Nella rassegna stampa di oggi:
1) Tutti i numeri della fede. Quando Ratzinger veste i panni di Galileo - Dalla stella dei Magi alla "struttura intelligente" che regge l'universo: la risposta del papa agli scienziati che negano Dio. Un'inchiesta tra i matematici rivela che molti sono credenti. E qualcuno è persino teologo di Sandro Magister
2) MEDIO ORIENTE/ 1. Pizzaballa: il perdono strumento di convivenza, ma la politica faccia la sua parte - INT. Pierbattista Pizzaballa - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
3) MEDIO ORIENTE/ 2. Samir: Israele è più forte, faccia per primo un passo indietro - INT. Samir Khalil Samir - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
4) UNIVERSITA'/ Valutare atenei e docenti. Oltre il decreto Gelmini - Giorgio Vittadini -venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
5) ISRAELE/ Gaza è Hamas? - Roberto Fontolan - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
6) NATURA UMANA/ Dall'aborto all'eugenetica, il tradimento della vita - INT. Christopher Tollefsen - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
7) DE ANDRE'/ 2. Luigi Viva: il racconto di una vita in direzione ostinata e contraria - INT. Luigi Viva - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) Nuovi studi sottolineano i rischi della fecondazione in vitro - Nessuna persona è un diritto per un'altra - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 10 gennaio 2009
9) Il retroscena Sagrato profanato e svastiche: «Vaticano preoccupato» - di Andrea Tornielli – 6 gennaio 2009
10) Eluana, i medici della clinica di Udine si ribellano: ''Non siamo un mattatoio!" - A giorni la decisione dei vertici della casa di cura che s'è offerta di far morire la giovane donna. Appello dei camici bianchi: «Fermiamoci». Dell'operazione avevano saputo dai giornali
11) 09/01/2009 13:01 – VATICANO - Il VI Incontro mondiale delle famiglie, una risposta alla sfida dell’individualismo - La manifestazione si svolge a Città del Messico, dal 14 al 18 gennaio. Previsto un collegamento televisivo in diretta del Papa. In programma un congresso teolgico-pastorale, ma anche iniziative come il "Mosaico” e il “Bosco” delle famiglie ed un concorso “Una lettera a mio figlio", che raccoglierà le madri nubili e quelle sole che desiderano indirizzare una lettera ai loro figli e alle loro figlie.
12) ELUANA/ Caro Fazio, parlando con Beppino Englaro si ricordi anche delle famiglie che lottano per la vita – IlSussidiario.net - Redazione - sabato 10 gennaio 2009
13) CRISI/ Il coraggio che serve per ripensare lavoro e welfare - Dario Odifreddi - sabato 10 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
14) SCHIACCIANO GLI INDIFESI DURANTE LA TREGUA - La guerra, bestiale sempre Ma c’è qualcosa di peggio - MARINA CORRADI – Avvenire, 10 gennaio 2009
15) LA BIMBA INGLESE SELEZIONATA « PERFETTA » - Ma nascere a scapito di altri non sarà domani una condanna? - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 10 gennaio 2009
16) Famiglie deluse: il bonus premia i single - Il Forum: una beffa. Cassa integrazione regionale e anche al commercio - DA ROMA EUGENIO FATIGANTE – Avvenire, 10 gennaio 2009
Tutti i numeri della fede. Quando Ratzinger veste i panni di Galileo - Dalla stella dei Magi alla "struttura intelligente" che regge l'universo: la risposta del papa agli scienziati che negano Dio. Un'inchiesta tra i matematici rivela che molti sono credenti. E qualcuno è persino teologo - di Sandro Magister
ROMA, 9 gennaio 2008 – Nell'omelia della festa dell'Epifania Benedetto XVI è tornato su un tema a lui carissimo, quello del rapporto tra la fede e la scienza.
Il papa ha preso spunto dalla stella dei Magi che – ha rimarcato – "erano con tutta probabilità degli astronomi" come lo fu Galileo Galilei. Ma ha invitato a portare lo sguardo al di là di una pura contemplazione del cielo stellato. "Le stelle, i pianeti, l’universo intero – ha detto – non sono governati da una forza cieca, non obbediscono alle dinamiche della sola materia". Al di sopra di tutto non c'è "un freddo ed anonimo motore", ma quel Dio definito da Dante nell'ultimo verso della Divina Commedia come "l’amor che move il sole e l’altre stelle", quel Dio che ha preso carne in mezzo agli uomini e ad essi ha dato la vita. Nella "sinfonia" del creato – ha proseguito il papa – c'è un "assolo" che dà significato al tutto: e questo "assolo" è Gesù.
Il 2009 è il quarto centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio e sarà celebrato in tutto il mondo come l'anno dell'astronomia. Sarà anche un anno particolarmente dedicato a Charles Darwin e alle teorie cosmologiche a lui ispirate. A questo doppio appuntamento, papa Joseph Ratzinger dà l'impressione di arrivare ben caricato.
Lo si è capito anche da un passaggio chiave del discorso programmatico che egli ha rivolto alla curia romana lo scorso 22 dicembre:
"La fede nello Spirito creatore è un contenuto essenziale del Credo cristiano. Il dato che la materia porta in sé una struttura matematica, ed è piena di spirito, è il fondamento sul quale poggiano le moderne scienze della natura. Solo perché la materia è strutturata in modo intelligente il nostro spirito è in grado di interpretarla e di attivamente rimodellarla. Il fatto che questa struttura intelligente proviene dallo stesso Spirito creatore che ha donato lo spirito anche a noi, comporta insieme un compito e una responsabilità. Nella fede circa la creazione sta il fondamento ultimo della nostra responsabilità verso la terra. Essa non è semplicemente nostra proprietà che possiamo sfruttare secondo i nostri interessi e desideri. È piuttosto dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci e con ciò ci ha dato i segnali orientativi a cui attenerci come amministratori della sua creazione. Il fatto che la terra, il cosmo, rispecchino lo Spirito creatore, significa pure che le loro strutture razionali che, al di là dell'ordine matematico, nell'esperimento diventano quasi palpabili, portano in sé anche un orientamento etico. Lo Spirito che li ha plasmati è più che matematica: è il Bene in persona che, mediante il linguaggio della creazione, ci indica la strada della vita retta".
Colpisce, in questo passaggio, il ripetuto insistere del papa sulla struttura matematica dell'universo.
La matematica, infatti, è una scienza esatta che spesso oggi viene contrapposta a Dio, come la sua negazione "scientifica", definitiva.
Scienziati di notorietà mondiale come l'inglese Richard Dawkins e l'italiano Piergiorgio Odifreddi legano insistentemente la matematica alla professione dell'ateismo. Divulgate in conferenze, articoli e libri di grande successo, le loro tesi ambiscono a diventare linguaggio e pensiero comune.
In parole semplici, le obiezioni di questi matematici atei sono quelle espresse da uno studente liceale romano di 17 anni, di nome Giovanni, durante un botta e risposta col papa il una piazza San Pietro gremita di giovani, il 6 aprile 2006:
"Padre Santo, si è indotti a credere che la scienza e la fede sono tra loro nemiche; che la logica matematica ha scoperto tutto; che il mondo è frutto del caso; e che se la matematica non ha scoperto il teorema-Dio è perché Dio, semplicemente, non esiste".
A queste obiezioni, Benedetto XVI rispose testualmente così:
"Il grande Galileo ha detto che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico. Lui era convinto che Dio ci ha donato due libri: quello della Sacra Scrittura e quello della natura. E il linguaggio della natura – questa era la sua convinzione – è la matematica, quindi essa è un linguaggio di Dio, del Creatore.
"Riflettiamo ora su cos’è la matematica: di per sé è un sistema astratto, un’invenzione dello spirito umano, che come tale nella sua purezza non esiste. È sempre realizzato approssimativamente, ma – come tale – è un sistema intellettuale, è una grande, geniale invenzione dello spirito umano. La cosa sorprendente è che questa invenzione della nostra mente umana è veramente la chiave per comprendere la natura, che la natura è realmente strutturata in modo matematico e che la nostra matematica, inventata dal nostro spirito, è realmente lo strumento per poter lavorare con la natura, per metterla al nostro servizio, per strumentalizzarla attraverso la tecnica.
"Mi sembra una cosa quasi incredibile che una invenzione dell’intelletto umano e la struttura dell’universo coincidano: la matematica inventata da noi ci dà realmente accesso alla natura dell’universo e lo rende utilizzabile per noi. Quindi la struttura intellettuale del soggetto umano e la struttura oggettiva della realtà coincidono: la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Penso che questa coincidenza tra quanto noi abbiamo pensato e il come si realizza e si comporta la natura, siano un enigma e una sfida grandi, perché vediamo che, alla fine, è 'una' la ragione che le collega ambedue: la nostra ragione non potrebbe scoprire quest'altra, se non vi fosse un’identica ragione a monte di ambedue.
"In questo senso mi sembra proprio che la matematica – nella quale come tale Dio non può apparire – ci mostri la struttura intelligente dell’universo. Adesso ci sono anche teorie del caos, ma sono limitate, perché se il caos avesse il sopravvento, tutta la tecnica diventerebbe impossibile. Solo perché la nostra matematica è affidabile, la tecnica è affidabile. La nostra scienza, che rende finalmente possibile lavorare con le energie della natura, suppone la struttura affidabile, intelligente della materia. E così vediamo che c’è una razionalità soggettiva e una razionalità oggettivata nella materia, che coincidono. Naturalmente adesso nessuno può provare – come si prova nell’esperimento, nelle leggi tecniche – che ambedue siano realmente originate in un’unica intelligenza, ma mi sembra che questa unità dell’intelligenza, dietro le due intelligenze, appaia realmente nel nostro mondo. E quanto più noi possiamo strumentalizzare il mondo con la nostra intelligenza, tanto più appare il disegno della Creazione.
"Alla fine, per arrivare alla questione definitiva, direi: Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto – la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale; la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente 'provare' l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione. Questa mi sembra un’ottima opzione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci.
"Ma il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore. Se guardiamo alle grandi opzioni, l’opzione cristiana è anche oggi quella più razionale e quella più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio".
* * *
Nell'argomentazione di Benedetto XVI ora riportata spiccano due elementi. Il primo è che la ragione matematica non può negare Dio ma nemmeno provarlo. Avvicina però a Lui. E mostra che Dio è in definitiva "un’ottima opzione". Riaffiora qui l'invito a vivere "veluti si Deus daretur", come se Dio ci fosse, invito lanciato più volte da Ratzinger anche "agli amici non credenti", come già prima di lui da Pascal.
Il secondo elemento è che la ragione matematica non può dire tutto di Dio, perché Dio "è anche Amore". Nel botta e risposta del 2006 con i giovani, Benedetto XVI si limitò al semplice enunciato di questa tesi. Ma per vederne lo sviluppo non c'è che da leggere l'intera sua omelia dell'Epifania di quest'anno.
* * *
Resta la domanda: è proprio così diffusa la negazione di Dio, tra gli scienziati di oggi e in particolare i matematici?
A leggere l'inchiesta a puntate che "Avvenire", il quotidiano della conferenza episcopale italiana, sta pubblicando da un mese, la risposta è no.
"Avvenire" sta intervistando alcuni eminenti matematici proprio su "Numeri e fede", cioè sulla compatibilità tra la ragione matematica e la fede in Dio. L'immagine che ne esce è quella di un ambiente scientifico molto più aperto alla fede di quanto dica la "vulgata" dei media.
Gli intervistati sono stati finora i seguenti:
– l'11 dicembre 2008 Antonio Ambrosetti, per molti anni ordinario di analisi matematica alla Normale di Pisa e ora alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste;
– il 16 dicembre Lucia Alessandrini, ordinario di geometria all'Università di Parma;
– il 19 dicembre Giandomenico Boffi, ordinario di algebra all'Università di Chieti e Pescara;
– il 24 dicembre Marco Andreatta, ordinario di geometria e preside della facoltà di scienze all'Università di Trento;
– il 6 gennaio 2009 Giovanni Pistone, ordinario di probabilità al Politecnico di Torino;
– il 9 gennaio Maurizio Brunetti, professore di geometria e algebra all'Università Federico II di Napoli.
Il professor Pistone è membro della Chiesa evangelica valdese e diplomato in teologia, mentre gli altri sono di fede cattolica. L'inchiesta di "Avvenire" si limita all'Italia, ma nelle risposte degli intervistati sono frequenti i riferimenti ad altri paesi. Ferventi uomini di fede sono anche alcuni dei maestri da essi citati, in particolare Ennio De Giorgi, uno dei più insigni matematici del Novecento, e Francesco Faà di Bruno, proclamato beato nel 1998.
L'inchiesta continua. Ed è facile scommettere che tra i prossimi intervistati vi sarà Giorgio Israel, ordinario di matematiche complementari all'Università di Roma "La Sapienza", di religione ebraica e grande ammiratore di Benedetto XVI.
MEDIO ORIENTE/ 1. Pizzaballa: il perdono strumento di convivenza, ma la politica faccia la sua parte - INT. Pierbattista Pizzaballa - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Invocare il dialogo sembra sempre più difficile, mentre i giorni di guerra in Terra Santa si protraggono, e addirittura si aprono nuovi fronti di battaglia, come accaduto ieri al nord di Israele. Ma c’è chi, dall’interno, continua a operare perché le armi possano tacere e perché si possano costruire soluzioni durature. Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, è uno di questi, e spiega a ilsussidiario.net quali sono le speranze e le prospettive per la pace tra israeliani e palestinesi, e quale può essere il ruolo dei cristiani in questo.
Padre Pizzaballa, il Papa è tornato ad invocare il dialogo come unica via per la pace. Cosa serve perché il dialogo possa concretamente funzionare?
Il dialogo è l’unica via che possa portare a soluzioni stabili e durature. Capisco che a molti la parola “dialogo” possa sembrare troppo usata, e quindi in un certo senso sciupata e priva di significato concreto. Ma non è così: non è un’espressione retorica, bensì il fondamento di una vera soluzione dei conflitti in atto. Perché poi ci possa essere realmente il dialogo bisogna innanzitutto porre fine ad ogni violenza, da ambo le parti. Quando parlano le armi non ci costruisce nulla: la soluzione militare, infatti, può risolvere temporaneamente un problema specifico ma non può risolvere i problemi di fondo, e non può quindi creare prospettive.
Se si dovesse ottenere il fatto che le armi tacciano, la politica da sola sarebbe poi sufficiente per una soluzione duratura, o ci vuole qualcosa in più?
Certamente la chiave per una soluzione del conflitto può venire solo dalla politica. Però bisogna intendersi bene su questo termine: la politica non è solo accordi di corridoio o decisioni prese nelle cosiddette “stanze dei bottoni”. La politica è anche opinione pubblica, è mentalità. Ecco allora che è necessario lavorare a tutti i livelli della vita sociale, anche attraverso i mezzi di comunicazione, perché si possa costruire un’opera che permetta di arrivare a un incontro. Se il dialogo è stata appunto finora una parola sciupata è perché mancavano tutte queste condizioni.
Il Papa, rivolgendosi a Israele, ha parlato della necessità di un «sussulto di saggezza». A suo modo di vedere, qual è il significato delle sue parole?
I significati di una tale espressione possono essere molti, e ciascuno può sottolinearne gli aspetti che ritiene più importanti. Io la leggo così: in situazioni difficili come quella attuale, in cui ci sono per forza di cose in gioco tante passioni, bisogna impegnarsi per fare in modo che tali passioni non arrivino mai a prevalere sulla ragionevolezza. Bisogna saper agire a mente fredda: così io interpreto il riferimento alla “saggezza”. Bisogna stare sulle cose, sui fatti, senza farsi trascinare dalle emozioni e dai facili mutamenti dell’opinione pubblica.
Come interroga la coscienza di un cristiano il dramma di una terra particolare – la Terra Santa – che più si va avanti e più appare lontana dalla pace? Questa sofferenza che cosa insegna ai cristiani?
Innanzitutto i cristiani in Terra Santa non sono un popolo a sé: sono prevalentemente palestinesi, e quindi fanno parte della vita, della mentalità, delle aspirazioni e delle sofferenze del popolo palestinese. Dentro tutto questo, vivono però tutto da cristiani, cioè con un atteggiamento e uno stile che è tutto particolare. Innanzitutto senza violenza; e poi cercando di vivere concretamente il perdono. Bisogna intendersi bene su questa parola: il perdono non significa lasciar perdere e fare come se nulla fosse accaduto. Perdonare, infatti, significa innanzitutto definire il male che si perdona. Alla luce di questo, il cristiano non deve mai consentire che la mentalità caratterizzata dal rifiuto dell’altro entri a far parte del proprio modo di pensare. Mai escludere l’altro, chiunque esso sia e qualunque cosa egli faccia.
Molti cristiani stanno abbandonando il Medio Oriente. Lei cosa direbbe a chi sta per lasciare la propria terra perché si sente minacciato?
Innanzitutto dico che comprendo le ragioni che portano molti ad andarsene, e sono ragioni prevalentemente economiche e sociali. Però penso anche che ci siano tante ragioni per restare, e che queste seconde siano più forti delle prime. La prima ragione è il fatto che un cristiano in Terra Santa ha una missione che gli è affidata da tutta la Chiesa, cioè conservare la memoria cristiana in quella che non è una terra qualunque, ma la terra che ha dato origine alla nostra fede. Quindi è una missione fondamentale, che egli svolge a nome di tutta la Chiesa. L’altro motivo è il fatto che nonostante le molte forme di violenza, comunque c’è ancora tanta gente in questa terra che continua a credere in un modo diverso di vivere, ed è dunque importante essere qui per incoraggiare e sostenere questi tentativi.
In Italia, a Milano, ha suscitato polemica il fatto che – pochi giorni fa – in piazza Duomo ad una manifestazione anti israeliana abbia fatto seguito la preghiera di centinaia di musulmani, proprio in un luogo simbolo del cattolicesimo. Lei, che vive in un luogo di preghiera dove tre religioni diverse tentano con estrema difficoltà di convivere, cosa ne pensa?
Che i musulmani abbiano avuto il desiderio di pregare per la situazione di guerra di questi giorni lo trovo legittimo. Per sensibilità e per rispetto, ritengo però che sarebbe stato sicuramente più opportuno farlo in un altro luogo. Si poteva facilmente trovare un luogo limitrofo, che non fosse proprio di fronte al Duomo.
Come giudica l’evolversi dei fatti in queste ultime ore? Dopo qualche spiraglio di dialogo, ieri si è addirittura aperto un nuovo fronte di guerra al nord di Israele.
Qui la gente fa veramente fatica a capire come vanno le cose; anche noi infatti non abbiamo moltissime informazioni, e certo non più di voi. Quel che posso dire è che naturalmente c’è molta apprensione, e c’è anche molta rabbia, soprattutto dentro la comunità islamica. Non posso fare altro che augurarmi che queste situazioni finiscano presto, perché più si va avanti e più il rancore si fa pesante.
MEDIO ORIENTE/ 2. Samir: Israele è più forte, faccia per primo un passo indietro - INT. Samir Khalil Samir - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
«Non cercano la pace né la coesistenza perché ognuno ha un progetto ideologico al quale non vuole rinunciare». Sono severe le parole di padre Samir Khalil Samir, professore nell’università St. Joseph di Beirut e tra i massimi esperti del mondo islamico, a proposito di israeliani e palestinesi. «Da una parte un gruppo fondamentalista, dall’altra un governo che dice di essere democratico. Ma che essendo il più forte, dovrebbe fare i primi passi». La manifestazione anti israeliana e la preghiera islamica davanti al Duomo di Milano sono l’occasione per affrontare con padre Samir i problemi della convivenza e del dialogo. Terra Santa compresa.
In Italia, a Milano, ha suscitato polemica che in piazza Duomo ad una manifestazione anti israeliana abbia fatto seguito la preghiera di centinaia di musulmani proprio in quel luogo, un luogo simbolo del cattolicesimo. C’è chi ha detto che la preghiera è tale dovunque e comunque essa avvenga; chi invece dice che, fermo restando il suo significato, non ne può essere trascurato il significato politico... Che ne pensa?
Il contesto di quel sabato pomeriggio mostra che lo scopo era fare un atto politico. La preghiera è venuta al termine di una manifestazione dedicata alla situazione di Gaza, dove si sono anche bruciate bandiere israeliane. Se si fosse voluto fare un gesto religioso, sarebbe stato molto più semplice, e più bello, invitare tutti quelli che volevano pregare per la pace a venire in un luogo scelto, come una chiesa, una moschea, o un luogo più neutrale. Sarebbe stato un momento in cui ognuno – cristiani, ebrei, musulmani – avrebbe potuto pregare a modo suo.
Lei esclude quindi una valenza religiosa…
Il fatto che simultaneamente, se ho capito bene, a Bologna davanti a San Petronio e a Milano in piazza Duomo sabato pomeriggio scorso sia avvenuta la stessa cosa, fa capire che c’è stata una programmazione. Questo vuol dire che c’è stato un progetto politico e che allora questo gesto di preghiera va letto politicamente. I musulmani devono capire che mescolare il politico e il religioso, non è una cosa buona e accettabile in Europa.
Dopotutto la manifestazione si è conclusa con un gesto di preghiera. Non contano solo la buona intenzione, l’interiorità e il primato della coscienza?
Nessuno dirà che la preghiera è un gesto negativo, però ha le sue condizioni: di solito ha un suo luogo – se no perché si chiama luogo di culto?, che può essere una moschea per i musulmani, o una chiesa per i cristiani. Poi c’è un problema di contenuto. La preghiera non può essere contro qualcuno, almeno nella nostra sensibilità moderna. A mio avviso non è bene concludere con una preghiera un’azione dimostrativa come una manifestazione politica. D’altra parte sono sicuro che i musulmani non volevano fare qualcosa che fosse contro la Chiesa.
Ma allora perché hanno scelto proprio il duomo?
Per la visibilità. Rientra nel modo di pensare dell’islam, tipicamente improntato a categorie politiche: come a dire «vedete? Ci siamo, siamo presenti, e visibili». Questo esprime più un atto politico che un atto religioso. Per noi cristiani è l’opposto, come dice il Vangelo: “tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto”. Ma l’islam ha un altro atteggiamento. Ho letto che l’appello alla preghiera è stato fatto col megafono, con la tipica esortazione “Allahu àkbar”, Dio è il più grande. Non c’è bisogno di farlo, se si è tutti convenuti apposta; se lo si fa è per farlo sentire agli altri. Sono convinto che non c’è niente in questo contro i cristiani, ma i musulmani devono imparare che in Occidente la dimensione religiosa deve rimanere discreta.
Si ripete continuamente che la strada maestra per la convivenza pacifica è il dialogo. Qual è la sua opinione?
Il dialogo ha come primo scopo quello di togliere le ambiguità. Per questo, nel vero dialogo, bisogna dirsi anche dove non si è d’accordo. Il vero dialogo deve mirare ad uno scambio che faccia capire ad ognuno la posizione dell’altro. Per esempio tra Gaza e Israele il dialogo imporrebbe di parlarsi, per risolvere le divergenze in modo pacifico e non con le bombe. Il dialogo è una tappa verso una pace profonda, anzi se possibile verso l’amicizia. Ma deve essere il più sincero possibile.
Lei è un cattolico di cultura araba. Esiste una contraddizione tra la fede e la cultura che ispirano i suoi valori e la sua sensibilità?
Il cristianesimo è una religione, ma come ogni religione ha un impatto profondo sulla cultura. La dimensione cattolica della mia personalità determina degli atteggiamenti culturali: per esempio cerco il più possibile la pace, ma senza rinunciare alla giustizia. La pace ha un valore quasi assoluto – dico “quasi” perché il primo valore è la vita e la dignità della persona, la sua incolumità - mentre i miei amici e fratelli musulmani non metteranno forse l’accento sulla pace. E cerco la giustizia, perché senza giustizia non si arriva alla pace. Non avverto alcuna contraddizione tra l’essere arabo e l’essere cristiano. Del resto l’arabismo non comincia con l’islam, perché abbiamo cristiani arabi fin dal giorno della Pentecoste.
La Terra Santa appare alla disperata ricerca di giustizia e di pace. Dove trovarla? Ci sono degli esempi di convivenza possibile?
Sono favorevole a una solidarietà con tutti i popoli della regione, cominciando da quelli che condividono la mia cultura. Ma non la solidarietà nell’errore e nell’ingiustizia. Il Libano, per esempio, è ancora oggi in grado di offrire una lezione alla convivenza tra religioni diverse. L’altro ieri però nel suo discorso Nasrallah (leader di Hezbollah, ndr.) ha detto: noi abbiamo per vocazione di difendere la terra dell’islam e la Palestina come parte di questa terra. Ma questo è sbagliato.
Perché?
Perché dire che dev’essere Hezbollah a difendere la Palestina? La Palestina è un altro paese, il primo compito è difendere la pace e la giustizia. Se voglio realmente la pace devo cercare di avvicinare i due contendenti, i palestinesi e gli israeliani, ma posso servire solo come intermediario. Sarkozy e Mubarak hanno cercato di fare da mediatori tra Gaza e Israele: questo è l’atteggiamento giusto, non quello di entrare in campo con l’uno o con l’altro.
Come mai ha citato il modello libanese?
Perché c’è un’intesa implicita che fa rispettare, anche a livello costituzionale, gli altri gruppi. Il parlamento comprende 128 parlamentari, 64 cristiani e 64 musulmani. I cristiani comprendono cattolici e ortodossi, i musulmani annoverano sciiti, sunniti e drusi. Ma benché la proporzione della popolazione stia cambiando, perché sappiamo che i cristiani non sono più il 50 per cento, tutti sono d’accordo di mantenere il 50 per cento della rappresentanza, proprio per creare uno Stato equilibrato. Gli armeni festeggiano il Natale il 6 gennaio ed è stato dato loro un giorno di festa. Per mantenere l’equilibrio, hanno dato un giorno in più festivo anche ai musulmani. È un equilibrio che, malgrado 15 anni di guerra civile, è stato mantenuto.
Che cosa serve per imboccare la via della pace?
Io dico sempre ai miei fratelli palestinesi: è vero che siete vittima di un’ingiustizia, perché non avete fatto nulla contro gli ebrei prima del 1948 per meritare di essere spogliati della vostra terra. Ma la realtà è che oggi siamo a più di 60 anni da questo fatto. Dovete vivere insieme per poter vivere meglio. Allora cercate di capire che anche l’israeliano, quello che sta nella parte di Israele legittima, non è stato nemmeno lui a privarvi della terra, perché è nato lì. È la sua terra come la vostra. Dovete prima vivere insieme per poter discutere. Ma se vi combattete, avrete perso tutto, la terra del ‘48 e anche quella di oggi. E non solo il campo o l’azienda, ma anche i vostri cari.
Il desiderio della pace sfocia troppo spesso in una posizione utopica che non si mostra capace di far i conti con la realtà. Che compito spetta alla politica?
Il realismo in politica è l’unica strada: occorre certo saper vedere lo scopo più lontano, ma anche essere saggi nel fare le tappe per raggiungerlo. Lo scopo ultimo potrebbe non sembrare alla nostra portata, ma a questo servono le tappe. E la destinazione ultima non può che essere questa: che ci sono due popoli, il popolo palestinese, che ha pieno diritto alla sua terra, e il popolo israeliano, che per altri motivi ha uguali diritti. La sua terra però non è la Cisgiordania, ma la parte che le Nazioni Unite hanno dato a Israele. E la Palestina non è tutta la Palestina storica, ma la parte che le Nazioni Unite hanno dato ai palestinesi. È giusto ragionare e costruire un progetto, ma appropriarsi di quello che non si possiede e fare legge a se stessi è il principio della barbarie. Prevale un atteggiamento barbaro da entrambe le parti. Ma chi ne soffre di più? I palestinesi e le persone innocenti.
Con generazioni di morti da entrambe le parti la soluzione del conflitto non converrebbe a tutti?
Non cercano la pace né la coesistenza perché ognuno ha un progetto ideologico al quale non vuole rinunciare. Hamas che non vuole accettare ad ogni costo l’esistenza di Israele, e lo Stato ebraico che vuole mostrare ai palestinesi chi è il più forte e non intende ritirarsi dalle terre illegalmente occupate. Da una parte un gruppo fondamentalista, dall’altra un governo che dice di essere democratico. E che essendo il più forte, dovrebbe fare i primi passi.
Sta dicendo che l’iniziativa della pace deve partire da Israele? Perché?
Perché la politica come rapporto di forze da sola non basta. La giustizia non è la virtù del debole, che in quanto tale non può concedere, ma del forte. Ed è a chi è più forte che spetta di fare le concessioni.
UNIVERSITA'/ Valutare atenei e docenti. Oltre il decreto Gelmini - Giorgio Vittadini -venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Nel decreto sull’università approvato ieri è contenuta una norma riguardante la valutazione dei docenti. È utile fare alcune considerazioni in proposito. Per l’accesso al ruolo di docente è certamente fondamentale valutare la collocazione degli articoli scientifici su riviste internazionali e il grado di diffusione e citazione dei lavori prodotti, ma non bisogna dimenticare almeno altri due fattori. Innanzitutto la necessità di entrare nel merito dei lavori scientifici perché può capitare che studi molto validi, soprattutto di giovani ricercatori, siano collocati in riviste meno note. Secondariamente, occorre verificare il livello culturale generale del candidato perché il professore universitario italiano ha come compito imprescindibile anche l’insegnamento.
Più complesso è il problema della valutazione di professori già in ruolo e dei dipartimenti. Se è fondamentale, anche in questo caso, valutare la validità della produzione scientifica, anche a livello internazionale, occorre altresì tener conto della ricaduta della ricerca sul territorio, cioè del suo contributo ad affrontare problemi cruciali del mondo sociale, economico, scientifico e tecnologico. Ciò dipende dalla qualità della ricerca, ma anche dall’investimento di tempo e risorse per tradurla in progetti operativi. Non per niente nelle valutazioni periodiche dei full professor americani, si considera anche la loro capacità di organizzare la ricerca, di guidare gruppi di lavoro, di ottenere finanziamenti.
In Italia casi che fanno ben sperare sono quelli della Fondazione Politecnico, della Sda Bocconi, di Alma Mater di Bologna, delle Alte Scuole dell’Università Cattolica. Inoltre, non si può prescindere dalla valutazione della qualità della didattica, attuabile non solo con i questionari sottoposti agli studenti, ma anche attraverso indagini tese a verificare gli effetti della preparazione sull’attività professionale dopo l’università.
Le anagrafi dei laureati di molte università, i metodi per misurare i tempi di attesa del primo lavoro, la congruità dell’attività professionale con la preparazione, il livello di occupazione dei laureati - evidentemente al netto delle differenze per facoltà e territorio - suggeriscono criteri praticabili. Ciò diventa tanto più necessario se si pensa che la didattica di molte università italiane sia per la laurea triennale che per quella magistrale, può competere con sistemi conclamati come quello americano. Ma, mentre le università statunitensi trovano la loro eccellenza nella cura dei migliori, attraverso master e dottorati, l’università italiana vede qui la sua maggiore carenza in quanto manca di sistemi di incentivazione per i più meritevoli.
Dal complesso di queste considerazioni si deduce che non si può ridurre la valutazione all’utilizzo di indici quantitativi, peraltro molto discussi e discutibili. Per questo anche in Italia si è cominciato a utilizzare il giudizio di una commissione di esperti. La commissione valuta dapprima i titoli di docenti e dipartimenti attraverso indici quantitativi e rapporti appositamente predisposti e poi prende visione, attraverso colloqui e letture di documenti, del livello qualitativo generale; redige infine un giudizio articolato che mette in luce qualità e difetti della situazione suggerendo ipotesi di miglioramento.
Da ultimo, va considerata la scelta - l’unica che potrebbe assicurare una via d’uscita - di una vera competizione tra università, che costringerebbe, in uno scenario di abolizione del valore legale del titolo di studio, di finanziamenti non garantiti indiscriminatamente dallo stato e di autonomia reale, ad assicurarsi studenti e fondi di ricerca per il solo valore del loro operato (vedi proposte di legge del senatore Nicola Rossi).
È evidente che chi tollerasse una bassa qualità del suo ateneo, si avvierebbe a essere emarginato e forse a chiudere, mentre chiunque avrebbe interesse ad autovalutarsi in modo severo per evitare di diventare marginale.
(Da Il Riformista del 09 gennaio 2009)
ISRAELE/ Gaza è Hamas? - Roberto Fontolan - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Hamas è Gaza e Gaza è Hamas? La domanda non è di poco conto perché ogni considerazione su questa nuova tappa del dramma israelo-palestinese dipende dalla risposta.
Hamas è un’organizzazione certamente nemica di Israele, ma si può dire altrettanto del milione e mezzo di persone che popolano quell’infernale territorio (le definizioni si sprecano, come si è visto in questi giorni, e al di là delle polemiche nominalistiche ci sono pochi dubbi sul fatto che Gaza compaia assieme alla Somalia e ad Haiti in testa alla classifica dei luoghi peggiori del pianeta) da Hamas governato?
Molte di quelle persone hanno di sicuro sentimenti ostili contro lo Stato e il popolo ebraici, molte sono senza dubbio legate al partito terrorista e fondamentalista, molte beneficiano della sua capillare rete di assistenza e la preferiscono al caotico e corrotto sistema dei clan di Al Fatah; ma molte altre subiscono la situazione e vorrebbero solo vivere altrove, non avendo in “patria” altra scelta che non la miseria e la sottomissione all’islamismo.
Sappiamo bene chi sono i militanti di Hamas, ma non quanti sono. Dicono che si mimetizzano tra la gente e che risulta molto difficile distinguere tra la mamma e la miliziana, il disoccupato e il guerrigliero, l’adolescente e il kamikaze. Ma sforziamoci di immaginare, perché un nucleo identificabile, per quanto ampio e amplissimo, ci deve pur essere: diecimila, trentamila, cinquantamila, centomila, quale è un numero ragionevole? Una volta stimato, e lo avranno certamente fatto i servizi di informazione israeliani, cosa fare di tutti coloro che lo eccedono? Che proposta fare loro e chi la dovrebbe fare: Stato di Israele, Onu, Unione Europea, Lega Araba, Egitto, Giordania, Iran, Autorità palestinese -che peraltro a Gaza non possiede nulla del nome di cui si fregia?
Nella “guerra” attuale appare invece una tema solo: Israele contro Hamas e questo “contro” coincide con Gaza. Non è chiaro quale sia l’obbiettivo israeliano, al di là di quanto dichiarato ufficialmente: garantire la sicurezza dei territori israeliani dal famigerato lancio dei razzi (che dal 2001 hanno provocato venti morti) e bloccare una volta per sempre il traffico d’armi tra Gaza e il resto del mondo.
La ragione di questa non chiarezza è nella tanto sottolineata sproporzione tra i mezzi utilizzati e appunto il raggiungimento degli obbiettivi: bombardamenti aerei e offensiva di terra che hanno causato centinaia di vittime, tra cui moltissimi “civili”, cioè persone che vivono in una regione governata da Hamas ma non per questo sono ascrivibili alle forze di Hamas. Ci si domanda se per il traffico d’armi sarebbe bastato far saltare le gallerie che da Rafah si dipartono verso l’Egitto assieme a un più serrato controllo navale e per il lancio dei missili bombardamenti un po’ più mirati di quelli attuati.
Forse l’obbiettivo indiretto è l’Iran, forse il recupero di fiducia nell’opzione militare messa a dura prova con il pratico fallimento visto in Libano due estati fa, forse “fare qualcosa” per uscire da uno stallo infinito, forse annientare Hamas militante per militante (e sono i commentatori americani a ricordare che la nascita dell’organizzazione, venti anni fa, fu “ben accolta” da Israele in funzione anti-Olp – non troppo diversamente da quanto gli Stati Uniti fecero nei confronti dei mujahiddin afgani in funzione antisovietica).
Si capirà più avanti se l’operazione abbia questi o altri scopi o anche nessuno scopo, nel senso che “prima si fa la guerra e la politica si fa poi a seconda di quanto accaduto sul campo”. Ma il fervore con cui in questi giorni da tante parti si dice che la cosa più importante è il dopoguerra, è fuorviante e fuori luogo. La cosa più importante è la realtà di una guerra che vediamo dispiegarsi giorno dopo giorno, ora dopo ora. E che fa coincidere Hamas con Gaza e Gaza con Hamas.
NATURA UMANA/ Dall'aborto all'eugenetica, il tradimento della vita - INT. Christopher Tollefsen - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Lo scorso 22 dicembre il Papa, in occasione degli auguri di Natale alla Curia Romana, ha formulato una netta condanna nei confronti delle nuove ideologie mondane che tendono a mettere a repentaglio i riferimenti naturali e razionali dell’esistenza. Abbiamo chiesto al professor Christopher Tollefsen, docente di filosofia morale presso l’Università del South Carolina e autore del libro antiabortista “Embryo”, di commentare le parole del Pontefice
Recentemente il Papa è intervenuto condannando l'ideologia "gender" per la quale non esisterebbe un'autentica distinzione di fondo fra i sessi maschile e femminile che rappresenterebbero invece soltanto tendenze sessuali. Il Pontefice indica in questa visione una minaccia al concetto di "natura umana". A suo avviso esiste una correlazione fra questo tipo di visione e la corrente di pensiero che vorrebbe escludere l'embrione dalla categoria di "essere umano"?
Ci sono aspetti comuni e differenze. Come Giovanni Paolo II prima di lui, Benedetto XVI è preoccupato dall’idea in un certo senso impazzita di “autonomia”. L’idea che siam liberi di fare di noi stessi qualunque cosa vogliamo, fino al punto di determinare la nostra natura “gender”, viola tutte le norme oggettive che sono indirizzate verso una fioritura dell’uomo genuina. Qualcosa di simile avviene nelle discussioni circa la personalità quando si dice che “noi” abbiamo bisogno di “decidere” chi abbia la dignità di persona, e chi no.
Comunque, il problema relativo all’embrione – se si tratta o no di un “essere umano” – non è una questione normativa, ed è meno suscettibile di interpretazioni autonome: è una questione scientifica, e c’è un largo consenso tra gli scienziati – biologi dello sviluppo ed embriologi – nel riconoscere che l’embrione è, sin dallo stato monocellulare, un essere umano nella sua prima fase di sviluppo, come si può evincere dalla lettura dei loro manuali. Questo non pone una questione di personalità, ma ci fornisce molto materiale per le nostre argomentazioni, se siamo convinti che a tutti gli esseri umani dovrebbe essere riconosciuta la piena protezione morale e legale.
Al contrario, le nozioni normative di “gender” – del mascolino e femminino, in particolare per come vanno intesi in quanto ordinati verso il matrimonio queste nozioni vanno oltre quello che la biologia del “gender” può dirci. Consideriamo l’ingiunzione rivolta da San Paolo ai mariti perché amino le loro mogli come Cristo ama la Chiesa: questo è normativo per gli uomini fintanto che essi sono uomini, e indica la strada verso un genuino benessere degli uomini sposati e non. Ma, poiché questo ideale del mascolino non è semplicemente un dato biologico, senza dubbio è in qualche modo più facile per coloro che non contemplano un’adeguata “ecologia dell’uomo” pensare che solamente la scelta, e non un ordine morale oggettivo, è tutto ciò che può guidare le nostre idee sul “gender”.
Molti intellettuali dello scorso secolo sia credenti sia non credenti (G.K.Chesterton, Aldous Huxley o George Orwell), mediante i propri scritti, hanno spesso denunciato i rischi dell'eugenetica "soft". Nonostante ciò sembra che la cultura dominante e gran parte della società attuale ne esigano sempre più pervicacemente la pratica. Da che cosa dipende questa tendenza?
In parte, una risposta adeguata a questo consegue a quanto detto prima: l’idea che noi facciamo, e rifacciamo, noi stessi secondo la nostra volontà conduce naturalmente all’idea che noi possiamo allo stesso modo fare e rifare i nostri figli. E quando vediamo gli embrioni umani non come esseri umani o persone, ma come mera “roba” biologica nel processo di formazione, allora noi siamo incoraggiati anche di più ad occuparci di questi eventi biologici e conformarli ai nostri propri scopi.
Ultimamente la nostra percezione ci dice che qualsiasi cosa ci riguardi è profondamente speciale, inclusa la nostra natura e l’esistenza nostra e dei nostri figli, è un dono, qualcosa al di fuori del nostro controllo. Tale percezione oggi è a rischio. La percezione di questo dono è cruciale, sia per la nostra coscienza che il nostro Creatore ci sta chiamando ad accettare il Suo dono e a rispondere con un “sì”, e inoltre per la nostra volontà di far dono di noi stessi agli altri. Poiché sia nel ricevere doni che nel farli (ed essi, dopo tutto, possono essere respinti) noi riconosciamo la nostra dipendenza dagli altri, la nostra mancanza di auto-sufficienza, e le vie fondamentali in cui noi non siamo, autonomamente, i “controllori” di noi stessi e del nostro destino.
Questa perdita della nostra consapevolezza della natura di dono della nostra vita si riflette in un altro modo: nel nostro rifiuto di veder soffrire, che realmente è al di là del nostro controllo e in quel senso è “gratuito”, capace di portare un significato. E così anche la sofferenza diviene qualcosa che dev’essere completamente controllata, se necessario attraverso l’eliminazione di chi soffre, come nell’eutanasia e nel suicidio assistito, e, all’inizio della vita, nella distruzione degli embrioni e dei feti geneticamente svantaggiati.
Sempre a proposito di "natura umana": il relativismo sembra essere il punto di arrivo (o almeno di accordo) sia del pensiero filosofico analitico di stampo anglosassone sia di quello esistenziale di matrice continentale (Europea). Secondo lei esiste nell'attuale panorama culturale una "terza via" in grado di contrapporsi a entrambe queste concezioni?
Sia il materialismo naturalistico sia l’esistenzialismo fanno un errore simile: entrambi non riconoscono che c’è un’oggettività nell’ordine normativo, l’ordine della ragione pratica.
Come scrisse San Tommaso, la ragione pratica è la nostra partecipazione alla legge eterna: Dio sceglie di guidarci verso la nostra perfezione non installando in noi dei principi direttivi che determinano le nostre azioni, ma permettendoci, attraverso la nostra propria conoscenza di questi principi, di dirigere noi stessi verso il nostro compimento, e di decidere per noi stessi se agire o meno come prescritto. In questa “teonomia partecipata” siamo posti in grado di essere cooperatori attivi di Dio nel dar forma alla nostra vita in accordo con i suoi piani.
Il materialismo naturalistico manca di questo, ponendo l’attenzione solo sull’ordine materiale di ciò che già esiste, di ciò che è dato fisicamente. Non c’è spazio per ciò che che siamo chiamati ad essere. L’esistenzialismo riconosce che molto di ciò che possiamo scegliere di essere è genuinamente buono per noi, effettivamente ci compie. La ragione pratica dev’essere portata a riconoscere i beni genuini della persona che, come Giovanni Paolo II ha posto in rilievo, sono protetti dai dieci comandamenti, beni come la vita umana, la conoscenza, e il matrimonio. Solo un orientamento fondamentale e onesto verso questi beni, verso questo orizzonte della vera fioritura umana, può servire come una terza via. E così ogni argomento morale deve sforzarsi di mostrare che noi effettivamente siamo migliori come persone nel momento in cui compiamo delle scelte che onorano la vita piuttosto che la morte, la conoscenza piuttosto che l’ignoranza, l’arte piuttosto che il trash, e il matrimonio e la famiglia piuttosto che la licenza sessuale, la pornografia, e il solipsismo.
Una visione riduzionista e relativista sull'uomo rischia di mettere a repentaglio anche il progresso scientifico? Se la sua risposta fosse affermativa potrebbe proporci alcuni esempi?
Fino a un certo punto senza dubbio può. Come punto di partenza metodologico, la ricerca di leggi scientifiche e di spiegazioni meccanicistiche può chiaramente aprire la strada a un notevole progresso nella conoscenza e nella tecnologia. Questo è perché effettivamente una parte del mondo è così come le scienze fisiche lo descrivono. Naturalmente, ho anche descritto in precedenza alcuni dei limiti di quell’immagine: non può dirci cosa un uomo può e dovrebbe essere. E così il progresso scientifico da solo ultimamente è destinato a fallire nel tentativo di far avanzare realmente la condizione umana: in realtà, perfino la preoccupazione dello scienziato per la verità sarà una casualità di un assetto mentale puramente riduttivo.
Dovremmo anche tenere in mente che mentre la buona scienza corrisponde a una scienza guidata da norme etiche, a breve raggio, la scienza senza etica dovrebbe essere piuttosto efficace, e forse perfino più efficace della scienza etica. Ma sarebbe profondamente fuorviante suggerire che ciò che dobbiamo perseguire è semplicemente la politica di lavoro maggiormente produttiva, se ciò dovesse significare trascurare i diritti umani, o i più “efficaci” strumenti di guerra, o la pianificazione urbana, o persino l’agricoltura: le nostre preoccupazioni per gli altri beni umani, e per le libertà umane, tengono a freno le nostre azioni in questo o quel contesto, e non c’è ragione per negare che lo stesso dovrebbe essere vero della pratica scientifica.
In occasione delle ultime elezioni politiche in Italia, si è presentata una lista elettorale il cui principale scopo e programma era incentrato sulla lotta all'aborto. L'esito ha sancito una netta sconfitta per il candidato di quella lista, nonostante i cattolici, e una discreta parte dell'elettorato laico, siano contrari all'interruzione volontaria di gravidanza. E' dunque la riprova che la politica non può rispondere ai problemi etici, o almeno non pienamente. Da quale ambito culturale può invece provenire una risposta?
Nella Fides et ratio, Giovanni Paolo II scrisse che «fede e ragione sono come due ali su cui lo spirito umano assurge alla contemplazione della verità». C’è bisogno di entrambe queste due ali ora come non mai; ma dobbiamo riconoscere che gli esseri umani possono, sfortunatamente, conoscere la verità e tuttavia scegliere contro di essa. Questa triste realtà della condizione umana è ciò cui davvero occorre dare una risposta, e Cristo ha fornito il modello di questa risposta: l’amore. Dobbiamo rispondere alle minacce alla vita umana, e a una politica di morte, con l’amore: l’amore per coloro che si oppongono alla vita; l’amore per coloro le cui vite sono più vulnerabili, più minacciati, più dipendenti dagli altri per vivere; e l’amore per il nostro Dio che ci promette di non abbandonarci, persino nei momenti più difficili, che promette che Lui asciugherà tutte le lacrime dei nostri occhi: «e la morte non sarà più, né il lamento, né il pianto, né il dolore vi sarà più, e le cose di prima sono trascorse». Solo in Dio, e nelle Sue promesse, possiamo vedere la risposta definitiva a questi problemi etici
DE ANDRE'/ 2. Luigi Viva: il racconto di una vita in direzione ostinata e contraria - INT. Luigi Viva - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Luigi Viva, giornalista e socio fondatore della Fondazione Fabrizio De André, è l'autore di “Non per un dio ma nemmeno per gioco - Vita di Fabrizio De André". Una biografia ricca e avvincente maturata nel tempo nel confronto diretto con il cantautore e poeta genovese, di cui l'11 gennaio 2009 ricorreranno i dieci anni della scomparsa. Il libro, conosciuto dalla maggior parte di chi ama De André ha avuto un grande successo ed è arrivato alla quindicesima edizione entrando nella collana “Vite narrate - Universale Economica Feltrinelli”.
L'autore ha accettato di rispondere ad alcune domande su De André e la sua poetica.
Il suo libro fece molto scalpore perché raccontava la vita straordinaria di un artista per certi versi misterioso e per la collaborazione del protagonista. Come nacque l’idea di iniziare questo lavoro e come si spiega questo successo?
Ho conosciuto Fabrizio nel 1975 grazie a Giorgio Usai dei New Trolls. Da allora, seppure in maniera saltuaria, abbiamo iniziato a frequentarci, complice il comune amore per l’agricoltura, la filosofia e l’anarchia.
Fu con l’uscita de "Le Nuvole" che nacque il desiderio di un confronto con lui. Ascoltandolo nell’intervista concessa a Vincenzo Mollica per Prisma, mentre parlava del “potere” e dell’incombenza che questo ha su tutti noi, iniziai a pensare che quello che stava dicendo (da tempo) era vero. Fu un tutt’uno, in quel periodo ero molto preoccupato per la plumbea situazione politica del nostro paese e scrivere la sua biografia divenne per me quasi un dovere. Non è un caso che Fabrizio mi diede il suo ok a Milano, in casa sua, il giorno in cui iniziò "Mani Pulite"...
È imbarazzante per me spiegare le ragioni del successo di questo libro; posso dire che i lettori hanno probabilmente avvertito la sincerità, la cura e l’amore con il quale era stato scritto, visto che era nato esclusivamente da un'esigenza personale.
Come venne impostato il lavoro e quali erano le reazioni di De André all'evoluzione del progetto? Ci furono anche momenti di scontro?
Fabrizio ha condiviso il taglio della biografia come pure dell’altro volume non ancora pubblicato riguardante l’analisi dello stile di tutta la sua produzione. Corresse lo schema biografico, mi indicò le persone da contattare e da intervistare oltre che correggere parte del libro poi pubblicato.
Debbo dire che con lui non ho avuto nessun momento di scontro, ho dovuto solo armarmi di pazienza visti i molteplici suoi impegni che a volte ritardavano la lavorazione. Anche Fabrizio è stato paziente con me come si deve essere con un biografo (!). Non finirò mai di ringraziarlo per la fiducia che ha riposto in me e per l’affetto e l’amicizia che ha avuto nei miei confronti...
Ricordo ancora quando quella sera a casa sua discutevamo del progetto e lui mi manifestava i suoi dubbilegati ad alcune pubblicazioni che non lo avevano soddisfatto.
Quando gli chiesi «allora Fabrizio posso iniziare a scrivere?», guardandomi attraverso il ciuffo di capelli, mi rispose poco convinto «mah, vedi un po’ tu». La mia risposta fu perentoria: «Guarda Fabrizio, non mi devi fare un favore, se non ti va non c’è problema, ma sappi che il libro è una mia esigenza personale, lo scrivo per me». Si fece serio e immediatamente ribatté «se le cose stanno così, allora mi sta bene».
Come si manifestò il talento musicale di De André, sbocciato grazie a tante esperienze diverse, più che a una formazione musicale canonica?
Probabilmente il talento musicale lo aveva nel dna. A tre anni venne sorpreso sopra una sedia mentre dirigeva l’orchestra che stava ascoltando per radio. Certo è che avere un padre colto e intelligente come il Professor De André è stato fondamentale per gli stimoli sia musicali, sia letterari che Fabrizio ha ricevuto.
La sua poetica dava voce a un tesoro di esperienze maturate nella vita di campagna ai tempi della guerra e nelle successive bande di quartiere dei vicoli di Genova, ma anche a numerose letture? Quali fatti e quali autori lo segnarono maggiormente?
Fabrizio divorava i libri che gli passava prima il fratello e poi il padre. Da un punto di vista artistico-umano, ma anche politico, le persone che più lo hanno influenzato sono state il mezzadrio Emilio Fassio che gli insegnò ad amare e rispettare la natura, lo zio Francesco, conosciuto al ritorno dal campo di concentramento, prototipo di tante figure dolenti che popolano le sue canzoni, il poeta Remo A. Borzini che per primo lo avvicinò alla poesia, il compagno di vita Rino Oxilia e il poeta anarchico Riccardo Mannerini; non a caso Fabrizio mi disse «da Rino ho imparato la vita, da Riccardo ho imparato a pensare».
Qual è la sua canzone alla quale è più legato?
La canzone a cui sono più legato è Smisurata preghiera, e per questo motivo una parte del testo funge da seconda dedica che compare all'inizio del libro:
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità
(Intervista a cura di Carlo Melato)
Nuovi studi sottolineano i rischi della fecondazione in vitro - Nessuna persona è un diritto per un'altra - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 10 gennaio 2009
Esce in questi giorni uno studio eseguito da ricercatori americani del Centro nazionale su difetti congeniti e disabilità evolutive (Nbdps) che riapre il dibattito etico sui temi della fecondazione in vitro, finora limitato al tema della liceità morale della fecondazione extracorporea e all'eliminazione di embrioni umani soprannumerari o malati. Lo studio ("Human Reproduction", novembre 2008) riporta infatti che i bimbi dati dopo fecondazione in vitro (Fiv) hanno un rischio di certe malformazioni maggiore degli altri.
Il problema era già stato sollevato dalla garante per l'infanzia del parlamento francese, Claire Brisset, su "L'Express" del 16 gennaio 2003: "Per l'Icsi (tecnica di procreazione artificiale, ndr) bisogna assolutamente procedere ad una valutazione retrospettiva di questa tecnica di cui non conosciamo gli effetti. Abbiamo il diritto di rischiare di concepire figli che rischiano di essere ipofertili senza aver pesato cosa questo significhi? La tecnica è efficace. La gente è contenta. Siamo nel breve periodo. Auspico una moratoria finché non abbiamo abbastanza informazioni".
E le faceva eco sulla stessa rivista il presidente del Comitato nazionale francese di bioetica, Didier Sicard: "Oggi si sacralizza il desiderio degli adulti. Certe tecniche di fecondazione fanno correre dei rischi ai bambini che nasceranno". Veniva dunque auspicato anche in ambito procreativo il principio di precauzione.
La letteratura scientifica aveva infatti iniziato a mostrare i dati sulla salute dei bambini; e i dati avevano iniziato ad interessare la comunità scientifica e a generare una certa preoccupazione, tanto che sulla rivista "Nature" Kendall Powell aveva pubblicato un articolo significativamente intitolato "Semi di dubbio" in cui così concludeva: "Viste le preoccupazioni esistenti e la potenzialità per ulteriori spiacevoli sorprese, alcuni ricercatori richiedono fondi per progetti per investigare la biologia di fecondazione e impianto, per studi sugli effetti delle manipolazioni su ovociti ed embrioni e per studi epidemiologici più ampi e migliori".
Da allora gli studi si susseguono. Alcuni mostrano che nella media lo sviluppo neurologico dei piccoli non avrà risentimenti e una recente review pubblicata dalla rivista "Lancet" (luglio 2007) afferma che "i bambini nati da Fiv a termine di gravidanza e sani, avranno uno sviluppo pari agli altri". Ma il "Lancet" riporta anche che in caso di Fiv "il maggior rischio dipende dalle nascite multiple. Il rischio di aborto è del 20-34% maggiore della popolazione generale. Il rischio di malattie da numero alterato dei cromosomi è maggiore così come il rischio di nascite premature è doppio rispetto alla popolazione normale; è anche aumentato il rischio di ritardo di crescita del feto". "Il rischio di malformazioni maggiori è 1,3 volte quello della popolazione generale" e c'è "anche un rischio maggiore di paralisi cerebrale". Anche altre review mostrano dati simili al "Lancet", come quella di Nancy Green su "Pediatrics" del 2004 o Jane Halliday su "Best Practice and Research Clinical Obstetrics and Gynecology" del 2008.
In realtà le percentuali di bambini con malformazioni nella popolazione generale (4% dei nati) o paralisi cerebrale (2% dei nati) sono relativamente basse e un loro incremento di 1,3 volte - come nel caso delle malformazioni - non è clamoroso.
Ma non è neppure trascurabile, come sottolineano le riviste citate, e proprio questo fa entrare nel dibattito il principio di precauzione che richiama alla necessità di studi prospettici, al miglioramento delle procedure e all'analisi attenta del percorso fin qui intrapreso, come ad esempio suggeriscono Pavels e Knowels sulla laica rivista di bioetica "Hasting Center Report" o il documento "Reproduction and Responsibility" del Comitato di bioetica del presidente americano.
Quanto abbiamo riportato introduce sulla scena del dibattito etico riproduttivo un personaggio centrale forse poco considerato finora: il figlio, i rischi grandi o piccoli che lui corre e che i genitori accettano in sua vece. Pavels e Knowels, parlando dei rischi posti dalla Fiv sui bimbi, spiegano che "i futuri genitori devono bilanciare il loro desiderio di creare un bambino col loro desiderio di proteggerlo da rischi prevenibili" tema su cui il Los Angeles Times si è concentrato l'11 agosto scorso in un articolo intitolato: "Bimbi, la via facile? Le tecnologie riproduttive non dovrebbero essere intraprese alla leggera. Possono porre rischi per il nascituro". Questo apre la porta ad una seria riflessione sui diritti di quest'ultimo e sulla tutela che necessita rispetto alle possibili difficoltà conseguenti alla Fiv, tra cui anche l'assenza ex lege di un genitore in caso di fecondazione eterologa, o la possibilità di sterilità ereditata in conseguenza della sterilità del genitore, fino addirittura alla scelta da parte dei genitori di concepirlo non "sano" ma con una qualche anomalia che i genitori suppongono desiderabile (vedi il caso della madre non udente che ha voluto concepire un figlio sordo usando il seme di un donatore sordo anche lui, "Journal of Medical Ethics" ottobre 2002).
S'impone allora una riflessione sull'etica dell'accettare rischi per conto del bambino per compiere il proprio umano desiderio. È una riflessione ormai in atto perché nel mondo cresce un'impellente domanda di approfondimento e di prudenza nel mettere le mani nel cuore della vita umana, come mostra un sondaggio dell'ente inglese Human Fertilisation Embriology Authority il quale ha riportato nel novembre 2005 che, mentre l'85% delle persone ritengono che la Fiv rappresenti un importante avanzamento scientifico, solo il 50% ritiene che i vantaggi compensino i rischi. Questa riflessione riporta il figlio al centro della discussione etica, non più come un "diritto" (nessuna persona è un diritto per un'altra) ma come un soggetto personale e necessitante di tutela e cautela sin nell'atto del suo concepimento.
E forse è proprio dall'approfondimento dell'interesse del bambino il punto da cui si può partire per un dibattito sereno sull'etica della fecondazione umana.
(©L'Osservatore Romano - 10 gennaio 2009)
Il retroscena Sagrato profanato e svastiche: «Vaticano preoccupato» - di Andrea Tornielli – 6 gennaio 2009
Roma. In Vaticano c’è preoccupazione per quanto avvenuto durante le manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese, con le bandiere israeliane bruciate e la stella di David trasformata in svastica nazista, e i cortei culminati con centinaia di partecipanti che pregavano in direzione della Mecca, davanti alle porte del Duomo di Milano e di San Petronio a Bologna. Lo conferma al Giornale il direttore dell’Osservatore Romano, Gian Maria Vian: «C’è preoccupazione per questo uso violento della religione, sono rimasto impressionato da quanto è accaduto. Bisogna far di tutto per evitare queste strumentalizzazioni». Il quotidiano vaticano, nel numero oggi in edicola, non dedica molte righe ai cortei italiani e soprattutto, pur citandoli, omette riferimenti alle polemiche suscitate dalla preghiera islamica in piazza Duomo, trasformata in moschea all’aperto.
L’intenzione di tutti è quella di non enfatizzare quanto accaduto. Ma, al tempo stesso, a nessuno sfugge la delicatezza della situazione. La Curia milanese tace, dopo le parole dell’arciprete del Duomo, monsignor Luigi Manganini, che aveva definito la vicenda una «mancanza di sensibilità» da parte dei manifestanti musulmani e aggiungendo: «Da cristiano non avrei partecipato a una manifestazione che si fosse conclusa con una preghiera proprio di fronte a una moschea».
Preoccupazione, come pure volontà di non gettare benzina sul fuoco, si percepisce anche ai vertici della Conferenza episcopale italiana. Né la presidenza né il segretario generale sono intervenuti direttamente. Un commento su quanto avvenuto è stato però affidato a don Gino Battaglia, direttore dell’ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: «La preghiera è cercare Dio: è sempre mettere nelle sue mani le nostre attese, speranze o desideri. Ovvero espressione di gratitudine e di lode. Ha dunque una sua logica, che non può essere mai contro qualcuno, a meno di non tradire la sua stessa essenza».
«Bisogna fare attenzione», osserva un vescovo della Santa Sede, collaboratore di Benedetto XVI, «perché secondo la visione islamica, la preghiera in un determinato luogo può significare renderlo musulmano per sempre. E poi, vorrei sperare che quanti si sono inginocchiati a pregare in direzione della Mecca a due passi dai portoni del Duomo di Milano, chiusi nonostante la messa vespertina, non siano gli stessi che hanno esultato bruciando la bandiera di Israele. Proprio oggi ho parlato di questo con un cardinale, il quale mi ha detto: “Se pregano, non fanno la guerra”. Mi auguro davvero che sia così. Purtroppo però negli ultimi anni abbiamo visto spesso il contrario, e cioè la crescita di un fondamentalismo che incita all’odio e alla violenza usando il nome di Dio: un abuso che prima Giovanni Paolo II e ora Benedetto XVI hanno fortemente criticato».
Eluana, i medici della clinica di Udine si ribellano: ''Non siamo un mattatoio!" - A giorni la decisione dei vertici della casa di cura che s'è offerta di far morire la giovane donna. Appello dei camici bianchi: «Fermiamoci». Dell'operazione avevano saputo dai giornali
«Se prima eravamo sconcertati oggi siamo esterrefatti. Il rapporto di fiducia tra noi medici e la struttura sanitaria per cui lavoriamo si è spezzato. L’appello ai nostri capi? Fermatevi». Sono molti i camici bianchi della 'Città di Udine' - il policlinico che vorrebbe «accompagnare alla morte» Eluana - che esprimono disaccordo con i vertici. Molti (e diversi) i motivi della loro indignazione. «Alcuni di noi sono profondamente colpiti dal punto di vista etico e umano - specifica uno di loro, altri invece non accettano l’arroganza con cui gli amministratori hanno gestito la cosa, mettendoci di fronte al fatto compiuto e costringendoci a saperlo dai giornali. Una terza parte, infine, non ammette che si siano rivolti a un’équipe esterna di cosiddetti volontari, anziché chiedere a noi se eravamo disposti a staccare il sondino: è indice di coscienza sporca. E come li hanno reclutati, visto che il progetto era così segreto? Chi c’è dietro?».
Può darsi, come hanno spiegato gli avvocati della famiglia Englaro, che si volesse evitare una possibile obiezione di coscienza.
Ma allora la cosa è ancora più triste, per noi: la nostra casa di cura 'svenduta', cedendo i muri ma prendendo le distanze da quanto vi sarebbe avvenuto dentro... Si sono fatti tristi paragoni, in queste ultime settimane di angoscia.
Ovvero?
Parlando tra medici e infermieri, si è detto che i nostri capi hanno fornito il mattatoio... Anche il rapporto con la cittadinanza è cambiato da quando la 'Città di Udine' è finita sui giornali: telefonate ingiuriose, epiteti poco edificanti arrivati via fax, sfoghi di grande amarezza da parte dei pazienti. L’altra mattina stavo visitando una coppia, la moglie mi ha detto «è qui che forse verrà a morire Eluana?», il marito l’ha corretta: «No, è qui che la ammazzano». Per noi che abbiamo dedicato la vita a curare il malato è umiliante, c’è solo da abbassare gli occhi.
Sono queste le ore in cui la casa di cura deciderà se accogliere Eluana. Lo ha annunciato tre giorni fa l’amministratore delegato Riccobon. Che cosa vi aspettate?
Abbiamo commentato a lungo la sua dichiarazione senza riuscire a interpretarla. La nostra speranza è che si rinunci al business che pensiamo possa esserci dietro e si torni alla normalità. La 'Città di Udine' è un’ottima struttura sanitaria e ha sempre operato in collaborazione con l’ospedale civile della città, in perfetto regime di sussidiarietà tra pubblico e privato. Ora tutta questa pubblicità negativa rischia di vanificare anni di fiducia e professionalità.
Riunioni in corso, dunque... Quale può essere lo scoglio tuttora ritenuto insormontabile dai vertici?
L’atto di indirizzo con cui il ministro Sacconi il 16 dicembre ha ricordato che sospendere l’alimentazione assistita a un disabile è illegale. Riccobon continua a sostenere che, essendo la nostra una struttura privata, resta al di fuori del servizio sanitario nazionale, ma questo logicamente è ridicolo. Me ne andrei da qui se davvero il luogo in cui lavoro fosse una enclave senza legge.
Qual è la cosa che vi ha colpito di più?
L’essere stati tenuti all’oscuro di tutto. Averlo saputo dai giornali e dalle tivù. Ovviamente la prima reazione è stata di incredulità, non era possibile che nessuno di noi avesse saputo nulla, nemmeno in accettazione, neppure nel reparto di medicina o tra gli infermieri. Poi, quando abbiamo capito che era vero, ci siamo chiesti 'perché qui'. Non capivamo all’inizio le vere motivazioni che muovevano i responsabili del policlinico a una scelta così suicida.
E ora? Le avete capite?
In Regione antichi legami di amicizia con la famiglia, e nella 'Città di Udine' - come alcuni dicono - interessi economici. Poi in questo intrico di concause c’entra anche il laicismo esasperato di qualcuno dei responsabili e di qualche suo mentore. E naturalmente la deriva professionale cui la nostra categoria sta andando incontro da tempo: che dei medici si prestino a spegnere una vita anziché dare cura al malato è qualcosa di inimmaginabile fino a pochi mesi fa.
Che cosa la maggior parte di voi non perdona alla casa di cura, in tutto ciò?
Parlando tra noi, quello che più ci ha indignato è stato quel termine, pietas, con cui Riccobon ha ammantato di generosità la sua scelta. Io non sono credente, ma anche per gli antichi pagani la pietas era sempre legata alla sacralità della vita e all’amore per il prossimo. Abbiamo realmente temuto che la cosiddetta 'pietas' dei nostri capi arrivasse al punto di far morire Eluana nei giorni di Natale, approfittando che gli ambulatori erano deserti e la maggior parte di noi era assente. Per ora è andata bene, ma tira ancora una brutta aria...
Lei è padre, come Beppino Englaro...
Non c’è giorno che io non mi metta nei suoi panni. Guardo mia figlia e provo a pensare che cosa farei se fossi in lui. Vorrei parlargli, dirgli che aveva la soluzione in casa, quelle benedette suore di Lecco che la amano e che dicono «noi da Eluana riceviamo tanto». Parole incredibili: quale soddisfazione più grande di tua figlia che ancora può dare, che ancora dona amore? Io gli auguro di cuore che un giorno lo capisca, prima che sia tardi.
Lucia Bellaspiga, Avvenire, 6 gennaio 2009
09/01/2009 13:01 – VATICANO - Il VI Incontro mondiale delle famiglie, una risposta alla sfida dell’individualismo - La manifestazione si svolge a Città del Messico, dal 14 al 18 gennaio. Previsto un collegamento televisivo in diretta del Papa. In programma un congresso teolgico-pastorale, ma anche iniziative come il "Mosaico” e il “Bosco” delle famiglie ed un concorso “Una lettera a mio figlio", che raccoglierà le madri nubili e quelle sole che desiderano indirizzare una lettera ai loro figli e alle loro figlie.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Ultimi preparativi per il VI Incontro mondiale delle famiglie che si svolgerà dal 14 al 18 gennaio di quest’anno a Città del Messico ed al quale saranno 98 i Paesi rappresentati; 200 i vescovi presenti; 30 i cardinali; 318 i giornalisti accreditati. A conclusione dell’incontro, Benedetto XVI si collegherà via satellite con i partecipanti alla messa del 18 gennaio, alla quale sono attese centinaia di migliaia di persone. Lo ha confermato questa mattina il cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, presentando in Vaticano l’Incontro, che ha per tema “" La famiglia, formatrice ai valori umani e cristiani”. “Ci sarà - ha detto - un collegamento diretto televisivo del Papa al termine della messa di domenica 18 gennaio e annuncerà anche il tema e il luogo del prossimo incontro mondiale”.
“La famiglia – ha osservato il porporato - oggi deve affrontare, con creatività e con spirito propositivo, la sfida di una cultura individualista e mercantilista, basata sulla produzione e sul consumismo. Abbiamo purtroppo - ha aggiunto - un concetto errato di libertà intesa come autonomia chiusa in se stessa; si privilegiano altre forme di convivenza che offuscano il valore della famiglia, basata sul matrimonio di un uomo e di una donna”. “Con questa mentalità errata – ha proseguito - molte volte si diffondono, senza un ampio consenso sociale e sotto l'impulso di piccoli ma attivi gruppi di pressione fortemente ideologizzati e dalle grandi risorse economiche, delle leggi che permettono, con molta facilità, l'aborto come pure il divorzio rapido e l'eutanasia. Rispondere a queste sfide - ha concluso - è un obbligo morale e difficile”.
Non a caso, dunque, l’incontro comincerà con un congresso teologico pastorale, che sarà celebrato nei giorni 14-15-16 gennaio, nel quale interventi, tavole rotonde e comunicazioni seguiranno tre binari: “I rapporti e i valori familiari”, “Famiglia e sessualità", "La vocazione educatrice della famiglia". A queste tre tematiche di fondo seguiranno approfondimenti, contributi e ricerche. "Quali sono i valori da scoprire e da riscoprire?": è la domanda alla quale cercherà di dare esaurienti riposte il cardinale canadese Marc Ouellet. E poi, il rapporto tra famiglia e valore della vita umana; gli organismi che aiutano la famiglia nella formazione dei valori: parrocchia, movimenti, associazioni familiari, scuola. Famiglia e mass-media, la famiglia degli emigranti, la politica e la legislazione, la sfida di legiferare a favore della famiglia e della vita: questi ed altri i temi che verranno dibattuti nel corso delle tre giornate congressuali.
Il santuario di Nostra Signora di Guadalupe farà da sfondo alle celebrazioni religiose: sabato 17 la recita del rosario e le testimonianze di famiglie provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’America, dall’Europa e dall’Oceania e domenica 18 gennaio la solenne celebrazione eucaristica conclusiva presieduta dal legato pontificio, cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato.
La preparazione dei fedeli, , ha detto poi il card. Antonelli, si sta attuando, con grande successo, con l’aiuto di catechesi preparatorie; sono stati predisposti anche alcuni ottimi sussidi pastorali per approfondire il ruolo educativo nel contesto delle virtù e dei valori della famiglia. È stato preparato il "Mosaico delle famiglie": si tratta di una raccolta di fotografie di famiglie con lo scopo di comporre, come in un mosaico, l’immagine del Papa Benedetto XVI. Tale iniziativa ha avuto ampia risonanza nel mondo. Sono infatti giunte migliaia di fotografie da ogni parte del pianeta. Un’altra iniziativa molto incoraggiata è il "Bosco delle famiglie", consistente nel rimboschimento di alcune zone da parte delle famiglie. Costituirà un frutto di questo Incontro e un mezzo per incrementare la coscienza ecologica caldamente promossa anche da Benedetto XVI. È stato istituito un "Concorso internazionale di fotografia" sul tema "Famiglia e migranti", promosso dagli organizzatori dell’Incontro. Ha avuto buona accoglienza in tutto il mondo.
La Commissione centrale di coordinamento ha indetto anche un concorso nazionale dal titolo: "Una lettera a mio figlio". Vi partecipano sia le madri nubili che le madri sole residenti nella Repubblica messicana, che desiderano indirizzare una lettera ai loro figli e alle loro figlie. Le lettere migliori saranno raccolte in un libro commemorativo che verrà consegnato a Benedetto XVI come testimonianza del profondo valore e della dignità delle madri messicane. Si sta realizzando una vasta campagna divulgativa attraverso i mass media (televisione, radio) e la pubblicità all’estero.
"La Chiesa - ha detto infine il card. Antonelli - considera la famiglia una priorità pastorale, insieme ai giovani. La famiglia è crocevia di tutte le pastorali, è un tema centrale per la Chiesa”.
ELUANA/ Caro Fazio, parlando con Beppino Englaro si ricordi anche delle famiglie che lottano per la vita – IlSussidiario.net - Redazione - sabato 10 gennaio 2009
Caro Fazio
lei ha un’occasione unica nella sua trasmissione ospitando Beppino Englaro papà di Eluana. Che non è quella di dare voce agli aspetti legali di chi conduce una battaglia per la morte della propria figlia, o di alimentare ancora una volta la curiosità dell’opinione pubblica sul dove, come e quando questo succederà, né quella di offrire al Beppino Englaro - che rispetto nella sua battaglia anche se non la condivido - un’altra possibilità di ribadire senza contraddittorio argomentazioni contro coloro, laici e cattolici, che invece si battono sul versante opposto.
La moratoria chiesta da Beppino Englaro se vale, deve valere sempre. Essere nella sua trasmissione contrasta con il silenzio che lui stesso si è imposto. Bisognerebbe perciò che lei desse spazio anche a familiari che invece vivono la stessa situazione pensandola diversamente ed avendo un atteggiamento propositivo verso persone che vivono “vite differenti”come Eluana. Lei ha, dunque, l’occasione domani di aprire il versante su una tematica ampia e complessa che deve dare in seguito voce anche alle opinioni delle famiglie che vivono le stesse situazioni, dando valore alle loro storie. Perché la tematica sollevata dal caso specifico pone una serie di domande che potrebbe fare sue e rivolgere direttamente al padre di Eluana. Eccone alcune:
- Non crede che il “diritto al morire” messo così in contrapposizione al “diritto di cura” possa ledere la libertà di tante famiglie che, non la pensano come lei e si vedono negati diritti con tanta difficoltà conquistati?
- Non sente di dover dire una parola di comprensione, conforto, alle tante famiglie che vivono la sua stessa condizione e, mi perdoni se quello che dico le sembra indelicato, sono meno fortunate di lei perché hanno scelto, o sono state obbligate dalle situazioni, a tenere in casa il proprio caro e di accudirlo ed accompagnarlo nella vita quotidiana?
- Non pensa che la sua famiglia sia stata lasciata troppo sola nella gestione di questa grave situazione dopo l’incidente di sua figlia determinando in lei un atteggiamento tanto intransigente?
L'altro ieri è stato l’undicesimo anniversario della morte di mio figlio Luca dopo un lungo coma nel 1998.
In suo nome è nata la Casa dei Risvegli a lui dedicata un centro pubblico postacuto per giovani e adulti con esiti di coma e stato vegetativo. Un luogo che accompagna la famiglia e mette in campo tutte le risorse attualmente possibili per il reinserimento sociale. Mi è capitata proprio ora una foto di Luca ricoverato in Austria, lo sguardo provato, una mano alzata nel tentativo di esprimersi.
E con commozione mi sono detto: «La vita è ingiusta, ma non per questo dobbiamo soccombere…».
Con sincera stima e viva cordialità
Fulvio De Nigris
Direttore Centro Studi per la Ricerca sul Coma
Gli amici di Luca
www.amicidiluca.it
CRISI/ Il coraggio che serve per ripensare lavoro e welfare - Dario Odifreddi - sabato 10 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
La crisi, come ormai ampiamente previsto, si sposta sempre più rapidamente dalla finanza all’economia reale, che scivola sulla china della crescita negativa con serie ripercussioni sull’occupazione. In alcuni casi all’assenza di lavoro (fatto di per sè grave) non si associa ancora la perdita totale del reddito grazie all’utilizzo della cassa integrazione, che ha coinvolto oltre 300 mila persone nell’anno con un picco del 500% a dicembre. In altri casi, soprattutto nelle Pmi, si è già in presenza di una perdita importante di posti di lavoro e di reddito.
Il 2009 sarà dunque duro, ma sarà anche l’occasione per rivedere il nostro modo di vivere, dall’approccio alle cose concrete alla concezione del lavoro. Si è dato troppo per scontato che il vantaggio competitivo acquisito dalle economie europee e americana potesse essere rinnovato all’infinito, ci si è convinti che i frutti di questo vantaggio (tenore di vita, tutele, etc.) fossero dovuti e che sarebbero durati per sempre. La resistenza a legare i redditi alla produttività, il non dare adeguato spazio alla contrattazione di secondo livello, la pretesa di una garanzia assoluta di reintegro per i lavoratori a tempo indeterminato da raggiungere per via giudiziale, la resistenza alla mobilità soprattutto nel pubblico impiego, ne sono alcuni esempi.
Oggi la realtà ci dice che era un’illusione, e non solo per effetto della crisi finanziaria. Bisogna ricominciare a combattere, cercare risposte alla crisi senza restare inermi in attesa che passi, anche perché i primi che ripartiranno (inteso come Paesi, ma anche come singole imprese) potranno guadagnare un posizionamento di medio periodo molto rilevante. A ognuno di noi, a ogni singola impresa, ma anche al singolo lavoratore, spetta il compito di vivere da protagonista questa sfida senza cadere nell’errore di ritenere che i cambiamenti micro siano ininfluenti per il risultato finale.
Non è un caso, andando a leggere la storia, che la risposta più imponente alla crisi della fine dell’impero romano fu la scelta di alcuni monaci di vivere secondo la regola dell’ora et labora. Essa ci appare oggi una scelta lungimirante che è stata capace di rinnovare la tradizione cristiana e occidentale, ma sul momento non pochi avranno pensato che essa era una fuga dalla realtà o nella migliore delle ipotesi un bel germoglio. Ma come si poteva immaginare che un germoglio così piccolo avrebbe generato il fusto su cui si è retta la costruzione dell’Europa?
Oggi come allora non si può continuare a ragionare secondo uno schema consolidato che prevede solamente variazioni a margine: siamo presumibilmente di fronte ad un nuovo paradigma che si sta formando e i cui contorni oggi non sono ancora definiti. In un mondo completamente rivoluzionato anche il concetto di welfare andrà rivisitato. Così come sul tema del lavoro si dovrà ripartire da una riflessione sul valore della persona, da cui discende il suo rapporto con il lavoro, con la ricerca del giusto benessere, con le tutele soggettive.
Se non si fanno i conti con questo scenario si rischia di continuare a mettere pezze nuove su vestiti vecchi. Tali mi appaiono le proposte di interventi di sostegno al reddito fatte dal Governo per tutti i cosiddetti precari, così come la settimana corta (cosa tra l’altro già parzialmente in essere nelle diverse forme di cassa integrazione utilizzabili). Inoltre la logica intrinseca di alcuni di questi interventi mi pare nasca più dall’idea dell’inamovibilità dei tenori di vita che dalla difesa del diritto al lavoro che, è bene ricordarlo, non è una variabile indipendente dai tassi di crescita e dalla capacità di generare ricchezza. In tal senso ha ragione Cazzola quando sostiene che vi è una tentazione, da parte di frange del sindacato e della sinistra, di rendere inamovibili i lavoratori ingessando aziende ed economia.
Tra le proposte oggetto di discussione credo che quelle più sensate e più capaci di incidere in termini strutturali (e quindi anche coerenti con la costruzione di nuovi paradigmi) siano quella di Ichino sui contratti di transizione, che trova punti di raccordo con la proposta di Sacconi di tutelare la persona attraverso azioni di politica attiva nella logica di una moderna flexsecurity e quella recentemente riproposta da Brunetta sull’innalzamento dell’età pensionabile. Se si va su questa strada diventa anche più sostenibile il principio dell’intervento immediato del Governo a sostegno delle famiglie e, con le dovute cautele, del sistema economico e finanziario.
Inoltre è bene non dimenticare che uno dei tasselli fondamentali da cui dipenderanno i nuovi assetti del mercato del lavoro (e soprattutto la nostra capacità di competere) è connesso al ripensamento dei sistemi educativi e formativi di cui da anni si fa un gran parlare, ma con scarsa capacità di rendere operative le scelte annunciate. Sullo specifico della formazione, se è ampiamente da condividere l’accento di Sacconi e di Ichino sul ruolo dell’impresa come soggetto facente parte del sistema educativo, più discutibile appare il generico attacco all’intero sistema formativo, in cui coesistono elementi di grande debolezza accanto ad altri di assoluta eccellenza. Se la formazione per meccanici della Ferrari è una grande scuola per tutti, altrettanto lo è quella recentemente avviata dall’accordo CNOS-Fiat per la formazione dell’intera rete delle officine. Anche qui occorre rifuggire da massimalismi e ideologie e guardare alla realtà nella sue forme variegate.
Inoltre credo che valga la pena continuare sulla strada dei servizi alla singola persona attraverso una valorizzazione della sua capacità di scelta; in questo ambito l’attività legislativa e la promozione di strumenti operativi quale quello della “dote” messi in campo dalla Regione Lombardia sono certamente un riferimento per tutto il Paese.
Il nuovo welfare, se vorrà sostenere la crescita del tasso di occupazione e contemporaneamente garantire un percorso lavorativo capace di non rendere marginali importanti fasce di popolazione, dovrà dunque connotarsi per un mix di politiche attive in cui è necessario coinvolgere l’intero sistema pubblico, il privato sociale e le stesse imprese.
Paradossalmente la crisi potrebbe essere l’occasione per attuare quella stagione delle riforme strutturali del mercato del lavoro sempre invocate, ma poi normalmente disattese. Questo mi pare essere oggi uno dei grandi campi in cui le diverse sensibilità riformiste potrebbero unire le forze dimostrando che la politica e il Parlamento sono ancora capaci di perseguire e amare il bene comune.
SCHIACCIANO GLI INDIFESI DURANTE LA TREGUA - La guerra, bestiale sempre Ma c’è qualcosa di peggio - MARINA CORRADI – Avvenire, 10 gennaio 2009
O ltre la guerra. Sono troppe nelle ultime ore le voci che denunciano che a Gaza i feriti non vengono adeguatamente soccorsi, che morti e vivi sono lasciati insieme tra le macerie, come quei quattro bambini che – testimonia un operatore della Croce Rossa – sono stati trovati sfiniti dalla fame di giorni accanto alla madre morta, nella loro casa bombardata. Protesta la Croce Rossa Internazionale, parla l’Onu, il cui Alto Commissariato per i Diritti umani da Ginevra sollecita un’indagine per accertare se ci sono state violazioni del diritto internazionale, a Gaza. Parlano, semplicemente, le cifre: 257 dei 781 morti, bilancio di ieri, sono bambini.
Oltre la guerra. La guerra, si sa, è intrinsecamente sanguinosa, è naturalmente annientatrice ( « Chi parte per la guerra, ha già perso » , diceva Giovanni Paolo II). E tuttavia può porsi, dentro un odio antico e tenace come quello che prolifera da decenni in Medio Oriente, la necessità di difendersi per sopravvivere, quella che Israele invoca, stretta con il suo piccolo territorio in mezzo a un oceano di Paesi ostili. In ogni caso, la guerra che quasi tutti deplorano nella realtà accade e deflagra. E allora si spara, con armi definite intelligenti; si sbaglia, talvolta di molto; si colpisce nel mucchio, e nel mucchio, magari usati come ostaggi, magari solo in cerca di un rifugio, i più deboli sono sempre tantissimi.
Ma: fino a qui è la guerra. Feroce, furiosa nell’alzare il tiro contro ogni ombra che si muova, per piccola che quell’ombra sia.
Dopo, però – quando le armi tacciono, quando il fumo delle macerie si dirada – quello che accade dopo dei feriti, dei morti, non è più propriamente ' guerra'. Nella tregua, per quanto breve e fragile, si lascia che i feriti siano soccorsi; nella tregua, quei bambini attaccati alla madre esanime dovevano essere portati via. Nella tregua si seppelliscono i morti: perfino gli eserciti dell’antichità si concedevano questo frammento misero di pace, dopo la battaglia. Oltre la guerra c’è un confine, e da ben prima che fosse scritto nel diritto internazionale: è già nella voce di Antigone, che contro la legge di Creonte dà sepoltura al fratello, pronta per questo a morire.
Ecco, anche chi ha ben presente come sia stretta Israele in mezzo agli incombenti nemici non può – dalle voci degli osservatori che si levano da Gaza – non dubitare fortemente che questo confine, laggiù, sia stato superato. Qualcuno obietterà che il ' confine' a Gaza lo hanno polverizzato, quattro anni fa, quei militanti di Hamas che esibirono pubblicamente brandelli del corpi dei soldati nemici. È vero. Ma quello fu il gesto neobarbarico di palesi terroristi.
L’esercito di Israele invece è l’esercito di un Paese democratico, nato nella tradizione della più antica fede monoteista. L’esercito d’Israele non può trascurare i feriti e i morti, senza mancare di rispetto a se stesso e alla sua storia, che poi è alla radice dell’Occidente cristiano.
Certo, chi parte per la guerra ha già perso.
Tuttavia la guerra si fa. Falliscono i tavoli e le grandi conferenze dove tutti ci si comporta da persone educate; si torna a casa e partono sferragliando i carri armati. La guerra è bestiale e atroce, sempre. Ma, c’è qualcosa perfino di peggiore. È quel confine, quel dopo: è l’alt intimato a un’ambulanza, e l’agonizzante abbandonato sulla strada; o i pianti ignorati di quattro bambini fra le macerie, stretti a una madre che non risponderà più.
LA BIMBA INGLESE SELEZIONATA « PERFETTA » - Ma nascere a scapito di altri non sarà domani una condanna? - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 10 gennaio 2009
D opo tanti annunci è nata, qualche giorno fa – e sta bene – la bambina senza il gene che con elevate probabilità le avrebbe fatto sviluppare, da adulta, un tipo di cancro al seno. Non si tratta di una nuova terapia, non è stato tolto un gene difettoso: fra tanti embrioni concepiti in provetta sono stati scartati quelli malati, con l’alterazione genetica, e selezionato il sano.
Che nasca un bambino che sta bene è sempre una buona notizia. Ed è giusto spiegare che da questo punto di vista la nuova nata non è molto diversa da tutte le altre coetanee che vengono al mondo senza problemi: la sua salute sarà il risultato di quell’intreccio di caratteristiche fisiche e qualità ambientali come per ognuno di noi, dalle quali dipenderà anche la possibilità o meno di ammalarsi di molti altri tipi di tumori, anche quelli al seno che non hanno origine genetica o che non dipendono solamente dall’alterazione di quell’unico gene.
La piccola potrebbe invece avere qualche problema in più per il fatto di essere stata concepita in vitro e sottoposta a diagnosi preimpianto – quando era solo un embrione di otto cellule gliene sono state tolte una o due per verificare la presenza o meno del gene incriminato –, ma ci auguriamo sinceramente che questo non avvenga, che il clamore suscitato agli albori della sua esistenza si plachi, e la sua vita prosegua normalmente.
Chissà se saprà mai come è nata. Forse coglierà qualche frase qua e là, negli anni, e magari da grande leggerà su vecchi ritagli di giornale le polemiche intorno alla prima bambina selezionata senza quella particolare alterazione genetica. Può essere che allora le vengano dei dubbi, che diventi curiosa, e forse chieda ai suoi genitori se ne sanno qualcosa, se per caso c’entrava lei. O forse le racconteranno tutto fin dall’inizio.
E chissà cosa penserà quando suo padre e sua madre le spiegheranno che l’hanno scelta fra altri embrioni, proprio perché volevano escludere anche la possibilità che si ammalasse di quel particolare tipo di malattia – un tumore di quella specifica origine genetica, giusto quello, di cui avevano paura. L’hanno scelta per il suo Dna. Non ne avrebbero voluta un’altra, con un Dna difettoso. Il suo – quando l’hanno scelta – di difetti non ne aveva. Almeno per quanto se ne sapeva quando è stata concepita in laboratorio.
E chissà cosa penserà quando incontrerà – come è capitato a tutti noi almeno una volta nella vita – una malata di cancro al seno: magari penserà che quella poteva essere sua sorella, la sorella mai nata, quella scartata all’inizio perché era difettata, perché forse, da grande, avrebbe potuto ammalarsi, e di una malattia che si può curare, dalla quale guariscono migliaia di donne, in percentuali sempre maggiori. Forse si sentirà molto fortunata, oppure avrà ancora più paura del terribile male, o magari si sentirà in colpa, perché lei in qualche modo ce l’ha fatta, è stata scelta perché era sana e gli altri no, una specie di sindrome del sopravvissuto. O si sentirà sola, perché quella sorella non l’ha mai conosciuta...
E chissà cosa penseranno i suoi genitori, quando lei non sarà come loro si aspettano che sia: i figli, si sa, sono sempre diversi da come li vorresti. Quei genitori che hanno investito tanto del loro tempo, delle loro energie fisiche e mentali, e forse anche del loro denaro, perché lei avesse un futuro senza l’ombra della malattia. O meglio: perché nel loro futuro – nel futuro di quel padre e di quella madre – una malattia così pericolosa non entrasse.
Difficile immaginare cosa potrebbero pensare quando invece qualche pericolo nella loro vita entrerà, come è inevitabile che sia.
Essere nati perché apparentemente in salute, figli a condizione, sotto ipoteca, voluti e scelti solo se sani, mentre fratelli e sorelle sono stati scartati, eliminati perché forse si sarebbero ammalati (e si sarebbero potuti curare). Non potrebbe essere questa la peggiore condanna?
Famiglie deluse: il bonus premia i single - Il Forum: una beffa. Cassa integrazione regionale e anche al commercio - DA ROMA EUGENIO FATIGANTE – Avvenire, 10 gennaio 2009
I l bonus lasciato com’è e il mini-aiuto per gli assegni familiari (però rimpinguato ieri, con un aumento della dotazione futura di 100 milioni, da 250 a 350) non piace per niente al Forum delle associazioni familiari. Per la vicepresidente Paola Soave «è grave» che modifiche che erano parse «ragionevoli ai più, dentro e fuori la maggioranza» (e che non facevano salire la spesa prefissata di 2,5 miliardi di euro), non siano passate «non per una scelta politica precisa, ma per l’insipienza di una burocrazia che ha predisposto e distribuito i moduli della richiesta prima che il decreto fosse convertito in legge».
Sarebbe anche questa, infatti, una delle ragioni che ha portato il ministero dell’Economia a non toccare il bonus, che resta quindi sbilanciato verso chi vive solo e verso le coppie senza figli, rispetto alle famiglie numerose.
E la «vaga promessa» sull’aumento degli assegni induce il Forum a concludere parlando di «una doppia beffa» per le famiglie italiane. Che diventa una beffa tripla considerando che, al termine di una nuova giornata caotica nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, con continue pause ed emendamenti riscritti e aggiornati che hanno fatto slittare le prime votazioni al tardo pomeriggio, è stata approvata la proposta dei due relatori Corsaro e Bernardo per differire di un mese, al 28 febbraio 2009, il termine utile per presentare la richiesta per il bonus straordinario anti-crisi.
C’è tuttavia un’altra novità: per i fondi da destinare agli aumenti degli assegni familiari, la versione finale approvata li quantifica in 350 milioni, anziché nei 250 attesi come risparmio dalla norma sul tetto del 4% ai mutui variabili. Resta però il collegamento ai risparmi, per cui gli aumenti partiranno probabilmente solo dal 2010. Di «soddisfazione parziale» parla il deputato Pdl Gabriele Toccafondi: «Capisco il Forum, ma bisogna capire pure la situazione generale. E comunque l’aumento degli assegni è strutturale, mentre il bonus incide solo sul 2009».
Cambia aspetto alla fine, invece, lo sgravio Irpef del 55% sui lavori per il risparmio energetico: la retroattività da inizio 2008 delle nuove norme limitative è cancellata, però da quest’anno il beneficio può essere 'spalmato' su 5 anni e non più su 3. Fra le nuove proposte ce ne sono infine due favorevoli agli utenti bancari: sarà nulla ogni clausola bancaria vessatoria per chi fa andare il conto 'in rosso' per meno di 30 giorni continuativi; e chi ricorre alla portabilità del mutuo 'prima casa' non deve pagare alcun onorario al notaio, ma solo le spese vive. In una giornata di quasi stasi si segnala allora il botta e risposta fra il ministro Giulio Tremonti e Pierluigi Bersani (Pd). «Il governo – ha cominciato Bersani – mette bandierine nei titoli, ma poi dentro non c’è niente». Tremonti ha ribattuto che le richieste Pd sono state accolte sugli ammortizzatori sociali e ha aggiunto (con riferimento al caso Iervolino a Napoli): «La prossima volta che incontro Bersani, mi porto il registratore...». Controreplica di Bersani: «Tremonti risparmi i soldi del registratore e li metta nel decreto».
Critica la vice presidente delle associazioni familiari, Soave: il contributo resta sbilanciato su chi è solo o senza figli. Un mese in più per le domande. Sale di 350 milioni la dote per gli assegni
1) Tutti i numeri della fede. Quando Ratzinger veste i panni di Galileo - Dalla stella dei Magi alla "struttura intelligente" che regge l'universo: la risposta del papa agli scienziati che negano Dio. Un'inchiesta tra i matematici rivela che molti sono credenti. E qualcuno è persino teologo di Sandro Magister
2) MEDIO ORIENTE/ 1. Pizzaballa: il perdono strumento di convivenza, ma la politica faccia la sua parte - INT. Pierbattista Pizzaballa - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
3) MEDIO ORIENTE/ 2. Samir: Israele è più forte, faccia per primo un passo indietro - INT. Samir Khalil Samir - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
4) UNIVERSITA'/ Valutare atenei e docenti. Oltre il decreto Gelmini - Giorgio Vittadini -venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
5) ISRAELE/ Gaza è Hamas? - Roberto Fontolan - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
6) NATURA UMANA/ Dall'aborto all'eugenetica, il tradimento della vita - INT. Christopher Tollefsen - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
7) DE ANDRE'/ 2. Luigi Viva: il racconto di una vita in direzione ostinata e contraria - INT. Luigi Viva - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) Nuovi studi sottolineano i rischi della fecondazione in vitro - Nessuna persona è un diritto per un'altra - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 10 gennaio 2009
9) Il retroscena Sagrato profanato e svastiche: «Vaticano preoccupato» - di Andrea Tornielli – 6 gennaio 2009
10) Eluana, i medici della clinica di Udine si ribellano: ''Non siamo un mattatoio!" - A giorni la decisione dei vertici della casa di cura che s'è offerta di far morire la giovane donna. Appello dei camici bianchi: «Fermiamoci». Dell'operazione avevano saputo dai giornali
11) 09/01/2009 13:01 – VATICANO - Il VI Incontro mondiale delle famiglie, una risposta alla sfida dell’individualismo - La manifestazione si svolge a Città del Messico, dal 14 al 18 gennaio. Previsto un collegamento televisivo in diretta del Papa. In programma un congresso teolgico-pastorale, ma anche iniziative come il "Mosaico” e il “Bosco” delle famiglie ed un concorso “Una lettera a mio figlio", che raccoglierà le madri nubili e quelle sole che desiderano indirizzare una lettera ai loro figli e alle loro figlie.
12) ELUANA/ Caro Fazio, parlando con Beppino Englaro si ricordi anche delle famiglie che lottano per la vita – IlSussidiario.net - Redazione - sabato 10 gennaio 2009
13) CRISI/ Il coraggio che serve per ripensare lavoro e welfare - Dario Odifreddi - sabato 10 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
14) SCHIACCIANO GLI INDIFESI DURANTE LA TREGUA - La guerra, bestiale sempre Ma c’è qualcosa di peggio - MARINA CORRADI – Avvenire, 10 gennaio 2009
15) LA BIMBA INGLESE SELEZIONATA « PERFETTA » - Ma nascere a scapito di altri non sarà domani una condanna? - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 10 gennaio 2009
16) Famiglie deluse: il bonus premia i single - Il Forum: una beffa. Cassa integrazione regionale e anche al commercio - DA ROMA EUGENIO FATIGANTE – Avvenire, 10 gennaio 2009
Tutti i numeri della fede. Quando Ratzinger veste i panni di Galileo - Dalla stella dei Magi alla "struttura intelligente" che regge l'universo: la risposta del papa agli scienziati che negano Dio. Un'inchiesta tra i matematici rivela che molti sono credenti. E qualcuno è persino teologo - di Sandro Magister
ROMA, 9 gennaio 2008 – Nell'omelia della festa dell'Epifania Benedetto XVI è tornato su un tema a lui carissimo, quello del rapporto tra la fede e la scienza.
Il papa ha preso spunto dalla stella dei Magi che – ha rimarcato – "erano con tutta probabilità degli astronomi" come lo fu Galileo Galilei. Ma ha invitato a portare lo sguardo al di là di una pura contemplazione del cielo stellato. "Le stelle, i pianeti, l’universo intero – ha detto – non sono governati da una forza cieca, non obbediscono alle dinamiche della sola materia". Al di sopra di tutto non c'è "un freddo ed anonimo motore", ma quel Dio definito da Dante nell'ultimo verso della Divina Commedia come "l’amor che move il sole e l’altre stelle", quel Dio che ha preso carne in mezzo agli uomini e ad essi ha dato la vita. Nella "sinfonia" del creato – ha proseguito il papa – c'è un "assolo" che dà significato al tutto: e questo "assolo" è Gesù.
Il 2009 è il quarto centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio e sarà celebrato in tutto il mondo come l'anno dell'astronomia. Sarà anche un anno particolarmente dedicato a Charles Darwin e alle teorie cosmologiche a lui ispirate. A questo doppio appuntamento, papa Joseph Ratzinger dà l'impressione di arrivare ben caricato.
Lo si è capito anche da un passaggio chiave del discorso programmatico che egli ha rivolto alla curia romana lo scorso 22 dicembre:
"La fede nello Spirito creatore è un contenuto essenziale del Credo cristiano. Il dato che la materia porta in sé una struttura matematica, ed è piena di spirito, è il fondamento sul quale poggiano le moderne scienze della natura. Solo perché la materia è strutturata in modo intelligente il nostro spirito è in grado di interpretarla e di attivamente rimodellarla. Il fatto che questa struttura intelligente proviene dallo stesso Spirito creatore che ha donato lo spirito anche a noi, comporta insieme un compito e una responsabilità. Nella fede circa la creazione sta il fondamento ultimo della nostra responsabilità verso la terra. Essa non è semplicemente nostra proprietà che possiamo sfruttare secondo i nostri interessi e desideri. È piuttosto dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci e con ciò ci ha dato i segnali orientativi a cui attenerci come amministratori della sua creazione. Il fatto che la terra, il cosmo, rispecchino lo Spirito creatore, significa pure che le loro strutture razionali che, al di là dell'ordine matematico, nell'esperimento diventano quasi palpabili, portano in sé anche un orientamento etico. Lo Spirito che li ha plasmati è più che matematica: è il Bene in persona che, mediante il linguaggio della creazione, ci indica la strada della vita retta".
Colpisce, in questo passaggio, il ripetuto insistere del papa sulla struttura matematica dell'universo.
La matematica, infatti, è una scienza esatta che spesso oggi viene contrapposta a Dio, come la sua negazione "scientifica", definitiva.
Scienziati di notorietà mondiale come l'inglese Richard Dawkins e l'italiano Piergiorgio Odifreddi legano insistentemente la matematica alla professione dell'ateismo. Divulgate in conferenze, articoli e libri di grande successo, le loro tesi ambiscono a diventare linguaggio e pensiero comune.
In parole semplici, le obiezioni di questi matematici atei sono quelle espresse da uno studente liceale romano di 17 anni, di nome Giovanni, durante un botta e risposta col papa il una piazza San Pietro gremita di giovani, il 6 aprile 2006:
"Padre Santo, si è indotti a credere che la scienza e la fede sono tra loro nemiche; che la logica matematica ha scoperto tutto; che il mondo è frutto del caso; e che se la matematica non ha scoperto il teorema-Dio è perché Dio, semplicemente, non esiste".
A queste obiezioni, Benedetto XVI rispose testualmente così:
"Il grande Galileo ha detto che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico. Lui era convinto che Dio ci ha donato due libri: quello della Sacra Scrittura e quello della natura. E il linguaggio della natura – questa era la sua convinzione – è la matematica, quindi essa è un linguaggio di Dio, del Creatore.
"Riflettiamo ora su cos’è la matematica: di per sé è un sistema astratto, un’invenzione dello spirito umano, che come tale nella sua purezza non esiste. È sempre realizzato approssimativamente, ma – come tale – è un sistema intellettuale, è una grande, geniale invenzione dello spirito umano. La cosa sorprendente è che questa invenzione della nostra mente umana è veramente la chiave per comprendere la natura, che la natura è realmente strutturata in modo matematico e che la nostra matematica, inventata dal nostro spirito, è realmente lo strumento per poter lavorare con la natura, per metterla al nostro servizio, per strumentalizzarla attraverso la tecnica.
"Mi sembra una cosa quasi incredibile che una invenzione dell’intelletto umano e la struttura dell’universo coincidano: la matematica inventata da noi ci dà realmente accesso alla natura dell’universo e lo rende utilizzabile per noi. Quindi la struttura intellettuale del soggetto umano e la struttura oggettiva della realtà coincidono: la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Penso che questa coincidenza tra quanto noi abbiamo pensato e il come si realizza e si comporta la natura, siano un enigma e una sfida grandi, perché vediamo che, alla fine, è 'una' la ragione che le collega ambedue: la nostra ragione non potrebbe scoprire quest'altra, se non vi fosse un’identica ragione a monte di ambedue.
"In questo senso mi sembra proprio che la matematica – nella quale come tale Dio non può apparire – ci mostri la struttura intelligente dell’universo. Adesso ci sono anche teorie del caos, ma sono limitate, perché se il caos avesse il sopravvento, tutta la tecnica diventerebbe impossibile. Solo perché la nostra matematica è affidabile, la tecnica è affidabile. La nostra scienza, che rende finalmente possibile lavorare con le energie della natura, suppone la struttura affidabile, intelligente della materia. E così vediamo che c’è una razionalità soggettiva e una razionalità oggettivata nella materia, che coincidono. Naturalmente adesso nessuno può provare – come si prova nell’esperimento, nelle leggi tecniche – che ambedue siano realmente originate in un’unica intelligenza, ma mi sembra che questa unità dell’intelligenza, dietro le due intelligenze, appaia realmente nel nostro mondo. E quanto più noi possiamo strumentalizzare il mondo con la nostra intelligenza, tanto più appare il disegno della Creazione.
"Alla fine, per arrivare alla questione definitiva, direi: Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto – la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale; la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente 'provare' l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione. Questa mi sembra un’ottima opzione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci.
"Ma il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore. Se guardiamo alle grandi opzioni, l’opzione cristiana è anche oggi quella più razionale e quella più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio".
* * *
Nell'argomentazione di Benedetto XVI ora riportata spiccano due elementi. Il primo è che la ragione matematica non può negare Dio ma nemmeno provarlo. Avvicina però a Lui. E mostra che Dio è in definitiva "un’ottima opzione". Riaffiora qui l'invito a vivere "veluti si Deus daretur", come se Dio ci fosse, invito lanciato più volte da Ratzinger anche "agli amici non credenti", come già prima di lui da Pascal.
Il secondo elemento è che la ragione matematica non può dire tutto di Dio, perché Dio "è anche Amore". Nel botta e risposta del 2006 con i giovani, Benedetto XVI si limitò al semplice enunciato di questa tesi. Ma per vederne lo sviluppo non c'è che da leggere l'intera sua omelia dell'Epifania di quest'anno.
* * *
Resta la domanda: è proprio così diffusa la negazione di Dio, tra gli scienziati di oggi e in particolare i matematici?
A leggere l'inchiesta a puntate che "Avvenire", il quotidiano della conferenza episcopale italiana, sta pubblicando da un mese, la risposta è no.
"Avvenire" sta intervistando alcuni eminenti matematici proprio su "Numeri e fede", cioè sulla compatibilità tra la ragione matematica e la fede in Dio. L'immagine che ne esce è quella di un ambiente scientifico molto più aperto alla fede di quanto dica la "vulgata" dei media.
Gli intervistati sono stati finora i seguenti:
– l'11 dicembre 2008 Antonio Ambrosetti, per molti anni ordinario di analisi matematica alla Normale di Pisa e ora alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste;
– il 16 dicembre Lucia Alessandrini, ordinario di geometria all'Università di Parma;
– il 19 dicembre Giandomenico Boffi, ordinario di algebra all'Università di Chieti e Pescara;
– il 24 dicembre Marco Andreatta, ordinario di geometria e preside della facoltà di scienze all'Università di Trento;
– il 6 gennaio 2009 Giovanni Pistone, ordinario di probabilità al Politecnico di Torino;
– il 9 gennaio Maurizio Brunetti, professore di geometria e algebra all'Università Federico II di Napoli.
Il professor Pistone è membro della Chiesa evangelica valdese e diplomato in teologia, mentre gli altri sono di fede cattolica. L'inchiesta di "Avvenire" si limita all'Italia, ma nelle risposte degli intervistati sono frequenti i riferimenti ad altri paesi. Ferventi uomini di fede sono anche alcuni dei maestri da essi citati, in particolare Ennio De Giorgi, uno dei più insigni matematici del Novecento, e Francesco Faà di Bruno, proclamato beato nel 1998.
L'inchiesta continua. Ed è facile scommettere che tra i prossimi intervistati vi sarà Giorgio Israel, ordinario di matematiche complementari all'Università di Roma "La Sapienza", di religione ebraica e grande ammiratore di Benedetto XVI.
MEDIO ORIENTE/ 1. Pizzaballa: il perdono strumento di convivenza, ma la politica faccia la sua parte - INT. Pierbattista Pizzaballa - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Invocare il dialogo sembra sempre più difficile, mentre i giorni di guerra in Terra Santa si protraggono, e addirittura si aprono nuovi fronti di battaglia, come accaduto ieri al nord di Israele. Ma c’è chi, dall’interno, continua a operare perché le armi possano tacere e perché si possano costruire soluzioni durature. Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, è uno di questi, e spiega a ilsussidiario.net quali sono le speranze e le prospettive per la pace tra israeliani e palestinesi, e quale può essere il ruolo dei cristiani in questo.
Padre Pizzaballa, il Papa è tornato ad invocare il dialogo come unica via per la pace. Cosa serve perché il dialogo possa concretamente funzionare?
Il dialogo è l’unica via che possa portare a soluzioni stabili e durature. Capisco che a molti la parola “dialogo” possa sembrare troppo usata, e quindi in un certo senso sciupata e priva di significato concreto. Ma non è così: non è un’espressione retorica, bensì il fondamento di una vera soluzione dei conflitti in atto. Perché poi ci possa essere realmente il dialogo bisogna innanzitutto porre fine ad ogni violenza, da ambo le parti. Quando parlano le armi non ci costruisce nulla: la soluzione militare, infatti, può risolvere temporaneamente un problema specifico ma non può risolvere i problemi di fondo, e non può quindi creare prospettive.
Se si dovesse ottenere il fatto che le armi tacciano, la politica da sola sarebbe poi sufficiente per una soluzione duratura, o ci vuole qualcosa in più?
Certamente la chiave per una soluzione del conflitto può venire solo dalla politica. Però bisogna intendersi bene su questo termine: la politica non è solo accordi di corridoio o decisioni prese nelle cosiddette “stanze dei bottoni”. La politica è anche opinione pubblica, è mentalità. Ecco allora che è necessario lavorare a tutti i livelli della vita sociale, anche attraverso i mezzi di comunicazione, perché si possa costruire un’opera che permetta di arrivare a un incontro. Se il dialogo è stata appunto finora una parola sciupata è perché mancavano tutte queste condizioni.
Il Papa, rivolgendosi a Israele, ha parlato della necessità di un «sussulto di saggezza». A suo modo di vedere, qual è il significato delle sue parole?
I significati di una tale espressione possono essere molti, e ciascuno può sottolinearne gli aspetti che ritiene più importanti. Io la leggo così: in situazioni difficili come quella attuale, in cui ci sono per forza di cose in gioco tante passioni, bisogna impegnarsi per fare in modo che tali passioni non arrivino mai a prevalere sulla ragionevolezza. Bisogna saper agire a mente fredda: così io interpreto il riferimento alla “saggezza”. Bisogna stare sulle cose, sui fatti, senza farsi trascinare dalle emozioni e dai facili mutamenti dell’opinione pubblica.
Come interroga la coscienza di un cristiano il dramma di una terra particolare – la Terra Santa – che più si va avanti e più appare lontana dalla pace? Questa sofferenza che cosa insegna ai cristiani?
Innanzitutto i cristiani in Terra Santa non sono un popolo a sé: sono prevalentemente palestinesi, e quindi fanno parte della vita, della mentalità, delle aspirazioni e delle sofferenze del popolo palestinese. Dentro tutto questo, vivono però tutto da cristiani, cioè con un atteggiamento e uno stile che è tutto particolare. Innanzitutto senza violenza; e poi cercando di vivere concretamente il perdono. Bisogna intendersi bene su questa parola: il perdono non significa lasciar perdere e fare come se nulla fosse accaduto. Perdonare, infatti, significa innanzitutto definire il male che si perdona. Alla luce di questo, il cristiano non deve mai consentire che la mentalità caratterizzata dal rifiuto dell’altro entri a far parte del proprio modo di pensare. Mai escludere l’altro, chiunque esso sia e qualunque cosa egli faccia.
Molti cristiani stanno abbandonando il Medio Oriente. Lei cosa direbbe a chi sta per lasciare la propria terra perché si sente minacciato?
Innanzitutto dico che comprendo le ragioni che portano molti ad andarsene, e sono ragioni prevalentemente economiche e sociali. Però penso anche che ci siano tante ragioni per restare, e che queste seconde siano più forti delle prime. La prima ragione è il fatto che un cristiano in Terra Santa ha una missione che gli è affidata da tutta la Chiesa, cioè conservare la memoria cristiana in quella che non è una terra qualunque, ma la terra che ha dato origine alla nostra fede. Quindi è una missione fondamentale, che egli svolge a nome di tutta la Chiesa. L’altro motivo è il fatto che nonostante le molte forme di violenza, comunque c’è ancora tanta gente in questa terra che continua a credere in un modo diverso di vivere, ed è dunque importante essere qui per incoraggiare e sostenere questi tentativi.
In Italia, a Milano, ha suscitato polemica il fatto che – pochi giorni fa – in piazza Duomo ad una manifestazione anti israeliana abbia fatto seguito la preghiera di centinaia di musulmani, proprio in un luogo simbolo del cattolicesimo. Lei, che vive in un luogo di preghiera dove tre religioni diverse tentano con estrema difficoltà di convivere, cosa ne pensa?
Che i musulmani abbiano avuto il desiderio di pregare per la situazione di guerra di questi giorni lo trovo legittimo. Per sensibilità e per rispetto, ritengo però che sarebbe stato sicuramente più opportuno farlo in un altro luogo. Si poteva facilmente trovare un luogo limitrofo, che non fosse proprio di fronte al Duomo.
Come giudica l’evolversi dei fatti in queste ultime ore? Dopo qualche spiraglio di dialogo, ieri si è addirittura aperto un nuovo fronte di guerra al nord di Israele.
Qui la gente fa veramente fatica a capire come vanno le cose; anche noi infatti non abbiamo moltissime informazioni, e certo non più di voi. Quel che posso dire è che naturalmente c’è molta apprensione, e c’è anche molta rabbia, soprattutto dentro la comunità islamica. Non posso fare altro che augurarmi che queste situazioni finiscano presto, perché più si va avanti e più il rancore si fa pesante.
MEDIO ORIENTE/ 2. Samir: Israele è più forte, faccia per primo un passo indietro - INT. Samir Khalil Samir - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
«Non cercano la pace né la coesistenza perché ognuno ha un progetto ideologico al quale non vuole rinunciare». Sono severe le parole di padre Samir Khalil Samir, professore nell’università St. Joseph di Beirut e tra i massimi esperti del mondo islamico, a proposito di israeliani e palestinesi. «Da una parte un gruppo fondamentalista, dall’altra un governo che dice di essere democratico. Ma che essendo il più forte, dovrebbe fare i primi passi». La manifestazione anti israeliana e la preghiera islamica davanti al Duomo di Milano sono l’occasione per affrontare con padre Samir i problemi della convivenza e del dialogo. Terra Santa compresa.
In Italia, a Milano, ha suscitato polemica che in piazza Duomo ad una manifestazione anti israeliana abbia fatto seguito la preghiera di centinaia di musulmani proprio in quel luogo, un luogo simbolo del cattolicesimo. C’è chi ha detto che la preghiera è tale dovunque e comunque essa avvenga; chi invece dice che, fermo restando il suo significato, non ne può essere trascurato il significato politico... Che ne pensa?
Il contesto di quel sabato pomeriggio mostra che lo scopo era fare un atto politico. La preghiera è venuta al termine di una manifestazione dedicata alla situazione di Gaza, dove si sono anche bruciate bandiere israeliane. Se si fosse voluto fare un gesto religioso, sarebbe stato molto più semplice, e più bello, invitare tutti quelli che volevano pregare per la pace a venire in un luogo scelto, come una chiesa, una moschea, o un luogo più neutrale. Sarebbe stato un momento in cui ognuno – cristiani, ebrei, musulmani – avrebbe potuto pregare a modo suo.
Lei esclude quindi una valenza religiosa…
Il fatto che simultaneamente, se ho capito bene, a Bologna davanti a San Petronio e a Milano in piazza Duomo sabato pomeriggio scorso sia avvenuta la stessa cosa, fa capire che c’è stata una programmazione. Questo vuol dire che c’è stato un progetto politico e che allora questo gesto di preghiera va letto politicamente. I musulmani devono capire che mescolare il politico e il religioso, non è una cosa buona e accettabile in Europa.
Dopotutto la manifestazione si è conclusa con un gesto di preghiera. Non contano solo la buona intenzione, l’interiorità e il primato della coscienza?
Nessuno dirà che la preghiera è un gesto negativo, però ha le sue condizioni: di solito ha un suo luogo – se no perché si chiama luogo di culto?, che può essere una moschea per i musulmani, o una chiesa per i cristiani. Poi c’è un problema di contenuto. La preghiera non può essere contro qualcuno, almeno nella nostra sensibilità moderna. A mio avviso non è bene concludere con una preghiera un’azione dimostrativa come una manifestazione politica. D’altra parte sono sicuro che i musulmani non volevano fare qualcosa che fosse contro la Chiesa.
Ma allora perché hanno scelto proprio il duomo?
Per la visibilità. Rientra nel modo di pensare dell’islam, tipicamente improntato a categorie politiche: come a dire «vedete? Ci siamo, siamo presenti, e visibili». Questo esprime più un atto politico che un atto religioso. Per noi cristiani è l’opposto, come dice il Vangelo: “tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto”. Ma l’islam ha un altro atteggiamento. Ho letto che l’appello alla preghiera è stato fatto col megafono, con la tipica esortazione “Allahu àkbar”, Dio è il più grande. Non c’è bisogno di farlo, se si è tutti convenuti apposta; se lo si fa è per farlo sentire agli altri. Sono convinto che non c’è niente in questo contro i cristiani, ma i musulmani devono imparare che in Occidente la dimensione religiosa deve rimanere discreta.
Si ripete continuamente che la strada maestra per la convivenza pacifica è il dialogo. Qual è la sua opinione?
Il dialogo ha come primo scopo quello di togliere le ambiguità. Per questo, nel vero dialogo, bisogna dirsi anche dove non si è d’accordo. Il vero dialogo deve mirare ad uno scambio che faccia capire ad ognuno la posizione dell’altro. Per esempio tra Gaza e Israele il dialogo imporrebbe di parlarsi, per risolvere le divergenze in modo pacifico e non con le bombe. Il dialogo è una tappa verso una pace profonda, anzi se possibile verso l’amicizia. Ma deve essere il più sincero possibile.
Lei è un cattolico di cultura araba. Esiste una contraddizione tra la fede e la cultura che ispirano i suoi valori e la sua sensibilità?
Il cristianesimo è una religione, ma come ogni religione ha un impatto profondo sulla cultura. La dimensione cattolica della mia personalità determina degli atteggiamenti culturali: per esempio cerco il più possibile la pace, ma senza rinunciare alla giustizia. La pace ha un valore quasi assoluto – dico “quasi” perché il primo valore è la vita e la dignità della persona, la sua incolumità - mentre i miei amici e fratelli musulmani non metteranno forse l’accento sulla pace. E cerco la giustizia, perché senza giustizia non si arriva alla pace. Non avverto alcuna contraddizione tra l’essere arabo e l’essere cristiano. Del resto l’arabismo non comincia con l’islam, perché abbiamo cristiani arabi fin dal giorno della Pentecoste.
La Terra Santa appare alla disperata ricerca di giustizia e di pace. Dove trovarla? Ci sono degli esempi di convivenza possibile?
Sono favorevole a una solidarietà con tutti i popoli della regione, cominciando da quelli che condividono la mia cultura. Ma non la solidarietà nell’errore e nell’ingiustizia. Il Libano, per esempio, è ancora oggi in grado di offrire una lezione alla convivenza tra religioni diverse. L’altro ieri però nel suo discorso Nasrallah (leader di Hezbollah, ndr.) ha detto: noi abbiamo per vocazione di difendere la terra dell’islam e la Palestina come parte di questa terra. Ma questo è sbagliato.
Perché?
Perché dire che dev’essere Hezbollah a difendere la Palestina? La Palestina è un altro paese, il primo compito è difendere la pace e la giustizia. Se voglio realmente la pace devo cercare di avvicinare i due contendenti, i palestinesi e gli israeliani, ma posso servire solo come intermediario. Sarkozy e Mubarak hanno cercato di fare da mediatori tra Gaza e Israele: questo è l’atteggiamento giusto, non quello di entrare in campo con l’uno o con l’altro.
Come mai ha citato il modello libanese?
Perché c’è un’intesa implicita che fa rispettare, anche a livello costituzionale, gli altri gruppi. Il parlamento comprende 128 parlamentari, 64 cristiani e 64 musulmani. I cristiani comprendono cattolici e ortodossi, i musulmani annoverano sciiti, sunniti e drusi. Ma benché la proporzione della popolazione stia cambiando, perché sappiamo che i cristiani non sono più il 50 per cento, tutti sono d’accordo di mantenere il 50 per cento della rappresentanza, proprio per creare uno Stato equilibrato. Gli armeni festeggiano il Natale il 6 gennaio ed è stato dato loro un giorno di festa. Per mantenere l’equilibrio, hanno dato un giorno in più festivo anche ai musulmani. È un equilibrio che, malgrado 15 anni di guerra civile, è stato mantenuto.
Che cosa serve per imboccare la via della pace?
Io dico sempre ai miei fratelli palestinesi: è vero che siete vittima di un’ingiustizia, perché non avete fatto nulla contro gli ebrei prima del 1948 per meritare di essere spogliati della vostra terra. Ma la realtà è che oggi siamo a più di 60 anni da questo fatto. Dovete vivere insieme per poter vivere meglio. Allora cercate di capire che anche l’israeliano, quello che sta nella parte di Israele legittima, non è stato nemmeno lui a privarvi della terra, perché è nato lì. È la sua terra come la vostra. Dovete prima vivere insieme per poter discutere. Ma se vi combattete, avrete perso tutto, la terra del ‘48 e anche quella di oggi. E non solo il campo o l’azienda, ma anche i vostri cari.
Il desiderio della pace sfocia troppo spesso in una posizione utopica che non si mostra capace di far i conti con la realtà. Che compito spetta alla politica?
Il realismo in politica è l’unica strada: occorre certo saper vedere lo scopo più lontano, ma anche essere saggi nel fare le tappe per raggiungerlo. Lo scopo ultimo potrebbe non sembrare alla nostra portata, ma a questo servono le tappe. E la destinazione ultima non può che essere questa: che ci sono due popoli, il popolo palestinese, che ha pieno diritto alla sua terra, e il popolo israeliano, che per altri motivi ha uguali diritti. La sua terra però non è la Cisgiordania, ma la parte che le Nazioni Unite hanno dato a Israele. E la Palestina non è tutta la Palestina storica, ma la parte che le Nazioni Unite hanno dato ai palestinesi. È giusto ragionare e costruire un progetto, ma appropriarsi di quello che non si possiede e fare legge a se stessi è il principio della barbarie. Prevale un atteggiamento barbaro da entrambe le parti. Ma chi ne soffre di più? I palestinesi e le persone innocenti.
Con generazioni di morti da entrambe le parti la soluzione del conflitto non converrebbe a tutti?
Non cercano la pace né la coesistenza perché ognuno ha un progetto ideologico al quale non vuole rinunciare. Hamas che non vuole accettare ad ogni costo l’esistenza di Israele, e lo Stato ebraico che vuole mostrare ai palestinesi chi è il più forte e non intende ritirarsi dalle terre illegalmente occupate. Da una parte un gruppo fondamentalista, dall’altra un governo che dice di essere democratico. E che essendo il più forte, dovrebbe fare i primi passi.
Sta dicendo che l’iniziativa della pace deve partire da Israele? Perché?
Perché la politica come rapporto di forze da sola non basta. La giustizia non è la virtù del debole, che in quanto tale non può concedere, ma del forte. Ed è a chi è più forte che spetta di fare le concessioni.
UNIVERSITA'/ Valutare atenei e docenti. Oltre il decreto Gelmini - Giorgio Vittadini -venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Nel decreto sull’università approvato ieri è contenuta una norma riguardante la valutazione dei docenti. È utile fare alcune considerazioni in proposito. Per l’accesso al ruolo di docente è certamente fondamentale valutare la collocazione degli articoli scientifici su riviste internazionali e il grado di diffusione e citazione dei lavori prodotti, ma non bisogna dimenticare almeno altri due fattori. Innanzitutto la necessità di entrare nel merito dei lavori scientifici perché può capitare che studi molto validi, soprattutto di giovani ricercatori, siano collocati in riviste meno note. Secondariamente, occorre verificare il livello culturale generale del candidato perché il professore universitario italiano ha come compito imprescindibile anche l’insegnamento.
Più complesso è il problema della valutazione di professori già in ruolo e dei dipartimenti. Se è fondamentale, anche in questo caso, valutare la validità della produzione scientifica, anche a livello internazionale, occorre altresì tener conto della ricaduta della ricerca sul territorio, cioè del suo contributo ad affrontare problemi cruciali del mondo sociale, economico, scientifico e tecnologico. Ciò dipende dalla qualità della ricerca, ma anche dall’investimento di tempo e risorse per tradurla in progetti operativi. Non per niente nelle valutazioni periodiche dei full professor americani, si considera anche la loro capacità di organizzare la ricerca, di guidare gruppi di lavoro, di ottenere finanziamenti.
In Italia casi che fanno ben sperare sono quelli della Fondazione Politecnico, della Sda Bocconi, di Alma Mater di Bologna, delle Alte Scuole dell’Università Cattolica. Inoltre, non si può prescindere dalla valutazione della qualità della didattica, attuabile non solo con i questionari sottoposti agli studenti, ma anche attraverso indagini tese a verificare gli effetti della preparazione sull’attività professionale dopo l’università.
Le anagrafi dei laureati di molte università, i metodi per misurare i tempi di attesa del primo lavoro, la congruità dell’attività professionale con la preparazione, il livello di occupazione dei laureati - evidentemente al netto delle differenze per facoltà e territorio - suggeriscono criteri praticabili. Ciò diventa tanto più necessario se si pensa che la didattica di molte università italiane sia per la laurea triennale che per quella magistrale, può competere con sistemi conclamati come quello americano. Ma, mentre le università statunitensi trovano la loro eccellenza nella cura dei migliori, attraverso master e dottorati, l’università italiana vede qui la sua maggiore carenza in quanto manca di sistemi di incentivazione per i più meritevoli.
Dal complesso di queste considerazioni si deduce che non si può ridurre la valutazione all’utilizzo di indici quantitativi, peraltro molto discussi e discutibili. Per questo anche in Italia si è cominciato a utilizzare il giudizio di una commissione di esperti. La commissione valuta dapprima i titoli di docenti e dipartimenti attraverso indici quantitativi e rapporti appositamente predisposti e poi prende visione, attraverso colloqui e letture di documenti, del livello qualitativo generale; redige infine un giudizio articolato che mette in luce qualità e difetti della situazione suggerendo ipotesi di miglioramento.
Da ultimo, va considerata la scelta - l’unica che potrebbe assicurare una via d’uscita - di una vera competizione tra università, che costringerebbe, in uno scenario di abolizione del valore legale del titolo di studio, di finanziamenti non garantiti indiscriminatamente dallo stato e di autonomia reale, ad assicurarsi studenti e fondi di ricerca per il solo valore del loro operato (vedi proposte di legge del senatore Nicola Rossi).
È evidente che chi tollerasse una bassa qualità del suo ateneo, si avvierebbe a essere emarginato e forse a chiudere, mentre chiunque avrebbe interesse ad autovalutarsi in modo severo per evitare di diventare marginale.
(Da Il Riformista del 09 gennaio 2009)
ISRAELE/ Gaza è Hamas? - Roberto Fontolan - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Hamas è Gaza e Gaza è Hamas? La domanda non è di poco conto perché ogni considerazione su questa nuova tappa del dramma israelo-palestinese dipende dalla risposta.
Hamas è un’organizzazione certamente nemica di Israele, ma si può dire altrettanto del milione e mezzo di persone che popolano quell’infernale territorio (le definizioni si sprecano, come si è visto in questi giorni, e al di là delle polemiche nominalistiche ci sono pochi dubbi sul fatto che Gaza compaia assieme alla Somalia e ad Haiti in testa alla classifica dei luoghi peggiori del pianeta) da Hamas governato?
Molte di quelle persone hanno di sicuro sentimenti ostili contro lo Stato e il popolo ebraici, molte sono senza dubbio legate al partito terrorista e fondamentalista, molte beneficiano della sua capillare rete di assistenza e la preferiscono al caotico e corrotto sistema dei clan di Al Fatah; ma molte altre subiscono la situazione e vorrebbero solo vivere altrove, non avendo in “patria” altra scelta che non la miseria e la sottomissione all’islamismo.
Sappiamo bene chi sono i militanti di Hamas, ma non quanti sono. Dicono che si mimetizzano tra la gente e che risulta molto difficile distinguere tra la mamma e la miliziana, il disoccupato e il guerrigliero, l’adolescente e il kamikaze. Ma sforziamoci di immaginare, perché un nucleo identificabile, per quanto ampio e amplissimo, ci deve pur essere: diecimila, trentamila, cinquantamila, centomila, quale è un numero ragionevole? Una volta stimato, e lo avranno certamente fatto i servizi di informazione israeliani, cosa fare di tutti coloro che lo eccedono? Che proposta fare loro e chi la dovrebbe fare: Stato di Israele, Onu, Unione Europea, Lega Araba, Egitto, Giordania, Iran, Autorità palestinese -che peraltro a Gaza non possiede nulla del nome di cui si fregia?
Nella “guerra” attuale appare invece una tema solo: Israele contro Hamas e questo “contro” coincide con Gaza. Non è chiaro quale sia l’obbiettivo israeliano, al di là di quanto dichiarato ufficialmente: garantire la sicurezza dei territori israeliani dal famigerato lancio dei razzi (che dal 2001 hanno provocato venti morti) e bloccare una volta per sempre il traffico d’armi tra Gaza e il resto del mondo.
La ragione di questa non chiarezza è nella tanto sottolineata sproporzione tra i mezzi utilizzati e appunto il raggiungimento degli obbiettivi: bombardamenti aerei e offensiva di terra che hanno causato centinaia di vittime, tra cui moltissimi “civili”, cioè persone che vivono in una regione governata da Hamas ma non per questo sono ascrivibili alle forze di Hamas. Ci si domanda se per il traffico d’armi sarebbe bastato far saltare le gallerie che da Rafah si dipartono verso l’Egitto assieme a un più serrato controllo navale e per il lancio dei missili bombardamenti un po’ più mirati di quelli attuati.
Forse l’obbiettivo indiretto è l’Iran, forse il recupero di fiducia nell’opzione militare messa a dura prova con il pratico fallimento visto in Libano due estati fa, forse “fare qualcosa” per uscire da uno stallo infinito, forse annientare Hamas militante per militante (e sono i commentatori americani a ricordare che la nascita dell’organizzazione, venti anni fa, fu “ben accolta” da Israele in funzione anti-Olp – non troppo diversamente da quanto gli Stati Uniti fecero nei confronti dei mujahiddin afgani in funzione antisovietica).
Si capirà più avanti se l’operazione abbia questi o altri scopi o anche nessuno scopo, nel senso che “prima si fa la guerra e la politica si fa poi a seconda di quanto accaduto sul campo”. Ma il fervore con cui in questi giorni da tante parti si dice che la cosa più importante è il dopoguerra, è fuorviante e fuori luogo. La cosa più importante è la realtà di una guerra che vediamo dispiegarsi giorno dopo giorno, ora dopo ora. E che fa coincidere Hamas con Gaza e Gaza con Hamas.
NATURA UMANA/ Dall'aborto all'eugenetica, il tradimento della vita - INT. Christopher Tollefsen - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Lo scorso 22 dicembre il Papa, in occasione degli auguri di Natale alla Curia Romana, ha formulato una netta condanna nei confronti delle nuove ideologie mondane che tendono a mettere a repentaglio i riferimenti naturali e razionali dell’esistenza. Abbiamo chiesto al professor Christopher Tollefsen, docente di filosofia morale presso l’Università del South Carolina e autore del libro antiabortista “Embryo”, di commentare le parole del Pontefice
Recentemente il Papa è intervenuto condannando l'ideologia "gender" per la quale non esisterebbe un'autentica distinzione di fondo fra i sessi maschile e femminile che rappresenterebbero invece soltanto tendenze sessuali. Il Pontefice indica in questa visione una minaccia al concetto di "natura umana". A suo avviso esiste una correlazione fra questo tipo di visione e la corrente di pensiero che vorrebbe escludere l'embrione dalla categoria di "essere umano"?
Ci sono aspetti comuni e differenze. Come Giovanni Paolo II prima di lui, Benedetto XVI è preoccupato dall’idea in un certo senso impazzita di “autonomia”. L’idea che siam liberi di fare di noi stessi qualunque cosa vogliamo, fino al punto di determinare la nostra natura “gender”, viola tutte le norme oggettive che sono indirizzate verso una fioritura dell’uomo genuina. Qualcosa di simile avviene nelle discussioni circa la personalità quando si dice che “noi” abbiamo bisogno di “decidere” chi abbia la dignità di persona, e chi no.
Comunque, il problema relativo all’embrione – se si tratta o no di un “essere umano” – non è una questione normativa, ed è meno suscettibile di interpretazioni autonome: è una questione scientifica, e c’è un largo consenso tra gli scienziati – biologi dello sviluppo ed embriologi – nel riconoscere che l’embrione è, sin dallo stato monocellulare, un essere umano nella sua prima fase di sviluppo, come si può evincere dalla lettura dei loro manuali. Questo non pone una questione di personalità, ma ci fornisce molto materiale per le nostre argomentazioni, se siamo convinti che a tutti gli esseri umani dovrebbe essere riconosciuta la piena protezione morale e legale.
Al contrario, le nozioni normative di “gender” – del mascolino e femminino, in particolare per come vanno intesi in quanto ordinati verso il matrimonio queste nozioni vanno oltre quello che la biologia del “gender” può dirci. Consideriamo l’ingiunzione rivolta da San Paolo ai mariti perché amino le loro mogli come Cristo ama la Chiesa: questo è normativo per gli uomini fintanto che essi sono uomini, e indica la strada verso un genuino benessere degli uomini sposati e non. Ma, poiché questo ideale del mascolino non è semplicemente un dato biologico, senza dubbio è in qualche modo più facile per coloro che non contemplano un’adeguata “ecologia dell’uomo” pensare che solamente la scelta, e non un ordine morale oggettivo, è tutto ciò che può guidare le nostre idee sul “gender”.
Molti intellettuali dello scorso secolo sia credenti sia non credenti (G.K.Chesterton, Aldous Huxley o George Orwell), mediante i propri scritti, hanno spesso denunciato i rischi dell'eugenetica "soft". Nonostante ciò sembra che la cultura dominante e gran parte della società attuale ne esigano sempre più pervicacemente la pratica. Da che cosa dipende questa tendenza?
In parte, una risposta adeguata a questo consegue a quanto detto prima: l’idea che noi facciamo, e rifacciamo, noi stessi secondo la nostra volontà conduce naturalmente all’idea che noi possiamo allo stesso modo fare e rifare i nostri figli. E quando vediamo gli embrioni umani non come esseri umani o persone, ma come mera “roba” biologica nel processo di formazione, allora noi siamo incoraggiati anche di più ad occuparci di questi eventi biologici e conformarli ai nostri propri scopi.
Ultimamente la nostra percezione ci dice che qualsiasi cosa ci riguardi è profondamente speciale, inclusa la nostra natura e l’esistenza nostra e dei nostri figli, è un dono, qualcosa al di fuori del nostro controllo. Tale percezione oggi è a rischio. La percezione di questo dono è cruciale, sia per la nostra coscienza che il nostro Creatore ci sta chiamando ad accettare il Suo dono e a rispondere con un “sì”, e inoltre per la nostra volontà di far dono di noi stessi agli altri. Poiché sia nel ricevere doni che nel farli (ed essi, dopo tutto, possono essere respinti) noi riconosciamo la nostra dipendenza dagli altri, la nostra mancanza di auto-sufficienza, e le vie fondamentali in cui noi non siamo, autonomamente, i “controllori” di noi stessi e del nostro destino.
Questa perdita della nostra consapevolezza della natura di dono della nostra vita si riflette in un altro modo: nel nostro rifiuto di veder soffrire, che realmente è al di là del nostro controllo e in quel senso è “gratuito”, capace di portare un significato. E così anche la sofferenza diviene qualcosa che dev’essere completamente controllata, se necessario attraverso l’eliminazione di chi soffre, come nell’eutanasia e nel suicidio assistito, e, all’inizio della vita, nella distruzione degli embrioni e dei feti geneticamente svantaggiati.
Sempre a proposito di "natura umana": il relativismo sembra essere il punto di arrivo (o almeno di accordo) sia del pensiero filosofico analitico di stampo anglosassone sia di quello esistenziale di matrice continentale (Europea). Secondo lei esiste nell'attuale panorama culturale una "terza via" in grado di contrapporsi a entrambe queste concezioni?
Sia il materialismo naturalistico sia l’esistenzialismo fanno un errore simile: entrambi non riconoscono che c’è un’oggettività nell’ordine normativo, l’ordine della ragione pratica.
Come scrisse San Tommaso, la ragione pratica è la nostra partecipazione alla legge eterna: Dio sceglie di guidarci verso la nostra perfezione non installando in noi dei principi direttivi che determinano le nostre azioni, ma permettendoci, attraverso la nostra propria conoscenza di questi principi, di dirigere noi stessi verso il nostro compimento, e di decidere per noi stessi se agire o meno come prescritto. In questa “teonomia partecipata” siamo posti in grado di essere cooperatori attivi di Dio nel dar forma alla nostra vita in accordo con i suoi piani.
Il materialismo naturalistico manca di questo, ponendo l’attenzione solo sull’ordine materiale di ciò che già esiste, di ciò che è dato fisicamente. Non c’è spazio per ciò che che siamo chiamati ad essere. L’esistenzialismo riconosce che molto di ciò che possiamo scegliere di essere è genuinamente buono per noi, effettivamente ci compie. La ragione pratica dev’essere portata a riconoscere i beni genuini della persona che, come Giovanni Paolo II ha posto in rilievo, sono protetti dai dieci comandamenti, beni come la vita umana, la conoscenza, e il matrimonio. Solo un orientamento fondamentale e onesto verso questi beni, verso questo orizzonte della vera fioritura umana, può servire come una terza via. E così ogni argomento morale deve sforzarsi di mostrare che noi effettivamente siamo migliori come persone nel momento in cui compiamo delle scelte che onorano la vita piuttosto che la morte, la conoscenza piuttosto che l’ignoranza, l’arte piuttosto che il trash, e il matrimonio e la famiglia piuttosto che la licenza sessuale, la pornografia, e il solipsismo.
Una visione riduzionista e relativista sull'uomo rischia di mettere a repentaglio anche il progresso scientifico? Se la sua risposta fosse affermativa potrebbe proporci alcuni esempi?
Fino a un certo punto senza dubbio può. Come punto di partenza metodologico, la ricerca di leggi scientifiche e di spiegazioni meccanicistiche può chiaramente aprire la strada a un notevole progresso nella conoscenza e nella tecnologia. Questo è perché effettivamente una parte del mondo è così come le scienze fisiche lo descrivono. Naturalmente, ho anche descritto in precedenza alcuni dei limiti di quell’immagine: non può dirci cosa un uomo può e dovrebbe essere. E così il progresso scientifico da solo ultimamente è destinato a fallire nel tentativo di far avanzare realmente la condizione umana: in realtà, perfino la preoccupazione dello scienziato per la verità sarà una casualità di un assetto mentale puramente riduttivo.
Dovremmo anche tenere in mente che mentre la buona scienza corrisponde a una scienza guidata da norme etiche, a breve raggio, la scienza senza etica dovrebbe essere piuttosto efficace, e forse perfino più efficace della scienza etica. Ma sarebbe profondamente fuorviante suggerire che ciò che dobbiamo perseguire è semplicemente la politica di lavoro maggiormente produttiva, se ciò dovesse significare trascurare i diritti umani, o i più “efficaci” strumenti di guerra, o la pianificazione urbana, o persino l’agricoltura: le nostre preoccupazioni per gli altri beni umani, e per le libertà umane, tengono a freno le nostre azioni in questo o quel contesto, e non c’è ragione per negare che lo stesso dovrebbe essere vero della pratica scientifica.
In occasione delle ultime elezioni politiche in Italia, si è presentata una lista elettorale il cui principale scopo e programma era incentrato sulla lotta all'aborto. L'esito ha sancito una netta sconfitta per il candidato di quella lista, nonostante i cattolici, e una discreta parte dell'elettorato laico, siano contrari all'interruzione volontaria di gravidanza. E' dunque la riprova che la politica non può rispondere ai problemi etici, o almeno non pienamente. Da quale ambito culturale può invece provenire una risposta?
Nella Fides et ratio, Giovanni Paolo II scrisse che «fede e ragione sono come due ali su cui lo spirito umano assurge alla contemplazione della verità». C’è bisogno di entrambe queste due ali ora come non mai; ma dobbiamo riconoscere che gli esseri umani possono, sfortunatamente, conoscere la verità e tuttavia scegliere contro di essa. Questa triste realtà della condizione umana è ciò cui davvero occorre dare una risposta, e Cristo ha fornito il modello di questa risposta: l’amore. Dobbiamo rispondere alle minacce alla vita umana, e a una politica di morte, con l’amore: l’amore per coloro che si oppongono alla vita; l’amore per coloro le cui vite sono più vulnerabili, più minacciati, più dipendenti dagli altri per vivere; e l’amore per il nostro Dio che ci promette di non abbandonarci, persino nei momenti più difficili, che promette che Lui asciugherà tutte le lacrime dei nostri occhi: «e la morte non sarà più, né il lamento, né il pianto, né il dolore vi sarà più, e le cose di prima sono trascorse». Solo in Dio, e nelle Sue promesse, possiamo vedere la risposta definitiva a questi problemi etici
DE ANDRE'/ 2. Luigi Viva: il racconto di una vita in direzione ostinata e contraria - INT. Luigi Viva - venerdì 9 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Luigi Viva, giornalista e socio fondatore della Fondazione Fabrizio De André, è l'autore di “Non per un dio ma nemmeno per gioco - Vita di Fabrizio De André". Una biografia ricca e avvincente maturata nel tempo nel confronto diretto con il cantautore e poeta genovese, di cui l'11 gennaio 2009 ricorreranno i dieci anni della scomparsa. Il libro, conosciuto dalla maggior parte di chi ama De André ha avuto un grande successo ed è arrivato alla quindicesima edizione entrando nella collana “Vite narrate - Universale Economica Feltrinelli”.
L'autore ha accettato di rispondere ad alcune domande su De André e la sua poetica.
Il suo libro fece molto scalpore perché raccontava la vita straordinaria di un artista per certi versi misterioso e per la collaborazione del protagonista. Come nacque l’idea di iniziare questo lavoro e come si spiega questo successo?
Ho conosciuto Fabrizio nel 1975 grazie a Giorgio Usai dei New Trolls. Da allora, seppure in maniera saltuaria, abbiamo iniziato a frequentarci, complice il comune amore per l’agricoltura, la filosofia e l’anarchia.
Fu con l’uscita de "Le Nuvole" che nacque il desiderio di un confronto con lui. Ascoltandolo nell’intervista concessa a Vincenzo Mollica per Prisma, mentre parlava del “potere” e dell’incombenza che questo ha su tutti noi, iniziai a pensare che quello che stava dicendo (da tempo) era vero. Fu un tutt’uno, in quel periodo ero molto preoccupato per la plumbea situazione politica del nostro paese e scrivere la sua biografia divenne per me quasi un dovere. Non è un caso che Fabrizio mi diede il suo ok a Milano, in casa sua, il giorno in cui iniziò "Mani Pulite"...
È imbarazzante per me spiegare le ragioni del successo di questo libro; posso dire che i lettori hanno probabilmente avvertito la sincerità, la cura e l’amore con il quale era stato scritto, visto che era nato esclusivamente da un'esigenza personale.
Come venne impostato il lavoro e quali erano le reazioni di De André all'evoluzione del progetto? Ci furono anche momenti di scontro?
Fabrizio ha condiviso il taglio della biografia come pure dell’altro volume non ancora pubblicato riguardante l’analisi dello stile di tutta la sua produzione. Corresse lo schema biografico, mi indicò le persone da contattare e da intervistare oltre che correggere parte del libro poi pubblicato.
Debbo dire che con lui non ho avuto nessun momento di scontro, ho dovuto solo armarmi di pazienza visti i molteplici suoi impegni che a volte ritardavano la lavorazione. Anche Fabrizio è stato paziente con me come si deve essere con un biografo (!). Non finirò mai di ringraziarlo per la fiducia che ha riposto in me e per l’affetto e l’amicizia che ha avuto nei miei confronti...
Ricordo ancora quando quella sera a casa sua discutevamo del progetto e lui mi manifestava i suoi dubbilegati ad alcune pubblicazioni che non lo avevano soddisfatto.
Quando gli chiesi «allora Fabrizio posso iniziare a scrivere?», guardandomi attraverso il ciuffo di capelli, mi rispose poco convinto «mah, vedi un po’ tu». La mia risposta fu perentoria: «Guarda Fabrizio, non mi devi fare un favore, se non ti va non c’è problema, ma sappi che il libro è una mia esigenza personale, lo scrivo per me». Si fece serio e immediatamente ribatté «se le cose stanno così, allora mi sta bene».
Come si manifestò il talento musicale di De André, sbocciato grazie a tante esperienze diverse, più che a una formazione musicale canonica?
Probabilmente il talento musicale lo aveva nel dna. A tre anni venne sorpreso sopra una sedia mentre dirigeva l’orchestra che stava ascoltando per radio. Certo è che avere un padre colto e intelligente come il Professor De André è stato fondamentale per gli stimoli sia musicali, sia letterari che Fabrizio ha ricevuto.
La sua poetica dava voce a un tesoro di esperienze maturate nella vita di campagna ai tempi della guerra e nelle successive bande di quartiere dei vicoli di Genova, ma anche a numerose letture? Quali fatti e quali autori lo segnarono maggiormente?
Fabrizio divorava i libri che gli passava prima il fratello e poi il padre. Da un punto di vista artistico-umano, ma anche politico, le persone che più lo hanno influenzato sono state il mezzadrio Emilio Fassio che gli insegnò ad amare e rispettare la natura, lo zio Francesco, conosciuto al ritorno dal campo di concentramento, prototipo di tante figure dolenti che popolano le sue canzoni, il poeta Remo A. Borzini che per primo lo avvicinò alla poesia, il compagno di vita Rino Oxilia e il poeta anarchico Riccardo Mannerini; non a caso Fabrizio mi disse «da Rino ho imparato la vita, da Riccardo ho imparato a pensare».
Qual è la sua canzone alla quale è più legato?
La canzone a cui sono più legato è Smisurata preghiera, e per questo motivo una parte del testo funge da seconda dedica che compare all'inizio del libro:
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità
(Intervista a cura di Carlo Melato)
Nuovi studi sottolineano i rischi della fecondazione in vitro - Nessuna persona è un diritto per un'altra - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 10 gennaio 2009
Esce in questi giorni uno studio eseguito da ricercatori americani del Centro nazionale su difetti congeniti e disabilità evolutive (Nbdps) che riapre il dibattito etico sui temi della fecondazione in vitro, finora limitato al tema della liceità morale della fecondazione extracorporea e all'eliminazione di embrioni umani soprannumerari o malati. Lo studio ("Human Reproduction", novembre 2008) riporta infatti che i bimbi dati dopo fecondazione in vitro (Fiv) hanno un rischio di certe malformazioni maggiore degli altri.
Il problema era già stato sollevato dalla garante per l'infanzia del parlamento francese, Claire Brisset, su "L'Express" del 16 gennaio 2003: "Per l'Icsi (tecnica di procreazione artificiale, ndr) bisogna assolutamente procedere ad una valutazione retrospettiva di questa tecnica di cui non conosciamo gli effetti. Abbiamo il diritto di rischiare di concepire figli che rischiano di essere ipofertili senza aver pesato cosa questo significhi? La tecnica è efficace. La gente è contenta. Siamo nel breve periodo. Auspico una moratoria finché non abbiamo abbastanza informazioni".
E le faceva eco sulla stessa rivista il presidente del Comitato nazionale francese di bioetica, Didier Sicard: "Oggi si sacralizza il desiderio degli adulti. Certe tecniche di fecondazione fanno correre dei rischi ai bambini che nasceranno". Veniva dunque auspicato anche in ambito procreativo il principio di precauzione.
La letteratura scientifica aveva infatti iniziato a mostrare i dati sulla salute dei bambini; e i dati avevano iniziato ad interessare la comunità scientifica e a generare una certa preoccupazione, tanto che sulla rivista "Nature" Kendall Powell aveva pubblicato un articolo significativamente intitolato "Semi di dubbio" in cui così concludeva: "Viste le preoccupazioni esistenti e la potenzialità per ulteriori spiacevoli sorprese, alcuni ricercatori richiedono fondi per progetti per investigare la biologia di fecondazione e impianto, per studi sugli effetti delle manipolazioni su ovociti ed embrioni e per studi epidemiologici più ampi e migliori".
Da allora gli studi si susseguono. Alcuni mostrano che nella media lo sviluppo neurologico dei piccoli non avrà risentimenti e una recente review pubblicata dalla rivista "Lancet" (luglio 2007) afferma che "i bambini nati da Fiv a termine di gravidanza e sani, avranno uno sviluppo pari agli altri". Ma il "Lancet" riporta anche che in caso di Fiv "il maggior rischio dipende dalle nascite multiple. Il rischio di aborto è del 20-34% maggiore della popolazione generale. Il rischio di malattie da numero alterato dei cromosomi è maggiore così come il rischio di nascite premature è doppio rispetto alla popolazione normale; è anche aumentato il rischio di ritardo di crescita del feto". "Il rischio di malformazioni maggiori è 1,3 volte quello della popolazione generale" e c'è "anche un rischio maggiore di paralisi cerebrale". Anche altre review mostrano dati simili al "Lancet", come quella di Nancy Green su "Pediatrics" del 2004 o Jane Halliday su "Best Practice and Research Clinical Obstetrics and Gynecology" del 2008.
In realtà le percentuali di bambini con malformazioni nella popolazione generale (4% dei nati) o paralisi cerebrale (2% dei nati) sono relativamente basse e un loro incremento di 1,3 volte - come nel caso delle malformazioni - non è clamoroso.
Ma non è neppure trascurabile, come sottolineano le riviste citate, e proprio questo fa entrare nel dibattito il principio di precauzione che richiama alla necessità di studi prospettici, al miglioramento delle procedure e all'analisi attenta del percorso fin qui intrapreso, come ad esempio suggeriscono Pavels e Knowels sulla laica rivista di bioetica "Hasting Center Report" o il documento "Reproduction and Responsibility" del Comitato di bioetica del presidente americano.
Quanto abbiamo riportato introduce sulla scena del dibattito etico riproduttivo un personaggio centrale forse poco considerato finora: il figlio, i rischi grandi o piccoli che lui corre e che i genitori accettano in sua vece. Pavels e Knowels, parlando dei rischi posti dalla Fiv sui bimbi, spiegano che "i futuri genitori devono bilanciare il loro desiderio di creare un bambino col loro desiderio di proteggerlo da rischi prevenibili" tema su cui il Los Angeles Times si è concentrato l'11 agosto scorso in un articolo intitolato: "Bimbi, la via facile? Le tecnologie riproduttive non dovrebbero essere intraprese alla leggera. Possono porre rischi per il nascituro". Questo apre la porta ad una seria riflessione sui diritti di quest'ultimo e sulla tutela che necessita rispetto alle possibili difficoltà conseguenti alla Fiv, tra cui anche l'assenza ex lege di un genitore in caso di fecondazione eterologa, o la possibilità di sterilità ereditata in conseguenza della sterilità del genitore, fino addirittura alla scelta da parte dei genitori di concepirlo non "sano" ma con una qualche anomalia che i genitori suppongono desiderabile (vedi il caso della madre non udente che ha voluto concepire un figlio sordo usando il seme di un donatore sordo anche lui, "Journal of Medical Ethics" ottobre 2002).
S'impone allora una riflessione sull'etica dell'accettare rischi per conto del bambino per compiere il proprio umano desiderio. È una riflessione ormai in atto perché nel mondo cresce un'impellente domanda di approfondimento e di prudenza nel mettere le mani nel cuore della vita umana, come mostra un sondaggio dell'ente inglese Human Fertilisation Embriology Authority il quale ha riportato nel novembre 2005 che, mentre l'85% delle persone ritengono che la Fiv rappresenti un importante avanzamento scientifico, solo il 50% ritiene che i vantaggi compensino i rischi. Questa riflessione riporta il figlio al centro della discussione etica, non più come un "diritto" (nessuna persona è un diritto per un'altra) ma come un soggetto personale e necessitante di tutela e cautela sin nell'atto del suo concepimento.
E forse è proprio dall'approfondimento dell'interesse del bambino il punto da cui si può partire per un dibattito sereno sull'etica della fecondazione umana.
(©L'Osservatore Romano - 10 gennaio 2009)
Il retroscena Sagrato profanato e svastiche: «Vaticano preoccupato» - di Andrea Tornielli – 6 gennaio 2009
Roma. In Vaticano c’è preoccupazione per quanto avvenuto durante le manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese, con le bandiere israeliane bruciate e la stella di David trasformata in svastica nazista, e i cortei culminati con centinaia di partecipanti che pregavano in direzione della Mecca, davanti alle porte del Duomo di Milano e di San Petronio a Bologna. Lo conferma al Giornale il direttore dell’Osservatore Romano, Gian Maria Vian: «C’è preoccupazione per questo uso violento della religione, sono rimasto impressionato da quanto è accaduto. Bisogna far di tutto per evitare queste strumentalizzazioni». Il quotidiano vaticano, nel numero oggi in edicola, non dedica molte righe ai cortei italiani e soprattutto, pur citandoli, omette riferimenti alle polemiche suscitate dalla preghiera islamica in piazza Duomo, trasformata in moschea all’aperto.
L’intenzione di tutti è quella di non enfatizzare quanto accaduto. Ma, al tempo stesso, a nessuno sfugge la delicatezza della situazione. La Curia milanese tace, dopo le parole dell’arciprete del Duomo, monsignor Luigi Manganini, che aveva definito la vicenda una «mancanza di sensibilità» da parte dei manifestanti musulmani e aggiungendo: «Da cristiano non avrei partecipato a una manifestazione che si fosse conclusa con una preghiera proprio di fronte a una moschea».
Preoccupazione, come pure volontà di non gettare benzina sul fuoco, si percepisce anche ai vertici della Conferenza episcopale italiana. Né la presidenza né il segretario generale sono intervenuti direttamente. Un commento su quanto avvenuto è stato però affidato a don Gino Battaglia, direttore dell’ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: «La preghiera è cercare Dio: è sempre mettere nelle sue mani le nostre attese, speranze o desideri. Ovvero espressione di gratitudine e di lode. Ha dunque una sua logica, che non può essere mai contro qualcuno, a meno di non tradire la sua stessa essenza».
«Bisogna fare attenzione», osserva un vescovo della Santa Sede, collaboratore di Benedetto XVI, «perché secondo la visione islamica, la preghiera in un determinato luogo può significare renderlo musulmano per sempre. E poi, vorrei sperare che quanti si sono inginocchiati a pregare in direzione della Mecca a due passi dai portoni del Duomo di Milano, chiusi nonostante la messa vespertina, non siano gli stessi che hanno esultato bruciando la bandiera di Israele. Proprio oggi ho parlato di questo con un cardinale, il quale mi ha detto: “Se pregano, non fanno la guerra”. Mi auguro davvero che sia così. Purtroppo però negli ultimi anni abbiamo visto spesso il contrario, e cioè la crescita di un fondamentalismo che incita all’odio e alla violenza usando il nome di Dio: un abuso che prima Giovanni Paolo II e ora Benedetto XVI hanno fortemente criticato».
Eluana, i medici della clinica di Udine si ribellano: ''Non siamo un mattatoio!" - A giorni la decisione dei vertici della casa di cura che s'è offerta di far morire la giovane donna. Appello dei camici bianchi: «Fermiamoci». Dell'operazione avevano saputo dai giornali
«Se prima eravamo sconcertati oggi siamo esterrefatti. Il rapporto di fiducia tra noi medici e la struttura sanitaria per cui lavoriamo si è spezzato. L’appello ai nostri capi? Fermatevi». Sono molti i camici bianchi della 'Città di Udine' - il policlinico che vorrebbe «accompagnare alla morte» Eluana - che esprimono disaccordo con i vertici. Molti (e diversi) i motivi della loro indignazione. «Alcuni di noi sono profondamente colpiti dal punto di vista etico e umano - specifica uno di loro, altri invece non accettano l’arroganza con cui gli amministratori hanno gestito la cosa, mettendoci di fronte al fatto compiuto e costringendoci a saperlo dai giornali. Una terza parte, infine, non ammette che si siano rivolti a un’équipe esterna di cosiddetti volontari, anziché chiedere a noi se eravamo disposti a staccare il sondino: è indice di coscienza sporca. E come li hanno reclutati, visto che il progetto era così segreto? Chi c’è dietro?».
Può darsi, come hanno spiegato gli avvocati della famiglia Englaro, che si volesse evitare una possibile obiezione di coscienza.
Ma allora la cosa è ancora più triste, per noi: la nostra casa di cura 'svenduta', cedendo i muri ma prendendo le distanze da quanto vi sarebbe avvenuto dentro... Si sono fatti tristi paragoni, in queste ultime settimane di angoscia.
Ovvero?
Parlando tra medici e infermieri, si è detto che i nostri capi hanno fornito il mattatoio... Anche il rapporto con la cittadinanza è cambiato da quando la 'Città di Udine' è finita sui giornali: telefonate ingiuriose, epiteti poco edificanti arrivati via fax, sfoghi di grande amarezza da parte dei pazienti. L’altra mattina stavo visitando una coppia, la moglie mi ha detto «è qui che forse verrà a morire Eluana?», il marito l’ha corretta: «No, è qui che la ammazzano». Per noi che abbiamo dedicato la vita a curare il malato è umiliante, c’è solo da abbassare gli occhi.
Sono queste le ore in cui la casa di cura deciderà se accogliere Eluana. Lo ha annunciato tre giorni fa l’amministratore delegato Riccobon. Che cosa vi aspettate?
Abbiamo commentato a lungo la sua dichiarazione senza riuscire a interpretarla. La nostra speranza è che si rinunci al business che pensiamo possa esserci dietro e si torni alla normalità. La 'Città di Udine' è un’ottima struttura sanitaria e ha sempre operato in collaborazione con l’ospedale civile della città, in perfetto regime di sussidiarietà tra pubblico e privato. Ora tutta questa pubblicità negativa rischia di vanificare anni di fiducia e professionalità.
Riunioni in corso, dunque... Quale può essere lo scoglio tuttora ritenuto insormontabile dai vertici?
L’atto di indirizzo con cui il ministro Sacconi il 16 dicembre ha ricordato che sospendere l’alimentazione assistita a un disabile è illegale. Riccobon continua a sostenere che, essendo la nostra una struttura privata, resta al di fuori del servizio sanitario nazionale, ma questo logicamente è ridicolo. Me ne andrei da qui se davvero il luogo in cui lavoro fosse una enclave senza legge.
Qual è la cosa che vi ha colpito di più?
L’essere stati tenuti all’oscuro di tutto. Averlo saputo dai giornali e dalle tivù. Ovviamente la prima reazione è stata di incredulità, non era possibile che nessuno di noi avesse saputo nulla, nemmeno in accettazione, neppure nel reparto di medicina o tra gli infermieri. Poi, quando abbiamo capito che era vero, ci siamo chiesti 'perché qui'. Non capivamo all’inizio le vere motivazioni che muovevano i responsabili del policlinico a una scelta così suicida.
E ora? Le avete capite?
In Regione antichi legami di amicizia con la famiglia, e nella 'Città di Udine' - come alcuni dicono - interessi economici. Poi in questo intrico di concause c’entra anche il laicismo esasperato di qualcuno dei responsabili e di qualche suo mentore. E naturalmente la deriva professionale cui la nostra categoria sta andando incontro da tempo: che dei medici si prestino a spegnere una vita anziché dare cura al malato è qualcosa di inimmaginabile fino a pochi mesi fa.
Che cosa la maggior parte di voi non perdona alla casa di cura, in tutto ciò?
Parlando tra noi, quello che più ci ha indignato è stato quel termine, pietas, con cui Riccobon ha ammantato di generosità la sua scelta. Io non sono credente, ma anche per gli antichi pagani la pietas era sempre legata alla sacralità della vita e all’amore per il prossimo. Abbiamo realmente temuto che la cosiddetta 'pietas' dei nostri capi arrivasse al punto di far morire Eluana nei giorni di Natale, approfittando che gli ambulatori erano deserti e la maggior parte di noi era assente. Per ora è andata bene, ma tira ancora una brutta aria...
Lei è padre, come Beppino Englaro...
Non c’è giorno che io non mi metta nei suoi panni. Guardo mia figlia e provo a pensare che cosa farei se fossi in lui. Vorrei parlargli, dirgli che aveva la soluzione in casa, quelle benedette suore di Lecco che la amano e che dicono «noi da Eluana riceviamo tanto». Parole incredibili: quale soddisfazione più grande di tua figlia che ancora può dare, che ancora dona amore? Io gli auguro di cuore che un giorno lo capisca, prima che sia tardi.
Lucia Bellaspiga, Avvenire, 6 gennaio 2009
09/01/2009 13:01 – VATICANO - Il VI Incontro mondiale delle famiglie, una risposta alla sfida dell’individualismo - La manifestazione si svolge a Città del Messico, dal 14 al 18 gennaio. Previsto un collegamento televisivo in diretta del Papa. In programma un congresso teolgico-pastorale, ma anche iniziative come il "Mosaico” e il “Bosco” delle famiglie ed un concorso “Una lettera a mio figlio", che raccoglierà le madri nubili e quelle sole che desiderano indirizzare una lettera ai loro figli e alle loro figlie.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Ultimi preparativi per il VI Incontro mondiale delle famiglie che si svolgerà dal 14 al 18 gennaio di quest’anno a Città del Messico ed al quale saranno 98 i Paesi rappresentati; 200 i vescovi presenti; 30 i cardinali; 318 i giornalisti accreditati. A conclusione dell’incontro, Benedetto XVI si collegherà via satellite con i partecipanti alla messa del 18 gennaio, alla quale sono attese centinaia di migliaia di persone. Lo ha confermato questa mattina il cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, presentando in Vaticano l’Incontro, che ha per tema “" La famiglia, formatrice ai valori umani e cristiani”. “Ci sarà - ha detto - un collegamento diretto televisivo del Papa al termine della messa di domenica 18 gennaio e annuncerà anche il tema e il luogo del prossimo incontro mondiale”.
“La famiglia – ha osservato il porporato - oggi deve affrontare, con creatività e con spirito propositivo, la sfida di una cultura individualista e mercantilista, basata sulla produzione e sul consumismo. Abbiamo purtroppo - ha aggiunto - un concetto errato di libertà intesa come autonomia chiusa in se stessa; si privilegiano altre forme di convivenza che offuscano il valore della famiglia, basata sul matrimonio di un uomo e di una donna”. “Con questa mentalità errata – ha proseguito - molte volte si diffondono, senza un ampio consenso sociale e sotto l'impulso di piccoli ma attivi gruppi di pressione fortemente ideologizzati e dalle grandi risorse economiche, delle leggi che permettono, con molta facilità, l'aborto come pure il divorzio rapido e l'eutanasia. Rispondere a queste sfide - ha concluso - è un obbligo morale e difficile”.
Non a caso, dunque, l’incontro comincerà con un congresso teologico pastorale, che sarà celebrato nei giorni 14-15-16 gennaio, nel quale interventi, tavole rotonde e comunicazioni seguiranno tre binari: “I rapporti e i valori familiari”, “Famiglia e sessualità", "La vocazione educatrice della famiglia". A queste tre tematiche di fondo seguiranno approfondimenti, contributi e ricerche. "Quali sono i valori da scoprire e da riscoprire?": è la domanda alla quale cercherà di dare esaurienti riposte il cardinale canadese Marc Ouellet. E poi, il rapporto tra famiglia e valore della vita umana; gli organismi che aiutano la famiglia nella formazione dei valori: parrocchia, movimenti, associazioni familiari, scuola. Famiglia e mass-media, la famiglia degli emigranti, la politica e la legislazione, la sfida di legiferare a favore della famiglia e della vita: questi ed altri i temi che verranno dibattuti nel corso delle tre giornate congressuali.
Il santuario di Nostra Signora di Guadalupe farà da sfondo alle celebrazioni religiose: sabato 17 la recita del rosario e le testimonianze di famiglie provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’America, dall’Europa e dall’Oceania e domenica 18 gennaio la solenne celebrazione eucaristica conclusiva presieduta dal legato pontificio, cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato.
La preparazione dei fedeli, , ha detto poi il card. Antonelli, si sta attuando, con grande successo, con l’aiuto di catechesi preparatorie; sono stati predisposti anche alcuni ottimi sussidi pastorali per approfondire il ruolo educativo nel contesto delle virtù e dei valori della famiglia. È stato preparato il "Mosaico delle famiglie": si tratta di una raccolta di fotografie di famiglie con lo scopo di comporre, come in un mosaico, l’immagine del Papa Benedetto XVI. Tale iniziativa ha avuto ampia risonanza nel mondo. Sono infatti giunte migliaia di fotografie da ogni parte del pianeta. Un’altra iniziativa molto incoraggiata è il "Bosco delle famiglie", consistente nel rimboschimento di alcune zone da parte delle famiglie. Costituirà un frutto di questo Incontro e un mezzo per incrementare la coscienza ecologica caldamente promossa anche da Benedetto XVI. È stato istituito un "Concorso internazionale di fotografia" sul tema "Famiglia e migranti", promosso dagli organizzatori dell’Incontro. Ha avuto buona accoglienza in tutto il mondo.
La Commissione centrale di coordinamento ha indetto anche un concorso nazionale dal titolo: "Una lettera a mio figlio". Vi partecipano sia le madri nubili che le madri sole residenti nella Repubblica messicana, che desiderano indirizzare una lettera ai loro figli e alle loro figlie. Le lettere migliori saranno raccolte in un libro commemorativo che verrà consegnato a Benedetto XVI come testimonianza del profondo valore e della dignità delle madri messicane. Si sta realizzando una vasta campagna divulgativa attraverso i mass media (televisione, radio) e la pubblicità all’estero.
"La Chiesa - ha detto infine il card. Antonelli - considera la famiglia una priorità pastorale, insieme ai giovani. La famiglia è crocevia di tutte le pastorali, è un tema centrale per la Chiesa”.
ELUANA/ Caro Fazio, parlando con Beppino Englaro si ricordi anche delle famiglie che lottano per la vita – IlSussidiario.net - Redazione - sabato 10 gennaio 2009
Caro Fazio
lei ha un’occasione unica nella sua trasmissione ospitando Beppino Englaro papà di Eluana. Che non è quella di dare voce agli aspetti legali di chi conduce una battaglia per la morte della propria figlia, o di alimentare ancora una volta la curiosità dell’opinione pubblica sul dove, come e quando questo succederà, né quella di offrire al Beppino Englaro - che rispetto nella sua battaglia anche se non la condivido - un’altra possibilità di ribadire senza contraddittorio argomentazioni contro coloro, laici e cattolici, che invece si battono sul versante opposto.
La moratoria chiesta da Beppino Englaro se vale, deve valere sempre. Essere nella sua trasmissione contrasta con il silenzio che lui stesso si è imposto. Bisognerebbe perciò che lei desse spazio anche a familiari che invece vivono la stessa situazione pensandola diversamente ed avendo un atteggiamento propositivo verso persone che vivono “vite differenti”come Eluana. Lei ha, dunque, l’occasione domani di aprire il versante su una tematica ampia e complessa che deve dare in seguito voce anche alle opinioni delle famiglie che vivono le stesse situazioni, dando valore alle loro storie. Perché la tematica sollevata dal caso specifico pone una serie di domande che potrebbe fare sue e rivolgere direttamente al padre di Eluana. Eccone alcune:
- Non crede che il “diritto al morire” messo così in contrapposizione al “diritto di cura” possa ledere la libertà di tante famiglie che, non la pensano come lei e si vedono negati diritti con tanta difficoltà conquistati?
- Non sente di dover dire una parola di comprensione, conforto, alle tante famiglie che vivono la sua stessa condizione e, mi perdoni se quello che dico le sembra indelicato, sono meno fortunate di lei perché hanno scelto, o sono state obbligate dalle situazioni, a tenere in casa il proprio caro e di accudirlo ed accompagnarlo nella vita quotidiana?
- Non pensa che la sua famiglia sia stata lasciata troppo sola nella gestione di questa grave situazione dopo l’incidente di sua figlia determinando in lei un atteggiamento tanto intransigente?
L'altro ieri è stato l’undicesimo anniversario della morte di mio figlio Luca dopo un lungo coma nel 1998.
In suo nome è nata la Casa dei Risvegli a lui dedicata un centro pubblico postacuto per giovani e adulti con esiti di coma e stato vegetativo. Un luogo che accompagna la famiglia e mette in campo tutte le risorse attualmente possibili per il reinserimento sociale. Mi è capitata proprio ora una foto di Luca ricoverato in Austria, lo sguardo provato, una mano alzata nel tentativo di esprimersi.
E con commozione mi sono detto: «La vita è ingiusta, ma non per questo dobbiamo soccombere…».
Con sincera stima e viva cordialità
Fulvio De Nigris
Direttore Centro Studi per la Ricerca sul Coma
Gli amici di Luca
www.amicidiluca.it
CRISI/ Il coraggio che serve per ripensare lavoro e welfare - Dario Odifreddi - sabato 10 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
La crisi, come ormai ampiamente previsto, si sposta sempre più rapidamente dalla finanza all’economia reale, che scivola sulla china della crescita negativa con serie ripercussioni sull’occupazione. In alcuni casi all’assenza di lavoro (fatto di per sè grave) non si associa ancora la perdita totale del reddito grazie all’utilizzo della cassa integrazione, che ha coinvolto oltre 300 mila persone nell’anno con un picco del 500% a dicembre. In altri casi, soprattutto nelle Pmi, si è già in presenza di una perdita importante di posti di lavoro e di reddito.
Il 2009 sarà dunque duro, ma sarà anche l’occasione per rivedere il nostro modo di vivere, dall’approccio alle cose concrete alla concezione del lavoro. Si è dato troppo per scontato che il vantaggio competitivo acquisito dalle economie europee e americana potesse essere rinnovato all’infinito, ci si è convinti che i frutti di questo vantaggio (tenore di vita, tutele, etc.) fossero dovuti e che sarebbero durati per sempre. La resistenza a legare i redditi alla produttività, il non dare adeguato spazio alla contrattazione di secondo livello, la pretesa di una garanzia assoluta di reintegro per i lavoratori a tempo indeterminato da raggiungere per via giudiziale, la resistenza alla mobilità soprattutto nel pubblico impiego, ne sono alcuni esempi.
Oggi la realtà ci dice che era un’illusione, e non solo per effetto della crisi finanziaria. Bisogna ricominciare a combattere, cercare risposte alla crisi senza restare inermi in attesa che passi, anche perché i primi che ripartiranno (inteso come Paesi, ma anche come singole imprese) potranno guadagnare un posizionamento di medio periodo molto rilevante. A ognuno di noi, a ogni singola impresa, ma anche al singolo lavoratore, spetta il compito di vivere da protagonista questa sfida senza cadere nell’errore di ritenere che i cambiamenti micro siano ininfluenti per il risultato finale.
Non è un caso, andando a leggere la storia, che la risposta più imponente alla crisi della fine dell’impero romano fu la scelta di alcuni monaci di vivere secondo la regola dell’ora et labora. Essa ci appare oggi una scelta lungimirante che è stata capace di rinnovare la tradizione cristiana e occidentale, ma sul momento non pochi avranno pensato che essa era una fuga dalla realtà o nella migliore delle ipotesi un bel germoglio. Ma come si poteva immaginare che un germoglio così piccolo avrebbe generato il fusto su cui si è retta la costruzione dell’Europa?
Oggi come allora non si può continuare a ragionare secondo uno schema consolidato che prevede solamente variazioni a margine: siamo presumibilmente di fronte ad un nuovo paradigma che si sta formando e i cui contorni oggi non sono ancora definiti. In un mondo completamente rivoluzionato anche il concetto di welfare andrà rivisitato. Così come sul tema del lavoro si dovrà ripartire da una riflessione sul valore della persona, da cui discende il suo rapporto con il lavoro, con la ricerca del giusto benessere, con le tutele soggettive.
Se non si fanno i conti con questo scenario si rischia di continuare a mettere pezze nuove su vestiti vecchi. Tali mi appaiono le proposte di interventi di sostegno al reddito fatte dal Governo per tutti i cosiddetti precari, così come la settimana corta (cosa tra l’altro già parzialmente in essere nelle diverse forme di cassa integrazione utilizzabili). Inoltre la logica intrinseca di alcuni di questi interventi mi pare nasca più dall’idea dell’inamovibilità dei tenori di vita che dalla difesa del diritto al lavoro che, è bene ricordarlo, non è una variabile indipendente dai tassi di crescita e dalla capacità di generare ricchezza. In tal senso ha ragione Cazzola quando sostiene che vi è una tentazione, da parte di frange del sindacato e della sinistra, di rendere inamovibili i lavoratori ingessando aziende ed economia.
Tra le proposte oggetto di discussione credo che quelle più sensate e più capaci di incidere in termini strutturali (e quindi anche coerenti con la costruzione di nuovi paradigmi) siano quella di Ichino sui contratti di transizione, che trova punti di raccordo con la proposta di Sacconi di tutelare la persona attraverso azioni di politica attiva nella logica di una moderna flexsecurity e quella recentemente riproposta da Brunetta sull’innalzamento dell’età pensionabile. Se si va su questa strada diventa anche più sostenibile il principio dell’intervento immediato del Governo a sostegno delle famiglie e, con le dovute cautele, del sistema economico e finanziario.
Inoltre è bene non dimenticare che uno dei tasselli fondamentali da cui dipenderanno i nuovi assetti del mercato del lavoro (e soprattutto la nostra capacità di competere) è connesso al ripensamento dei sistemi educativi e formativi di cui da anni si fa un gran parlare, ma con scarsa capacità di rendere operative le scelte annunciate. Sullo specifico della formazione, se è ampiamente da condividere l’accento di Sacconi e di Ichino sul ruolo dell’impresa come soggetto facente parte del sistema educativo, più discutibile appare il generico attacco all’intero sistema formativo, in cui coesistono elementi di grande debolezza accanto ad altri di assoluta eccellenza. Se la formazione per meccanici della Ferrari è una grande scuola per tutti, altrettanto lo è quella recentemente avviata dall’accordo CNOS-Fiat per la formazione dell’intera rete delle officine. Anche qui occorre rifuggire da massimalismi e ideologie e guardare alla realtà nella sue forme variegate.
Inoltre credo che valga la pena continuare sulla strada dei servizi alla singola persona attraverso una valorizzazione della sua capacità di scelta; in questo ambito l’attività legislativa e la promozione di strumenti operativi quale quello della “dote” messi in campo dalla Regione Lombardia sono certamente un riferimento per tutto il Paese.
Il nuovo welfare, se vorrà sostenere la crescita del tasso di occupazione e contemporaneamente garantire un percorso lavorativo capace di non rendere marginali importanti fasce di popolazione, dovrà dunque connotarsi per un mix di politiche attive in cui è necessario coinvolgere l’intero sistema pubblico, il privato sociale e le stesse imprese.
Paradossalmente la crisi potrebbe essere l’occasione per attuare quella stagione delle riforme strutturali del mercato del lavoro sempre invocate, ma poi normalmente disattese. Questo mi pare essere oggi uno dei grandi campi in cui le diverse sensibilità riformiste potrebbero unire le forze dimostrando che la politica e il Parlamento sono ancora capaci di perseguire e amare il bene comune.
SCHIACCIANO GLI INDIFESI DURANTE LA TREGUA - La guerra, bestiale sempre Ma c’è qualcosa di peggio - MARINA CORRADI – Avvenire, 10 gennaio 2009
O ltre la guerra. Sono troppe nelle ultime ore le voci che denunciano che a Gaza i feriti non vengono adeguatamente soccorsi, che morti e vivi sono lasciati insieme tra le macerie, come quei quattro bambini che – testimonia un operatore della Croce Rossa – sono stati trovati sfiniti dalla fame di giorni accanto alla madre morta, nella loro casa bombardata. Protesta la Croce Rossa Internazionale, parla l’Onu, il cui Alto Commissariato per i Diritti umani da Ginevra sollecita un’indagine per accertare se ci sono state violazioni del diritto internazionale, a Gaza. Parlano, semplicemente, le cifre: 257 dei 781 morti, bilancio di ieri, sono bambini.
Oltre la guerra. La guerra, si sa, è intrinsecamente sanguinosa, è naturalmente annientatrice ( « Chi parte per la guerra, ha già perso » , diceva Giovanni Paolo II). E tuttavia può porsi, dentro un odio antico e tenace come quello che prolifera da decenni in Medio Oriente, la necessità di difendersi per sopravvivere, quella che Israele invoca, stretta con il suo piccolo territorio in mezzo a un oceano di Paesi ostili. In ogni caso, la guerra che quasi tutti deplorano nella realtà accade e deflagra. E allora si spara, con armi definite intelligenti; si sbaglia, talvolta di molto; si colpisce nel mucchio, e nel mucchio, magari usati come ostaggi, magari solo in cerca di un rifugio, i più deboli sono sempre tantissimi.
Ma: fino a qui è la guerra. Feroce, furiosa nell’alzare il tiro contro ogni ombra che si muova, per piccola che quell’ombra sia.
Dopo, però – quando le armi tacciono, quando il fumo delle macerie si dirada – quello che accade dopo dei feriti, dei morti, non è più propriamente ' guerra'. Nella tregua, per quanto breve e fragile, si lascia che i feriti siano soccorsi; nella tregua, quei bambini attaccati alla madre esanime dovevano essere portati via. Nella tregua si seppelliscono i morti: perfino gli eserciti dell’antichità si concedevano questo frammento misero di pace, dopo la battaglia. Oltre la guerra c’è un confine, e da ben prima che fosse scritto nel diritto internazionale: è già nella voce di Antigone, che contro la legge di Creonte dà sepoltura al fratello, pronta per questo a morire.
Ecco, anche chi ha ben presente come sia stretta Israele in mezzo agli incombenti nemici non può – dalle voci degli osservatori che si levano da Gaza – non dubitare fortemente che questo confine, laggiù, sia stato superato. Qualcuno obietterà che il ' confine' a Gaza lo hanno polverizzato, quattro anni fa, quei militanti di Hamas che esibirono pubblicamente brandelli del corpi dei soldati nemici. È vero. Ma quello fu il gesto neobarbarico di palesi terroristi.
L’esercito di Israele invece è l’esercito di un Paese democratico, nato nella tradizione della più antica fede monoteista. L’esercito d’Israele non può trascurare i feriti e i morti, senza mancare di rispetto a se stesso e alla sua storia, che poi è alla radice dell’Occidente cristiano.
Certo, chi parte per la guerra ha già perso.
Tuttavia la guerra si fa. Falliscono i tavoli e le grandi conferenze dove tutti ci si comporta da persone educate; si torna a casa e partono sferragliando i carri armati. La guerra è bestiale e atroce, sempre. Ma, c’è qualcosa perfino di peggiore. È quel confine, quel dopo: è l’alt intimato a un’ambulanza, e l’agonizzante abbandonato sulla strada; o i pianti ignorati di quattro bambini fra le macerie, stretti a una madre che non risponderà più.
LA BIMBA INGLESE SELEZIONATA « PERFETTA » - Ma nascere a scapito di altri non sarà domani una condanna? - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 10 gennaio 2009
D opo tanti annunci è nata, qualche giorno fa – e sta bene – la bambina senza il gene che con elevate probabilità le avrebbe fatto sviluppare, da adulta, un tipo di cancro al seno. Non si tratta di una nuova terapia, non è stato tolto un gene difettoso: fra tanti embrioni concepiti in provetta sono stati scartati quelli malati, con l’alterazione genetica, e selezionato il sano.
Che nasca un bambino che sta bene è sempre una buona notizia. Ed è giusto spiegare che da questo punto di vista la nuova nata non è molto diversa da tutte le altre coetanee che vengono al mondo senza problemi: la sua salute sarà il risultato di quell’intreccio di caratteristiche fisiche e qualità ambientali come per ognuno di noi, dalle quali dipenderà anche la possibilità o meno di ammalarsi di molti altri tipi di tumori, anche quelli al seno che non hanno origine genetica o che non dipendono solamente dall’alterazione di quell’unico gene.
La piccola potrebbe invece avere qualche problema in più per il fatto di essere stata concepita in vitro e sottoposta a diagnosi preimpianto – quando era solo un embrione di otto cellule gliene sono state tolte una o due per verificare la presenza o meno del gene incriminato –, ma ci auguriamo sinceramente che questo non avvenga, che il clamore suscitato agli albori della sua esistenza si plachi, e la sua vita prosegua normalmente.
Chissà se saprà mai come è nata. Forse coglierà qualche frase qua e là, negli anni, e magari da grande leggerà su vecchi ritagli di giornale le polemiche intorno alla prima bambina selezionata senza quella particolare alterazione genetica. Può essere che allora le vengano dei dubbi, che diventi curiosa, e forse chieda ai suoi genitori se ne sanno qualcosa, se per caso c’entrava lei. O forse le racconteranno tutto fin dall’inizio.
E chissà cosa penserà quando suo padre e sua madre le spiegheranno che l’hanno scelta fra altri embrioni, proprio perché volevano escludere anche la possibilità che si ammalasse di quel particolare tipo di malattia – un tumore di quella specifica origine genetica, giusto quello, di cui avevano paura. L’hanno scelta per il suo Dna. Non ne avrebbero voluta un’altra, con un Dna difettoso. Il suo – quando l’hanno scelta – di difetti non ne aveva. Almeno per quanto se ne sapeva quando è stata concepita in laboratorio.
E chissà cosa penserà quando incontrerà – come è capitato a tutti noi almeno una volta nella vita – una malata di cancro al seno: magari penserà che quella poteva essere sua sorella, la sorella mai nata, quella scartata all’inizio perché era difettata, perché forse, da grande, avrebbe potuto ammalarsi, e di una malattia che si può curare, dalla quale guariscono migliaia di donne, in percentuali sempre maggiori. Forse si sentirà molto fortunata, oppure avrà ancora più paura del terribile male, o magari si sentirà in colpa, perché lei in qualche modo ce l’ha fatta, è stata scelta perché era sana e gli altri no, una specie di sindrome del sopravvissuto. O si sentirà sola, perché quella sorella non l’ha mai conosciuta...
E chissà cosa penseranno i suoi genitori, quando lei non sarà come loro si aspettano che sia: i figli, si sa, sono sempre diversi da come li vorresti. Quei genitori che hanno investito tanto del loro tempo, delle loro energie fisiche e mentali, e forse anche del loro denaro, perché lei avesse un futuro senza l’ombra della malattia. O meglio: perché nel loro futuro – nel futuro di quel padre e di quella madre – una malattia così pericolosa non entrasse.
Difficile immaginare cosa potrebbero pensare quando invece qualche pericolo nella loro vita entrerà, come è inevitabile che sia.
Essere nati perché apparentemente in salute, figli a condizione, sotto ipoteca, voluti e scelti solo se sani, mentre fratelli e sorelle sono stati scartati, eliminati perché forse si sarebbero ammalati (e si sarebbero potuti curare). Non potrebbe essere questa la peggiore condanna?
Famiglie deluse: il bonus premia i single - Il Forum: una beffa. Cassa integrazione regionale e anche al commercio - DA ROMA EUGENIO FATIGANTE – Avvenire, 10 gennaio 2009
I l bonus lasciato com’è e il mini-aiuto per gli assegni familiari (però rimpinguato ieri, con un aumento della dotazione futura di 100 milioni, da 250 a 350) non piace per niente al Forum delle associazioni familiari. Per la vicepresidente Paola Soave «è grave» che modifiche che erano parse «ragionevoli ai più, dentro e fuori la maggioranza» (e che non facevano salire la spesa prefissata di 2,5 miliardi di euro), non siano passate «non per una scelta politica precisa, ma per l’insipienza di una burocrazia che ha predisposto e distribuito i moduli della richiesta prima che il decreto fosse convertito in legge».
Sarebbe anche questa, infatti, una delle ragioni che ha portato il ministero dell’Economia a non toccare il bonus, che resta quindi sbilanciato verso chi vive solo e verso le coppie senza figli, rispetto alle famiglie numerose.
E la «vaga promessa» sull’aumento degli assegni induce il Forum a concludere parlando di «una doppia beffa» per le famiglie italiane. Che diventa una beffa tripla considerando che, al termine di una nuova giornata caotica nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, con continue pause ed emendamenti riscritti e aggiornati che hanno fatto slittare le prime votazioni al tardo pomeriggio, è stata approvata la proposta dei due relatori Corsaro e Bernardo per differire di un mese, al 28 febbraio 2009, il termine utile per presentare la richiesta per il bonus straordinario anti-crisi.
C’è tuttavia un’altra novità: per i fondi da destinare agli aumenti degli assegni familiari, la versione finale approvata li quantifica in 350 milioni, anziché nei 250 attesi come risparmio dalla norma sul tetto del 4% ai mutui variabili. Resta però il collegamento ai risparmi, per cui gli aumenti partiranno probabilmente solo dal 2010. Di «soddisfazione parziale» parla il deputato Pdl Gabriele Toccafondi: «Capisco il Forum, ma bisogna capire pure la situazione generale. E comunque l’aumento degli assegni è strutturale, mentre il bonus incide solo sul 2009».
Cambia aspetto alla fine, invece, lo sgravio Irpef del 55% sui lavori per il risparmio energetico: la retroattività da inizio 2008 delle nuove norme limitative è cancellata, però da quest’anno il beneficio può essere 'spalmato' su 5 anni e non più su 3. Fra le nuove proposte ce ne sono infine due favorevoli agli utenti bancari: sarà nulla ogni clausola bancaria vessatoria per chi fa andare il conto 'in rosso' per meno di 30 giorni continuativi; e chi ricorre alla portabilità del mutuo 'prima casa' non deve pagare alcun onorario al notaio, ma solo le spese vive. In una giornata di quasi stasi si segnala allora il botta e risposta fra il ministro Giulio Tremonti e Pierluigi Bersani (Pd). «Il governo – ha cominciato Bersani – mette bandierine nei titoli, ma poi dentro non c’è niente». Tremonti ha ribattuto che le richieste Pd sono state accolte sugli ammortizzatori sociali e ha aggiunto (con riferimento al caso Iervolino a Napoli): «La prossima volta che incontro Bersani, mi porto il registratore...». Controreplica di Bersani: «Tremonti risparmi i soldi del registratore e li metta nel decreto».
Critica la vice presidente delle associazioni familiari, Soave: il contributo resta sbilanciato su chi è solo o senza figli. Un mese in più per le domande. Sale di 350 milioni la dote per gli assegni