più America. Con la new economy e con il sistema statunitense che continuava a indebitarsi per finanziare i consumi privati e la Cina che produceva per l’Occidente comprando il debito degli americani. Sono le premesse del collasso odierno.
Nel 2001 ci fu la prima smentita della storia: l’11 settembre, le “Torri gemelle”, così vicine a Wall Street. Cosa significava quel fatto lo aveva spiegato in anticipo Samuel Huntington nel suo “Lo scontro di civiltà” (1996). Huntington criticava il “nuovo ordine mondiale”, in polemica con Fukuyama, spiegando che non esiste solo il mercato e che la storia è fatta di diverse civiltà, culture, religioni e identità. Le quali non si fanno spazzar via dalla religione del produrre e consumare. Huntington ammonì che quella mercatista era una “illusione di armonia destinata ben presto a rivelarsi appunto tale”.
Infatti arrivò l’11 settembre 2001. Confermando l’analisi di Huntington che vedeva la cultura islamica fra le più refrattarie all’omologazione occidentale. Paradossalmente il testo di Huntington fu poi usato (suo malgrado) in chiave “neocon” come premessa ideologica del progetto di esportazione della democrazia, ovvero delle guerre di Bush. Che è stato un altro tentativo – fallito – di omologare il mondo al modello occidentale.
Finché è esplosa definitivamente la crisi del sistema americano. Ma perché siamo arrivati a questo? Dove abbiamo sbagliato? E’ inverosimile che ad accendere una luce siano coloro che hanno provocato la notte. Ma dov’è un intellettuale, un libro, un pensiero che può accendere una luce diversa nella notte?
Buttare Smith
Consiglio un profetico saggio di Joseph Ratzinger del 1985 che annunciava (con anni di anticipo) sia il crollo del comunismo che del capitalismo liberista. E li prevedeva provocati da uno stesso errore filosofico. Da una stessa ideologia. Il saggio sarà ripubblicato su “Communio” di gennaio 2009 e probabilmente rappresenta una premessa dell’annunciata enciclica a cui si dice abbia collaborato pure Giulio Tremonti (che ha citato questo testo di Ratzinger nella sua recente prolusione alla Cattolica di Milano). In sintesi Ratzinger punta il dito sull’idea “risalente a Adam Smith” che sta alla base del pensiero liberista e della rapacità e degli errori che hanno portato gli Usa al collasso. Per questa idea “il mercato è incompatibile con l’etica, giacché i componenti volontaristicamente ‘morali’ sono contrari alle regole del mercato e non farebbero altro che tagliar fuori dal mercato gli imprenditori ‘moraleggianti’. Per questo l’etica economica è stata considerata per molto tempo come un ‘ferro di legno’, perché nell’economia si deve guardare solo all’efficienza e non alla moralità. La logica interna del mercato ci dispenserebbe dalla necessità di dover fare affidamento sulla moralità più o meno grande del singolo soggetto economico, in quanto il corretto gioco delle regole del mercato garantirebbe al massimo il progresso e pure l’equità della distribuzione”. Sebbene si definisca “liberista”, obietta Ratzinger, questa filosofia, nella sua essenza, è “deterministica” perché presuppone che “il libero gioco delle forze di mercato spinga verso una sola direzione, cioè verso l’equilibrio fra offerta e domanda, verso l’efficienza economica e il progresso”, con lo “sconcertante presupposto” che “le leggi naturali del mercato sono essenzialmente buone e conducono necessariamente al bene, senza dipendere dalla moralità della singola persona”.
La realtà dice l’opposto e non solo con la crisi attuale, ma – già prima - con le grandi contraddizioni planetarie prodotte dall’economia capitalistica: la fame e la miseria di tre quarti dell’umanità, squilibri e tensioni sociali crescenti e gravissime devastazioni ambientali. Il marxismo, spiega Ratzinger, è un “determinismo” ancora più spinto, perciò più violento e fallimentare (“promette la totale liberazione come frutto di un determinismo”). Entrambi i casi si basano sull’utopia ideologica di un meccanismo così perfetto – come diceva Eliot – da rendere inutile all’uomo essere buono. Invece, spiega Peter Koslowski, “l’economia non è retta solo dalle leggi economiche, ma è guidata dagli uomini”.
L’eliminazione del “fattore uomo” nel marxismo è stata radicale. Nel liberismo più sfumata, ma simile e alla fine il profitto come regola a se stesso ha prodotto il disastro. Occorre qualcosa che stia sopra al profitto e sopra al meccanismo della produzione. Ma qua la crisi planetaria si intreccia con la scelta individuale, con ciò che rende personalmente “buono” l’essere umano. Quindi con Dio. Tremonti nel suo libro “La paura e la speranza” ha il merito di averlo intuito. E di aderire all’appello della Chiesa – davanti a questa grande crisi di civiltà - di un radicale ripensamento delle nostre scelte individuali e collettive, di un’autocritica e di una grande conversione.
Antonio Socci Da “Libero”, 4 gennaio 2009
IN ATTESA DEL FILM SUL GULAG SAVIANO S’ISPIRA A SALAMOV, MA EGLI E’ ….
A 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, mentre nelle scuole circolano tuttora libri di testo secondo i quali tale Muro fu eretto dagli Occidentali e fu abbattuto dai comunisti, il comunismo e i suoi orrori rappresentano il grande rimosso della coscienza moderna e della cultura mondiale, il grande buco nero che si è ingoiato perfino la memoria di centinaia di milioni di vittime.
Cosicché oggi, su questa immane rimozione, di fronte al collasso del mercatismo, capita che si parli sui giornali di una “riscoperta di Marx” e addirittura il ministro tedesco delle Finanze Peer Steinbruck dichiara che le risposte di Marx ai problemi attuali “possono non essere irrilevanti”. Allegria!
Non un solo film, in venti anni, è stato dedicato alla sterminata macelleria del Gulag planetario e alle milioni di storie falciate dalla sistematica pratica dello sterminio e dell’oppressione, che ha caratterizzato i regimi marxisti sempre e dovunque, a tutte le latitudini e in tutte le loro stagioni. Neanche un film, né una grande opera teatrale. Qualcuno potrà indicare una pellicola come “Le vite degli altri”, ma questo film, che pure fotografa il clima poliziesco di menzogna e paura dei regimi dell’Est, non è un film sul Gulag. Ed è un lodevole, ma isolatissimo caso.
Alain Besançon, nel suo recente pamphlet “Novecento. Il secolo del male” (Lindau) ha scritto: “Il nazismo, nonostante sia scomparso completamente da più di mezzo secolo, è a giusto titolo l’oggetto di un’esecrazione che non accenna a diminuire. Gli studi carichi di orrore al riguardo aumentano ogni anno di profondità e di ampiezza. Il comunismo, invece, nonostante sia vicino nel tempo e caduto di recente, fruisce di un’amnesia e di un’amnistia che raccolgono il consenso quasi unanime, non solamente dei suoi partigiani – ne esistono ancora – ma anche dei suoi nemici più determinati; e perfino delle sue vittime. Tutti trovano disdicevole trarlo fuori dall’oblio. Qualche volta capita che la bara di Dracula si socchiuda. E così, alla fine del 1997, un’opera (‘Il libro nero del comunismo’) ha osato fare la somma dei morti che gli si possono ascrivere. Proponeva una forbice da 85 a 100 milioni di morti. Lo scandalo è durato poco, e la bara si è già richiusa, senza che questi numeri siano stati seriamente contestati”.
Quando il Mostro era ancora al potere la denuncia dei suoi orrori in Occidente era un tabù per una quantità di motivi, di bavagli e di impedimenti. Basti dire che riuscirono perfino a condizionare il Concilio Vaticano II che – in piena persecuzione rossa – non pronunciò mai la parola comunismo, né la sua esplicita condanna. Fra gli intellettuali, gli anticomunisti erano mosche bianche e isolate. Sartre arrivò a dire (lo riferì Gustaw Herling) che “non si doveva parlare dei lager sovietici perché gli operai di Billancourt non potevano perdere la speranza”.
Quando in Italia arrivò la bomba di Solzenicyn, “Arcipelago Gulag”, a squarciare i veli sull’orrore – era il 1974 – fu accolto con gelida indifferenza o con disprezzo. Pierluigi Battista sottolinea “la singolare esiguità numerica di recensioni per un libro così importante e decisivo” e, per dire il clima, ricorda la diffusione della “leggenda nera di un Solzenicyn nientemeno che al soldo del dittatore Pinochet”. Quando poi crollò il Muro e travolse quei regimi si disse che essendo – il comunismo – morto e sepolto solo dei fanatici, dei maniaci o gente con doppi fini inconfessabili poteva ancora “accanirsi” e attardarsi nella denuncia dei crimini rossi, che ormai dovevano essere consegnati agli storici. Sennonché quando Giampaolo Pansa, nel 2003, ha disseppellito “Il sangue dei vinti”, ignorato dagli storici, è stato “scomunicato” da quegli stessi storici come revisionista, storico abusivo e peggio ancora. Non doveva osare raccontare la storia per intero.
Negli anni Novanta, peraltro, la rimozione del “comunismo” è stata praticata pure dagli stati occidentali: mentre erano ancora caldi i corpi degli studenti cinesi macellati in Piazza Tien an men, mentre i cristiani sono ancora rinchiusi nel Laogai e il Tibet sanguina, gli Stati Uniti di Clinton e l’Europa tecnocratica integrarono la Cina nel mercato globale facendo finta che non fosse più un regime comunista (comunismo che continua a dominare pure a Cuba, in Corea del nord e Vietnam).
Così, nel senso comune, l’amnesia del comunismo è stata un’amnistia. Facciamo un confronto. Consideriamo il successo oceanico del libro “Gomorra” di Roberto Saviano. Nelle ultime ore perfino Ronaldinho ha fatto sapere di aver letto l’opera. Ormai siamo al gran completo. Personalmente apprezzo Saviano e il suo libro, ma trovo singolare questa passione planetaria, con relativa indignazione civile, per i crimini camorristici della provincia di Caserta, da parte di un’opinione pubblica e di un’intellighentsia che per decenni ha deliberatamente ignorato il clan criminale più potente, sanguinario e vasto della storia, quello comunista, che aveva in pugno metà del pianeta, da Trieste fino ai confini dell’Alaska, da Cuba alla Cina, dall’Angola all’Albania.
Come si spiega tutto questo interesse, anche fuori d’Italia, per il malaffare di Secondigliano o Casal di Principe mentre si continua a (voler) ignorare l’oceano planetario di crimini, oppressione e menzogna che, dalla rivoluzione bolscevica, ha investito miliardi di persone, ha avallato lo scatenamento della Seconda guerra mondiale e poi, con la sfida atomica, ha messo a repentaglio le stesse sorti dell’umanità?
Quanti dei milioni di lettori di “Gomorra” hanno mai letto “Arcipelago Gulag” ? Quanti ne conoscono almeno l’esistenza? Quanti, fra gli intellettuali, i professori, i giornalisti lo hanno mai letto? Quando si pubblicherà in Italia tutta l’opera di Solzenicyn? Quando vedremo una grande produzione cinematografica ispirata a una delle tante storie che egli ha raccontato? Penso che dovremo aspettare ancora a lungo. Mentre il libro di Saviano, uscito nel 2006, è già diventato un film, che ovviamente ha già riscosso enorme successo, che ha sbancato gli “oscar europei” (5 premi su 5 candidature) e ora sembra prepararsi a prendere pure l’Oscar americano. Qualcuno mi obietterà: ma che c’entra?
L’aspetto singolare è che proprio Saviano, che è un uomo serio, ha dichiarato di ispirarsi, sul piano etico, nella sua battaglia civile, a un bellissimo racconto di Varlam Salamov, contenuto nell’opera “I racconti di Kolyma”. Sarebbe interessante sapere quanti dei lettori (anche colti) di Saviano sanno qualcosa di quel libro e di quell’autore. Salamov trascorse venti anni nei lager comunisti, nell’inferno ghiacciato di Kolyma. La sua opera fu pubblicata nel 1978 a Londra e New York e lui nel 1982 viene chiuso in un ospedale psichiatrico dove muore solo come un cane, nell’orrore. Il suo è un capolavoro letterario del Novecento. La prima edizione italiana (parziale) nel 1976 fu del tutto ibernata: “attorno al libro si stese un silenzio pressoché assoluto e il volume fu per noi uno degli insuccessi più clamorosi” dirà Dino Audino.
Invece in America e in Europa l’impressione fu enorme. Quando finalmente, nel 1999, la Einaudi ha pubblicato l’opera (che aveva rifiutato di pubblicare nel 1975), è accaduta una cosa singolare. Fu chiesta una prefazione a Piero Sinatti e Gustaw Herling (che ha vissuto due anni nel Gulag e scrisse, fra i primi, nel 1951, una testimonianza su questo). Ma la loro prefazione ovviamente trattava a fondo del comunismo, così la Einaudi la rifiutò perché “eccessivamente sbilanciata sul versante storico-politico”. Infatti l’opera è uscita con una prefazione che si diffonde sulla “struttura narrativa”, ma non parla di comunismo. Ed ha molte altre cose incredibili. L’assurda vicenda è stata ricostruita da Herling e Sinatti nel bellissimo pamphlet “Ricordare, raccontare”.
Questa è ancora la situazione da noi, nella nostra cultura e nei media. Non resta che attendersi da Saviano il coraggio di rompere finalmente l’omertà che da sempre circonda l’orrore criminale chiamato: “comunismo”. Noi siamo con lui.
Antonio Socci - Da Libero, 11 gennaio 2009
Crisi economica e dottrina sociale della Chiesa - Il fallimento delle scorciatoie finanziarie - Il 16 gennaio uscirà il numero 6/2008 della rivista bimestrale "Vita e pensiero". Anticipiamo stralci di uno degli articoli. - di Simona Beretta Università Cattolica del Sacro Cuore – L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2009
È sempre un'operazione interessante ripercorrere i documenti del Magistero sociale. Scritti in un particolare momento, parlano delle "cose nuove" di quel tempo, dei loro pericoli e delle loro opportunità. Letti a distanza di decenni, si possono mettere alla prova per verificare se e come è vero che la dottrina sociale è davvero uno scrigno da cui trarre "cose nuove e cose antiche" (Centesimus annus, 3), capaci di illuminare le radici e le prospettive delle "cose nuove" di oggi. In questo momento di grave crisi finanziaria, vorrei rivisitare un documento del Magistero che parla di finanza, ripresentando i testi letteralmente.
Siamo nel 1931. Il mondo sta cominciando a rendersi conto delle conseguenze sistemiche reali di quella che, a posteriori, avremmo chiamato la "grande crisi" (solo nel 1933 Franklin Delano Roosevelt lancerà il New deal). Ricorre anche il quarantesimo anniversario della prima enciclica sociale, la Rerum novarum, che nel 1891 era intervenuta sulla questione operaia sostenendo la priorità del lavoro rispetto al capitale e il principio di collaborazione, contro la lotta di classe. In quei quarant'anni l'economia e la società erano cambiate: i processi di industrializzazione si erano accompagnati al rafforzamento del potere dei gruppi finanziari, nazionali e internazionali; lo stesso "capitale produttivo" - espressione del potere dei capitalisti di quarant'anni prima - era ormai uno strumento concentrato nelle mani dei proprietari del "capitale finanziario", forma del potere emergente.
Così, dunque, dalla Quadragesimo anno pubblicata in quel 1931 leggiamo la ricognizione della situazione: "Ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell'economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento" (105). Proprio la concentrazione del potere di mercato finisce per distruggere il mercato stesso: "La libera concorrenza cioè si è da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia economica (...) l'internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene" (109).
L'enciclica registra dunque un evidente problema: il "libero" mercato tende ad autodistruggersi. Dove sta la radice della contraddizione? L'enciclica risponde con tre passaggi.
Ecco il primo: "Poiché l'instabilità della vita economica, e specialmente del suo organismo, richiede uno sforzo sommo e continuo di quanti vi si applicano, alcuni vi hanno indurito la coscienza a tal segno che si danno a credere lecito l'aumentare i guadagni in qualsiasi modo (...). I facili guadagni, che l'anarchia del mercato apre a tutti, allettano moltissimi allo scambio e alla vendita, e costoro unicamente agognando di fare guadagni pronti e con minima fatica, con la sfrenata speculazione fanno salire e abbassare i prezzi secondo il capriccio e l'avidità loro, con tanta frequenza, che mandano fallite tutte le sagge previsioni dei produttori" (132). Ossia: quando si offusca negli operatori la consapevolezza della natura e del significato del fare finanza, la finanza smette di perseguire il suo scopo, essere il ponte fra risparmi e investimenti, e si autocondanna al fallimento nel medio e lungo periodo.
Il secondo passaggio: "Le disposizioni giuridiche poi, ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza; (...) e sotto la coperta difesa di una società che chiamano anonima, si commettono le peggiori ingiustizie e frodi, e i dirigenti di queste associazioni economiche, dimentichi dei loro impegni, tradiscono non rare volte i diritti di quelli di cui avevano preso ad amministrare i risparmi" (132). Ossia: anche le innovazioni giuridiche più "intelligenti", ordinate al miglior funzionamento del mercato, possono ritorcersi contro il mercato stesso. L'esempio dell'enciclica sono le società per azioni, che consentono la partecipazione diffusa alla proprietà d'impresa limitando il rischio individuale, ma concentrano il potere decisionale nelle mani di pochi. Oggi potremmo riferirci all'utilizzo dei contratti derivati, elemento dominante della finanza globale, che consentono a taluno di assicurarsi contro il rischio ma si prestano a costruire ardite piramidi finanziarie virtuali.
Terzo, un passaggio sulla dimensione culturale della crisi: "Avendo il nuovo ordinamento economico cominciato appunto quando le massime del razionalismo erano penetrate in molti e vi avevano messo radici, ne nacque in breve una scienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere a ogni costo la loro fortuna (...). I primi poi che si misero per questa via larga che conduce alla perdizione (cfr. Matteo, 7, 13), trovarono molti imitatori della loro iniquità sia per l'esempio della loro appariscente riuscita, sia per il fasto insolito delle loro ricchezze, sia per il deridere che fecero, quasi vittima di scrupoli insulsi, la coscienza altrui, sia infine schiacciando i loro competitori più timorosi" (133). Ossia: la "iniquità" nei comportamenti si origina nella sfera della conoscenza. Il "razionalismo" non è sufficiente a rendere ragione della realtà economica. Solo "allargando la ragione" ci attrezziamo a capire la realtà, inclusa la crisi presente, e a tentare delle soluzioni. Queste ultime non appartengono solo alla sfera "tecnica" delle competenze economiche, politiche e giuridiche; ma onestamente non mi accontenterei di invocare "più etica": il raffinatissimo codice etico Enron non l'ha salvata dallo sfacelo; molte banche che offrono prodotti nel segmento della "finanza etica" sono le stesse che, finché è durata la fase di euforia, hanno rincorso i profitti che venivano dai segmenti innovativi della finanza (ora li chiamiamo "tossici").
Per la soluzione della crisi, naturalmente, "la Chiesa non ha modelli da proporre" (Centesimus annus, 43), ma ha molto da dire. Le encicliche sociali prendono di petto la questione del potere anche utilizzando espressioni forti e pongono sempre in evidenza la centralità concreta e umile del lavoro umano. La Rerum novarum difende il lavoro salariato, schiacciato dal potere di chi detiene la proprietà dei mezzi fisici di produzione. La Quadragesimo anno difende "le sagge previsioni dei produttori" dal potere di un mercato finanziario internazionale autoreferenziale. Più recentemente, la Centesimus annus, nel 1991, parla ancora di lotta: "contro un sistema economico, inteso come metodo che assicura l'assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti di produzione e della terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell'uomo" (35), e mette in evidenza la forza dirompente della centralità del lavoro sulle strutture di potere: l'"integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso, anche se ciò può indebolire assetti di potere consolidati" (43).
Cosa può voler dire nell'attuale crisi finanziaria, che è certamente la crisi di un sistema di potere economico, politico e culturale, la centralità dell'integrale sviluppo della persona, del lavoro umano nel suo pieno significato? Pensiamo al lavoro di chi fa intermediazione finanziaria, nella sua forma più semplice: raccoglie risparmi che devono essere prontamente disponibili ai depositanti che li ritirino, da un lato; dall'altro, individua impieghi del risparmio stesso "scommettendo" sulla capacità dell'imprenditore di realizzare la sua opera, crescere, restituire. Quando si "scommette" ciascuno confida nell'abilità dell'altro. Questa è una finanza "generativa": sostiene imprese, opere, occasioni di lavoro; fa anche profitti, forse non mirabolanti, ma non virtuali. Tuttavia, nel mondo della finanza si possono anche prendere scorciatoie, prestando e prendendo a prestito dentro relazioni anonime, "di mercato", appiattite sul presente, con controparti che si intende abbandonare velocemente quando il vento cambia direzione. La tentazione della scorciatoia è forte, perché sembra permettere di fare i propri affari in tutta libertà, senza creare legami stabili con nessuno: una finanza "liquida" per una società "liquida".
"Sarebbe fatale, se la cultura (...) di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami", si legge nel discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins. Almeno nel mercato finanziario, abbiamo la prova provata che la "libertà" di comprare e vendere rischi finanziari su un mercato anonimo che non chiede l'impegno dei legami, alla lunga, si è davvero rivelata fatale.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 gennaio 2009)
Natale in India. "Non c'era posto per loro nell'alloggio" - Ancora in fuga nelle foreste migliaia di vittime dei massacri anticristiani. Le autorità vaticane si mobilitano per contrastare il fanatismo induista. Ma sul terrorismo musulmano sono elusive. L'islamologo Troll denuncia i rischi di questa inerzia - di Sandro Magister
ROMA, 13 gennaio 2009 – Nelle aree dell'Orissa teatro di attacchi anticristiani le feste di questo Natale sono passate senza incidenti di rilievo. All'opposto di quanto era avvenuto nel Natale del 2007, quando più di cento chiese e un migliaio di case furono devastate e bruciate.
Ma circa 20 mila cristiani del distretto di Kandhamal, epicentro degli attacchi, continuano a tenersi lontani dai loro villaggi, da cui sono fuggiti tra agosto e settembre. Hanno avuto le case distrutte e soprattutto non si sentono sufficientemente protetti. Vivono sotto le tende ai margini della foresta, in una decina di campi profughi. Ad uno ad uno la polizia sta chiudendo i campi, forzando gli sfollati a rientrare in cambio di 10 mila rupie (circa 150 euro), 50 chili di riso e un rotolo di plastica da usare come riparo.
Il 4 gennaio la corte suprema dell'India – dopo aver dato udienza al'avvocato dell'arcivescovo di Bhubaneswar, Raphael Cheenath – ha criticato il governo dell'Orissa per la tardiva e debole reazione al pogrom anticristiano della scorsa estate, e gli ha ingiunto di "dimettersi se incapace di proteggere le minoranze". Al governo dell'Orissa ci sono il Bharatiya Janata Party e il Biju Janata Dal, cioè due partiti di riferimento dei gruppi induisti autori delle aggressioni.
Nelle stesse ore in cui la corte suprema ha emesso il suo pronunciamento, nel quartier generale della polizia a Cuttack suor Mena Barwa, la giovane religiosa che era stata stuprata il 25 agosto nel villaggio di Nonagon da un gruppo di fanatici, ha riconosciuto due dei suoi violentatori, tra i dieci ora in arresto.
Ma John Dayal, presidente dell’All India Christian Council e del United Christian Forum for Human Rights, avverte che, a quattro mesi dal pogrom, i rischi di una ripresa delle violenze restano alti. Specie dopo che a fine gennaio i 6 mila agenti federali inviati dalle autorità centrali di Delhi lasceranno l'Orissa.
Benedetto XVI, nel discorso sullo stato del mondo rivolto l'8 gennaio al corpo diplomatico, ha dedicato all'India solo due fuggevoli accenni, il primo alludendo alla strage terroristica di fine novembre a Mumbai, il secondo ai pogrom anticristiani dell'Orissa. Ma entrambi questi fatti seriamente preoccupano le autorità vaticane.
Per quanto riguarda l'estremismo induista, così si è espresso il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, in un'intervista a "L'Osservatore Romano" del 4 gennaio:
"Per capire la dinamica dei fatti si deve risalire al 1989, quando il Partito Nazionalista Indù è salito al potere nello stato dell'Orissa. Più che un conflitto di natura religiosa, si tratta di un problema di stampo sociale e politico. Ai cattolici viene rimproverato di occuparsi delle caste inferiori che costituiscono la mano d'opera per le caste superiori. Viene contestato al cristianesimo il fatto che esso è anche un fattore di emancipazione sociale. Ovviamente, noi cattolici proseguiremo il dialogo. Un dialogo, conviene sottolinearlo, che viene portato avanti soprattutto dalla Chiesa locale, sotto l'attenta guida dei vescovi, con l'aiuto del nunzio apostolico. Io stesso ho intenzione di recarmi in India nei prossimi mesi per un incontro con i vescovi e i leader religiosi indù per fare il punto della situazione. Comunque sia, continueremo a chiedere il rispetto della libertà religiosa che suppone il rispetto della libertà di coscienza, ossia la possibilità di scegliere la propria religione o di cambiarla, di praticarla in privato e in pubblico. Un altro dialogo, invece, deve essere portato avanti parallelamente con le autorità politiche, il cui compito è quello di assicurare le condizioni di una reale ed effettiva libertà religiosa, senza discriminazione o segregazione, nella libera adesione a una comunità religiosa organizzata. Tutto ciò non è nient'altro che quanto richiesto dal diritto internazionale e dalle convenzioni internazionali, a cui del resto, l'India aderisce. E, infine, compete a ogni governo assicurare la sicurezza fisica dei suoi cittadini, soprattutto quando una parte di loro è vittima di violenze fisiche, come nel caso di cui parliamo. Penso, da un punto di vista pratico, che tutti abbiano interesse a un effettivo rispetto della libertà religiosa: credenti che si sentono rispettati e difesi nella professione della propria fede saranno ancora più disposti a collaborare al benessere materiale, sociale e spirituale della società di cui sono membri a tutti gli effetti. Vorrei ricordare che le violenze ingiustificabili di cui parliamo non riguardano la maggioranza degli indù e dei loro capi, tradizionalmente pacifici. Ecco perché, nel mio messaggio in occasione della recente celebrazione del Diwali, ho voluto riaffermare la necessità che cristiani e indù lavorino insieme alla luce del comune principio della non-violenza".
* * *
Per quanto riguarda invece il terrorismo musulmano in India, le autorità vaticane sono più elusive. Tra i cristiani e i musulmani dell'India non vi sono state negli anni passati particolari frizioni. Anzi, in più occasioni queste due minoranze si sono ritrovate alleate, sia nel combattere le discriminazioni di casta, sia nel difendersi dalle aggressioni degli induisti fanatici.
Ma l'attacco terroristico di Mumbai ha mutato pericolosamente il quadro. L'ha proiettato su scala internazionale. I suoi organizzatori avevano nel Pakistan la loro centrale e il nemico da colpire era in definitiva l'Occidente giudaico-cristiano.
E ciò in India ha ridato vita all'islam più puritano e combattivo, quello delle madrase Deoband, quello dei discepoli di Mawdudi: un islam in permanente conflitto col “mondo del negativo”, con quella "jahiliyya" che nel Corano rimanda al mondo dei faraoni e al politeismo, ma che oggi è identificata nell’Occidente.
Dalla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona in poi, questo distruttivo rapporto tra l'islam e la violenza è un nodo critico del dialogo che faticosamente si sta conducendo tra la Chiesa cattolica ed esponenti musulmani.
L'India sarebbe un terreno ideale per sviluppare questo dialogo. Qui l'islam è pluriforme ed eredita una storia anch'essa variegata. I mogol musulmani del XVI secolo instaurarono con l'induismo un rapporto pacifico. E in tempi recentissimi cristiani e musulmani hanno agito assieme per rivendicare i loro diritti di cittadinanza, insidiati dal fanatismo induista.
Ma in realtà che cosa accade? Il gesuita tedesco Christian W. Troll, professore alla Pontificia Università Gregoriana e alla Sankt Georgen Graduate School di Francoforte, uno degli islamologi più ascoltati da Joseph Ratzinger, dopo aver partecipato a Roma al primo colloquio del Forum cattolico-islamico nato dalla lettera aperta "A Common Word" indirizzata al papa nel 2007 da 138 esponenti musulmani, si è recato in India per ragioni di studio e lì ha scoperto che nulla è stato fatto per migliorare i rapporti tra le due comunità, proprio ora che se ne ha più bisogno che mai.
Troll ha incontrato in India numerosi esponenti cristiani e musulmani, vescovi, sacerdoti, professori e rettori di seminario, insegnanti e dirigenti di scuole coraniche. Ebbene, nessuno di questi aveva la più pallida conoscenza dei passi di dialogo fin lì compiuti a Roma e altrove. Sia nella Chiesa cattolica, sia nella comunità musulmana dell'India nessuno aveva fatto qualcosa per diffondere la conoscenza della lettera dei 138, degli interventi di Benedetto XVI sul tema e degli incontri interreligiosi fin lì compiuti.
"Tutto ciò è tragico", ha commentato Troll. "In India cristiani e musulmani sono minoranze e questo costituisce un imperativo in più perché vivano in armonia. È quindi di fondamentale importanza che le iniziative di dialogo ad alto livello, a cui hanno partecipato un numero significativo di leader cristiani e musulmani, siano comunicate in ambiti sempre più vasti delle comunità di entrambe le religioni. Bellissime dichiarazioni comuni a livello internazionale aumentano le aspettative. Ma se non vengono attuate, se non ci si sforza nemmeno di far questo, i risultati saranno la frustrazione e il ridicolo".
MEDIO ORIENTE/ A Gaza una guerra in cui perdono tutti - Redazione - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Sono già trascorsi più di 15 giorni dall’inizio della guerra dichiarata da Israele ad Hamas. I morti sono saliti a più di 800, i feriti a oltre 3.000. La distruzione di Gaza prosegue. Le condizioni della popolazione palestinese peggiorano ogni volta di più... Hamas si interessa realmente della sorte del suo popolo? Sembra di no. Se ci atteniamo ai fatti sembra proprio il contrario.
Il suo ultimo no al piano egiziano e alla risoluzione dell’Onu che proponeva un cessate il fuoco mostrano chiaramente che l’interesse principale di Hamas è il proprio progetto ideologico di lotta contro Israele. Per il bene della popolazione, la cosa più ragionevole da fare sarebbe stata accogliere la proposta di una tregua. Questa avrebbe permesso l’arrivo di aiuti massici dai paesi occidentali e arabi; un periodo in cui rispondere con maggiore coscienza alle necessità più urgenti; un tempo di riflessione per favorire l’inizio di negoziati di pace.
Hamas tuttavia ha respinto tassativamente entrambe le proposte. Perché? Sebbene sia una forza politica eletta dai palestinesi che vivono in quel piccolo territorio che è Gaza, Hamas non ha cambiato le sue posizioni idelogiche né i suoi obiettivi. Resta dominata dall’odio contro Israele.
Da parte sua, il Governo di Israele ha giustificato la decisione di iniziare questa guerra, e continua a ripeterlo all’opinione pubblica, facendo appello al suo diritto di difendersi dalle aggressioni di Hamas, proteggendo la sicurezza del proprio paese. In nome di questa ragione ha giustificato anche il proprio rifiuto alla risoluzione dell’Onu. «Israele ha il diritto di proteggere i propri cittadini», dice un comunicato stampa del primo ministro. Anche Olmert ha affermato davanti alla stampa che «lo Stato di Israele non ha accettato che alcun organismo esterno determini il suo diritto a difendere la sicurezza dei propri cittadini».
Come è ben noto, Hamas ha attaccato con i suoi missili in varie occasioni alcune delle città israeliane al confine con Gaza. È vero che uno Stato ha il diritto di difendersi dalle aggressioni e a cercare la sicurezza dei propri cittadini, ma questa guerra favorirà la sicurezza dei cittadini di Israele? Non è chiaro se l’esercito di Israele riuscirà a distruggere Hamas; sembra poco probabile. Quindi perchè decidere di iniziare questa guerra?
Sicuramente, tra le conseguenze di questa azione bellica, dovremo conteggiare una maggiore violenza nella società e un odio più forte verso Israele nella popolazione palestinese. Queste distruzioni massicce da parte dell’esercito israeliano saranno utilizzate da Hamas come giustificazione per una nuova ondata di attentati. In ultima istanza, non saranno forse i cittadini israeliani a soffrire sulla propria pelle il dolore e la distruzione?
La guerra è sempre un male. Porta sempre più problemi nella vita quotidiana delle persone e normalmente aggrava i problemi politici. Questa terra, Israele/Palestina, è un buon esempio: in essa abitano due popoli chiamati necessariamente a capirsi, ma resi nemici fin dalla nascita dello Stato di Israele e dalla immediata guerra arabo-israeliana. E, a quanto pare, manca il desiderio di affrontare insieme un problema che è fonte continua di violenza e sofferenza.
La maggioranza della popolazione civile israeliana e palestinese desidera vivere in pace. Perché allora si continua in questa spirale di violenza? Certamente il male può colpire il cuore di ogni uomo; chiunque può farsi dominare dall’odio o dalla vendetta e rendere in mille modi impossibile la vita di chi considera suo nemico o rivale. Ma a volte uno si domanda se situazioni come quella che si vive in questa terra non provengano da posizioni ideologiche radicate in coloro che detengono il potere.
Benedetto XVI nell’Angelus del 28 dicembre ha chiesto che cessi la violenza e ha chiesto «alla comunità internazionale di non lasciare nulla di intentato per aiutare israeliani e palestinesi ad uscire da questo vicolo cieco e a non rassegnarsi alla logica perversa dello scontro e della violenza, ma a privilegiare invece la via del dialogo e del negoziato». Ma il Governo di Israele e Hamas vogliono realmente questo dialogo? Il potere palestinese e israeliano favoriscono la tensione utilizzando i media per alimentare l’odio e il rancore, invece di promuovere le condizioni più favorevoli al negoziato.
Circa un paio di anni fa, nel giorno della commemorazione della morte di Yitzhak Rabin, David Grossman pronunciò a Gerusalemme un discorso in cui chiedeva ai governanti del suo paese una maggior decisione nella ricerca di un accordo di pace con i palestinesi.
Nel discorso fece anche una forte denuncia di ciò che stava avvenendo nella società israeliana. Tra le altre cose disse: «Guardate cosa è successo a una nazione giovane, piena di entusiasmo e spirito. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele è passato da una fase di infanzia e gioventù a uno stato di costante lamento, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un’occasione. Come è successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita diversa, migliore? [...] Israele è caduto nell’insensibilità, nella crudeltà, nell’indifferenza verso i deboli, i poveri, coloro che soffrono, che hanno fame, verso i vecchi, i malati e gli invalidi; nell’indifferenza di fronte al commercio di donne, l’esplosione e le condizioni di schiavitù in cui vivono i lavoratori stranieri, indifferenza verso il razzismo radicale, istituzionale, nei confronti della minoranza araba. Dato che tutto questo succede con totale naturalezza, senza suscitare scandali e proteste, comincio a pensare che anche se la pace arrivasse domani, anche se un giorno arrivassimo a una situazione normale, forse avremmo perso l’opportunità di curarci».
La guerra indebolisce sempre, poiché favorisce la crudeltà e le ingiustizie. E gli uomini che la compiono, anche se utilizzano ragioni idelogiche per giustificarsi, non ne escono immuni; si rendono peggiori. Per il bene di Israele, per il bene di questa terra, per il bene dell’Occidente, questa guerra si fermi quanto prima! Speriamo che non sia già tardi per un vero rinnovamento degli uomini che abitano questa terra considerata santa dalle tre religioni monoteiste. Speriamo che queste previsioni di Grossman non si avverino!
(José Miguel García)
BIOETICA/ Quando “giocare” con gli embrioni non migliora la qualità della vita - Marco Bregni, Roberto Colombo - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
È di venerdì 9 gennaio la notizia della nascita della bambina selezionata ex-vivo in una clinica dell’University College di Londra perché non abbia mutazioni nei geni di suscettibilità al carcinoma della mammella. Questa operazione biotecnologica è stata salutata dai media come un portentoso avanzamento della scienza e della medicina. Ma è tutto oro quello che luccica nel tempio britannico della procreazione medicalmente assistita? Il futuro della prevenzione oncologica passa davvero attraverso la nuova “eugenetica liberale”?
È nota da più di dieci anni l’esistenza di mutazioni in alcuni geni (BRCA1, BRCA2) che aumentano il rischio familiare di ammalarsi di carcinoma della mammella e di altri tumori (come quelli all’ovaio, alla prostata, e ad altri organi). Nelle donne portatrici di mutazioni nel gene BRCA1 il rischio di sviluppare il carcinoma aumenta nel corso della vita e si avvicina al 70% verso gli 80 anni; il rischio è minore (20-30%) nelle donne con una mutazione nel gene BRCA2, mentre è frequente l’insorgenza del carcinoma della mammella nei maschi portatori della mutazione. Se non sono presenti mutazioni in questi due geni, come nella bambina geneticamente selezionata ad hoc e nelle moltissime persone naturalmente prive di queste mutazioni, non ci si ammala di tumori ginecologici o urologici? Osservando la realtà clinica, le cose non stanno proprio così.
Circa una donna su 12-14 si ammala di carcinoma della mammella nel corso della propria vita. Le mutazioni nei geni di suscettibilità spiegano solo una piccola percentuale (5-10%) dei tumori della mammella; la grande maggioranza dei casi di questi tumori (90-95%) ha altre cause, di natura non ereditaria. Eliminando le cause genetiche, non si annulla il rischio di ammalarsi di tumore della mammella sporadico (anche la neonata inglese potrebbe un giorno ammalarsi di carcinoma mammario od ovarico).
Nei paesi occidentali, il rischio di ammalarsi di un tumore per un uomo è di uno su tre, e di uno su quattro per la donna; eliminando il rischio del tumore della mammella non si elimina il rischio dei tumori tout court.
Come per tutti i tumori della mammella, la diagnosi precoce (mediante mammografia ed ecografia) è efficace nell’identificare il carcinoma mammario in fase iniziale. Quando in una famiglia è presente un rischio genetico per questo tipo di tumore, esso esordisce tipicamente in età più giovanile rispetto al tumore sporadico. Esistono sistemi efficienti per la diagnosi precoce del carcinoma della mammella in età giovanile, quando la mammografia non è altamente sensibile e specifica: la risonanza magnetica è in grado di identificare fino al 94% dei tumori in fase iniziale.
Anche se appare maggiore la frequenza di tumori a prognosi peggiore tra i casi ascrivibili ad una suscettibilità genetica, non esistono casistiche definitive a questo riguardo. Inoltre, in presenza di un fattore genetico di rischio, esiste la possibilità di prevenire l’insorgenza del carcinoma della mammella e dell’ovaio mediante farmaci o chirurgia selettiva (attualmente, non è sempre necessario ricorrere all’asportazione profilattica dell’intero organo).
Infine, la ricerca ha identificato una categoria di farmaci (gli inibitori della poli-ribosio polimerasi) che, negli studi preclinici, si sono dimostrati estremamente efficaci nell’eliminare le cellule del tumore in cui sono presenti mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2.
Per le ragioni sopra ricordate, la vita di una persona con mutazioni genetiche che predispongono ai tumori – in particolare, al tumore della mammella e dell’ovaio – non è destinata a finire precocemente o ad essere mutilata: pur essendo una vita più “a rischio” di altre, la medicina moderna ha scoperto e mette in atto una serie di provvedimenti e di procedure che in alcuni casi riducono il rischio, in altri lo prevengono. Per non illudere o ingannare nessuno, occorre essere realisti: non esiste la possibilità per nessuna donna di eliminare del tutto il rischio di un tumore ginecologico. Diffondere notizie che alludono (o aprono irragionevoli prospettive) a questa pretesa possibilità della tecnologia biomedica costituisce un atto di irresponsabilità culturale e sociale.
Ci chiediamo quale senso clinico ed epidemiologico abbia la selezione genetica degli embrioni umani. Sembra più un complicato gioco tecnologico che una reale apertura verso nuove prospettive di prevenzione oncologica generale. Peccato che questo “gioco” comporti l’eliminazione di essere umani all’inizio della loro vita. L’eliminazione dei “difettosi” è il volto disumano dell’eugenetica di sempre: quella totalitaria di ieri e quella liberale di oggi, che sembra trovare nell’alleanza con la procreatica uno sviluppo foriero di preoccupanti, azzardate avventure sperimentali.
STORIA/ Negri: per capire la Chiesa occorre liberarsi dai pregiudizi della modernità - Luigi Negri - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Secondo le categorie della cultura dominante a tutti i livelli - da quelli accademici universitari, fino a quelli dei manuali scolastici, a quelli dei mass media - si ha la sensazione che la storia della Chiesa sia sostanzialmente la storia di una istituzione inguaribilmente reazionaria, controcorrente nel senso deteriore, che non sa assecondare i ritmi della evoluzione intellettuale, morale, politica, sociale ed economica. La storia della Chiesa sarebbe, soprattutto quella recente, la storia di una serie di occasioni mancate, ed inoltre sarebbe la storia di una ferrigna egemonia a carattere integralistico posta su tutti gli aspetti della vita culturale e sociale. Da questo punto di vista si comprende il terribile equivoco su una età come quella medievale, considerata, anche nel linguaggio comune, come qualche cosa di assolutamente negativo; “roba da medioevo” si dice oggi da parte di molti, anche da parte di sinceri cattolici, sinceri come sentimento ma non come mentalità.
La ragione di questa riduzione della Chiesa a istituzione culturale, politica, sociale ha le sue radici in quel grande rivolgimento di carattere antropologico e culturale che caratterizza l’età moderna e che dall’età moderna rilegge anche l’età pre-moderna, brutalmente definita da rivoluzionari francesi “l’ancien regime”, il vecchio ordine delle cose. In che cosa consiste questo rivolgimento di tipo antropologico e culturale? Consiste nella messa al centro della vita personale e sociale dell’individuo che si considera autonomo, autosufficiente, autoreferenziale, che non ha bisogno di nessun rapporto che lo costituisca nella sua identità e lo promuova nella realizzazione della sua personalità. Il progetto antropologico moderno e contemporaneo è quello dell’auto realizzazione dell’uomo nell’esercizio rigoroso della sua capacità, del suo potere intellettuale, conoscitivo, scientifico, morale, sociale, politico. L’uomo si realizza da solo o al massimo in quelle solidarietà che egli costituisce e crea: il proletari di tutto il mondo, piuttosto che i giacobini o i fascisti, o coloro che confidano incrollabilmente nel reich o che ritengono che la scienza sia la panacea di tutti i mali, che è l’ideologia attualmente al potere in tutto il mondo. Sono solidarietà create dall’individuo, che lo aiutano nella realizzazione di questo potere. Non solo lo aiutano, ma qualche volta lo sostituiscono, o meglio, è questa individualità di massa, è questo soggetto sociale il vero individuo, come ci ha insegnato gorgheggiando nel suo tipico modo pseudo culturale, Jean Jaques Rousseau.
In questa impostazione evidentemente la Chiesa non trova posto, non per le conseguenze presunte di carattere culturale, sociale e politico, ma non trova posto perché non ha più spazio una realtà che si proclama testimone dell’avvenimento di Cristo che è la Via, la Verità e la Vita, che cioè si proclama l’annunciatrice di quella redenzione senza la quale l’uomo non può diventare se stesso.
È dunque una incompatibilità di fondo, sul piano direi della concezione ultima dell’uomo, della persona, della vita, della società e della storia. Un uomo che non ha bisogno di salvezza non può che respingere una realtà che proclama la necessità della salvezza e la proclama come realizzata pienamente nel mistero della passione, della morte, della resurrezione di Gesù di Nazareth, figlio dell’uomo e figlio di Dio. Quindi l’ottica non è quella delle “conseguenze” ma quella dei “principi”. Si vede chiarissimamente questo confronto a tutto campo in quel Papa dell’inizio dell’età contemporanea che ha saputo leggere questa alternativa antropologica o culturale fra la modernità laicistica e la tradizione cattolica che è stato Pio IX, infamato da più di due secoli esattamente perché ha colto la radice della questione nel suo Sillabo del 1864.
Allora, qual è il filo conduttore della storia della Chiesa, della storia che la Chiesa vive e di cui prende coscienza e che cerca di comunicare attraverso le espressioni di quella sana storiografia cattolica che comincia all’inizio dell’età moderna e non è ancora finita, fortunatamente, anche se nel mondo cattolico e nella cosiddetta storiografia cattolica c’è stata una forte interferenza della mentalità laicista che ha prodotto delle storiografie della Chiesa cattolica fatte da cattolici, ma sostanzialmente condotte con criteri di carattere laicistico?
Val la pena di ricordare che l’impostazione storiografica di carattere individualista, razionalista, laicista o fideista è alla base delle Centurie di Magdeburgo, che sono il primo tentativo di rileggere tutta la storia della Chiesa a partire dal protestantesimo radicale, quindi a partire dall’idea che la Chiesa storica, reale, la Chiesa che vive nel mondo, non solo è negativa perché luogo di corruzione, di tradimento della verità evangelica, ma soprattutto che la Chiesa non deve esistere perché rappresenta una non necessaria mediazione fra Dio e l’uomo. L’unica mediazione possibile sarebbe invece la parola scritta e interpretata dal singolo. Ad essa si contrappone la straordinaria storia della Chiesa scritta dal gesuita cardinale Cesare Baronio, che tutta la storiografia cattolica del XIX e XX secolo ha letto come l’antesignano di una autentica storiografia cattolica. Hubert Jedin, il grande storico del Concilio di Trento, ha dedicato pagine straordinarie a questo evento e un piccolo, significativo saggio sulla figura del Baronio fondatore di una autentica storiografia ecclesiale.
Qual è l’identità fondamentale che la Chiesa gioca in ogni momento della sua storia, pur nel variare della condizioni in cui essa vive o dei condizionamenti che subisce? È la coscienza di un popolo. La Chiesa concepisce se stessa come un popolo che è generato dallo Spirito del Signore, crocifisso e risorto, e quindi rappresenta una realtà di carattere speciale, non riducibile a nessun riferimento storico, culturale, antropologico. Plinio, con l’occhio acuto dell’ordinatore, scriveva all’imperatore: è un popolo di terzo genere, diverso dai due grandi popoli che si contendevano la vita della società: il popolo degli uomini liberi romani e il popolo-non-popolo dei barbari. Un popolo di terzo genere, perfettamente inserito nella realtà sociale, ma che non ha una sua identificazione ultima in una ragione di carattere sociale: «non c’è più né greco né barbaro, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché voi tutti siete un essere solo, in Cristo Gesù», ha detto san Paolo.
Questo popolo, cosciente della sua «identità sacramentale» come avrebbe detto il Concilio Ecumenico Vaticano II, si impianta e vive nella storia investendo gli uomini di quel tempo e quindi di ogni tempo: i problemi, i condizionamenti, le ansie, le gioie, i dolori dell’umanità come tale. È un popolo che vive nella storia, pienamente inserito nella storia, ma che pone nella storia un annunzio che è l’espressione della sua novità di vita, della sua communio come nei primi secoli diceva di sé, cioè di essere una communio vivente.
Questo popolo, consapevole della sua identità sacramentale, ha coscienza della inderogabile necessità di dare a questa identità sacramentale una concretezza storica, carnale: è il corpo storico di Cristo, come il corpo dell’uomo Gesù di Nazareh è il corpo del figlio di Dio incarnato. Questa presenza, questa presenza sociale è caratterizzata da tre grandi dimensioni che sono assolutamente evidenti fin dai primi giorni della cristianità e che arrivano, senza soluzione di continuità, fino ai giorni nostri.
Questo popolo è presente nel mondo, incontra gli uomini per annunziare agli uomini quella verità di umanità e di salvezza che l’uomo desidera e non può darsi con le sue mani. Quindi, è un popolo che vive la missione come dimensione fondamentale; senza tenerla presente non si può capire nessun gesto della vita ecclesiale e quindi non si può giudicare la correttezza o la scorrettezza di gesti posti da singoli cristiani, come da gruppi cristiani, come da una comunità diocesana o da una Chiesa nazionale o, addirittura, dalla stessa Chiesa universale. Il criterio di giudizio è sempre quello della missione: quello che è stato compiuto ha incrementato la missione oppure non l’ha incrementata ma ha reso più vulnerabile la Chiesa nei confronti della mentalità dominante?
Il filo di interpretazione profondo della storia della Chiesa è la missione, una missione che si sostanzia in secondo luogo di una capacità di cultura. Questo popolo, infatti, contiene una concezione autentica - Giovanni Paolo II diceva una concezione adeguata - dell’uomo e della realtà e quindi porta nel mondo dei criteri di conoscenza, di giudizio, di comportamento assolutamente originali, che aprono il confronto, il dialogo, la possibilità di valorizzazione o di rifiuto dei criteri di giudizio o di comportamento che ogni realtà, culturale e sociale della storia dell’uomo mette in campo. Quindi una cultura che nasce dalla fede, che apre il confronto con le culture mondane, ma che soprattutto si esprime in quella straordinaria fioritura di cultura della fede che ha dato le grandi espressioni culturali, teologiche, filosofiche, artistiche che accompagnano la vita della Chiesa in ogni età della sua storia, raggiungendo vertici inarrivabili.
Accanto alla cultura, la capacità di carità, quindi di condivisone della vita degli uomini in qualsiasi condizione e sotto qualsiasi cielo e in qualsiasi difficoltà. Questa capacità di condivisione ha determinato, nella storia, un punto di reale novità sociale in grado di confrontarsi e di contestare qualsiasi principio di socialità che peschi i suoi criteri non nel rispetto assoluto della persona e dei suoi diritti inviolabili, ma in considerazioni di carattere strettamente ideologico o politico.
In questo movimento - la Chiesa, come movimento missionario caratterizzato da cultura e da capacità di carità - sta la forza di inculturazione della fede. La Chiesa ha contribuito a creare momenti di civiltà in cui i cristiani hanno dato il loro contributo originale, qualche volta prevalente sul piano qualitativo; penso alla grande stagione medioevale. Ma la creazione di una civiltà è sempre espressione del tentativo, del sacrificio, della positività o della negatività di uomini o di gruppi umani; non è una deduzione dalla fede. Chi pensa alla cristianità come a una deduzione dalla fede pensa secondo l’ottica del totalitarismo marxista, nazista, laicista, tecnoscientifico.
La fede fa nascere l’avventura della civiltà e in questo senso la Chiesa è sempre stata singolarmente libera da ciò che i cristiani avevano prodotto; non esiste nessuna forma di realizzazione del cristianesimo nella storia che faccia corpo in modo essenziale con la natura del cristianesimo. Per questo la Chiesa è forte e orgogliosa di tutti i successi che storicamente ha avuto e singolarmente consapevole dei limiti che i suoi figli possono avere vissuto nelle varie fasi della storia (in questo senso di comprendono le “richieste di perdono” di Giovanni Paolo II) e pertanto sempre costantemente protesa ad attuare la propria missione qui ed ora e per il futuro.
Io credo che questo sia il filo d’oro della storia della Chiesa, ma è anche la vera, grande ermeneutica della storia della Chiesa. Se ci si mette da questo punto di vista, come io tento di mettermi da una trentina di anni, non si fa nessuna indebita sacralizzazione e nessuna indebita criminalizzazione. Lo storico deve riconoscere la storia della Chiesa così com’è: degli uomini, dei pastori, dei gruppi sociali, delle comunità la cui azione va letta dal punto di vista della missione, della carità, della cultura, individuando fattori di maggiore o minore coerenza ideale dei gesti con i principi che si vivevano e quindi non si potevano non affermare.
Un’ultima considerazione vorrei fare; è così ovvia che provo vergogna a farla, ma, vedendone l’assenza in tanta storiografia e in tanta pubblicistica, vi sono costretto. Leggere la storia della Chiesa dal 1600 in poi come se la Chiesa fosse nella stessa posizione che ha avuto dall’editto di Costantino fino al 1600, vuol dire non avere il minimo di percezione del grande rivolgimento che ha dato luogo alla “modernità”. La Chiesa, dal 1600 alla fine del secolo XX, vive una condizione di “resistenza”; non è che la Chiesa si opponga alla modernità ma, come ho detto e scritto tante volte, è la modernità che si oppone alla Chiesa. La Chiesa, dunque, si trova costretta a resistere al progetto di tipo antropologico, ateistico, razionalista, scientista, totalitario, mostrando che quello non è l’unico modo di concepire l’uomo e quindi non è l’unico modo di vivere la società.
Pagine straordinarie di questa resistenza ci sono consegnate nel magistero sociale della Chiesa moderna, che comincia con Gregorio XVI e giunge fino al compiersi della modernità alla fine del XX secolo, con la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Tale magistero dimostra che la storia della Chiesa non può prescindere dall’ottica che ho sopra ricordato della grande “resistenza”. Essa non è una resistenza ideologica o intellettualistica, ma la difesa della vita concreta del popolo di Dio, fatto dalle famiglie, dalle Parrocchie, dagli ordini religiosi, dalle confraternite, dai movimenti che la Chiesa moderna ha saputo creare; era la vita nuova e diversa del popolo cristiano che faceva resistenza al progetto ideologico, massificante, totalitario. Questa resistenza di base popolare trovava poi nel magistero sociale dei Papi una grande indicazione e un grande conforto, che la vita del popolo cristiano verificava poi nel concreto.
Io ho la convinzione, da me ampiamente sperimentata nei miei studi e nelle mie produzioni, che se ci si mette da questo punto di vista si capisce bene la storia della Chiesa, la storia della società e si trovano magari spunti per confronti positivi e per individuare, nel tessuto della storia, inedite collaborazioni che hanno reso possibile dare un aiuto sostanziale al bene dei popoli in quel determinato momento.
TV/ Beppino Englaro e la Hack nel talk di Fazio: il triste catechismo del nichilismo di sinistra - Gianni Foresti - martedì 13 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Avrebbe potuto essere una trasmissione da annoverare nella storia della tv, parlo di Chetempochefa di sabato sera, ma non lo è stata. Il programma ha ospitato Beppino Englaro papà di Eulana e l’astrofisica Margherita Hack, con due temi impegnativi ed importanti, la vita ed il mistero dell’universo.
Il papà di Eulana aveva chiesto il silenzio mediatico sulla vicenda della figlia, per poi invece scrivere un libro ed accettare la partecipazione al talk di Fabio Fazio. Non si è parlato di vita, ma di morte, della morte che il papà vuole della figlia, anzi del diritto di Eluana di morire e della discriminazione che invece è in atto. Diritto umano, fisico e costituzionale, legislativo.
E così papà Englaro ha parlato del contenuto del libro. Le domande cortesi di Fazio e le nuvole bianche sugli schermi hanno solo avvallato l’odore della dolce morte. Una cosa mi ha colpito, Fazio gli ha chiesto come mai in 17 anni non avesse trovato qualche altro espediente per far terminare la sofferenza di Eluana, ed il papà ha risposto che il morire deve essere un diritto per questo ha sempre agito solo per vie legali. Così avrebbe l’avvallo e la giustificazione di una società e di una legge che tutela la morte e non il diritto alla vita.
Domanda: forse bisogna avere troppo coraggio per staccare la spina con la propria mano?
Dal canto suo Fazio faceva la parte del conduttore compito e commosso, l’utile menestrello di una marcia funebre annunciata, l’utile cerimoniere che rispetta i desideri e voleri di una società decaduta, cui la tv fa da giullare.
E così senza contraddittorio, ma con le sue domande poste in maniera delicata è passato il terribile messaggio di papà Englaro: l’uomo come giudice della vita.
Poco dopo è arrivata Margherita Hack a presentare un suo libro, un commento alle favole, da Pinocchio a Harry Potter. Una scusa questa per parlare del cosmo, della sua nascita, della materia, del bosone di Higgs, di 13 miliardi di anni luce, del Big Bang, della materia oscura. Nessuna domanda su Chi può aver creato ciò.
Deludente sia la scienziata (forse è ora di pensionarla e lasciare libero qualche posto per i poveri ricercatori precari) sia il conduttore, che continuava a far trasparire che non capiva nulla e che il discorso della Hack era oro colato.
Il format Endemol (ma non era un prodotto targato Rai?) va bene, fa salire gli ascolti di Raitre, ed è considerato un talk d’opinione. Il conduttore ligure, ha avuto un’ascesa professionale eccellente: da imitatore a conduttore per Odeon della trasmissione sportiva Forza Italia (qui Berlusconi non c’entrava ancora), ma l’esplosione la ebbe con Quelli che il calcio e la consacrazione con Anima Mia, con lo sdoganamento di Claudio Baglioni, considerato fino ad allora un cantante “qualunquista”.
Il suo apice è stato il Festival di Sanremo, per poi andarsene a La7, restando a piedi quasi subito ma con un cospicuo conto in banca. Un po’ di silenzio e poi l’approdo a mamma Raitre. Dalle imitazioni alla cultura, dall’intrattenimento puro al pretender d’essere un maestro di pensiero.
Il nostro conduttore può sempre dire di essere laureato in Lettere, ciò non toglie che in questi anni si è tolto la maschera dell’intrattenitore per mettersi quella dell’anchorman illuminato.
La trasmissione ha una struttura molto semplice: si susseguono alcuni ospiti intervallati dai comici del calibro di Antonio Albanese e Luciana Littizzetto. Gli ospiti sono vari, dal politico allo scrittore, dal cantante al calciatore, etc.. ed ogni tanto riesce in alcuni colpi grossi, come l’ospitata di Veltroni sbattendosene della par-condicio (esiste solo per Emilio Fede), l’intervista a Ingrid Betancourt e sabato sera al papà di Eluana.
Lo studio è all’insegna di Fazio: una postazione trono da cui intervista gli ospiti, grandi schermi con un cielo azzurro con belle nuvole bianche in stile new-age. Un look informale, camicia con colletto piccolo e cravatte con nodini da bambini (che abbiano l’elastico?), una faccia pulita, capello corto, pizzetto regolare con aria da conduttore un po’ ingenuo. Un tono sempre positivo e buonista senza mai però un contraddittorio con gli ospiti, anzi con quelli politici quasi uno zerbino camuffato.
Chetempochefa ha la pretesa di essere una trasmissione culturale, che crea opinione, e che lancia messaggi, soprattutto sotto l’aspetto morale. E lo fa, in maniera pacata e camuffata, schierata Faziosamente (scusate il gioco di parole ma ci sta bene) con un pensiero di sinistra illuminato e giusto moralmente alla Eugenio Scalfari. Un conduttore che si impone per i modi cortesi ed apparentemente ingenui che forse prima o poi vedremo a fianco di Veltroni.
QUEI FIGLI – DICE IL PAPA – NON SONO VOSTRI - Sono in buone mani. Fidiamoci di Dio - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 gennaio 2008
Domenica, Benedetto XVI ha battezzato dei bambini. «Ne sono veramente contento», ha detto, con una semplicità che si è fatta, nell’austerità della Sistina, linguaggio familiare. E felici erano quelle madri, quei padri, che si vedevano battezzato dal Papa il proprio figlio: l’eco di quella gioia l’avevano scritto sulla faccia, e negli sguardi commossi e umanamente orgogliosi, fissi sul 'loro' bambino. Ma a queste madri, e padri, e a tutti gli altri padri e madri, Benedetto XVI ha detto una cosa importante, anzi fondamentale: «Il bambino non è proprietà dei genitori, ma è affidato dal Creatore alla loro responsabilità, liberamente e in modo sempre nuovo, affinché essi lo aiutino ad essere un libero figlio di Dio». Questi figli, ha detto dunque il Papa, non sono 'vostri'. Affermazione non nuova, eppure per niente scontata in un tempo in cui di figli se ne hanno pochi, e su quei pochi, o quell’unico, si concentrano aspettative, e possesso. Provate a immaginare di dire a una coppia in contemplazione estatica del proprio primogenito davanti alla nursery di un ospedale: questo figlio, non vi appartiene. Come, non ci appartiene? – obietterebbero in molti. Ma se ci somiglia così tanto, anzi, è identico a suo padre; ma se l’abbiamo voluto, e anzi programmato, e lo chiameremo come il nostro calciatore preferito – che bello, se gli somigliasse. Cosa significa, che questo figlio non è 'nostro'? Significa appunto che è di un altro, dice il Papa, fedele alla più antica tradizione cristiana: «Il battesimo è questo: restituiamo a Dio ciò che da Lui è venuto». Ciò che non ci può appartenere, in quanto non l’abbiamo fatto noi. E questo lo sanno più istintivamente le donne, o almeno quelle non totalmente distratte. Che quando sono incinte, e quando poi avvertono in sé i primi movimenti del bambino, hanno un istante di naturale stupore, al manifestarsi di quella vita spuntata da due infinitesimali cellule. E spesso, se si fermano a pensare, tremano: si sta formando il suo cervello, il suo cuore, e io non so neppure lontanamente come. La coscienza di questa abissale inadeguatezza oggi si declina facilmente in un’ansia: superesami, supercontrolli, ecografie continue a spiare, sospettose di 'difetti', il buio uterino. È il principio del possesso: 'nostro figlio', deve essere perfetto. È la propria pretesa sullo sconosciuto misteriosamente in arrivo. E d’altra parte, come liberarsi dalla paura, se nessuna scienza può davvero garantirci la piena salute di un figlio? La risposta per i cristiani sta proprio nella certezza che i figli appartengono a Dio. Che chi li ha suscitati dal nulla ne è il vero padre, colui che prima che la madre li concepisse già li conosceva, come dice un salmo. Un Dio padre che trae i suoi figli dentro un disegno buono, anche nella più estrema drammaticità. Questo 'altro' padre tacitamente presente è il punto di equilibrio fra la possessività viscerale che fa dei figli cose proprie, e l’abbandono alle pure istintive inclinazioni di quei figli cresciuti – in molti da trent’anni a questa parte – come senza alcun padre. Tra questi due estremi, di cui oggi vediamo ogni giorno esempi che smarriscono nelle cronache dei giornali, il Papa ricorda una antica terza via: «affidare i figli alla bontà di Dio», e insegnare loro a chiamarlo Padre. Come un allargarsi del cielo sulle nostre preoccupazioni: cosa farà, dove andrà, chi diventerà. Come nelle parole di quel contadino di Charles Peguy, disperato perché i suoi bambini erano malati: che decide affidarli, anzi di metterli fra le braccia della Madonna, perché in realtà sono figli 'suoi'. E se ne va poi sgravato da una troppo grande angoscia: comunque certo ora, per quei figli, di un destino buono.