sabato 17 gennaio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La Reconquista educativa di Emanuele Boffi - Per rispondere alle «provocazioni» come la preghiera a Milano e Bologna serve un patto educativo con l’islam. Parla Fouad Allam - Tempi 12-1-2009
2) «Separare la Carità dalla Verità,
non è cattolico» - Caritas in Veritate. Così sarà intitolata l’Enciclica sociale di Benedetto XVI, prevista per il 15 aprile.
3) AA.VV. Romano Amerio, il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa Cattolica del xx secolo Con inedito di Romano Amerio - Recensione
4) IL CASO MEDJUGORJE: NON SPEGNERE LO SPIRITO - Benedetto XVI , come Giovanni Paolo II, difende la fede del popolo cristiano di Antonio Socci - Da Libero, 16 gennaio 2009
5) La dedizione di Benedetto XVI per il dialogo fra ebrei e cattolici Un'istanza del cuore di Norbert J. Hofman Segretario della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo – L’Osservatore Romano, 17 Gennaio 2009
6) Il nuovo fenomeno di comunicazione della rete L'utopia di Facebook - È in uscita il primo numero del 2009 del quindicinale "La Civiltà Cattolica". Anticipiamo stralci di uno degli articoli. di Antonio Spadaro – L’Osservatore Romano, 19 Gennaio 2009
7) Televisione, scuola e famiglia - La rivincita dei somari parte dalla tv svedese - di Andrea Piersanti – L’Osservatore Romano, 19 Gennaio 2009
8) RECENSIONI/ Svelare la morte, l’ultima avventura letteraria di Philip Roth - Redazione - sabato 17 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) SUI BUS GENOVESI NIENTE PUBBLICITÀ L’ELOGIO DI QUEGLI AUTISTI. CONTRO LA BANALITÀ - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 17 gennaio 2009
10) IDEE. È morto giovedì a Parigi uno dei più grandi teologi contemporanei Nel ’98 aveva scritto i testi della Via Crucis per Giovanni Paolo II - Clément, il ’68 dello Spirito – Cresciuto in ambiente ateo e marxista, si convertì alla fede cristiana nella Chiesa ortodossa. Da allora è stato un vero protagonista del dialogo fra Oriente e Occidente. Originale la sua lettura della contestazione - DI ANDREA RICCARDI - Avvenire, 17 gennaio 2009


La Reconquista educativa di Emanuele Boffi - Per rispondere alle «provocazioni» come la preghiera a Milano e Bologna serve un patto educativo con l’islam. Parla Fouad Allam - Tempi 12-1-2009
Un “patto educativo”. è questa l’idea lanciata da Khaled Fouad Allam in un’intervista al Corriere della Sera per rispondere al problema dell’integrazione musulmana. Il docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste e di Islamistica all’Università di Urbino, ex parlamentare del Pd, oggi lontano dalle istanze del partito veltroniano, è rimasto assai colpito dalle immagini dei musulmani oranti davanti al Duomo a Milano e a San Petronio a Bologna. «La politica può fare poco. Ci vuole un nuovo patto educativo – ripete a Tempi Fouad Allam –, perché l’Italia, così come l’Europa, rischia di fare il gioco degli islamisti che tentano di spostare il conflitto dal piano politico a quello religioso». Secondo il sociologo algerino, che da pochi mesi firma come editorialista sull’Osservatore romano, l’ambito cruciale per una vera integrazione è «la scuola. Occorre che i nuovi immigrati imparino il rispetto per la democrazia. E questo può essere insegnato sui banchi di scuola. Gli islamici devono imparare a essere minoranza e ad accettare le conseguenze di questo loro status. Non va chiesto loro di rinunciare alla loro fede o alla loro identità religiosa, ma certamente devono imparare le regole della democrazia e sintonizzare la loro identità con esse». Per Fouad Allam «una volta nelle scuole si insegnava l’educazione civica. Per gli immigrati, penso anche ai non musulmani, bisognerebbe pensare a qualche disciplina che insegni loro sia il rispetto delle regole del paese di cui sono ospiti, sia la cultura delle altre civiltà». Questa scuola delle diversità e delle regole deve, però, mantenere un punto fisso e qualificante: «Il rispetto dell’altrui cultura e dell’altrui diversità può essere sempre accettato fintanto che non entri in aperto contrasto con le leggi del paese in cui si vive».
I partecipanti alla preghiera provenivano da manifestazioni di solidarietà ai palestinesi della striscia di Gaza. Ma il corteo di Milano, che avrebbe dovuto fermarsi in piazza San Babila, è proseguito fino di fronte al Duomo, impedendo poi di fatto ai fedeli cattolici l’accesso alla chiesa. La preghiera è stata guidata dall’imam della moschea di viale Jenner, Abu Imad, già condannato per terrorismo e considerato “indesiderato” anche dai paesi islamici. Prima che giungessero le rassicurazioni da parte della curia milanese che i rappresentanti dell’islam cittadino erano pronti a “chiedere scusa”, lo stesso Abu Imad aveva minimizzato, spiegando che si era trattato «di un caso. Ci siamo trovati lì e abbiamo pregato. Nessuna provocazione, nessun oltraggio». Qualcosa, però, oltre alla preghiera era accaduto. In piazza erano state bruciate delle bandiere israeliane, urlati slogan contro gli «assassini Bush e Barak», esposti striscioni che equiparavano la stella di Davide con la svastica. Se per la responsabile palestinese in Lombardia Khader Tamini si era solo trattato di una «preghiera per la pace», per monsignor Luigi Manganini, arciprete del Duomo di Milano, si trattava quantomeno di «mancanza di sensibilità».

«Si poteva rimandare la preghiera»
Se per Angela Lano, direttrice di Infopal, agenzia di stampa promotrice della manifestazione, «la preghiera mi è parsa una cosa carina», per il vescovo ausiliare di Bologna, Ernesto Vecchi, non si poteva nascondere che «non si trattava di una preghiera e basta. è una sfida, più che alla basilica, al nostro sistema democratico e culturale. C’è un progetto che viene da lontano e che prevede l’islamizzazione dell’Europa». Pax Christi ha esternato le proprie simpatie per i musulmani oranti e ha proposto di listare a lutto le stelle comete per «protestare contro i crimini di guerra perpetrati a Gaza», l’ex portavoce del Vaticano, Joaquín Navarro-Valls, ha scritto su Repubblica che «vedere che in Italia è permesso a dei musulmani di praticare l’islam davanti a una cattedrale cattolica smuoverà certamente le coscienze di molti musulmani di tutto il mondo a riconoscere, almeno in parte, quegli stessi diritti mai concessi alle minoranze cristiane ed ebraiche».
Per Khaled Fouad Allam, però, c’è un aspetto di tutta la vicenda che non regge: «Sostenere che era l’ora della preghiera e che quindi ci si è dovuti prostrare per pregare e che quello era un luogo come un altro, mi pare essere molto difficile da credere. Certo, non posso indovinare fino in fondo quali fossero le reali intenzioni dei musulmani, ma so per certo che non esiste alcun obbligo di orazione nell’islam. Il momento della preghiera, pensiamo al caso, ad esempio, del fedele impossibilitato per malattia, può essere rimandato. Così avrebbero potuto fare quelle persone. Invece hanno scelto di fermarsi e di pregare proprio sul sagrato». Anzi, hanno scelto di andarci, visto che il corteo avrebbe dovuto fermarsi prima. «Io credo sia stata una provocazione. La valenza simbolica di islamici oranti davanti a chiese cattoliche è evidente. C’è stata una deliberata volontà di enfatizzare e politicizzare quel gesto».


«Separare la Carità dalla Verità, non è cattolico» - Caritas in Veritate. Così sarà intitolata l’Enciclica sociale di Benedetto XVI, prevista per il 15 aprile.
Quel titolo, Carità nella Verità, molto riecheggia (indirettamente) il pensiero di un intellettuale cattolico del Novecento spesso dimenticato, ma ultimamente in via di riscoperta: Romano Amerio (1905-1997). Filologo e filosofo di Lugano, svizzero di nascita ma “romano” (nel senso di cattolico) per vocazione. Da sempre è considerato la bestia nera di ogni pensiero cattolico progressista, filone che, in effetti, ha steso un silenzio colpevole per decenni sulle sue due opere teologiche maggiori, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo (1985) e Stat Veritas. Sèguito a Iota unum (1997). Amerio fu colui che meglio teorizzò la disamina della crisi del cattolicesimo novecentesco in una semplice constatazione: «Separare l’amore, la Carità dalla Verità, non è cattolico» come annota in un testo inedito da poco pubblicato nel volume Romano Amerio, il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa cattolica del XX secolo, fresco di stampa per le Edizioni Fede & Cultura (145 pagine, 20 euro).
Caritas in Veritate
L’anticipazione arriva da Oltreoceano, per di più da una fonte autorevole, la casa editrice americana Ignatius che pubblica abitualmente i libri di Benedetto XVI. Scrive la rivista Ignatius Insight, ripresa dall’agenzia Infocath della Conferenza episcopale francese, che la nuova enciclica sociale del Papa uscirà il 15 aprile, sarà divisa in due parti, conterrà cento pagine (nell’edizione inglese) e si intitolerà Caritas in Veritate. Essa verterà su argomenti “caldi” come «la mondializzazione», «le urgenze alimentari», «i cambiamenti climatici» e altre questioni «che possono suggerire una valutazione morale della Chiesa».
Quel titolo, Carità nella Verità, molto riecheggia (indirettamente) il pensiero di un intellettuale cattolico del Novecento spesso dimenticato ma ultimamente in via di riscoperta: Romano Amerio (1905-1997). Filologo e filosofo di Lugano, svizzero di nascita ma “romano” (nel senso di cattolico) per vocazione, Amerio fu studioso di Manzoni, Leopardi e Sarpi. Da sempre è considerato la bestia nera di ogni pensiero cattolico progressista, filone che, in effetti, ha steso un silenzio colpevole per decenni sulle sue due opere teologiche maggiori, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo (1985) e Stat Veritas. Sèguito a Iota unum (1997), entrambe uscite da Ricciardi, oggi esaurite.
Già, perché Amerio fu – per dirlo in sintesi – colui che meglio teorizzò la disamina della crisi del cattolicesimo novecentesco in una semplice constatazione: «Separare l’amore, la carità dalla verità, non è cattolico» come annota in un testo inedito da poco pubblicato. Ovvero la questione da sempre dibattuta se il primato debba andare alla verità o alla carità. E già il titolo del prossimo documento magisteriale di Benedetto XVI annunciato per la primavera dimostra che la proposta “ameriana” è stata rivalutata in alto loco nei Sacri Palazzi.
Continua Amerio nella sua analisi dei rapporti tra carità e verità: «La celebrazione indiscreta che la Chiesa e la teologia ammodernata fanno dell’amore è una perversione del dogma trinitario perché (…) l’amore è preceduto dal Verbo, è preceduto dalla cognizione, e non si può fare dell’amore un assoluto. (…) Difatti l’amore procede dalla conoscenza. Quando si dice che l’amore non procede dalla conoscenza si fa dell’amore un valore senza precedenti, invece c’è un valore che precede l’amore ed è la conoscenza. Quindi questo avvaloramento indiscreto dell’amore implica una distorsione del dogma trinitario».
Giunge dunque a proposito Romano Amerio, il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa cattolica del XX secolo, fresco di stampa per le Edizioni Fede & Cultura (145 pagine, 20 euro), che contiene “La questione del Filioque, ovvero la dislocazione della divina Monotriade”, il testo mai finora pubblicato cui abbiamo fatto riferimento. Si tratta degli atti di un convegno realizzato ad Ancona nel 2007 su Amerio (che don Divo Barsotti definì «un vero cristiano»), cui hanno preso parte personaggi qualificati della cultura cattolica, tra cui Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso, monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i Migranti, Enrico Maria Radaelli, filosofo e discepolo di Amerio, nonché Antonio Livi, docente di filosofia all’Università Lateranense.
Una questione di alta levatura teologica, quella affrontata da Amerio, oppure invece un grido di allarme veritiero sulle condizioni del pensiero e dell’azione cattolici? Decisamente la seconda delle due. Il filosofo svizzero, infatti, ha la capacità di legare in maniera geniale grandi elucubrazioni teologiche con osservazioni pratiche quanto mai ficcanti. Un esempio? «La nostra fede porta che in principio sia il Padre, il Padre genera il Figlio, che è il Verbo, e, dal Padre e dal Figlio, si genera lo Spirito Santo, che è l’amore. L’amore è preceduto dal Verbo, è preceduto dalla cognizione. (…) Facendo dell’amore un assoluto si cade nell’errore degli Orientali, che non accettano il Filioque del nostro Credo».
Senza il Figlio non esiste remora
Fin qui l’argomentazione teologica. E il risvolto pratico? Amerio ne dà eloquenti esemplificazioni: «Questo del Filioque, che sembra un teorema di astratta teologia, è un atteggiamento formidabilmente pratico, perché il mondo è pervaso dall’idea che il valore vero sia l’azione, il dinamismo». Ma di qui ecco il rischio: «Si cade facilmente in un irenismo che vuole abbracciare ogni dottrina, ogni religione; questo abbraccio è possibile in quanto si prescinde dal Verbo, che è una verità, che è una legge». Ecco le concretizzazioni storiche di questo erroneo procedimento teologico, secondo il filosofo di Lugano: «I nazisti erano contro il Filioque, i comunisti sono contro il Filioque. I comunisti non sostengono il Filioque perché ripudiano la ragione: il comunismo è un sistema che maneggia l’uomo senza aver riguardo alla natura dell’uomo. (…) L’azione, in questi sistemi totalitari – nazismo e bolscevismo – non ha alcuna legge al di fuori di quella dell’azione stessa: perché ripudia il Filioque». E invece Amerio richiama la grande affermazione di Paolo VI: «Noi siamo i soli a difendere il potere della ragione», ripreso con altri accenti da Benedetto XVI nella sua memorabile lezione di Ratisbona e nell’appello ad «allargare i confini della ragione» rivolto al pensiero laico durante il convegno della Cei di Verona.
Oggi gli eccessi della predominanza concettuale (e quindi pratica) della carità sulla verità, dell’ordine dell’amore sulla conoscenza, sono sotto gli occhi di tutti. Basta guardare le questioni della biopolitica, un campo in cui i radicali alla Pannella sono maestri nell’anteporre le cosiddette ragioni del cuore a quelle della ragione. Per avallare l’uccisione di una persona come Eluana Englaro si invoca “la compassione”, il “gesto di amore” di chi vuole «mettere fine alle sue sofferenze», invece che riconoscere la verità primordiale della dignità della persona e della vita umana. Anche per ottenere il riconoscimento dei “diritti” delle coppie gay si fa leva sull’“amore”, omettendo sempre la verità di cosa sia un matrimonio, l’unione di persone irriducibilmente diverse dal punto di vista sessuale. Come profetizzava Amerio, «al fondo del problema moderno c’è il Filioque, perché chi nega il Filioque concede il primato, indiscreto e assoluto, all’amore: l’amore non ha limiti, non ha remore; qualunque azione tu faccia “con amore”, quell’azione è buona». Anche così una povera ragazza indifesa di Lecco può essere tranquillamente mandata all’altro mondo. «Per amore».
di Lorenzo Fazzini
Tempi 12 Gennaio 2009

AA.VV. Romano Amerio, il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa Cattolica del xx secolo Con inedito di Romano Amerio - Recensione
Pagine 160
Prezzo: € 20,00
Edizioni Fede & Cultura
Recensione:
Nel decennale della morte la Chiesa riscopre con grande fervore - dopo anni di dimenticanza e ostracismo - un suo figlio gigante del pensiero e del rigore nello studio della Chiesa pre e post-conciliare. La sua opera è una Summa di tutto lo scibile cattolico e delle variazioni che ne hanno offuscato la visibilità nel secolo ventesimo. Sette grandi specialisti si confrontano con questo Autore e ne riportano in auge la genialità. Con un inedito di Romano Amerio.
Gli Autori:
Giuseppe Possedoni (prefatore e curatore del Convegno di Ancona del 9.11.2007), il Centro studi Oriente Occidente, Sandro Magister, giornalista, vaticanista di Repubblica, Agostino Marchetto, arcivescovo segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli itineranti, storico e canonista, Matteo D’Amico, docente di Storia e Filosofia, Enrico Maria Radaelli, saggista, scrittore, direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Estetica dell’Associazione Internazionale Sensus Communis, Dario Sacchi, Università Cattolica del Sacro Cuore, Antonio Livi, Pontificia Università Lateranense, Pietro Cantoni, Studio Teologico Interdiocesano “Mons. Enrico Bartolett”, Camaiore (Lucca), ROMANO AMERIO, massimo filosofo svizzero studioso della dottrina cattolica del secolo XX.
Per ordinazioni:
Fede & Cultura Società Cooperativa
via Camuzzoni, 5
37138 Verona
tel. 045-941851
fax. 045-9251058 (all'att.ne di Fede & Cultura)
e.mail: edizioni@fedecultura.com



IL CASO MEDJUGORJE: NON SPEGNERE LO SPIRITO - Benedetto XVI , come Giovanni Paolo II, difende la fede del popolo cristiano di Antonio Socci - Da Libero, 16 gennaio 2009
Oggi a turbare la Chiesa, rischiando di creare scandalo e smarrimento per milioni di fedeli, più di certi atei dichiarati che fanno campagne pubblicitarie sui bus di Genova, sono quelli che – magari con un abito ecclesiastico – fanno la guerra a Dio dall’interno e sotto pretesti “religiosi” propagano un pensiero “non cattolico” (come confidò amaramente Paolo VI a Jean Guitton).

Non a caso il cardinale Ratzinger iniziò un memorabile discorso ai biblisti, in un ateneo vaticano, ricordando la figura dell’Anticristo di un racconto di Solovev, il quale Ant icristo era “un celebre esegeta” con dottorato in Teologia a Tubinga. Il monito, sia pure garbato, era evidente.

D’altra parte, curiosamente, a riesumare una sorta di Inquisizione, in questi anni, non è stato il campo ortodosso, contro chi propala eresie e contesta il Magistero pontificio, ma piuttosto coloro che vorrebbero mettere sotto inquisizione la Madonna stessa che osa manifestarsi senza il loro permesso. A essere vessati da nuove inquisizioni spesso sono coloro che testimoniano una fede viva e fedele al Papa, non gli eretici.

Ora suscitano qualche preoccupazione, fra i tanti e fervorosi fedeli della Madonna, certe “anticipazioni” (che non si sa se siano veritiere) del cosiddetto “vademecum” che dovrebbe occuparsi di eventi soprannaturali. Le voci sul suo presunto contenuto sono state riportare da “Panorama”, tre mesi fa, e in questi giorni da un sito internet: si tratterebbe di un “direttorio” contro Medjugorje (meta di milioni di pellegrini e luogo straordinario di conversione) e contro i fatti di Civitavecchia dove, nel febbraio-marzo 1995, una statuetta della Madonna proveniente da Medjugorje, ha pianto lacrime di sangue per 14 volte.

A favore dell’autenticità delle apparizioni di Medjugorje e della lacrimazione miracolosa di Civitavecchia ci sono non solo le accurate indagini scientifiche condotte sui veggenti durante le apparizioni e sulla statuetta di Pantano, indagini che escludono categoricamente ogni forma di imbroglio o di autosuggestione. C’è anche l’enorme quantità di conversioni e pure di guarigioni inspiegabili che vi si sono verificate e continuano a verificarsi (le testimonianze sono documentate). C’è la perfetta ortodossia che si respira in questi santuari. E, insieme alla devozione di milioni di semplici cristiani, c’è la devozione convinta di tanti sacerdoti, vescovi e cardinali. Soprattutto quella, acclarata, di Giovanni Paolo II che ha manifestato in modo inequivocabile e più volte, anche per iscritto, la sua convinzione personale sull’autenticità delle apparizioni di Medjugorje e della lacrimazione della Madonnina.

Certamente un “vademecum” per i vescovi oggi può essere utilissimo per trattare i tanti casi di “visionari” da strapazzo e di imbroglioni, ma è da escludere che tale “direttorio” sia mirato contro Medjugorje e Civitavecchia che sono due santuari mariani e hanno ormai una loro storia di devozione del popolo cristiano (che, ricordiamolo, è richiesta nelle canonizzazioni ed presupposta di fatto perfino nelle definizioni dei dogmi) e sono due santuari mariani.

Si dice che il “direttorio” prescriva il ricorso pure a “psichiatri atei”. A Medjugorje è già successo. All’inizio, nel 1981, quando il regime comunista si scatenò contro le apparizioni con arresti, vessazioni e violenze, i sei ragazzi furono pure trascinati davanti a psichiatri del regime i quali però dovettero riconoscere la loro perfetta sanità mentale e la loro buonafede. Alla fine alcuni di quei medici addirittura si convertirono, insieme con i poliziotti che dovevano reprimere.

A Civitavecchia la Madonnina superò il duro vaglio del vescovo che non credeva e che vide la quattordicesima lacrimazione accadere proprio fra le sue stesse mani, subendo uno choc cardiaco. E ha superato pure il vaglio della commissione ecclesiastica (che ha escluso allucinazione, fenomeno parapsicologico o diabolico) e quello laico più esigente, della scienza (che ha riconosciuto la non spiegabilità scientifica del fenomeno) e della magistratura che – dopo accurate indagini e considerati i tantissimi testimoni delle lacrimazioni (tra essi “il Comandante della polizia municipale, agenti della polizia penitenziaria e della polizia di Stato”), scrive che esse “debbono ricondursi o ad un fatto di suggestione collettiva o ad un fatto soprannaturale”. Sennonché quelle lacrime di sangue, essendo state fotografate e filmate, non possono essere una “suggestione”: sono state addirittura analizzate in laboratorio, al microscopio e definite “sangue umano”.

Su Medjugorje il segretario di Stato Bertone, appena fu nominato, esplicitò la posizione di questo pontificato precisando che i pellegrinaggi là, ovviamente non ufficiali, “sono permessi” e consigliò perfino “un accompagnamento pastorale dei fedeli”. Inoltre definì ancora una volta “personali” le dichiarazioni “fortemente critiche” del vescovo di Mostar e indicò come giusta la posizione di attesa dei vescovi della ex Jugoslavia che “lascia la porta aperta a future indagini”.

Anche perché il gran numero di apparizioni, tuttora in corso, non è più un ostacolo, dopo che sono state riconosciute, di recente, le apparizioni di Laus dove la Madonna, a partire dal 1647, si manifestò per ben 54 anni e a lungo quotidianamente.

Dunque i tanti fedeli di Medjugorje e Civitavecchia possono stare tranquilli. Del resto il Papa dimostra di avere molto a cuore l’unità della Chiesa. Anche di recente lo ha dimostrato nel modo in cui ha risolto paternamente il problema neocatecumenale e nel modo in cui ha teso la mano ai tradizionalisti, con il recupero dell’antica liturgia, chiedendo ai vescovi francesi di accoglierli e di non discriminare nessuno. Da vero padre vuole scongiurare in ogni modo fratture e disorientamento dei fedeli. Infine anche la devozione e la stima verso Giovanni Paolo II lo inducono a difendere Medjugorje e Civitavecchia. Perciò è escluso che il direttorio sia “contro” questi due santuari.

E’ anche molto dubbio che il Papa possa varare in generale un “direttorio” così duro e repressivo come quello vagheggiato da certe indiscrezioni, perché proprio Ratzinger fu l’autore del memorabile discorso con il quale il cardinale Frings, arcivescovo di Colonia, nel 1962 convinse la Chiesa a mandare il pensione il vecchio S. Uffizio e certi suoi sistemi “la cui modalità procedurale in molte cose non si accorda ancora con il nostro tempo e per la Chiesa sarà un danno e per molti uno scandalo”.

Considerati gli errori dolorosissimi fatti 50 anni fa da ecclesiastici nel trattare casi di santi come padre Pio o eventi come Ghiaie di Bonate, è dubbio che proprio papa Ratzinger permetta di tornare a regole vessatorie che oggi potrebbero essere impugnate perfino dal punto di vista dei diritti umani, oltreché del diritto naturale e del diritto canonico, producendo “un danno per la Chiesa e uno scandalo”.

Benedetto XVI non vuole affatto “spegnere lo Spirito” e “disprezzare le profezie” (1Ts. 5, 19-20), come qualche teologo e qualche curiale, ma vuole l’esatto contrario: già da cardinale mise in guardia i cattolici dal diventare “deisti”, cioè coloro che non credono veramente “a un’azione di Dio nel nostro mondo” e perciò s’illudono che “dobbiamo noi creare la redenzione, noi creare il mondo migliore, un mondo nuovo. Se si pensa così il cristianesimo è morto”.

“La Chiesa” spiegava Ratzinger “affronta le sfide che le sono proprie grazie allo Spirito Santo che, nei momenti cruciali, apre una porta per intervenire”. Storicamente lo ha fatto con i grandi santi “che erano anche profeti”, ma anzitutto tramite la Madonna: “C’è un’antica tradizione patristica che chiama Maria non sacerdotessa, ma profetessa. Il titolo di profetessa nella tradizione patristica è, per eccellenza, il titolo di Maria… Si potrebbe dire, in un certo senso, che di fatto la linea mariana incarna il carattere profetico della Chiesa”.

Dunque la “Regina dei profeti” va ascoltata, non imbavagliata.

Antonio Socci


La dedizione di Benedetto XVI per il dialogo fra ebrei e cattolici Un'istanza del cuore di Norbert J. Hofman Segretario della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo – L’Osservatore Romano, 17 Gennaio 2009
Il 17 gennaio, la Chiesa in Italia, in Polonia, in Austria e nei Paesi Bassi celebra la "Giornata dell'ebraismo", espressione di grande apprezzamento dell'ebraismo da parte della Chiesa cattolica. Si tratta di divenire consapevoli, in quanto cristiani, della robustezza delle radici cristiane della propria fede. Parimenti, il dialogo con l'ebraismo odierno deve essere promosso mediante determinate manifestazioni. Laddove ebrei e cattolici vivono fianco a fianco spesso si producono azioni comuni a livello sia accademico sia concretamente pastorale. È molto bello che ora anche la Conferenza episcopale svizzera si impegni in progetti concreti per l'introduzione di un particolare Dies Iudaicus ed è auspicabile che anche altre conferenze episcopali riflettano su questa possibilità di promozione del dialogo ebraico-cattolico. Quest'anno dispiace che, a causa delle controversie suscitate dalla riformulazione della preghiera del venerdì santo per gli ebrei - del messale del 1962 - la conferenza rabbinica italiana abbia deciso di non partecipare a questa Giornata dell'ebraismo. Tuttavia essa ha sottolineato che, fondamentalmente, non si tratta di un abbandono del dialogo con la Chiesa cattolica e che questa decisione è da considerare nell'ambito di una pausa di riflessione nel dialogo stesso. Ciononostante, la Conferenza episcopale italiana (Cei) considera questa Giornata dell'ebraismo un'occasione interna alla Chiesa, la cui celebrazione intende, come sempre, testimoniare il suo apprezzamento dell'ebraismo odierno.
Non si può negare che la nuova preghiera per gli ebrei nella liturgia del venerdì santo del messale del 1962, che è stata pubblicata il 4 febbraio 2008, abbia suscitato irritazione e insofferenza a livello internazionale nel dialogo fra ebrei e cattolici. Tuttavia, le reazioni e la durata della polemica sono state diverse per organizzazione, Paese e mentalità. Spesso questa preghiera è stata mal interpretata come appello missionario verso gli ebrei, come atto di nuovo proselitismo. Il cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, in un articolo pubblicato il 10 aprile 2008 su "L'Osservatore Romano", dal titolo La preghiera del venerdì santo per gli ebrei. La discussione sulle recenti modifiche, ha offerto una interpretazione teologicamente fondata per una retta comprensione. In esso il cardinale afferma che la preghiera ha un carattere del tutto escatologico e non si può collegare in alcun modo con un appello a una concreta missione verso gli ebrei. Anzi pone il destino escatologico degli ebrei nelle mani di Dio. L'articolo conferma, in tal modo, il significato determinante della dichiarazione conciliare Nostra aetate e la disponibilità a proseguire e approfondire il dialogo ebraico-cattolico. In una lettera del 14 maggio 2008 inviata dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone al Gran Rabbinato di Israele questa posizione è stata ribadita e approfondita. Anche se nell'opinione pubblica ha spesso dominato la polemica su questa preghiera, bisogna anche chiarire che, dietro le quinte, non si è mai pensato di porre fine al dialogo. Al contrario, si è intensificata la collaborazione per superare questo equivoco, forse avvicinando ebrei e cattolici, e ha dimostrato con chiarezza che essi, 43 anni dopo l'inizio di un dialogo istituzionalizzato, possono venirsi incontro anche e soprattutto quando il dibattito verte su questioni controverse. A questo proposito, bisogna considerare anche la dibattuta questione di un'eventuale elevazione agli onori degli altari di Papa Pio XII, ridivenuta attuale in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, il 9 ottobre 2008.
Durante questo periodo di polemiche è stato dimostrato che si possono trattare anche i temi più controversi con calma e reciproca stima in un'atmosfera di collaborazione amichevole. Questo fatto mostra una maturazione notevole del dialogo tra ebrei e cattolici. Inoltre si è potuto rilevare che dopo Nostra aetate (n. 4) vi è stato uno sviluppo decisamente positivo: da un'iniziale ermeneutica dello scontro, attraverso un'ermeneutica della differenza reciproca, si è giunti adesso al tempo della fiducia e della collaborazione nonostante qualche difficoltà che sempre ha fatto e sempre farà parte del dialogo tra ebrei e cattolici.
Proprio sulla base delle suddette controverse questioni nel dialogo ebraico-cattolico bisogna affermare chiaramente che Papa Benedetto XVI nell'anno 2008 si è dedicato in modo particolare al dialogo con l'ebraismo, tanto più che si tratta per lui di una istanza del cuore. Considera questo dialogo, dal punto di vista teologico, fondato sui capitoli 9-11 della lettera dell'apostolo Paolo ai Romani e come una riconciliazione dopo una storia lunga, difficile e complessa di ebrei e cristiani.
Il 17 aprile 2008, nel corso del viaggio negli Stati Uniti d'America, Benedetto XVI ha incontrato a Washington, in occasione di un incontro interreligioso con diverse confessioni, anche una delegazione di rappresentanti ebrei, ai quali ha rivolto un augurio scritto in occasione dell'approssimarsi della festa di Pasqua. In tale augurio ha fatto espressamente riferimento alla Nostra aetate (n. 4) e ha sottolineato: "Nel rivolgermi a voi, desidero riaffermare l'insegnamento del concilio Vaticano ii sulle relazioni cattolico-ebraiche e reiterare l'impegno della Chiesa per il dialogo che nei trascorsi quarant'anni ha cambiato in modo fondamentale e migliorato i nostri rapporti. A motivo di questa crescita nella fiducia e nell'amicizia, cristiani ed ebrei possono insieme sperimentare nella gioia il carattere profondamente spirituale della Pasqua, un memoriale di libertà e di redenzione".
Il giorno successivo, poco prima dell'inizio del servizio liturgico del Sabato ebraico e della festa di Pasqua, Benedetto XVI ha visitato a New York la Park East Synagogue, per esprimere il suo rispetto e il suo apprezzamento per la comunità ebraica in quella città. Ha riconosciuto che la comunità ebraica a New York reca un contributo prezioso alla vita cittadina e ha incoraggiato tutti a edificare ponti di amicizia fra tutti i diversi gruppi religiosi ed etnici. Per Benedetto XVI si è trattato della seconda visita del genere, dopo quella alla sinagoga di Colonia, il 19 agosto 2005. Per il Papa, un incontro interreligioso è stato organizzato non solo negli Stati Uniti d'America, ma anche in Australia, naturalmente in occasione della Giornata mondiale della gioventù. Il 19 luglio 2008 rappresentanti di diverse religioni, fra cui ebrei australiani, hanno incontrato il Papa nel vescovado di Sydney.
Nel suo successivo viaggio in Francia Benedetto XVI ha avuto un incontro con gli ebrei. La comunità ebraica in Francia, con quasi seicentomila membri, è una delle più grandi del mondo. Ciò ha giustificato un incontro con i rappresentanti dell'ebraismo francese il 12 settembre 2008 nella nunziatura. Nel suo breve discorso, il Papa ha sottolineato il reciproco e fraterno orientamento di cristiani ed ebrei: "Cari amici, a motivo di ciò che ci unisce e a motivo di ciò che ci separa, abbiamo una fratellanza da fortificare e da vivere. E sappiamo che i legami di fratellanza costituiscono un continuo invito a conoscersi meglio e a rispettarsi".
Inoltre ha assunto una posizione decisa contro ogni forma di antisemitismo: "La Chiesa (...) si oppone ad ogni forma di antisemitismo, di cui non v'è alcuna giustificazione teologica accettabile. Il teologo Henri de Lubac (...) comprese che essere antisemiti significava anche essere anticristiani" ("L'Osservatore Romano", 14 settembre 2008, pagina 10).
Tornato dalla Francia, il Papa ha ricevuto il 18 settembre 2008, a Castel Gandolfo, una delegazione dell'organizzazione ebraica Pave-the-Way-Foundation, che ha organizzato un simposio di tre giornate su Pio XII, il cui tema centrale è stata l'importante questione per gli ebrei delle fonti relative a quanto veramente fatto da quel Papa in favore degli ebrei nei tempi difficili della seconda guerra mondiale. Occasione del simposio è stato il cinquantesimo anniversario della morte di Pio XII, il 9 ottobre 2008.
È risultato evidente che nel mondo ebraico vi sono diverse opinioni sul giudizio da dare a questo Papa e vi saranno anche in futuro, se entro sei, sette anni verranno resi pubblici gli archivi vaticani sul suo pontificato.
Infine, va menzionato un evento storico nel dialogo ebraico-cristiano. Per la prima volta, nella storia dei Sinodi episcopali dal concilio Vaticano II un rabbino ha avuto l'occasione di rivolgersi a tale assemblea, in presenza del Papa. Il rabbino capo di Haifa, Shear Yashuv Cohen, è stato invitato a parlare del significato delle Sacre Scritture per la vita religiosa ebraica, nel corso della prima giornata dopo l'apertura ufficiale del Sinodo (6 ottobre 2008). In generale questo gesto è stato considerato con favore. Nel suo discorso alla curia romana, per lo scambio degli auguri di Natale, il 22 dicembre 2008, Benedetto XVI ha fatto ancora una volta riferimento a tale evento.
Un altro incontro con una delegazione ebraica si è svolto in Vaticano il 30 ottobre 2008. Benedetto XVI ha ricevuto una delegazione dell'International Jewish Committee on Interreligious Consultations, che è l'interlocutore ufficiale della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo dal 1970, con cui ha finora organizzato venti importanti conferenze in diversi Paesi. L'ultima si è tenuta dal 9 al 12 novembre 2008 a Budapest sul tema "Religione e Società civile oggi: prospettive ebraiche e cattoliche". Sia i partecipanti cattolici sia gli ebrei hanno valutato in modo positivo questo incontro. L'atmosfera è stata caratterizzata da profonda fiducia reciproca e da un'ulteriore crescita di cordialità e di amicizia.
Il 9 novembre 2008 è stata una ricorrenza speciale: nel 1938 si svolse la cosiddetta "notte dei cristalli" con la distruzione, fra l'altro, di sinagoghe in Germania e in Austria. I partecipanti ebrei all'incontro di Budapest si sono dimostrati grati per il fatto che Papa Benedetto XVI quel giorno, in occasione dell'Angelus, abbia fatto riferimento alla "notte dei cristalli": "Ancora oggi provo dolore per quanto accadde in quella tragica circostanza, la cui memoria deve servire a far sì che simili orrori non si ripetano mai più e che ci si impegni, a tutti i livelli, contro ogni forma di antisemitismo e di discriminazione, educando soprattutto le giovani generazioni al rispetto e all'accoglienza reciproca". ("L'Osservatore Romano", 10-11 novembre 2008, pagina 1)
Questa atmosfera ha dunque anche permesso al cardinale Walter Kasper, in occasione dei quarant'anni dello Stato di Israele, di far riecheggiare nel suo discorso anche dei toni critici in modo certamente assennato, ma anche percepibile. La reazione da parte ebraica è stata significativa: "Un amico lo può dire".
Non si è trattato tuttavia di una commemorazione. Nei dibattiti ha dominato uno sguardo rivolto al futuro. Per la prima volta giovani, incontratisi appositamente, sono stati invitati a tutte le manifestazioni. Avrebbero dovuto proseguire il dialogo. L'estate successiva si sono incontrati nuovamente, numerosi, a Castel Gandolfo, nel Centro Mariapoli dei Focolari. Un importante argomento di discussione è stato il tema dell'educazione e della trasmissione alle generazioni successive della conoscenza reciproca e dei valori condivisi. Infine, se si considera tutto ciò che il Papa ha fatto negli scorsi anni per i rapporti con l'ebraismo, si può a ragione affermare che per lui il dialogo con l'ebraismo è e rimarrà un'istanza del cuore. Sebbene le suddette divergenze nel dialogo a causa della nuova preghiera per gli ebrei nella liturgia del venerdì santo e della polemica sulla figura di Pio XII vengano eccessivamente alimentate da alcuni, si può affermare che il dialogo ebraico-cristiano si basa su un saldo fondamento, che non si può scuotere tanto facilmente. Nel frattempo si è imparato a discutere di elementi controversi con amicizia e fiducia reciproca, e a questo Papa Benedetto XVI, con il proprio impegno, ha recato un contributo irrinunciabile.
(©L'Osservatore Romano - 17 gennaio 2009)


Il nuovo fenomeno di comunicazione della rete L'utopia di Facebook - È in uscita il primo numero del 2009 del quindicinale "La Civiltà Cattolica". Anticipiamo stralci di uno degli articoli. di Antonio Spadaro – L’Osservatore Romano, 19 Gennaio 2009
Le tecnologie che realizzano la rete non sono affatto da considerare effimere: le forme di comunicazione non vengono mai semplicemente superate, ma integrate a un livello superiore. E questo è il senso dell'evoluzione del web e delle piattaforme di social network. La prima domanda da fare dunque non è sul futuro ma, in un certo senso, sul passato, cioè sulle radici umane e sui bisogni profondi ai quali Facebook, il nuovo fenomeno della rete, ha risposto riscuotendo così tanto successo. Ci chiediamo dunque: a quale bisogno risponde?
Potremmo sinteticamente rilevare che Facebook permette ai suoi utenti di sentirsi e vedersi parte di una rete di relazioni che hanno un volto e una storia quotidiana alla quale si può partecipare con un click. Se io vado sulla mia home, cioè la prima schermata che mi appare quando mi connetto alla piattaforma, in un colpo d'occhio vedo lo stato aggiornato dei miei "amici", e dunque apprendo che cosa stanno facendo, posso visitare poi il loro profilo e saperne di più, magari vedendo chi sono i loro nuovi "amici" o leggere le loro riflessioni, vedere le nuove foto che hanno scattato, e così via. È possibile trovare anche qualche amico on line e chattare con lui direttamente o inviare messaggi grazie a un sistema ad hoc. Facebook dunque permette di sviluppare relazioni e, d'altra parte, permette ad altri di svilupparle con noi. Infatti chi aggiorna il proprio stato o fa l'upload (cioè "carica", come si dice in gergo) di materiali personali lo fa perché altri possano conoscerli, leggerli, vederli. Facebook diventa parte di un più ampio lifestreaming, un flusso di vita vissuta che viene in un modo o nell'altro diffuso e quindi condiviso con i propri contatti mantenendo un certo grado di intimità, almeno apparente. Le applicazioni sociali che fanno parte del lifestreaming forniscono una cronaca dettagliata e puntuale delle esperienze quotidiane degli utenti. In fondo, tutto questo è una sorta di controllata abolizione della privacy, affidata a quella che comunque è un'azienda che fa profitti proprio grazie ai dati personali che le persone si scambiano tra loro. Da qui anche un fronte di opposizione a Facebook che sta facendo sentire la propria voce. Fortunatamente su Facebook è possibile impostare alti livelli di protezione dei dati forniti dall'utente, e tuttavia anche il livello massimo di privacy consente agli "amici" l'accesso ai propri dati. Del resto, se così non fosse, la piattaforma stessa perderebbe di senso.
Facebook dunque serve per entrare nella vita degli altri e permettere agli altri di entrare nella propria. Gli "altri" non sono "tutti", ma coloro con i quali si decide di stabilire una relazione. Ovviamente è possibile abbassare i livelli di privacy ed esporre il proprio profilo al mare della rete, ma anche questa logica, tutto sommato, è incoerente con quella della piattaforma, che invece tende a creare una rete in qualche modo circoscritta di "amici" e non una sorta di pagina completamente aperta al pubblico.
Il bisogno di conoscere e farsi conoscere, il bisogno di vivere l'amicizia sono bisogni "seri", che si bilanciano con il rischio di confondere relazioni superficiali e sporadiche con l'amicizia, comunicazione di sé ed esibizionismo, voglia di fare conoscenza e voyeurismo. Sebbene la differenza tra le prime e le seconde sia radicale, per essere percepita ha bisogno di un'adeguata educazione alle relazioni e alla percezione di sé. Facebook in questo senso è una sfida, perché come tutte le piattaforme di social network è insieme un potenziale aiuto alle relazioni ma anche una minaccia. La relazione umana non è un gioco e richiede tempi, conoscenza diretta.
La relazione mediata dalla rete è sempre necessariamente monca se non ha un aggancio nella realtà. In alcuni casi è stato testimoniato il desiderio di avere tanti contatti su Facebook e quindi di "collezionare" amici, che appaiono con le loro foto in miniatura nella pagina del proprio profilo; è quasi una sfida alla solitudine e un desiderio di sentirsi e apparire popolari. In effetti è da non sottovalutare il desiderio di apparire estroversi, richiesti, cioè, in altre parole, amati. Avere molti amici significa mostrarsi agli altri come socialmente attraenti. Anzi, a volte il proprio profilo serve proprio per "adescare" potenziali "amici", e le motivazioni possono essere di ogni tipo: dalle più legittime alle meno plausibili o accettabili. È ovvio, d'altronde, che, più cresce il numero degli "amici", più Facebook rischia di perdere di significato divenendo un semplice indirizzario un po' evoluto tecnologicamente.
Se si hanno pochi amici dunque non ha senso mantenere un profilo Facebook, perché con questi ci si può sentire di frequente; se ne hanno troppi è pure inutile perché non è possibile tenere i contatti. È necessario un equilibrio. Su Facebook si tende, inoltre, a non negare l'"amicizia" a chiunque la chieda, anche se si tratta soltanto di vaghe conoscenze o addirittura di perfetti sconosciuti. La cosiddetta reciprocity rule (regola di reciprocità) a cui siamo abituati dice infatti: "Se una persona ti dà qualcosa devi cercare di ripagarla". La rete aumenta a dismisura gli eventi che fanno scattare questa regola di reciprocità, che invece in questa sede deve essere gestita con oculatezza e discrezione.
La logica originaria di Facebook implicava un aggancio alla vita reale, in particolare a quella dell'ambiente di studio. L'uso ideale di Facebook, a nostro avviso, è quello che viene fatto a partire dalle relazioni reali. È una strada ormai importante per ritrovare compagni di scuola, amici di infanzia di cui non si sa più nulla, vecchie conoscenze. L'8,5 per cento della popolazione italiana ha un profilo Facebook e, considerando l'ambito di età predominante sulla piattaforma, è davvero difficile che un giovane adulto non trovi almeno qualche vecchio amico o un compagno di classe. È anche vero che spesso le persone si ritrovano all'improvviso, al di fuori di ogni contesto, magari saltando anni o decenni di vita nei quali sono state separate e senza contatti reciproci. Nel frattempo le persone che si contattano sono cambiate, e sarebbe un errore appiattire tutti gli "amici" in una sorta di contemporaneità totale. Se però la piattaforma viene usata con una consapevolezza delle relazioni, è certo che essa diventa una occasione interessante per consolidare rapporti che a causa della distanza o per altri motivi rischiano di indebolirsi, oppure per recuperare rapporti che la vita ha allentato. Non dimentichiamo che l'uso ordinario del telefono cellulare o delle e-mail sono fenomeni relativamente recenti e quindi è possibile che, con i cambi di domicilio e le varie vicende della vita, persone prima in contatto poi si perdano di vista. Facebook è una realtà sempre più importante della rete e conferma che la logica fondamentale del web è quella relazionale, sociale. Questa piattaforma, sebbene peculiare perché tutta centrata sulle relazioni, non è affatto l'unica. È semmai il fenomeno emergente, la punta di iceberg di una realtà più ampia, che ha in piattaforme come Myspace, Flickr, YouTube, Linkedin, Anobii, Ning, Plaxo, Hi5, Baidu Space, Orkut, Friendster, Bebo, Netlog, Imeem, Catolink, altri luoghi di aggregazione sociale, a volte di settore, rilevanti e frequentati. E non dimentichiamo che esistono anche network "locali" come, ad esempio, Xiaonei, fondata nel dicembre 2005 da un gruppo di studenti della Qinghua University di Pechino, la quale dal novembre 2007 è la piattaforma di social network più popolare tra gli studenti cinesi, con quindici milioni di utenti registrati.
Il fenomeno Facebook, peculiare per caratteristiche, successo e rapidità di diffusione, più di altri ha fatto comprendere come i rapporti tra le persone siano al centro del sistema e dello scambio dei contenuti, che sempre più appaiono in rete fortemente legati a chi li produce o li segnala. Riemergono dunque con forza i concetti di persona, autore, relazione, amicizia, intimità. Ma, detto questo, occorre comprendere bene come questi concetti si modifichino e si evolvano a causa della rete. La vera novità di Facebook non è in tutti i servizi che offre e sempre di più offrirà perché è una piattaforma aperta al contributo libero di chi vuole sviluppare applicazioni. Tutti questi sono e resteranno arricchimenti di un nucleo centrale: la connessione della singola persona, che appare in tutta la sua vita personale vincendo ogni forma di anonimato e di tutela della privacy (davvero la cosa più a rischio su queste piattaforme), con la sua rete di amici. Prima di Facebook e delle piattaforme a esso simili, internet era sostanzialmente una rete di pagine e di contenuti, non di persone. Le persone potevano contattarsi tra di loro e aggregarsi in newsgroup e mailing list, ma le relazioni umane in se stesse erano invisibili al web.
Facebook, in fondo, incarna una utopia: quella di stare sempre vicini alle persone a cui teniamo in un modo o nell'altro, e di conoscerne altre che siano compatibili con noi. Ma l'utopia deve confrontarsi col rischio grave che cellulari e computer possano alla fine isolare e dare solamente una parvenza di relazione, non fatta di incontri reali. D'altra parte la tecnologia da sempre, a partire dall'invenzione dei messaggi di fumo o di strumenti come il telegrafo o il telefono, è un potente ausilio alle relazioni personali.
In questo lungo processo che compone la storia delle comunicazioni umane, Facebook sta giocando il suo ruolo specifico: fa sì che internet diventi innanzitutto una rete di persone e accelera un processo che nel 2005 ha avuto nei blog uno dei suoi passaggi fondamentali.
Facebook è dunque un momento significativo di questo processo, non certo però un punto di arrivo.
(©L'Osservatore Romano - 17 gennaio 2009)


Televisione, scuola e famiglia - La rivincita dei somari parte dalla tv svedese - di Andrea Piersanti – L’Osservatore Romano, 19 Gennaio 2009
La televisione per ragazzi è tornata di moda e, in tutto il mondo, sviluppa business e fatturati crescenti. Peccato che i contenuti sembrino lavati con la varechina. La maggior parte dei programmi per i più piccoli sono privi della visione etica. Famiglia e religione sono valori quasi del tutto scomparsi o, se ci sono, vengono rappresentati in modo atipico e paradossale. Prevale una sorta di rassegnata indifferenza e si è costretti a constatare come il relativismo trovi le sue basi più profonde e radicate proprio nella programmazione televisiva dedicata alla fascia del pubblico che più dovrebbe essere protetta, quella dei bambini. Nonostante qualche rara eccezione, come uno splendido reality svedese, Class of '07 - che sembra scritto per ridare speranza a tutti gli operatori della scuola - i dati generali sulla programmazione lasciano senza fiato. Si tratta di un mercato in crescita, dai conti economici sempre più importanti.
Grazie allo sviluppo incrementale dei canali tematici distribuiti dalle nuove piattaforme satellitari, del digitale terrestre e, ora, anche del web, i genitori in tutto il mondo comprano sempre più volentieri gli speciali abbonamenti delle pay tv con cartoni animati e programmi che dovrebbero essere educativi e di facile intrattenimento.
La televisione baby sitter, con un nuovo vestito tecnologico, è tornata prepotentemente nelle case delle famiglie di mezzo mondo e aumentano i genitori che lasciano al piccolo schermo il compito di intrattenere i loro figli. Con i nuovi canali a pagamento si sentono più garantiti perché la programmazione e la pubblicità sono interamente dedicate al pubblico dei minori. L'offerta di canali per bambini, inoltre, è un forte incentivo per convincere le famiglie ad acquistare pacchetti di abbonamento ai canali satellitari o digitali con contenuti - film e sport - destinati anche ai più grandi. Gli investimenti sono miliardari e anche in Italia l'unico imprenditore riuscito a sfondare nel mercato di Hollywood produce proprio cartoni animati per bambini: si allude a Iginio Straffi, inventore del fenomeno mondiale delle fatine Winx. Al MipCom di Cannes - il più grande mercato di contenuti televisivi e internet del mondo, con una media di settanta miliardi di dollari di transazioni effettuate in ogni edizione - proprio quest'anno è stata aperta, per la prima volta, una speciale sezione dedicata specificamente al mercato della televisione per i più piccoli. Ma quando si entra nel merito dei programmi che vengono trasmessi su questi canali emergono nuovi motivi di preoccupazione. Se i genitori avessero un quadro di insieme, lascerebbero meno volentieri i propri figli da soli davanti al piccolo schermo. Nelle schede descrittive degli oltre millecinquecento programmi prodotti negli ultimi dodici mesi in tutto il mondo, la parola "papà" compare solo in ventuno titoli. "Mamma" quattordici volte. La parola "famiglia" figura solo una volta su dieci (centotrentanove programmi in tutto). La parola "Dio" compare diciotto volte, mai riferita, però, alle religioni monoteiste: si tratta sempre di "gods" (dèi) pagani e mai di "God" (Dio). La parola "religione" compare solo due volte. La Bibbia compare in un unico programma - Le storie bibliche raccontate da un orsetto - e i Vangeli, invece, sono completamente assenti. Gli unici due titoli che abbiano un qualche riferimento esplicito alla religione cattolica sono due cartoni animati: il primo è sulla vita di Giovanni Paolo ii, il secondo invece è una satira inaccettabile sul Vaticano e sulla Curia che ha già creato qualche motivo di imbarazzo. Neanche la nuova frontiera di internet sfugge alla generale fuga dai valori. I nostri figli passano ore davanti allo schermo del computer, ma le offerte delle major, nei nuovi siti community rivolti al pubblico dei nuovi adolescenti, sono deludenti. L'interattività del mezzo è usata per vestire bambole virtuali o per comprare inutili gadget immateriali in una misera simulazione del sistema consumistico imperante. Sembra veramente uno spreco: un enorme potenziale tecnologico per un uso così miope. L'orizzonte, almeno quest'anno, è stato peraltro rischiarato da un programma svedese che pare fatto apposta per piacere a chi insegna nella scuola. Si chiama - come si è detto - Class of '07 ed è un reality show atipico dove nessuno corre il rischio di essere eliminato. Anzi, al contrario, i concorrenti puntano - sono costretti a puntare - al gioco di squadra e si vince solo tutti insieme. Il formato è semplice, ma rivoluzionario.
Il programma è ambientato nella scuola secondaria svedese. I migliori insegnanti del sistema scolastico nazionale vengono chiamati a prendere in cura le peggiori classi liceali del Paese. L'obiettivo è fare in modo che possano diventare, nello spazio di un anno scolastico, le migliori classi dell'intera Svezia. Si tratta di un'idea molto forte. Quando si parla di scuola da noi prevale il pessimismo. È rimasto scolpito nei cuori di docenti e operatori il lamento pronunciato dall'attore Silvio Orlando - premiato di recente a Venezia con la Coppa Volpi per Il papà di Giovanna di Pupi Avati - nel film La scuola di Daniele Luchetti (1995). "Astariti non c'ha i capelli tagliati alla mohicana, non si veste come il figlio di uno spacciatore, non si mette le scarpe del fratello che puzzano - dice sconsolato il professore. Astariti è pulito, perfetto. Interrogato, si dispone a lato della cattedra senza libri, senza appunti, senza imbrogli. Ripete la lezione senza pause: tutto quello che mi è uscito di bocca, tutto il fedele riflesso di un anno di lavoro! Alla fine gli metto 8, ma vorrei tagliarmi la gola! Astariti è la dimostrazione vivente che la scuola funziona con chi non ne ha bisogno!".
Il nuovo reality tv show inventato dagli svedesi smentisce questa prospettiva. Con l'aiuto di professori capaci e motivati, nonché di strumenti didattici adeguati, perfino i "casi disperati" possono aspirare a un ottimo rendimento scolastico. Si tratta di un'idea che potrebbe rompere il fronte compatto del disfattismo. Di fronte al dilagare del bullismo scolastico e dell'anoressia didattica di molti giovani, allarghiamo le braccia e diciamo che non c'è niente da fare. Si tratta, dice il reality svedese, solo di un'inerzia da superare. In altri Paesi i programmi dedicati agli adolescenti invece comunicano ancora messaggi sconcertanti.
Emergono di nuovo con forza il fatalismo e la rassegnazione. Fanno impressione, in tal senso, due programmi della televisione inglese. Nel Regno Unito i problemi comportamentali degli adolescenti sono in aumento: alcolismo precoce, uso e abuso di droghe, delinquenza minorile. In televisione sono così nati due programmi figli della pedagogia della disperazione, per usare un'espressione del cardinale Bagnasco. Nel primo gli adolescenti più "cattivi" vengono mandati, per un po' di tempo, presso alcune severe famiglie di lingua e di cultura diverse, in Africa o in Asia. Nell'altro finiscono addirittura in prigione per qualche settimana. Un taglio editoriale tragico, ben diverso da quello del bel programma della televisione svedese. Eppure solo la speranza, unita a una seria volontà di costruire, potranno restituire la fiducia nel futuro alle nuove generazioni.
(©L'Osservatore Romano - 17 gennaio 2009)


RECENSIONI/ Svelare la morte, l’ultima avventura letteraria di Philip Roth - Redazione - sabato 17 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Sfondo completamente nero squarciato da pochi e lineari caratteri bianchi: così si presenta la copertina di Everyman scritto da Philip Roth. Una scelta cromatica di certo non dettata da ragioni estetiche.
La lotta dell’uomo contro la finitezza del suo essere è ciò che Roth racconta nella sua ventisettesima opera letteraria. Una lotta contro la morte - quest’ultima volutamente mantenuta sullo sfondo quasi a simboleggiare un monito - che aleggia con prepotenza sulla quotidianità del protagonista. Per restituire al lettore la cifra culturale di Everyman basterebbe rifarsi al pensiero di Søren Kierkegaard il quale sosteneva che non è tanto la morte in sé a suscitare una seria consapevolezza della nostra vita e del tempo che ci è stato con essa affidato, quanto piuttosto il pensiero della morte che diventa angoscia e che funge da energia propulsiva per la nostra esistenza. Everyman, l’anonimo protagonista del libro, vive costantemente di quest’angoscia tanto da lasciarsene sopraffare e tanto da far degenerare dietro essa, giorno dopo giorno, la propria vita.
Decadenza e morte sono un connubio presente sin dalle prime battute del libro di Roth. Il funerale dell’everyman, descritto nelle pagine iniziali, viene celebrato in un cimitero del New Jersey che un tempo era il fiore all’occhiello della locale comunità ebraica, ma che oggi versa in condizioni pietose. È però il cimitero dove riposano i genitori del morto e dove la figlia, l’amata Nancy, nata dal matrimonio con Phoebe, ha voluto fosse seppellito perché questa, secondo lei, sarebbe stata la volontà del padre. Una scelta che sancisce il legame col passato e la tradizione familiare del defunto. Decadenza e morte, inoltre, richiamano il degradare di una vita che vuole ad ogni costo allontanare da sé lo spettro della propria fine, ma che non riesce ad andare oltre quel moto di rassegnazione che spinge il protagonista, più volte durante il suo arco vitale, ad affermare che «è impossibile rifare la realtà. Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono».
Raccontare della morte in un romanzo lo si fa solo se si ha qualcosa di non banale da comunicare ai lettori e se il premio Nobel è un premio dal quale si può prescindere senza rimpianti. La morte, infatti, assieme al nascere, rappresenta uno dei misteri più impegnativi per la ragione umana, mistero del quale la civiltà moderna sembra aver completamente smarrito il significato. La consapevolezza che portò Martin Heidegger a sostenere, in Essere e tempo, che «la morte è la possibilità più propria dell’uomo», l’estrema possibilità di svelare all’uomo la sua unicità e insostituibilità di fronte al Mistero è un patrimonio culturale che oggi non sembra appartenere più alla nostra civiltà. Oggi, come dimostrano i casi Terry Schiavo ed Eluana Englaro, siamo costantemente tentati dallo svuotare di significato la morte e vorremmo programmarla, anticipandola o ritardandola con tecniche opportune, come se si trattasse di risolverla alla stregua di un “problema”. La morte, invece, va considerata in tutta la sua portata: va “sopportata” per quel “mistero” che è, anche se questa sopportazione significa “angoscia”.
Il finale del libro risalta l’eccellenza narrativa dello scrittore di Newark. Il dialogo tra il becchino di colore - che lavora nel cimitero dove sono sepolti i genitori del protagonista - e lo stesso Everyman - che in quel luogo vi si reca a far visita alle tombe dei suoi genitori e dalle cui ossa «per novanta minuti non riesce più a staccarsi perché quelle ossa erano l’unica cosa che contava, nonostante l’influenza dell’ambiente degradato dove sorgeva quel cimitero abbandonato» -, nella sua essenzialità, evidenzia come l’angoscia generata dalla morte è possibile sopportarla solo attraverso un rapporto con qualcuno che sia in grado di introdurre alla verità della vita e quindi anche della morte. Una dinamica questa che permette all’Everyman, che ha vissuto tutta la propria esistenza all’ombra di quest’angoscia, di recarsi all’ospedale, per subire l’ennesima operazione, e di ritrovarsi, a causa dell’anestesia, a perdere «conoscenza sentendosi tutt’altro che abbattuto, tutt’altro che condannato, ancora una volta impaziente di realizzare i propri sogni». Grazie a quel dialogo, in un momento di particolare lucidità, Everyman si rende conto «che la vita gli è stata donata, a lui come a tutti, casualmente, fortuitamente e una volta sola, e non per un motivo conosciuto o conoscibile» e, anche se poi l’imprevisto è sempre dietro l’angolo, per questo va comunque trattata per quel che realmente è: un dono.
(Nicola Currò)


SUI BUS GENOVESI NIENTE PUBBLICITÀ L’ELOGIO DI QUEGLI AUTISTI. CONTRO LA BANALITÀ - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 17 gennaio 2009
Non credo gli autisti dei bus di Genova siano tutti cresciuti dalle Orsoli­ne o che ogni domenica frequentino de­voti il collegio dei Gesuiti dove hanno stu­diato da ragazzi. Non credo nemmeno che abbiano tutti una incrollabile fede nella Chiesa una, santa e apostolica. Non mi pare che girino con una divisa da cro­ciati mentre sono alla guida dei loro mez­zi nel traffico di quella bellissima e dura città, nella luce bianca che viene dal ma­re e dal cielo aperto di Liguria. Probabil­mente tra loro c’è chi ha molta fede, chi ne ha così così, e chi forse non ne ha, o sta cercando. La decisione di rifiutarsi di girare con quei manifesti contro Dio sui fianchi delle vetture non credo l’abbiano presa alla fine di una lunga riunione do­ve si sono affrontate dotte questioni teo­logiche o stabiliti sottili raffronti tra le dot­trine di sant’Anselmo e di san Tommaso. Insomma, di fronte alla banalità di quel­la iniziativa credo che abbia prevalso il buon senso, o meglio il senso della di­gnità.
Perché pensare di liquidare in modo co­sì banale il problema di Dio con una pub­blicità è un’offesa alla intelligenza prima ancora che alla fede. La sedicente unio­ne di atei razionalisti è stata ridicolizzata nella sua saccente­ria dal semplice buon senso di gen­te normale, che la­vora tutti i giorni, che sa cosa è lavo­rare, amare, soffrire e magari farsi do­mande nel silenzio della coscienza o di fronte ai propri figli sul destino e sul senso delle cose.
Un gruppo di auti­sti, non una facoltà di dottori della Chiesa. Perché basta, per così dire, esse­re uomini per capire la violenza stupida di quel messaggio. Dove la violenza di of­fendere la serietà di una questione così importante per i singoli e per la storia del­l’umanità è pari solo alla stupidità di chi pensa di offrire riposte banali riducibili a slogan. Non c’è da essere per forza dei cri­stiani, non c’è da essere dei credenti per misurare la miseria di quella iniziativa. C’è solo da avere un senso di dignità. Per­ché a furia di banalizzare le cose, si fa cre­scere solo la banalità non si porta chia­rezza sulle cose. E qualsiasi padre di fa­miglia, qualsiasi uomo o donna a cui scor­re sangue nelle vene sa che Dio è una fac­cenda seria. Comunque la si pensi. Co­munque si vedano le cose. Anzi, è pro­prio una di quelle faccende dalle quali si capisce anche la stessa serietà e impor­tanza della persona umana. Insomma, proprio perché capace di porsi seria­mente questioni come il problema di Dio, l’uomo dimostra di essere una realtà im­mensamente grande e piena di dignità.
Lo aveva capito ed espresso tra gli altri un grande poeta come Ungaretti, o uno scienziato come Einstein. E tutta la sto­ria dell’umanità è piena di questo pro­blema, di questo Volto che sembra chia­mare nella notte. Per questo gli autisti di Genova hanno reagito. Hanno capito u­na cosa semplicissima, che sfugge solo a certi atei che fanno dell’ateismo, para­dossalmente, il proprio unico Dio. Del re­sto la Bibbia insegna che non esistono gli atei: li chiama idolatri, perché al vero Dio sostituiscono un idolo, magari il più mi­sero che è la propria presunzione. Gli au­tisti hanno capito che se si banalizza il problema di Dio si sta banalizzando, si sta offendendo la statura dell’uomo. Del­l’uomo che vive e lavora. Dell’uomo rea­le, non dell’uomo astratto dei dibattiti fi­losofici. Non hanno difeso Dio, hanno di­feso se stessi, e la dignità delle persone che portano sull’autobus e nel cuore. Non è un caso che proprio grandi regimi che hanno professato l’ateismo – come il co­munismo e il nazismo – hanno provoca­to le più gravi violenze sull’uomo. Hanno detto un no semplice, pieno di dignità, che è un sì libero alla umanità di tutti con­tro la saccente banalità di pochi.


IDEE. È morto giovedì a Parigi uno dei più grandi teologi contemporanei Nel ’98 aveva scritto i testi della Via Crucis per Giovanni Paolo II - Clément, il ’68 dello Spirito – Cresciuto in ambiente ateo e marxista, si convertì alla fede cristiana nella Chiesa ortodossa. Da allora è stato un vero protagonista del dialogo fra Oriente e Occidente. Originale la sua lettura della contestazione - DI ANDREA RICCARDI - Avvenire, 17 gennaio 2009
Olivier Clément si è spento la sera del 15 gennaio. Erano anni che non usciva più dalla sua casa in un vivace quartiere popolare di Parigi. La malattia l’aveva provato, ma aveva ancora un grande interesse per la vita, i fatti del mondo, le vicende della Chiesa.
Quando l’ho salutato, poco prima che si spegnesse, ho guardato la grande finestra della sua camera, da cui si vede la città fino alla Tour Eiffel, pensando ai suoi ultimi anni di 'eremita' alla finestra del mondo.
Il suo cenno di saluto esprimeva la simpatia e l’amicizia che hanno caratterizzato la sua vita. Qualche anno fa aveva scritto: «La vecchiaia favorisce un’altra conoscenza, quella che l’Oriente considera come l’unione dell’intelligenza e del cuore».
Scompare con Clément (nato nel 1921) una figura europea di spicco, unica e originale. Il suo pensiero è figlio di un innesto complesso e ben riuscito. Le sue radici sono in ambiente laico e non credente. Ha vissuto a Parigi, in una città al plurale, ricca ma con tanti aspetti di deserto umano. Ha sentito l’angoscia degli orizzonti stretti dell’uomo contemporaneo; si è incamminato nei sentieri della ricerca spirituale. Ha incontrato la fede cristiana nella Chiesa ortodossa. La sua ricerca inquieta si è sviluppata nel clima della seconda guerra mondiale. La guerra è, per tanti grandi spiriti, un tempo fecondo di intuizioni. La generazione della guerra conta tanti 'maestri spirituali' che hanno detto molto all’Europa, tentata dal ripiegamento.
Clément é divenuto cristiano, accogliendo il Vangelo dall’Oriente. Dopo la rivoluzione bolscevica, tanti russi si erano spostati in Francia. La cultura russa, la fede della Santa Russia, si è innestata in Francia. Si pensi a Mat’ Maria, monaca, amica dei poveri, morta nel lager nazista per aver aiutato gli ebrei. Clément ha raccolto la testimonianza di grandi credenti, tra cui Lossky, Berdjaev, Evdokimov. Il suo passaggio alla fede è stato accompagnato da padre Sofrony, monaco del Monte Athos, di cui Clément dice: «Mi ha fatto comprendere che il cristianesimo non è una ideologia, ma la resurrezione». Clément si è abbeverato a una fonte cristiana lontana dal suo mondo, che lo ha condotto all’amore della Bibbia e dei Padri. La sua storia è particolare, ma ogni conversione vera porta lontano. Eppure Clément è un occidentale che non si traveste. Non troviamo in lui niente di esotico. La sua opera è vissuta respirando a due polmoni, con l’Oriente e con l’Occidente. Ma, da questa sintesi straordinaria, scaturisce un umanesimo cristiano, la cui eredità resta preziosa.
Olivier Clèment ha speso una vita facendo sue le domande di tanti e cercando luce nella liturgia e nei Padri della Chiesa. La sua libertà interiore lo porta a prendere sul serio tanti. Le sue domande sono le nostre: quelle delle generazioni degli anni Sessanta, di chi si confronta con la modernità, di chi sente il peso del totalitarismo scientifico, di chi avverte il limite della psicologia e della psicanalisi, di chi percepisce la debolezza delle ideologie, ma anche di chi sente la vita infragilita… Significativa è la sua storia nella crisi del ’68, attento ai giovani chiassosi per le vie di Parigi, accanto al liceo dove insegnava. Per lui il ’68 fu una grande messa in scena 'liturgica' della rivoluzione, con il rifiuto generalizzato del padre, cioè della tradizione. Clément scarnifica l’utopia del ’68, ma non rinuncia a credere che si possa cambiare il mondo. Anzi si convince che è la via del cuore a cambiare l’uomo. Per questo bisogna accogliere la fede dei Padri. Così, nel ’68, fece un’esperienza tanto diversa: a Istanbul, per un libro-intervista, interrogò il patriarca di Costantinopoli, Athenagoras.
All’epoca della rivolta contro il padre, il teologo quarantacinquenne si mise in ascolto del patriarca più che ottantenne: ne scoprì l’indomita forza spirituale, non rassegnata alla disunione dei cristiani, all’odio tra le nazioni, al vuoto della vita di tanti.
Nella stagione della contestazione o dell’uccisione dei padri, durante il ’68, Clément dialogò con il vecchio padre. Ne nacque un libro, che rappresenta un capolavoro di spiritualità e di storia.
Da un albero antico, egli traeva linfa per sperare. Sono care a Clément le parole di Berdjaev, poste all’inizio del suo libro La Révolte de l’Esprit
(un titolo che appare una sfida in un tempo in cui si dissolvono le ideologie e i giovani cercano 'paradisi' artificiali): «Non ci si può rivoltare che in nome della realtà ultima, dello Spirito, cioè in nome di Dio». Clément non è uno spirituale fuori dalla storia e senza sogni sul mondo. Ha il senso della storia e il gusto di indagarla: vuol dire provarne a coglierne anche le profondità. Qui si scopre una forza di cambiamento, non percepibile alla superficie. La resurrezione di Cristo fa che la storia non divenga un inferno: «Se la storia non è nutrita di eternità, diventa una zoologia», conclude. Dio non ha abbandonato la povera e dolorosa storia degli uomini. Così lo sguardo del cristiano non è cieco davanti al dolore né chiuso nella gabbia del pessimismo o illuso da utopici paradisi in terra. Ne sono testimonianza i testi della Via Crucis al Colosseo che scrisse nel ’98 per Giovanni Paolo II. Clément ha cantato in tutta la sua opera la bellezza e l’attualità del cristianesimo. Ha sentito che è la speranza per il nostro tempo. Ma soprattutto è stato un credente vero che, con sapienza, ha realizzato in sé un’umanità, amica di Dio e amica degli uomini.