Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: l’unità dei cristiani riguarda la Chiesa nel mondo - Catechesi all’udienza generale del mercoledì
2) Il Cardinale Poletto ai medici di Torino: fate obiezione su Eluana - “Andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo”
3) Il Vaticano imbavaglia il gesuita Roger Haight. Tutta colpa di Gesù - Gli si contesta di occultare la divinità di Cristo, per renderlo più presentabile al mondo. Nel cuore della disputa c'è la Compagnia di Gesù. E anche un suo autorevolissimo membro, il cardinale Carlo Maria Martini di Sandro Magister
4) Chi sono gli ebrei del Novecento? - Mille volti, una sola identità - Giovedì 22 gennaio va in libreria Diaspora. Storia degli ebrei del Novecento di Anna Foa (Roma-Bari, Laterza, 2009, pagine 304, euro 19). Pubblichiamo in anteprima un estratto dell'introduzione. - di Anna Foa – L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2009
5) Attaccate scuole private, chiese e abitazioni - In Pakistan ancora violenze contro i cristiani – L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2009
6) ELUANA/ Bresso non ha voce in capitolo e sbaglia a parlare di un “ricatto” di Sacconi - INT. Aristide Police - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
7) DIALOGO/ Mahmoud: l’islam moderato? C’è ma non fa notizia… - Redazione - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) CHIESA/ Olivier Clément: sorpreso dalla gioia nel secolo del nichilismo - Adriano Dell'Asta - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) I MALATI DI SLA CHIEDONO AIUTO PER UNA VITA DIGNITOSA - Ma i giornalisti si agitano solo quando c’è da togliere il sondino - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 22 gennaio 2009
Benedetto XVI: l’unità dei cristiani riguarda la Chiesa nel mondo - Catechesi all’udienza generale del mercoledì
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 21 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi nell'aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre ha parlato della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, che si concluderà domenica prossima.
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Cari fratelli e sorelle!
Domenica scorsa è iniziata la "Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani", che si concluderà domenica prossima, festa della Conversione di san Paolo apostolo. Si tratta di una iniziativa spirituale quanto mai preziosa, che va estendendosi sempre più tra i cristiani, in sintonia e, potremmo dire, in risposta all’accorata invocazione che Gesù rivolse al Padre nel Cenacolo, prima della sua Passione: "Che siano una cosa sola, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17, 21). Ben quattro volte, in questa preghiera sacerdotale, il Signore chiede che i suoi discepoli siano "una cosa sola", secondo l’immagine dell’unità tra il Padre e il Figlio. Si tratta di una unità che può crescere soltanto sull’esempio del donarsi del Figlio al Padre, cioè uscendo da sé e unendosi a Cristo. Due volte, inoltre, in questa preghiera, Gesù aggiunge come scopo di questa unità: perché il mondo creda. La piena unità è quindi connessa alla vita e alla missione stessa della Chiesa nel mondo. Essa deve vivere una unità che può derivare solo dalla sua unità con Cristo, con la sua trascendenza, quale segno che Cristo è la verità. E’ questa la nostra responsabilità: che sia visibile nel mondo il dono di una unità in virtù della quale si renda credibile la nostra fede. Per questo è importante che ogni comunità cristiana prenda consapevolezza dell’urgenza di operare in tutti i modi possibili per giungere a questo obiettivo grande. Ma, sapendo che l’unità è innanzitutto "dono" del Signore, occorre al tempo stesso implorarla con instancabile e fiduciosa preghiera. Solo uscendo da noi e andando verso Cristo, solo nella relazione con Lui possiamo diventare realmente uniti tra di noi. E’ questo l’invito che, con la presente "Settimana", viene rivolto ai credenti in Cristo di ogni Chiesa e Comunità ecclesiale; ad esso, cari fratelli e sorelle, rispondiamo con pronta generosità.
Quest’anno, la "Settimana di preghiera per l’unità" propone alla nostra meditazione e preghiera queste parole tratte dal libro del profeta Ezechiele: "Che formino una cosa sola nella tua mano" (37,17). Il tema è stato scelto da un gruppo ecumenico della Corea, e riveduto poi per la divulgazione internazionale dal Comitato Misto per la Preghiera formato da rappresentanti del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e del Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra. Il processo stesso di preparazione è stato un fecondo e stimolante esercizio di vero ecumenismo.
Nel brano del libro del profeta Ezechiele, da cui è tratto il tema, il Signore ordina al profeta di prendere due legni, uno come simbolo di Giuda e delle sue tribù e l’altro come simbolo di Giuseppe e di tutta la casa d’Israele unita a lui, e gli chiede di "accostarli", in modo da formare un solo legno, "una cosa sola" nella sua mano. Trasparente è la parabola dell’unità. Ai "figli del popolo", che domanderanno spiegazione, Ezechiele, illuminato dall’Alto, dirà che il Signore stesso prende i due legni e li accosta, in modo che i due regni con le rispettive tribù, tra loro divise, diventino "una cosa sola nella sua mano". La mano del profeta, che accosta i due legni, viene considerata come la mano stessa di Dio che raccoglie e unifica il suo popolo e finalmente l’intera umanità. Possiamo applicare le parole del profeta ai cristiani, nel senso di un’esortazione a pregare, a lavorare facendo tutto il possibile perché si compia l’unità di tutti i discepoli di Cristo, a lavorare affinchè la nostra mano sia strumento della mano unificante di Dio. Questa esortazione diventa particolarmente commovente ed accorata nelle parole di Gesù dopo l’Ultima Cena. Il Signore desidera che l’intero suo popolo cammini – e vede in questo la Chiesa del futuro, dei secoli futuri – con pazienza e perseveranza verso il traguardo della piena unità. Impegno questo, che comporta adesione umile e docile obbedienza al comando del Signore, il quale lo benedice e lo rende fecondo. Il profeta Ezechiele ci assicura che sarà proprio Lui, il nostro unico Signore, l’unico Dio, a raccoglierci nella "sua mano".
Nella seconda parte della lettura biblica si approfondiscono il significato e le condizioni dell’unità delle varie tribù in un solo regno. Nella dispersione tra le genti, gli Israeliti avevano conosciuto culti erronei, avevano maturato concezioni di vita sbagliate, avevano assunto costumi alieni dalla legge divina. Ora il Signore dichiara che non si contamineranno più con gli idoli dei popoli pagani, con i loro abomini, con tutte le loro iniquità (cfr Ez 37, 23). Richiama la necessità di liberarli dal peccato, di purificare il loro cuore. "Li libererò da tutte le ribellioni – afferma –, li purificherò". E così "saranno il mio popolo ed io sarò il loro Dio" (Ibid.). In questa condizione di rinnovamento interiore, essi "seguiranno i miei comandamenti, osserveranno le mie leggi, e le metteranno in pratica". Ed il testo profetico si conclude con la promessa definitiva e pienamente salvifica: "Farò con loro un’alleanza di pace … Porrò il mio santuario, cioè la mia presenza, in mezzo a loro" (Ez 37,26).
La visione di Ezechiele diviene particolarmente eloquente per l’intero movimento ecumenico, perché pone in luce l’esigenza imprescindibile di un autentico rinnovamento interiore in tutti i componenti del Popolo di Dio che il Signore solo può operare. A questo rinnovamento dobbiamo essere aperti anche noi, perché anche noi, dispersi tra i popoli del mondo, abbiamo imparato usanze molto lontane dalla Parola di Dio. "Siccome ogni rinnovamento della Chiesa – si legge nel Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II - consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione, questa è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità" (UR, 6), cioè la maggiore fedeltà alla vocazione di Dio. Il decreto sottolinea poi la dimensione interiore della conversione del cuore. "Ecumenismo vero – aggiunge - non c’è senza interiore conversione, perché il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall’abnegazione di se stesso e dal pieno esercizio della carità" (UR, 7). La "Settimana di preghiera per l’unità" diviene, in tal modo, per tutti noi stimolo a una conversione sincera e a un ascolto sempre più docile della Parola di Dio, a una fede sempre più profonda.
La "Settimana" è anche occasione propizia per ringraziare il Signore per quanto ha concesso di fare sinora "per accostare", gli uni agli altri, i cristiani divisi, e le stesse Chiese e Comunità ecclesiali. Questo spirito ha animato la Chiesa cattolica, la quale, nell’anno appena trascorso, ha proseguito, con salda convinzione e radicata speranza, a intrattenere relazioni fraterne e rispettose con tutte le Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente e di Occidente. Nella varietà delle situazioni, talvolta più positive e talora con maggiori difficoltà, si è sforzata di non venire mai meno all’impegno di compiere ogni sforzo tendente alla ricomposizione della piena unità. Le relazioni fra le Chiese e i dialoghi teologici hanno continuato a dare segni di convergenze spirituali incoraggianti. Io stesso ho avuto la gioia di incontrare, qui in Vaticano e nel corso dei miei viaggi apostolici, cristiani provenienti da ogni orizzonte. Ho accolto con viva gioia per tre volte il Patriarca Ecumenico Sua Santità Bartolomeo I ed, evento straordinario, lo abbiamo sentito prendere la parola, con fraterno calore ecclesiale e con convinta fiducia verso l’avvenire, durante la recente assemblea del Sinodo dei Vescovi. Ho avuto il piacere di ricevere i due Catholicoi della Chiesa Apostolica Armena: Sua Santità Karekin II di Etchmiazin e Sua Santità Aram I di Antelias. E infine ho condiviso il dolore del Patriarcato di Mosca per la dipartita dell’amato fratello in Cristo, il Patriarca Sua Santità Alessio II, e continuo a restare in comunione di preghiera con quei nostri fratelli che si preparano ad eleggere il nuovo Patriarca della loro veneranda e grande Chiesa ortodossa. Ugualmente mi è stato dato di incontrare rappresentanti delle varie Comunioni cristiane di Occidente, con i quali prosegue il confronto sull’importante testimonianza che i cristiani devono dare oggi in modo concorde, in un mondo sempre più diviso e posto di fronte a tante sfide di carattere culturale, sociale, economico ed etico. Di questo e di tanti altri incontri, dialoghi, e gesti di fraternità che il Signore ci ha concesso di poter realizzare, rendiamo insieme a Lui grazie con gioia.
Cari fratelli e sorelle, cogliamo l’opportunità che la "Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani" ci offre per chiedere al Signore che proseguano e, se possibile, si intensifichino l’impegno e il dialogo ecumenico. Nel contesto dell’Anno Paolino, che commemora il bimillenario della nascita di san Paolo, non possiamo non rifarci anche a quanto l’Apostolo Paolo ci ha lasciato scritto a proposito dell’unità della Chiesa. Ogni mercoledì vado dedicando la mia riflessione alle sue lettere e al suo prezioso insegnamento. Riprendo qui semplicemente quanto egli scrive rivolgendosi alla comunità di Efeso: "Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo" (Ef 4,4-5). Facciamo nostro l’anelito di san Paolo, che ha speso la sua vita interamente per l’unico Signore e per l’unità del suo mistico Corpo, la Chiesa, rendendo, con il martirio, una suprema testimonianza di fedeltà e di amore a Cristo.
Seguendo il suo esempio e contando sulla sua intercessione, ogni comunità cresca nell’impegno dell’unità, grazie alle varie iniziative spirituali e pastorali e alle assemblee di preghiera comune, che di solito si fanno più numerose e intense in questa "Settimana", facendoci già pregustare, in un certo modo, il giorno dell’unità piena. Preghiamo perchè tra le Chiese e le Comunità ecclesiali continui il dialogo della verità, indispensabile per dirimere le divergenze, e quello della carità che condiziona lo stesso dialogo teologico e aiuta a vivere insieme per una testimonianza comune. Il desiderio che ci abita in cuore è che si affretti il giorno della piena comunione, quando tutti i discepoli dell’unico nostro Signore potranno finalmente celebrare insieme l’Eucaristia, il sacrificio divino per la vita e la salvezza del mondo. Invochiamo la materna intercessione di Maria, perché aiuti tutti i cristiani a coltivare un più attento ascolto della Parola di Dio e una più intensa preghiera per l’unità.
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore Missionarie della Fede, qui convenute in occasione del loro Capitolo generale ed auguro che questo evento susciti nell’intero Istituto un rinnovato fervore nella totale consacrazione al Signore. Saluto i fedeli delle Parrocchie di Cisterna di Latina, e auspico che la visita alle tombe degli Apostoli rafforzi la loro fede per essere sempre pietre vive della Chiesa di Dio. Saluto inoltre, i rappresentanti dell’Ospedale dei Pellegrini, di Napoli e li esorto a proseguire nell’impegno di recare sollievo ai malati, testimoniando costantemente la cultura della vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Un pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Celebriamo oggi la memoria liturgica di sant’Agnese, vergine e martire, che nonostante la giovanissima età ha affrontato coraggiosamente la morte per amore del Signore e avendo in lei "gli stessi sentimenti di Cristo Gesù", l’Agnello immolato e vincitore. Cari giovani, cari malati e cari sposi novelli, per intercessione di sant’Agnese possiate anche voi vivere la vostra vocazione e le concrete condizioni in cui vi trovate come autentiche vie di santità.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Il Cardinale Poletto ai medici di Torino: fate obiezione su Eluana - “Andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo”
TORINO, giovedì, 22 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Il Cardinale Severino Poletto, Arcivescovo di Torino, è intervenuto sul caso di Eluana Englaro dopo che la Presidente della regione Piemonte, Mercedes Bresso, si è detta disposta ad accogliere in una struttura pubblica la donna in coma vegetativo da 17 anni.
In una intervista al quotidiano “La Repubblica” (22 gennaio 2009), il porporato ha affermato: “i medici cattolici che si trovassero a lavorare nell'ospedale dove si intende interrompere l'alimentazione di una persona, dovrebbero obiettare e rifiutarsi di farlo".
"Un cattolico rispetta le leggi e rispetta la sua coscienza – ha aggiunto –. Per questo esiste la possibilità di fare obiezione quando l'applicazione di una legge contrasta con i propri convincimenti profondi".
“Questo – ha poi sottolineato – vale per il medico chiamato a praticare un aborto ma anche per chi fosse costretto a staccare il sondino di Eluana o per il farmacista che si rifiuta di vendere una certa pillola”, ha proseguito.
Precisando poi che l’obiezione di coscienza non è una questione che riguarda solo i cattolici, il Cardinale Poletto ha affermato che "la legge di Dio non può mai essere contro l'uomo e che “andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo”.
“Dunque – ha spiegato –, se le due leggi entrano in contrasto è perché la legge dell'uomo non è una buona legge e si rivelerà tale dai suoi frutti".
A quella dell’Arcivescovo di Torino ha unito la propria voce anche l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi e da sempre in prima linea per il recupero di tossicodipendenti, handicappati, minori emarginati ed ex prostitute.
“Restiamo costernati e sgomenti per la disponibilità della Governatrice Bresso di voler far uccidere Eluana Englaro nella Regione Piemonte”, hanno detto in una nota, d’accordo con il Cardinale Poletto che “la sospensione dell’alimentazione e idratazione è vera eutanasia”.
“Lo Stato e le Regioni invece di sostenere economicamente gli ospedali per la morte farebbero bene ad aiutare le famiglie che assistono parenti in stato vegetativo o in gravi condizioni”, hanno quindi commentato.
“Un malsano e preoccupante accanimento si espande contro la vita di Eluana e dei tanti disabili gravi come lei, che vengono minacciati ed esposti alla morte proprio da chi, invece, dovrebbe difendere, proteggere e tutelare ogni cittadino specialmente quando diventa soggetto debole e bisognoso di cure”, ha denunciato l’Associazione.
Tuttavia, si osserva nella nota, “la grave disabilità di Eluana continua ad essere una componente umanizzante e attiva della nostra società. Eluana non chiede di morire ma di vivere come tutti coloro che nella sua simile condizione continuano ad essere amati e curati”.
L’Associazione ha poi detto di giudicare “inaccettabili” “le varie speculazioni a cui assistiamo forse per interessi e scopi che nulla hanno a che fare con la dignità della persona”.
“Coloro che pensano di sfruttare questo dramma per motivi politici, prove di forza o per mettersi al centro dell’attenzione, sappiano che gli italiani non sono insensibili né senza principi e sani valori”, hanno avvertito.
Infine, ha concluso l’Associazione, “se Eluana dovesse essere accolta per la morte in questa regione dove la nostra comunità opera da oltre trent’anni con decine di Case Famiglia e Famiglie aperte all’accoglienza di persone considerate in stato vegetativo, grideremo in modo non violento la nostra contrarietà e il diritto alla vita di Eluana, delle creature nelle sue condizioni e delle famiglie che lottano con loro”.
Il Vaticano imbavaglia il gesuita Roger Haight. Tutta colpa di Gesù - Gli si contesta di occultare la divinità di Cristo, per renderlo più presentabile al mondo. Nel cuore della disputa c'è la Compagnia di Gesù. E anche un suo autorevolissimo membro, il cardinale Carlo Maria Martini di Sandro Magister
ROMA, 22 gennaio 2009 – Roger Haight, 72 anni, teologo, appartiene alla Compagnia di Gesù. Ma il Gesù dei suoi scritti è troppo lontano da quello professato nel Credo, a giudizio delle autorità vaticane che vigilano sulla retta dottrina.
Già nel 2004, il 13 dicembre, la congregazione per la dottrina della fede presieduta all'epoca dal cardinale Joseph Ratzinger aveva emesso una notificazione di condanna delle tesi espresse da Haight nel suo libro di cinque anni prima "Jesus Symbol of God". E aveva concluso vietando al gesuita "l'insegnamento della teologia cattolica".
Haight abbandonò la cattedra presso la Weston School of Theology di Cambridge, Massachusetts, retta dai gesuiti. Ma non smise di insegnare teologia. Passò allo Union Theological Seminar di New York, un istituto non cattolico, fondato dai presbiteriani nel 1836, in cui insegnarono teologi protestanti di prima grandezza come Reinhold Niebuhr e Paul Tillich, oggi indipendente dal controllo di singole denominazioni cristiane.
E continuò a pubblicare libri di teologia che riproponevano le sue tesi di fondo. Due libri in particolare: "Christian Community in History", in tre volumi, e "The Future of Christology".
Ma ora le autorità vaticane sono di nuovo intervenute contro di lui. Gli hanno ingiunto di cessare di insegnare teologia ovunque, anche in istituti non cattolici, e di non pubblicare libri e saggi di soggetto teologico. Questo – come già nella precedente notificazione – "finché le sue posizioni non siano rettificate così da essere in piena conformità con la dottrina della Chiesa".
Il nuovo provvedimento risale alla scorsa estate, ma solo ai primi di gennaio del 2009 è divenuto di dominio pubblico. Haight non l'ha commentato.
L'esame delle posizioni di Haight, sia questa volta, sia prima della notifica del 2004, si è svolto secondo le procedure usuali. La congregazione vaticana per la dottrina della fede ha affidato il caso al preposito generale della Compagnia di Gesù e questi a sua volta ha attivato la provincia americana della Compagnia, alla quale l'inquisito appartiene. A Haight è stato chiesto di inviare chiarimenti e rettifiche sui punti indicati come erronei. E lui l'ha fatto. Senza però convincere i suoi giudici ad assolverlo. Nel 2002 vi fu anche un curioso contrattempo. La risposta di Haight, arrivata in Vaticano in ritardo sui tempi stabiliti, generò dubbi sulla sua autenticità: non parve sicuro che fosse stata scritta effettivamente da lui. Gliela rimandarono indietro esigendo che tornasse firmata in ogni sua pagina.
Le ragioni portate a sostegno della condanna di Haight non sono di poco conto. La notificazione del 2004 le elenca meticolosamente. A giudizio delle autorità vaticane Haight usa un metodo teologico che subordina i contenuti della fede alla loro accettabilità da parte della cultura postmoderna. E alle realtà oggettive definite dagli articoli del Credo sostituisce dei simboli.
Di conseguenza, si svuotano di sostanza verità capitali della fede cristiana come la preesistenza del Verbo, la divinità di Gesù, la Trinità, il valore salvifico della morte di Gesù, l'unicità e universalità della mediazione salvifica di Gesù e della Chiesa, la risurrezione di Gesù. Su ciascuno di questi punti la notificazione vaticana dice come e perché Haight contraddice la dottrina cattolica.
Haight si è sempre attenuto alle sanzioni ricevute, sia pure dilazionando un po' i tempi. Abbandonerà presto anche la cattedra allo Union Theological Seminary di New York. E sta preparando una nuova risposta scritta da inviare alla Santa Sede.
In Vaticano sono seriamente preoccupati per questo caso. Non lo ritengono affatto circoscritto agli ambienti accademici. Haight è un teologo di notevole capacità comunicativa, è apprezzato dalla cultura "liberal" ben presente nei media, e gode di diffusi sostegni dentro la Chiesa, in particolare nella Compagnia di Gesù.
Degli ultimi sette teologi inquisiti dalla congregazione per la dottrina della fede, quattro sono gesuiti. Oltre a Haight, gli altri sono stati Anthony De Mello, Jacques Dupuis e Jon Sobrino, quest'ultimo esponente di spicco della teologia della liberazione.
Non sorprende che un anno fa, mentre la Compagnia di Gesù era riunita per eleggere il suo nuovo preposito generale, le autorità vaticane richiamassero i suoi teologi ed esegeti a una maggiore fedeltà dottrinale e a un più effettivo "sentire cum Ecclesia".
Naturalmente, non tutti i teologi gesuiti sono sotto sospetto. Ve ne sono di di riconosciuta grandezza e di indubitabile ortodossia. Uno di questi era il cardinale Avery Dulles. Per convincere Haight a correggere le sue posizioni la provincia americana della Compagnia di Gesù chiese aiuto anche a lui, nonostante la sua età avanzata e la salute precaria. Il cardinale Dulles è morto a New York lo scorso 12 dicembre.
Ma è indubbio che la teologia di Haight trovi dentro la Compagnia di Gesù un ambiente complessivamente ospitale. Egli abita a New York nella casa dei gesuiti che pubblicano "America", rivista di punta del cattolicesimo progressista. Nel marzo del 2008, quando già era interdetto dall'insegnamento ed erano in arrivo su di lui le nuove sanzioni, ha pubblicato su "America" un ampia ricognizione della teologia cattolica di fine Novecento, con i maggiori teologi classificati in sette correnti efficacemente descritte e valutate. Il tutto per mostrare che il futuro della teologia cattolica si gioca sulla sua capacità di ripresentare gli articoli del Credo in una forma comprensibile per la cultura dominante nell'Occidente.
Un'altra rivista cattolica americana schierata a sostegno di Haight è "Commonweal". Nel gennaio del 2007 ha pubblicato un'appassionata apologia del suo pensiero dal titolo: "Not So Heterodox. In Defense of Roger Haight". Ne era autore un teologo molto quotato, Paul Lakeland, docente alla Fairfield University, Connecticut, una delle 28 università gestite dai gesuiti negli Stati Uniti, e primo titolare della cattedra di studi cattolici intitolata in questa università al teologo gesuita Aloysius P. Kelley.
Altri teologi americani hanno invece espresso severe critiche nei confronti di Haight, che per alcuni anni fu anche presidente della Catholic Theological Society of America. Tra i critici si ricordano William Loewe, della Catholic University of America di Washington, D. C., e John Cavadini, della Notre Dame University di South Bend, Indiana, consulente della commissione dottrinale della conferenza dei vescovi degli Stati Uniti.
Un altro critico delle posizioni di Haight è anche lui gesuita e anche lui insegna in una università della Compagnia di Gesù, la più importante del mondo. È Gerald O'Collins, professore di teologia sistematica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, specialista in cristologia.
Di O'Collins si ricorda questa battuta, dopo la notizia della prima condanna di Haight: "Per il Gesù di Roger Haight non darei mai la vita. È un trionfo del conformismo sull'ortodossia".
Insomma, Haight tanto più preoccupa i vertici della Chiesa in quanto esprime la diffusa tendenza a sottomettere la figura di Gesù ai canoni di comprensione della cultura secolare, esaltandolo come uomo insigne e operatore di giustizia, ma offuscando la sua divinità.
Un'efficace espressione di questa tendenza – meno teologica, più discorsiva – è vista nell'ultimo libro di un altro gesuita famoso, il cardinale Carlo Maria Martini: "Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede".
È un Gesù, quello tratteggiato dal cardinale Martini, di sicuro successo, stando alle vendite di questo suo libro. In ogni caso lontanissimo dal Gesù vero Dio e vero uomo del libro "Gesù di Nazaret" di Benedetto XVI.
Ancora una volta, è Gesù salvatore il grande segno di contraddizione su cui la fede cattolica sta o cade. Ed è singolare che nel cuore di questa disputa ci sia proprio la Compagnia di Gesù.
Chi sono gli ebrei del Novecento? - Mille volti, una sola identità - Giovedì 22 gennaio va in libreria Diaspora. Storia degli ebrei del Novecento di Anna Foa (Roma-Bari, Laterza, 2009, pagine 304, euro 19). Pubblichiamo in anteprima un estratto dell'introduzione. - di Anna Foa – L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2009
Ricordate la bambina dal cappotto rosso di Schindler's List? L'unico colore nel bianco e nero del film, un colore che serve a individuarla nel mucchio dei cadaveri, dopo il massacro, ma anche trasformarla nel simbolo stesso della Shoah. Eppure, contrariamente a quanto a volte si dice, quest'immagine di morte non è l'unica a rappresentare gli ebrei del Novecento. C'è anche quella dell'intellettuale, dello scienziato. C'è Freud che reinterpreta il mondo della mente, c'è Einstein che scopre nuove leggi all'universo, c'è Schoenberg che scompone la musica, ci sono scrittori, artisti, poeti che sono rimasti a segnare indelebilmente della loro creatività e vitalità la cultura del Novecento. E ancora altre immagini: quella dell'ebreo sionista, che è capace di far fiorire la terra di Israele, oltre che di vincerne le guerre. E quella del rivoluzionario, che getta alle ortiche la tradizione e cambia il mondo con la violenza. Pensiamo a Trotskij, che crea l'Armata Rossa, reprime gli operai di Kronstadt e muore assassinato in esilio, divenuto l'"eretico" di tutte le rivoluzioni. Tutte immagini forti, dotate di grande capacità di suggestione: gli ebrei del Novecento. O, citando da un libro recente di Yuri Slezkine, il Novecento come secolo degli ebrei. Ma chi sono gli ebrei del Novecento? Non si può infatti negare che essi siano una realtà estremamente molteplice, come complessa e variegata è l'immagine che hanno lasciato di sé. Un'immagine prevalentemente simbolica, caricata di tutta la forza del simbolo. In un mio libro pubblicato anni fa, a cui questo vuole riallacciarsi, ho raccontato la storia degli ebrei europei fino all'Ottocento, descrivendo la storia delle comunità della diaspora medioevale e della prima età moderna, sottolineandone le forti persistenze. A partire dal Novecento, o meglio dagli ultimi decenni dell'Ottocento, però, queste continuità sembrano interrompersi o addirittura spezzarsi.
Vista in prospettiva nel lungo periodo della diaspora, la storia degli ebrei nel Novecento sembra ancora più nuova e inaudita, quasi uscisse alla luce tutta compiuta, come Minerva armata dalla testa di Giove. E non si può fare a meno di interrogarsi sulle ragioni di questa frattura e della nuova forza simbolica espressa dagli ebrei a partire dalla fine dell'Ottocento. Ciò che cambia, in realtà, non è la valenza simbolica in sé, che ha sempre gravato sugli ebrei dalla nascita del cristianesimo in poi, ma il fatto che essa sia ora divenuta un'espressione autonoma del mondo ebraico, una forma di autorappresentazione in positivo, mentre nei secoli precedenti si trattava di una valenza attribuita agli ebrei dall'esterno, in quanto popolo testimone, in quanto increduli e deicidi, e soprattutto in quanto simbolo dell'alterità.
Una forza simbolica, quella degli ebrei del Novecento, che non è data quindi solo dallo sterminio o dalla persecuzione, ma che nasce da altro. Dall'essere stato il mondo ebraico del Novecento capace di straordinaria creatività e attività, e insieme oggetto del più radicale degli annullamenti. Dall'essere stato volontà di cambiare il mondo e al tempo stesso capacità di immaginarsi e raccontarsi nell'atto di cambiarlo. E ancora, dall'essere stato un intreccio tra la volontà d'essere uguali agli altri, ovvero di integrarsi totalmente nel mondo, e una durevole percezione di sé come di un'identità sul confine. L'unione della più totale assimilazione e della più totale marginalità, dell'integrazione e della distruzione. Un intreccio inestricabile di simbolo e realtà, di immagine e azione, di memoria e storia. L'essenza stessa, insomma, della modernità.
Ancora, qual è il rapporto tra simbolo e realtà? Si tratta di un'immagine, questa dell'ebreo del Novecento, creata dalla memoria, dalla rappresentazione, o se vogliamo dall'autorappresentazione, che si alimenta di se stessa e non è, in fondo, che una creazione mitica? Oppure dentro quel mito c'è uno spessore di realtà che lo nutre e sostanzia, che ne rappresenta l'ineliminabile vitalità? E qual è il rapporto tra la modernità del Novecento e il passato delle comunità? È un rapporto di derivazione e di continuità, oppure il legame consiste proprio nella frattura, cioè nella capacità degli ebrei di trasformarsi?
E quanto c'è, in questa storia, di unico e irripetibile? E quanto ci riporta invece alla singolarità di questo terribile secolo? E quella che viene descritta come l'unicità della Shoah non deriva forse in gran parte dall'essere stata la distruzione di un popolo in grado di raccontarsi, di elaborarsi, di descriversi nell'atto di subire l'indescrivibile? E nella realtà di oggi, che cosa resta di questa storia, quanto ne è stato distrutto irrimediabilmente dalla violenza, quanto ne è stato logorato poco a poco dal volger della storia? Domande, solo domande e ancora domande. Eppure, erano dentro la mia mente quando ho cominciato a raccontare questa storia, a costruire rilevanze, a scegliere nel mare degli eventi i momenti più significativi, o forse solo quelli che più mi è piaciuto narrare. Questo Novecento che racconto comincia in realtà dal 1880 circa, e finisce con gli anni Settanta. Si apre con l'emigrazione in America e si chiude con la perdita d'importanza dell'Europa e della sua diaspora, e con l'affermarsi sempre più forte del mondo ebraico americano e di quello d'Israele. Due momenti che mi sembrano fortemente periodizzanti, significativi di cambiamenti che non riguardano solo una parte del mondo ebraico, ma gli ebrei tutti. Il primo momento, quello che inizia con l'emigrazione degli ebrei russi, è insieme l'invenzione da parte degli ebrei dell'Est Europa di nuovi percorsi identitari di fronte al rifiuto dell'emancipazione, l'integrazione di quelli d'Occidente, e l'invenzione di un nuovo modello di società ebraica al di là dei mari.
E gli anni Settanta, a noi vicini eppure tanto lontani, sono un momento di trasformazione che tocca insieme lo Stato di Israele e le diaspore, l'ultimo cambiamento globale: il cambiamento politico della società israeliana e quello delle diaspore, vicine a Israele come non mai prima, e quello degli ebrei tutti sia in sé che nei loro rapporti con la società esterna, dopo che l'elaborazione della memoria della Shoah si è ovunque compiuta.
Il titolo, Diaspora, riferito a un momento che è quello del nascere dello Stato di Israele e del crescente rilievo del mondo ebraico americano, richiede una spiegazione. Si è voluto sotto-lineare con forza le radici diasporiche dell'esperienza statale degli ebrei e delle metamorfosi del mondo ebraico del Novecento; ricondurre a quel crogiolo creativo che fu l'ebraismo orientale sia la grande esperienza americana che quella di Israele; cogliere le radici perdute dell'autunno della diaspora.
Come sempre in sintesi di questo genere, molto è rimasto fuori dal quadro, forse arbitrariamente. Non c'è nulla, ad esempio, sull'emigrazione ebraica in America Latina, nulla o quasi sugli ebrei dei Paesi arabi. L'allargamento geografico dall'Europa al mondo è in realtà un allargamento che tiene sempre in considerazione il punto di partenza, l'Europa, e che anche così compie inevitabili tagli nella sua storia. Inevitabili non a causa del numero delle pagine, ma per la storia stessa, che se si estende in troppe direzioni perde la sua centralità, la sua anima possiamo dire. Ho scritto cercando di preservare questa anima, anche se forse era un progetto troppo ambizioso. Così in questo libro molte sono le cose che non troverete, forse più di quelle che troverete.
Pensate queste assenze come il frutto della mia soggettività di storica, che metto qui a nudo senza i soliti infingimenti di oggettività. Pensate assenze e presenze, e squilibri tra le parti, come un tentativo di interpretazione. Una scelta soggettiva di chi scrive.
(©L'Osservatore Romano - 22 gennaio 2009)
Attaccate scuole private, chiese e abitazioni - In Pakistan ancora violenze contro i cristiani – L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2009
Islamabad, 21. Non soltanto in India ma anche nel confinante Pakistan la persecuzione dei cristiani appare costante: attacchi a scuole, chiese e abitazioni della comunità si susseguono da anni in diverse aree del Paese asiatico. Oltre 170 scuole assaltate o distrutte in due anni; più di 400 fra istituti e collegi femminili costretti a chiudere per minacce e intimidazioni: è il bilancio del clima di terrore che stanno vivendo gli abitanti nel distretto di Swat, all'interno della provincia di frontiera di nordovest. Si tratta di un territorio dove di fatto governano le bande dei talebani, che hanno preso di mira in particolare gli istituti di educazione femminili. Le scuole private gestite da gruppi e istituzioni cristiane o da altre associazioni ed enti indipendenti hanno infatti deciso la chiusura per non correre rischi, in seguito alla diffusione di un editto, lanciato da una radio locale, che minacciava attentati e ritorsioni alle strutture ancora in funzione dopo il 15 gennaio. Il distretto è divenuto nel passato un campo di battaglia fra l'esercito pakistano e gli integralisti che, dopo il ritiro dei militari, hanno occupato la zona.
Presidi, educatori e genitori delle scuole private hanno concordemente deciso, vista la situazione, la chiusura a tempo indeterminato delle strutture che si potranno riaprire, sottolineano, soltanto quando l'editto verrà revocato.
Si calcola che sono oltre 125.000 le studentesse penalizzate dalla situazione e private del diritto all'istruzione. Tra l'altro, una scuola gestita dalle suore carmelitane apostoliche srilankesi, che contava circa mille studentesse è stata anche distrutta dal lancio di rudimentali bombe.
Altre violenze sono avvenute nella provincia del Punjab: un non precisato numero di musulmani, ieri, hanno assaltato la chiesa e quattro abitazioni di cristiani nel villaggio di Kot Lakha Singh, compiendo anche atti di tortura. All'origine dell'attacco ci sarebbe la disputa sulla proprietà di un terreno.
Il fatto è stato reso noto, secondo quanto riporta l'agenzia AsiaNews, dalla Commissione nazionale per la giustizia e la pace del Pakistan.
Ad essere stata assaltata per prima è stata l'abitazione di un cattolico, William Masih: gli assalitori hanno torturato i presenti, incluse donne e bambini, e successivamente hanno rubato soldi e oggetti d'oro. I musulmani hanno quindi colpito le dimore di altre tre famiglie cristiane del villaggio e, infine, hanno fatto irruzione nella chiesa che accoglie cattolici e protestanti, danneggiando gli arredi e strappando i testi sacri.
Le violenze sono state denunciate alla polizia che, tuttavia, non ha ancora individuato e arrestato alcun colpevole.
(©L'Osservatore Romano - 22 gennaio 2009)
ELUANA/ Bresso non ha voce in capitolo e sbaglia a parlare di un “ricatto” di Sacconi - INT. Aristide Police - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Piena disponibilità ad accogliere Eluana Englaro in Piemonte, ma solo in una struttura sanitaria pubblica, perché le «strutture private convenzionate sono sotto scacco del ministro Sacconi»: con queste parole assai poco concilianti Mercedes Bresso è entrata nel dibattito, già molto acceso, sul caso Englaro. E la risposta del ministro Sacconi non si è fatta attendere: «Non metto sotto scacco nessuno, ho fatto solo una ricognizione delle leggi da applicare».
Si profila dunque un nuovo conflitto, questa volta tra Regione Piemonte e ministero della Salute? Secondo Aristide Police, ordinario di Diritto amministrativo all’Univeristà di Roma Tor Vergata, questo non può accadere: la decisione di accogliere o meno Eluana Englaro in una struttura sanitaria non è di competenza del presidente di una Regione.
Professore, Mercedes Bresso non ha dunque voce in capitolo?
Per capire questo dobbiamo innanzitutto partire da una distinzione fondamentale tra competenze di tipo politico e competenze di tipo amministrativo. La vicenda di cui qui ci si occupa non è evidentemente di carattere politico, bensì amministrativo, e nemmeno di particolare rilevanza: si tratta del ricovero o meno di un utente del servizio sanitario nazionale presso una struttura.
E di chi è la competenza?
Certamente non compete al vertice politico e amministrativo della Regione, ma alla singola struttura sanitaria che dovesse ritenere di accogliere o meno Eluana Englaro per effettuare la prestazione in questione (sul fatto poi se sia lecita o meno non voglio intervenire). Del resto se si trattasse di un caso meno problematico dal punto di vista emotivo la cosa risulterebbe assolutamente evidente: la governatrice Bresso potrebbe forse far pressioni sulle aziende per far ricoverare il signor Tizio o Caio? Evidentemente no: questa scelta, come tutti sanno, viene presa dalla singola azienda sanitaria, nell’ambito delle rispettive competenze.
Dunque, se la competenza non è del vertice politico regionale, a maggior ragione non lo sarà del ministro: perché allora è stato emanato l’atto di indirizzo tanto discusso?
L’atto è un’altra cosa: il ministro ha dato un indirizzo politico generale sul modo di esercizio della attività sanitaria nell’ambito pubblico e privato convenzionato. Il ministro ha cioè esercitato un potere di indirizzo politico, a lui evidentemente consentito, essendo egli il vertice della struttura burocratica del ministero della Salute. L’atto del ministro, d’altronde, non è specificamente rivolto alla vicenda Englaro, ma ha un valore generale. La differenza dunque è sostanziale: da un lato abbiamo un ministro che dà un indirizzo a tutte le strutture del Paese, garantendo così il principio di uguaglianza nel modo di erogazione delle prestazioni sanitarie; dall’altro lato abbiamo invece un organo politico regionale che effettua un atto di ingerenza su specifiche e autonome scelte delle singole strutture sanitarie. Il politico ingerisce (questo può accadere con atti formali ma anche con dichiarazioni a mezzo stampa) su un indipendente organo amministrativo della struttura sanitaria affinché venga resa una prestazione. È come se il signor Caio venisse raccomandato dal governatore ad ottenere una prestazione sanitaria perché gli è simpatico, o perché la prestazione è politicamente conforme alle idee del governatore.
Cosa ne pensa invece dell’affermazione, sempre del governatore Bresso, in merito a un presunto ricatto operato dal ministro nei confronti delle strutture convenzionate?
È un’affermazione che rientra nella dialettica politica. Le strutture convenzionate hanno piena libertà di azione; ma è ovvio che essendo convenzionate ottengono determinati benefici e quindi si assumono anche determinati obblighi. Il ministro pone linee di indirizzo politiche generali in assenza di una norma legislativa: è pienamente legittimato a farlo, e a farlo nel modo che più ritiene opportuno. Non dimentichiamo che è un ministro di un governo che gode di una maggioranza politica e quindi di una fiducia. Se poi l’indirizzo politico è di segno diverso rispetto a quello del governatore, questo non implica che tale indirizzo sia un ricatto. L’atto poi – ripeto – è di indirizzo generale, e non specificamente rivolto al caso Englaro: è l’esercizio di una facoltà, e direi anche di un obbligo ministeriale. E come tale non può certo essere configurato come azione di ricatto.
Eppure sembra che la clinica di Udine si sia tirata indietro proprio per paura di perdere la convenzione, e che quindi si sia sentita ricattata.
Se una clinica si sente ricattata, e ritiene che la propria non condivisione dell’atto ministeriale abbia una rilevanza giuridica, ha la piena possibilità di contestare tale atto nelle opportune sedi giurisdizionali. Invece non mi pare che nessuna clinica, desiderosa di effettuare questa prestazione, abbia impugnato l’atto davanti a un qualche Tar della Repubblica. Se una clinica si sentisse ricattata non dovrebbe fare che questo: impugnare un atto non ritenuto conforme alla legge e liberarsi così dal ricatto. Se la clinica di Udine non l’ha fatto è perché sapeva di non poterlo fare.
Mentre si susseguono queste vicende, rimane il fatto che la sentenza non ha effetto: questo non è un problema?
No, perché la sentenza non prescrive ad alcuno l’effettuazione della prestazione. La sentenza, in altre parole, non ha come parte alcuna struttura sanitaria pubblica o privata, e non impone l’obbligo di effettuare alcunché. Si esprime semplicemente in termini di liceità o illiceità della prestazione. Nient’altro.
DIALOGO/ Mahmoud: l’islam moderato? C’è ma non fa notizia… - Redazione - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
«La mia è una religione aperta e non chiusa. Riconosco purtroppo che non per tutti i musulmani è così». Lo dice Asfa Mahmoud, presidente della Casa della cultura islamica di Milano. Sono stati Vittorio Emanuele Parsi e Souad Sbai, su questo giornale, a lanciare un segnale d’allarme: guai se gruppi musulmani estremisti riescono a sfruttare episodi come quello della crisi di Gaza per confondere fede e politica ed egemonizzare l’islam italiano.
Dopo le polemiche suscitate dai fatti di Milano e Bologna il presidente della Camera Gianfranco Fini è intervenuto dicendo che gli imam dovrebbero predicare in italiano. E ha fatto discutere. Lei che ne pensa?
Nella Casa della cultura islamica di Milano, fina dalla sua fondazione nel 1993, abbiamo tenuto il sermone della preghiera del venerdì in italiano. L’intervento del presidente Fini non ci ha colto di sorpresa. Siamo una realtà che punta ad una piena integrazione.
Come mai le realtà più integrate faticano ad affermarsi?
Perché la gente normale, che desidera essere integrata in questa società, non fa notizia. La nostra associazione, fin dalla sua fondazione, ha promosso moltissime iniziative che vanno nel senso dell’integrazione dei fedeli musulmani nella società italiana. Con la Chiesa cattolica, dal 1996, abbiamo creato il Forum delle religioni a Milano: è cominciato un dialogo, che due anni fa è approdato allo Statuto del Forum delle religioni a Milano, con la partecipazione di tutte le principali confessioni religiose, cristiani, ebrei, buddisti e musulmani.
Ha fatto polemica il fatto che, a Milano e Bologna, ad una manifestazione politica sia seguita una preghiera, un atto religioso pubblico, in un luogo simbolo del cattolicesimo. Che ne pensa? C’è stata l’egemonia politica da parte di certi gruppi più radicali?
Sono d’accordo che una manifestazione di solidarietà con un popolo non vada mischiata con la questione religiosa. Credo anche che gli organizzatori della manifestazione non avessero in programma la preghiera. Non era previsto l’afflusso di una decina di migliaia di persone, e quando si è capito che Piazza San Babila non sarebbe bastata a contenere tutti quelli che provenivano da Porta Venezia, la polizia ha dato agli organizzatori il permesso di andare verso Piazza Duomo. Quando i partecipanti sono arrivati in piazza, verso le 17, era l’ora della quarta preghiera del giorno. La gente si è messa a pregare spontaneamente.
A Bologna, però, è accaduta la stessa cosa. Difficile pensare che mancasse un coordinamento e che per questo gli organizzatori non avessero in mente di dare alla preghiera una valenza politica che, forse, non aveva per tutti partecipanti.
Le manifestazioni sono state fatte nello stesso tempo e alle cinque meno dieci ogni musulmano fa la preghiera del giorno. Ripeto che secondo me lo scopo era innanzitutto portare solidarietà alla popolazione di Gaza.
Cosa pensa allora di quello che è accaduto durante la manifestazione? Sono state date alle fiamme bandiere di Israele…
Come responsabile della Casa della Cultura islamica, ho già avuto modo di esprimere la mia posizione condannando il gesto. Lo abbiamo già dichiarato alla stampa. Quando è scoppiata la polemica, ho fatto una riunione con gli altri centri, con gli organizzatori e con la persona che ha guidato la preghiera, per chiarire la nostra posizione. È stata organizzata una delegazione, che si è recata da monsignor Bottoni per chiarire la vicenda, e abbiamo fatto un comunicato, che anche la Chiesa ha accettato, in cui si dice che se qualcuno si è sentito offeso la comunità musulmana chiede scusa.
Esiste l’impressione, anche in conseguenza di questi fatti recenti, che un islam moderato faccia fatica ad affermarsi e che addirittura possa esistere come tale. Qual è la sua opinione?
Spetta agli italiani valutare ogni associazione. Noi siamo aperti al pubblico, facciamo corsi di lingue, italiano e arabo, organizziamo iniziative, corsi di orientamento per gli immigrati, dicendo come ci si comporta in questo paese, insomma tutto è trasparente. Altri gruppi non lo fanno. Dispiace che dall’esterno ci considerino uguali.
Se è così, lei stesso mi conferma che nel mondo islamico, anche a Milano, non tutti gli interlocutori sono uguali….
Io capisco semplicemente che la mia fede è questa, che la mia è una religione aperta e non chiusa. Riconosco purtroppo che non per tutti i musulmani è così.
Secondo lei allora c’è un problema dell’amministrazione nell’individuare gli interlocutori giusti?
Noi ci siamo rivolti al Comune più volte per risolvere il problema della preghiera: non volendo pregare occupando i marciapiedi all’esterno, abbiamo preso in affitto due palestre. Per non creare disagio ai cittadini del quartiere, facciamo i turni. Con queste nostre iniziative vorremmo dimostrare che siamo affidabili, ma nello stesso tempo è grande la fatica nel trovare attenzione e riconoscimento nelle istituzioni. E le soluzioni che siamo riusciti a trovare, finora, sono solo temporanee.
Esiste un problema di reciproca organizzazione e riconoscimento tra le diverse comunità islamiche?
Noi ci sentiamo e vogliamo essere parte integrante della società in cui ci troviamo e di cui ormai facciamo parte; conservando naturalmente la nostra identità religiosa. L’integrazione a mio avviso è questo.
Che cosa chiedete alle autorità politiche?
Vorremmo la creazione di una Consulta, formata da comune, provincia, regione e prefettura, e con responsabili nostri, per mettere i problemi sul tavolo e trovare soluzioni condivise. Più passa il tempo, invece, più diviene difficile risolverli, come è stato per Viale Jenner. Noi però lamentiamo il fatto che il Comune di Milano, fino ad ora, non abbia aperto un confronto, legittimando la posizione degli interlocutori più moderati.
CHIESA/ Olivier Clément: sorpreso dalla gioia nel secolo del nichilismo - Adriano Dell'Asta - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Una cosa colpiva sempre quando si leggeva un libro o un articolo di Olivier Clément, il grande teologo ortodosso deceduto la sera del 15 gennaio scorso a 87 anni: il suo stupore davanti a quello che lui chiamava il miracolo dell’essere; tutto per lui era miracolo, degno di essere ammirato nella sua bellezza e interrogato sulla sua origine e sul suo significato; non c’era più il nulla, non c’era più la solitudine, solo il miracolo e, soprattutto, il miracolo degli incontri, con le cose e le persone e con il loro creatore.
Lui stesso era arrivato alla fede, da adulto (dopo essere stato quasi schiacciato dal nichilismo moderno) grazie a una serie di incontri, innanzitutto l’incontro con due filosofi religiosi russi esuli a Parigi dopo il colpo di Stato dell’ottobre del 1917: Nikolaj Berdjaev e Vladimir Losskij. Da loro aveva imparato alcune cose essenziali del cristianesimo: innanzitutto che l’uomo e la sua ragione non dovevano difendersi da Cristo ma che anzi solo in Lui potevano trovare la loro pienezza e la loro verità; e poi che questa pienezza e questa verità erano quelle della libertà. L’uomo, la persona umana è irriducibile, libera, non determinata ultimamente da nessuna circostanza, perché è rapporto con l’infinito; e questa irriducibilità, questa libertà non sono appunto uno spazio vuoto ma un rapporto reale, concreto. Cristo non era per Clément un principio, un valore, un modello da seguire, una legge da rispettare, ma una persona, la Persona: «Il cristianesimo è la religione dei volti e delle persone, perché “in Cristo Dio diventa persona e l’uomo stesso diventa persona”».
Essenzialmente vita, e più precisamente vita in Cristo, questo cristianesimo non aveva traccia di spiritualismo: quello che aveva attratto un giovane pagano mediterraneo (così si era definito Clément) era stato proprio un cristianesimo come forza di trasfigurazione di tutto il creato; non c’era più nulla che restasse estraneo alla salvezza e alla luce offerte da Cristo: a salire in Croce era stato un uomo nella sua pienezza e questo uomo si era rivelato Dio, il Signore, più forte della morte.
Quando aveva ritrovato la fede, alla fine degli anni Quaranta, Clément usciva dalla guerra, dall’esperienza di una morte che, dopo l’Olocausto e con la minaccia nucleare, rischiava di diventare planetaria e che comunque di lì a poco avrebbe trionfato nelle menti e nei cuori nella forma del nichilismo; diventando cristiano, dimostrando che si poteva essere cristiani nel XX secolo, Clément fu innanzitutto testimone di questa vittoria di Cristo sulla morte, testimone del Risorto. Il non senso, il male, il dolore, la morte non erano tolti, in un irrealistico lieto fine, ma vinti, resi impotenti; quando alla fine delle sue conferenze veniva sottoposto a un vero fuoco di fila di domande, non ce n’era mai una alla quale si sottraesse, ma non c’era mai una risposta che chiudesse il discorso: la risposta era che la vita ricominciava ogni volta, che in Cristo ogni volta l’uomo rinasceva alla libertà. In fondo era quello che aveva detto di sé e del proprio incontro con Cristo: «mi ha detto che esistevo, che voleva che io esistessi, e dunque che non ero nulla. Mi ha detto che non ero tutto, ma responsabile. Che il male era quello che facevo. Ma che, ancora più profondo, lui c’era. Mi ha detto che avevo bisogno di essere perdonato, guarito e ricreato. E che in lui ero perdonato, guarito e ricreato».
Capace di rispondere al mondo contemporaneo e alla sua domanda di vita e di senso proprio perché definito da questa sensibilità al Risorto, il cristianesimo di Clément aveva un’altra caratteristica essenziale: il suo essere radicato nella Chiesa, perché, senza Chiesa, Cristo rischia ogni volta di «restare un’astrazione» e di essere ridotto alla soggettività delle nostre idee o dei nostri buoni sentimenti. Per Clément, ortodosso in un paese tradizionalmente cattolico, questo aveva voluto dire vivere il proprio incontro con Cristo come una testimonianza di unità: non l’unità come conquista o come negazione della diversità e delle differenze, ma l’unità come mai conclusa conversione personale a Cristo, fonte dell’unità, Persona nella quale tutte le differenze diventano motivo di ricchezza, da quella dell’umano e del divino, uniti senza confusione e senza separazione a quella delle singole persone, unite nella comune figliolanza. Grande testimone dell’ecumenismo, Clément era stato tale soprattutto perché aveva vissuto la tensione all’unità come aspirazione alla propria conversione all’Unico.
I MALATI DI SLA CHIEDONO AIUTO PER UNA VITA DIGNITOSA - Ma i giornalisti si agitano solo quando c’è da togliere il sondino - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 22 gennaio 2009
E ra una lunga tavolata, quella allestita lo scorso fine settimana a Salò, sulle rive del Garda, ma non c’erano piatti né bicchieri: « Noi non mangiamo», aveva sorriso uno dei commensali al giornalista rimasto interdetto. « Noi abbiamo il sondino. È così da mesi, a volte anni». Era da poco finito il primo raduno nazionale dei malati di Sla e a quel tavolo iniziava la loro festa, ma i giornalisti, gli invitati d’onore, gli unici per cui una tavola era imbandita e profumava di risotto ai funghi, erano davvero pochi. In quella sala avveniva qualcosa di importante, addirittura vitale, ma le grandi testate erano altrove.
« Siamo qui per gridare il nostro diritto a vivere», dicevano i malati di Sla, sclerosi laterale amiotrofica, nota come il morbo dei calciatori, una malattia che non perdona e in pochi anni immobilizza ogni muscolo del corpo fino a negare la capacità di deglutire e di articolare la parola. Quando a essere compromessi sono infine i muscoli respiratori, sopraggiunge la morte. « Siamo in cinquemila e vogliamo vivere, aiutateci a farlo con dignità » , ribadivano, ma il loro appello, forse oggigiorno troppo scomodo, è caduto nel silenzio mediatico. Seduti sulle sedie a rotelle, il collo sorretto dai sostegni, gridavano il loro no all’eutanasia ( non un lancio di agenzia), ricordavano che non è quella la soluzione, sostenevano che la vita va vissuta fino all’ultimo respiro, e che è bello farlo, se solo qualcuno ti sta accanto. Si ribellavano a chi, in nome della 'pietas', offre invece la morte. «Noi siamo vivi, volevamo ricordarvi questo», annunciavano alla stampa ( che non c’era), e in tempi di sentenze che giudicano vite ' degne' e vite ' meno degne' non è così scontato. Così come non suona esagerato il loro appello a non lasciarli morire: in alcune zone d’Italia le Asl non passano la sacca dell’alimentazione e dell’idratazione, troppo costosa, fanno sapere. Non solo: la Sla, « la grande bastarda » come la chiamano loro, è una nera saracinesca che pian piano ti chiude fuori dalla vita ma fino all’ultimo ti tiene sul bordo, non sei morto ma non comunichi più col mondo esterno... Un vegetale, si direbbe di questi tempi, decidendo per ' pietas' che è meglio reciderlo. Peccato che, dentro, la vita pulsi come prima, il pensiero corra lucido, la personalità e la memoria non si perdano: sono persone che amano, sentono, desiderano. Il controllo dei muscoli oculari è l’ultima funzione che resta, per questo se la Asl passa loro il ' Comunicatore' possono tornare a esprimersi con una voce vera, emessa dal sintetizzatore vocale ma attivata dal semplice movimento degli occhi. Un miracolo, « il ritorno a una vita dignitosa » , hanno provato a spiegare i malati di Sla, «il confine tra il voler continuare a vivere e il voler morire». Ma molti non l’hanno: troppo costoso. Ecco allora il pianto improvviso di una ragazza che lo attende da un anno, e lo sfogo di Mario Melazzini, il volto noto della Sla, il medico diventato paziente: « Perché per un solo italiano che vuole staccare il sondino si muovono tutti, per migliaia che lo chiedono non si muove nessuno? Si parla solo di diritto alla morte, ma prima non c’è il diritto alla vita?». Dov’erano i giornalisti? Dove i politici schierati per la morte di Eluana Englaro? Dove i cosiddetti garantisti? «È una bella gara di solidarietà » , ha commentato il neurologo Defanti, non riferendosi a chi da anni si prende cura di Eluana ma ai personaggi ( l’ultima la governatrice del Piemonte) che ora qua ora là danno la loro « disponibilità » ad « accogliere » Eluana, cioè a farla morire.
E i quindici medici della famosa équipe pronta ad accorrere gratuitamente a Udine per staccare un sondino, dove sono? Per ora sono disoccupati, perché allora non investire questa loro passione per i ' diritti' umani accanto a qualcuno di questi malati? Mettere il sondino è più dura che toglierlo, non richiede quindici giorni bensì anni di gratuità: a Salò lo gridavano in tanti, ma i giornalisti erano altrove, forse a Lecco, a registrare puntuali lo sparuto corteo radicale per la morte di Eluana.
1) Benedetto XVI: l’unità dei cristiani riguarda la Chiesa nel mondo - Catechesi all’udienza generale del mercoledì
2) Il Cardinale Poletto ai medici di Torino: fate obiezione su Eluana - “Andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo”
3) Il Vaticano imbavaglia il gesuita Roger Haight. Tutta colpa di Gesù - Gli si contesta di occultare la divinità di Cristo, per renderlo più presentabile al mondo. Nel cuore della disputa c'è la Compagnia di Gesù. E anche un suo autorevolissimo membro, il cardinale Carlo Maria Martini di Sandro Magister
4) Chi sono gli ebrei del Novecento? - Mille volti, una sola identità - Giovedì 22 gennaio va in libreria Diaspora. Storia degli ebrei del Novecento di Anna Foa (Roma-Bari, Laterza, 2009, pagine 304, euro 19). Pubblichiamo in anteprima un estratto dell'introduzione. - di Anna Foa – L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2009
5) Attaccate scuole private, chiese e abitazioni - In Pakistan ancora violenze contro i cristiani – L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2009
6) ELUANA/ Bresso non ha voce in capitolo e sbaglia a parlare di un “ricatto” di Sacconi - INT. Aristide Police - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
7) DIALOGO/ Mahmoud: l’islam moderato? C’è ma non fa notizia… - Redazione - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
8) CHIESA/ Olivier Clément: sorpreso dalla gioia nel secolo del nichilismo - Adriano Dell'Asta - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) I MALATI DI SLA CHIEDONO AIUTO PER UNA VITA DIGNITOSA - Ma i giornalisti si agitano solo quando c’è da togliere il sondino - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 22 gennaio 2009
Benedetto XVI: l’unità dei cristiani riguarda la Chiesa nel mondo - Catechesi all’udienza generale del mercoledì
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 21 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi nell'aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre ha parlato della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, che si concluderà domenica prossima.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Domenica scorsa è iniziata la "Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani", che si concluderà domenica prossima, festa della Conversione di san Paolo apostolo. Si tratta di una iniziativa spirituale quanto mai preziosa, che va estendendosi sempre più tra i cristiani, in sintonia e, potremmo dire, in risposta all’accorata invocazione che Gesù rivolse al Padre nel Cenacolo, prima della sua Passione: "Che siano una cosa sola, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17, 21). Ben quattro volte, in questa preghiera sacerdotale, il Signore chiede che i suoi discepoli siano "una cosa sola", secondo l’immagine dell’unità tra il Padre e il Figlio. Si tratta di una unità che può crescere soltanto sull’esempio del donarsi del Figlio al Padre, cioè uscendo da sé e unendosi a Cristo. Due volte, inoltre, in questa preghiera, Gesù aggiunge come scopo di questa unità: perché il mondo creda. La piena unità è quindi connessa alla vita e alla missione stessa della Chiesa nel mondo. Essa deve vivere una unità che può derivare solo dalla sua unità con Cristo, con la sua trascendenza, quale segno che Cristo è la verità. E’ questa la nostra responsabilità: che sia visibile nel mondo il dono di una unità in virtù della quale si renda credibile la nostra fede. Per questo è importante che ogni comunità cristiana prenda consapevolezza dell’urgenza di operare in tutti i modi possibili per giungere a questo obiettivo grande. Ma, sapendo che l’unità è innanzitutto "dono" del Signore, occorre al tempo stesso implorarla con instancabile e fiduciosa preghiera. Solo uscendo da noi e andando verso Cristo, solo nella relazione con Lui possiamo diventare realmente uniti tra di noi. E’ questo l’invito che, con la presente "Settimana", viene rivolto ai credenti in Cristo di ogni Chiesa e Comunità ecclesiale; ad esso, cari fratelli e sorelle, rispondiamo con pronta generosità.
Quest’anno, la "Settimana di preghiera per l’unità" propone alla nostra meditazione e preghiera queste parole tratte dal libro del profeta Ezechiele: "Che formino una cosa sola nella tua mano" (37,17). Il tema è stato scelto da un gruppo ecumenico della Corea, e riveduto poi per la divulgazione internazionale dal Comitato Misto per la Preghiera formato da rappresentanti del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e del Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra. Il processo stesso di preparazione è stato un fecondo e stimolante esercizio di vero ecumenismo.
Nel brano del libro del profeta Ezechiele, da cui è tratto il tema, il Signore ordina al profeta di prendere due legni, uno come simbolo di Giuda e delle sue tribù e l’altro come simbolo di Giuseppe e di tutta la casa d’Israele unita a lui, e gli chiede di "accostarli", in modo da formare un solo legno, "una cosa sola" nella sua mano. Trasparente è la parabola dell’unità. Ai "figli del popolo", che domanderanno spiegazione, Ezechiele, illuminato dall’Alto, dirà che il Signore stesso prende i due legni e li accosta, in modo che i due regni con le rispettive tribù, tra loro divise, diventino "una cosa sola nella sua mano". La mano del profeta, che accosta i due legni, viene considerata come la mano stessa di Dio che raccoglie e unifica il suo popolo e finalmente l’intera umanità. Possiamo applicare le parole del profeta ai cristiani, nel senso di un’esortazione a pregare, a lavorare facendo tutto il possibile perché si compia l’unità di tutti i discepoli di Cristo, a lavorare affinchè la nostra mano sia strumento della mano unificante di Dio. Questa esortazione diventa particolarmente commovente ed accorata nelle parole di Gesù dopo l’Ultima Cena. Il Signore desidera che l’intero suo popolo cammini – e vede in questo la Chiesa del futuro, dei secoli futuri – con pazienza e perseveranza verso il traguardo della piena unità. Impegno questo, che comporta adesione umile e docile obbedienza al comando del Signore, il quale lo benedice e lo rende fecondo. Il profeta Ezechiele ci assicura che sarà proprio Lui, il nostro unico Signore, l’unico Dio, a raccoglierci nella "sua mano".
Nella seconda parte della lettura biblica si approfondiscono il significato e le condizioni dell’unità delle varie tribù in un solo regno. Nella dispersione tra le genti, gli Israeliti avevano conosciuto culti erronei, avevano maturato concezioni di vita sbagliate, avevano assunto costumi alieni dalla legge divina. Ora il Signore dichiara che non si contamineranno più con gli idoli dei popoli pagani, con i loro abomini, con tutte le loro iniquità (cfr Ez 37, 23). Richiama la necessità di liberarli dal peccato, di purificare il loro cuore. "Li libererò da tutte le ribellioni – afferma –, li purificherò". E così "saranno il mio popolo ed io sarò il loro Dio" (Ibid.). In questa condizione di rinnovamento interiore, essi "seguiranno i miei comandamenti, osserveranno le mie leggi, e le metteranno in pratica". Ed il testo profetico si conclude con la promessa definitiva e pienamente salvifica: "Farò con loro un’alleanza di pace … Porrò il mio santuario, cioè la mia presenza, in mezzo a loro" (Ez 37,26).
La visione di Ezechiele diviene particolarmente eloquente per l’intero movimento ecumenico, perché pone in luce l’esigenza imprescindibile di un autentico rinnovamento interiore in tutti i componenti del Popolo di Dio che il Signore solo può operare. A questo rinnovamento dobbiamo essere aperti anche noi, perché anche noi, dispersi tra i popoli del mondo, abbiamo imparato usanze molto lontane dalla Parola di Dio. "Siccome ogni rinnovamento della Chiesa – si legge nel Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II - consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione, questa è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità" (UR, 6), cioè la maggiore fedeltà alla vocazione di Dio. Il decreto sottolinea poi la dimensione interiore della conversione del cuore. "Ecumenismo vero – aggiunge - non c’è senza interiore conversione, perché il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall’abnegazione di se stesso e dal pieno esercizio della carità" (UR, 7). La "Settimana di preghiera per l’unità" diviene, in tal modo, per tutti noi stimolo a una conversione sincera e a un ascolto sempre più docile della Parola di Dio, a una fede sempre più profonda.
La "Settimana" è anche occasione propizia per ringraziare il Signore per quanto ha concesso di fare sinora "per accostare", gli uni agli altri, i cristiani divisi, e le stesse Chiese e Comunità ecclesiali. Questo spirito ha animato la Chiesa cattolica, la quale, nell’anno appena trascorso, ha proseguito, con salda convinzione e radicata speranza, a intrattenere relazioni fraterne e rispettose con tutte le Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente e di Occidente. Nella varietà delle situazioni, talvolta più positive e talora con maggiori difficoltà, si è sforzata di non venire mai meno all’impegno di compiere ogni sforzo tendente alla ricomposizione della piena unità. Le relazioni fra le Chiese e i dialoghi teologici hanno continuato a dare segni di convergenze spirituali incoraggianti. Io stesso ho avuto la gioia di incontrare, qui in Vaticano e nel corso dei miei viaggi apostolici, cristiani provenienti da ogni orizzonte. Ho accolto con viva gioia per tre volte il Patriarca Ecumenico Sua Santità Bartolomeo I ed, evento straordinario, lo abbiamo sentito prendere la parola, con fraterno calore ecclesiale e con convinta fiducia verso l’avvenire, durante la recente assemblea del Sinodo dei Vescovi. Ho avuto il piacere di ricevere i due Catholicoi della Chiesa Apostolica Armena: Sua Santità Karekin II di Etchmiazin e Sua Santità Aram I di Antelias. E infine ho condiviso il dolore del Patriarcato di Mosca per la dipartita dell’amato fratello in Cristo, il Patriarca Sua Santità Alessio II, e continuo a restare in comunione di preghiera con quei nostri fratelli che si preparano ad eleggere il nuovo Patriarca della loro veneranda e grande Chiesa ortodossa. Ugualmente mi è stato dato di incontrare rappresentanti delle varie Comunioni cristiane di Occidente, con i quali prosegue il confronto sull’importante testimonianza che i cristiani devono dare oggi in modo concorde, in un mondo sempre più diviso e posto di fronte a tante sfide di carattere culturale, sociale, economico ed etico. Di questo e di tanti altri incontri, dialoghi, e gesti di fraternità che il Signore ci ha concesso di poter realizzare, rendiamo insieme a Lui grazie con gioia.
Cari fratelli e sorelle, cogliamo l’opportunità che la "Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani" ci offre per chiedere al Signore che proseguano e, se possibile, si intensifichino l’impegno e il dialogo ecumenico. Nel contesto dell’Anno Paolino, che commemora il bimillenario della nascita di san Paolo, non possiamo non rifarci anche a quanto l’Apostolo Paolo ci ha lasciato scritto a proposito dell’unità della Chiesa. Ogni mercoledì vado dedicando la mia riflessione alle sue lettere e al suo prezioso insegnamento. Riprendo qui semplicemente quanto egli scrive rivolgendosi alla comunità di Efeso: "Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo" (Ef 4,4-5). Facciamo nostro l’anelito di san Paolo, che ha speso la sua vita interamente per l’unico Signore e per l’unità del suo mistico Corpo, la Chiesa, rendendo, con il martirio, una suprema testimonianza di fedeltà e di amore a Cristo.
Seguendo il suo esempio e contando sulla sua intercessione, ogni comunità cresca nell’impegno dell’unità, grazie alle varie iniziative spirituali e pastorali e alle assemblee di preghiera comune, che di solito si fanno più numerose e intense in questa "Settimana", facendoci già pregustare, in un certo modo, il giorno dell’unità piena. Preghiamo perchè tra le Chiese e le Comunità ecclesiali continui il dialogo della verità, indispensabile per dirimere le divergenze, e quello della carità che condiziona lo stesso dialogo teologico e aiuta a vivere insieme per una testimonianza comune. Il desiderio che ci abita in cuore è che si affretti il giorno della piena comunione, quando tutti i discepoli dell’unico nostro Signore potranno finalmente celebrare insieme l’Eucaristia, il sacrificio divino per la vita e la salvezza del mondo. Invochiamo la materna intercessione di Maria, perché aiuti tutti i cristiani a coltivare un più attento ascolto della Parola di Dio e una più intensa preghiera per l’unità.
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore Missionarie della Fede, qui convenute in occasione del loro Capitolo generale ed auguro che questo evento susciti nell’intero Istituto un rinnovato fervore nella totale consacrazione al Signore. Saluto i fedeli delle Parrocchie di Cisterna di Latina, e auspico che la visita alle tombe degli Apostoli rafforzi la loro fede per essere sempre pietre vive della Chiesa di Dio. Saluto inoltre, i rappresentanti dell’Ospedale dei Pellegrini, di Napoli e li esorto a proseguire nell’impegno di recare sollievo ai malati, testimoniando costantemente la cultura della vita.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Un pensiero va infine, come di consueto, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Celebriamo oggi la memoria liturgica di sant’Agnese, vergine e martire, che nonostante la giovanissima età ha affrontato coraggiosamente la morte per amore del Signore e avendo in lei "gli stessi sentimenti di Cristo Gesù", l’Agnello immolato e vincitore. Cari giovani, cari malati e cari sposi novelli, per intercessione di sant’Agnese possiate anche voi vivere la vostra vocazione e le concrete condizioni in cui vi trovate come autentiche vie di santità.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Il Cardinale Poletto ai medici di Torino: fate obiezione su Eluana - “Andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo”
TORINO, giovedì, 22 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Il Cardinale Severino Poletto, Arcivescovo di Torino, è intervenuto sul caso di Eluana Englaro dopo che la Presidente della regione Piemonte, Mercedes Bresso, si è detta disposta ad accogliere in una struttura pubblica la donna in coma vegetativo da 17 anni.
In una intervista al quotidiano “La Repubblica” (22 gennaio 2009), il porporato ha affermato: “i medici cattolici che si trovassero a lavorare nell'ospedale dove si intende interrompere l'alimentazione di una persona, dovrebbero obiettare e rifiutarsi di farlo".
"Un cattolico rispetta le leggi e rispetta la sua coscienza – ha aggiunto –. Per questo esiste la possibilità di fare obiezione quando l'applicazione di una legge contrasta con i propri convincimenti profondi".
“Questo – ha poi sottolineato – vale per il medico chiamato a praticare un aborto ma anche per chi fosse costretto a staccare il sondino di Eluana o per il farmacista che si rifiuta di vendere una certa pillola”, ha proseguito.
Precisando poi che l’obiezione di coscienza non è una questione che riguarda solo i cattolici, il Cardinale Poletto ha affermato che "la legge di Dio non può mai essere contro l'uomo e che “andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo”.
“Dunque – ha spiegato –, se le due leggi entrano in contrasto è perché la legge dell'uomo non è una buona legge e si rivelerà tale dai suoi frutti".
A quella dell’Arcivescovo di Torino ha unito la propria voce anche l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi e da sempre in prima linea per il recupero di tossicodipendenti, handicappati, minori emarginati ed ex prostitute.
“Restiamo costernati e sgomenti per la disponibilità della Governatrice Bresso di voler far uccidere Eluana Englaro nella Regione Piemonte”, hanno detto in una nota, d’accordo con il Cardinale Poletto che “la sospensione dell’alimentazione e idratazione è vera eutanasia”.
“Lo Stato e le Regioni invece di sostenere economicamente gli ospedali per la morte farebbero bene ad aiutare le famiglie che assistono parenti in stato vegetativo o in gravi condizioni”, hanno quindi commentato.
“Un malsano e preoccupante accanimento si espande contro la vita di Eluana e dei tanti disabili gravi come lei, che vengono minacciati ed esposti alla morte proprio da chi, invece, dovrebbe difendere, proteggere e tutelare ogni cittadino specialmente quando diventa soggetto debole e bisognoso di cure”, ha denunciato l’Associazione.
Tuttavia, si osserva nella nota, “la grave disabilità di Eluana continua ad essere una componente umanizzante e attiva della nostra società. Eluana non chiede di morire ma di vivere come tutti coloro che nella sua simile condizione continuano ad essere amati e curati”.
L’Associazione ha poi detto di giudicare “inaccettabili” “le varie speculazioni a cui assistiamo forse per interessi e scopi che nulla hanno a che fare con la dignità della persona”.
“Coloro che pensano di sfruttare questo dramma per motivi politici, prove di forza o per mettersi al centro dell’attenzione, sappiano che gli italiani non sono insensibili né senza principi e sani valori”, hanno avvertito.
Infine, ha concluso l’Associazione, “se Eluana dovesse essere accolta per la morte in questa regione dove la nostra comunità opera da oltre trent’anni con decine di Case Famiglia e Famiglie aperte all’accoglienza di persone considerate in stato vegetativo, grideremo in modo non violento la nostra contrarietà e il diritto alla vita di Eluana, delle creature nelle sue condizioni e delle famiglie che lottano con loro”.
Il Vaticano imbavaglia il gesuita Roger Haight. Tutta colpa di Gesù - Gli si contesta di occultare la divinità di Cristo, per renderlo più presentabile al mondo. Nel cuore della disputa c'è la Compagnia di Gesù. E anche un suo autorevolissimo membro, il cardinale Carlo Maria Martini di Sandro Magister
ROMA, 22 gennaio 2009 – Roger Haight, 72 anni, teologo, appartiene alla Compagnia di Gesù. Ma il Gesù dei suoi scritti è troppo lontano da quello professato nel Credo, a giudizio delle autorità vaticane che vigilano sulla retta dottrina.
Già nel 2004, il 13 dicembre, la congregazione per la dottrina della fede presieduta all'epoca dal cardinale Joseph Ratzinger aveva emesso una notificazione di condanna delle tesi espresse da Haight nel suo libro di cinque anni prima "Jesus Symbol of God". E aveva concluso vietando al gesuita "l'insegnamento della teologia cattolica".
Haight abbandonò la cattedra presso la Weston School of Theology di Cambridge, Massachusetts, retta dai gesuiti. Ma non smise di insegnare teologia. Passò allo Union Theological Seminar di New York, un istituto non cattolico, fondato dai presbiteriani nel 1836, in cui insegnarono teologi protestanti di prima grandezza come Reinhold Niebuhr e Paul Tillich, oggi indipendente dal controllo di singole denominazioni cristiane.
E continuò a pubblicare libri di teologia che riproponevano le sue tesi di fondo. Due libri in particolare: "Christian Community in History", in tre volumi, e "The Future of Christology".
Ma ora le autorità vaticane sono di nuovo intervenute contro di lui. Gli hanno ingiunto di cessare di insegnare teologia ovunque, anche in istituti non cattolici, e di non pubblicare libri e saggi di soggetto teologico. Questo – come già nella precedente notificazione – "finché le sue posizioni non siano rettificate così da essere in piena conformità con la dottrina della Chiesa".
Il nuovo provvedimento risale alla scorsa estate, ma solo ai primi di gennaio del 2009 è divenuto di dominio pubblico. Haight non l'ha commentato.
L'esame delle posizioni di Haight, sia questa volta, sia prima della notifica del 2004, si è svolto secondo le procedure usuali. La congregazione vaticana per la dottrina della fede ha affidato il caso al preposito generale della Compagnia di Gesù e questi a sua volta ha attivato la provincia americana della Compagnia, alla quale l'inquisito appartiene. A Haight è stato chiesto di inviare chiarimenti e rettifiche sui punti indicati come erronei. E lui l'ha fatto. Senza però convincere i suoi giudici ad assolverlo. Nel 2002 vi fu anche un curioso contrattempo. La risposta di Haight, arrivata in Vaticano in ritardo sui tempi stabiliti, generò dubbi sulla sua autenticità: non parve sicuro che fosse stata scritta effettivamente da lui. Gliela rimandarono indietro esigendo che tornasse firmata in ogni sua pagina.
Le ragioni portate a sostegno della condanna di Haight non sono di poco conto. La notificazione del 2004 le elenca meticolosamente. A giudizio delle autorità vaticane Haight usa un metodo teologico che subordina i contenuti della fede alla loro accettabilità da parte della cultura postmoderna. E alle realtà oggettive definite dagli articoli del Credo sostituisce dei simboli.
Di conseguenza, si svuotano di sostanza verità capitali della fede cristiana come la preesistenza del Verbo, la divinità di Gesù, la Trinità, il valore salvifico della morte di Gesù, l'unicità e universalità della mediazione salvifica di Gesù e della Chiesa, la risurrezione di Gesù. Su ciascuno di questi punti la notificazione vaticana dice come e perché Haight contraddice la dottrina cattolica.
Haight si è sempre attenuto alle sanzioni ricevute, sia pure dilazionando un po' i tempi. Abbandonerà presto anche la cattedra allo Union Theological Seminary di New York. E sta preparando una nuova risposta scritta da inviare alla Santa Sede.
In Vaticano sono seriamente preoccupati per questo caso. Non lo ritengono affatto circoscritto agli ambienti accademici. Haight è un teologo di notevole capacità comunicativa, è apprezzato dalla cultura "liberal" ben presente nei media, e gode di diffusi sostegni dentro la Chiesa, in particolare nella Compagnia di Gesù.
Degli ultimi sette teologi inquisiti dalla congregazione per la dottrina della fede, quattro sono gesuiti. Oltre a Haight, gli altri sono stati Anthony De Mello, Jacques Dupuis e Jon Sobrino, quest'ultimo esponente di spicco della teologia della liberazione.
Non sorprende che un anno fa, mentre la Compagnia di Gesù era riunita per eleggere il suo nuovo preposito generale, le autorità vaticane richiamassero i suoi teologi ed esegeti a una maggiore fedeltà dottrinale e a un più effettivo "sentire cum Ecclesia".
Naturalmente, non tutti i teologi gesuiti sono sotto sospetto. Ve ne sono di di riconosciuta grandezza e di indubitabile ortodossia. Uno di questi era il cardinale Avery Dulles. Per convincere Haight a correggere le sue posizioni la provincia americana della Compagnia di Gesù chiese aiuto anche a lui, nonostante la sua età avanzata e la salute precaria. Il cardinale Dulles è morto a New York lo scorso 12 dicembre.
Ma è indubbio che la teologia di Haight trovi dentro la Compagnia di Gesù un ambiente complessivamente ospitale. Egli abita a New York nella casa dei gesuiti che pubblicano "America", rivista di punta del cattolicesimo progressista. Nel marzo del 2008, quando già era interdetto dall'insegnamento ed erano in arrivo su di lui le nuove sanzioni, ha pubblicato su "America" un ampia ricognizione della teologia cattolica di fine Novecento, con i maggiori teologi classificati in sette correnti efficacemente descritte e valutate. Il tutto per mostrare che il futuro della teologia cattolica si gioca sulla sua capacità di ripresentare gli articoli del Credo in una forma comprensibile per la cultura dominante nell'Occidente.
Un'altra rivista cattolica americana schierata a sostegno di Haight è "Commonweal". Nel gennaio del 2007 ha pubblicato un'appassionata apologia del suo pensiero dal titolo: "Not So Heterodox. In Defense of Roger Haight". Ne era autore un teologo molto quotato, Paul Lakeland, docente alla Fairfield University, Connecticut, una delle 28 università gestite dai gesuiti negli Stati Uniti, e primo titolare della cattedra di studi cattolici intitolata in questa università al teologo gesuita Aloysius P. Kelley.
Altri teologi americani hanno invece espresso severe critiche nei confronti di Haight, che per alcuni anni fu anche presidente della Catholic Theological Society of America. Tra i critici si ricordano William Loewe, della Catholic University of America di Washington, D. C., e John Cavadini, della Notre Dame University di South Bend, Indiana, consulente della commissione dottrinale della conferenza dei vescovi degli Stati Uniti.
Un altro critico delle posizioni di Haight è anche lui gesuita e anche lui insegna in una università della Compagnia di Gesù, la più importante del mondo. È Gerald O'Collins, professore di teologia sistematica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, specialista in cristologia.
Di O'Collins si ricorda questa battuta, dopo la notizia della prima condanna di Haight: "Per il Gesù di Roger Haight non darei mai la vita. È un trionfo del conformismo sull'ortodossia".
Insomma, Haight tanto più preoccupa i vertici della Chiesa in quanto esprime la diffusa tendenza a sottomettere la figura di Gesù ai canoni di comprensione della cultura secolare, esaltandolo come uomo insigne e operatore di giustizia, ma offuscando la sua divinità.
Un'efficace espressione di questa tendenza – meno teologica, più discorsiva – è vista nell'ultimo libro di un altro gesuita famoso, il cardinale Carlo Maria Martini: "Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede".
È un Gesù, quello tratteggiato dal cardinale Martini, di sicuro successo, stando alle vendite di questo suo libro. In ogni caso lontanissimo dal Gesù vero Dio e vero uomo del libro "Gesù di Nazaret" di Benedetto XVI.
Ancora una volta, è Gesù salvatore il grande segno di contraddizione su cui la fede cattolica sta o cade. Ed è singolare che nel cuore di questa disputa ci sia proprio la Compagnia di Gesù.
Chi sono gli ebrei del Novecento? - Mille volti, una sola identità - Giovedì 22 gennaio va in libreria Diaspora. Storia degli ebrei del Novecento di Anna Foa (Roma-Bari, Laterza, 2009, pagine 304, euro 19). Pubblichiamo in anteprima un estratto dell'introduzione. - di Anna Foa – L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2009
Ricordate la bambina dal cappotto rosso di Schindler's List? L'unico colore nel bianco e nero del film, un colore che serve a individuarla nel mucchio dei cadaveri, dopo il massacro, ma anche trasformarla nel simbolo stesso della Shoah. Eppure, contrariamente a quanto a volte si dice, quest'immagine di morte non è l'unica a rappresentare gli ebrei del Novecento. C'è anche quella dell'intellettuale, dello scienziato. C'è Freud che reinterpreta il mondo della mente, c'è Einstein che scopre nuove leggi all'universo, c'è Schoenberg che scompone la musica, ci sono scrittori, artisti, poeti che sono rimasti a segnare indelebilmente della loro creatività e vitalità la cultura del Novecento. E ancora altre immagini: quella dell'ebreo sionista, che è capace di far fiorire la terra di Israele, oltre che di vincerne le guerre. E quella del rivoluzionario, che getta alle ortiche la tradizione e cambia il mondo con la violenza. Pensiamo a Trotskij, che crea l'Armata Rossa, reprime gli operai di Kronstadt e muore assassinato in esilio, divenuto l'"eretico" di tutte le rivoluzioni. Tutte immagini forti, dotate di grande capacità di suggestione: gli ebrei del Novecento. O, citando da un libro recente di Yuri Slezkine, il Novecento come secolo degli ebrei. Ma chi sono gli ebrei del Novecento? Non si può infatti negare che essi siano una realtà estremamente molteplice, come complessa e variegata è l'immagine che hanno lasciato di sé. Un'immagine prevalentemente simbolica, caricata di tutta la forza del simbolo. In un mio libro pubblicato anni fa, a cui questo vuole riallacciarsi, ho raccontato la storia degli ebrei europei fino all'Ottocento, descrivendo la storia delle comunità della diaspora medioevale e della prima età moderna, sottolineandone le forti persistenze. A partire dal Novecento, o meglio dagli ultimi decenni dell'Ottocento, però, queste continuità sembrano interrompersi o addirittura spezzarsi.
Vista in prospettiva nel lungo periodo della diaspora, la storia degli ebrei nel Novecento sembra ancora più nuova e inaudita, quasi uscisse alla luce tutta compiuta, come Minerva armata dalla testa di Giove. E non si può fare a meno di interrogarsi sulle ragioni di questa frattura e della nuova forza simbolica espressa dagli ebrei a partire dalla fine dell'Ottocento. Ciò che cambia, in realtà, non è la valenza simbolica in sé, che ha sempre gravato sugli ebrei dalla nascita del cristianesimo in poi, ma il fatto che essa sia ora divenuta un'espressione autonoma del mondo ebraico, una forma di autorappresentazione in positivo, mentre nei secoli precedenti si trattava di una valenza attribuita agli ebrei dall'esterno, in quanto popolo testimone, in quanto increduli e deicidi, e soprattutto in quanto simbolo dell'alterità.
Una forza simbolica, quella degli ebrei del Novecento, che non è data quindi solo dallo sterminio o dalla persecuzione, ma che nasce da altro. Dall'essere stato il mondo ebraico del Novecento capace di straordinaria creatività e attività, e insieme oggetto del più radicale degli annullamenti. Dall'essere stato volontà di cambiare il mondo e al tempo stesso capacità di immaginarsi e raccontarsi nell'atto di cambiarlo. E ancora, dall'essere stato un intreccio tra la volontà d'essere uguali agli altri, ovvero di integrarsi totalmente nel mondo, e una durevole percezione di sé come di un'identità sul confine. L'unione della più totale assimilazione e della più totale marginalità, dell'integrazione e della distruzione. Un intreccio inestricabile di simbolo e realtà, di immagine e azione, di memoria e storia. L'essenza stessa, insomma, della modernità.
Ancora, qual è il rapporto tra simbolo e realtà? Si tratta di un'immagine, questa dell'ebreo del Novecento, creata dalla memoria, dalla rappresentazione, o se vogliamo dall'autorappresentazione, che si alimenta di se stessa e non è, in fondo, che una creazione mitica? Oppure dentro quel mito c'è uno spessore di realtà che lo nutre e sostanzia, che ne rappresenta l'ineliminabile vitalità? E qual è il rapporto tra la modernità del Novecento e il passato delle comunità? È un rapporto di derivazione e di continuità, oppure il legame consiste proprio nella frattura, cioè nella capacità degli ebrei di trasformarsi?
E quanto c'è, in questa storia, di unico e irripetibile? E quanto ci riporta invece alla singolarità di questo terribile secolo? E quella che viene descritta come l'unicità della Shoah non deriva forse in gran parte dall'essere stata la distruzione di un popolo in grado di raccontarsi, di elaborarsi, di descriversi nell'atto di subire l'indescrivibile? E nella realtà di oggi, che cosa resta di questa storia, quanto ne è stato distrutto irrimediabilmente dalla violenza, quanto ne è stato logorato poco a poco dal volger della storia? Domande, solo domande e ancora domande. Eppure, erano dentro la mia mente quando ho cominciato a raccontare questa storia, a costruire rilevanze, a scegliere nel mare degli eventi i momenti più significativi, o forse solo quelli che più mi è piaciuto narrare. Questo Novecento che racconto comincia in realtà dal 1880 circa, e finisce con gli anni Settanta. Si apre con l'emigrazione in America e si chiude con la perdita d'importanza dell'Europa e della sua diaspora, e con l'affermarsi sempre più forte del mondo ebraico americano e di quello d'Israele. Due momenti che mi sembrano fortemente periodizzanti, significativi di cambiamenti che non riguardano solo una parte del mondo ebraico, ma gli ebrei tutti. Il primo momento, quello che inizia con l'emigrazione degli ebrei russi, è insieme l'invenzione da parte degli ebrei dell'Est Europa di nuovi percorsi identitari di fronte al rifiuto dell'emancipazione, l'integrazione di quelli d'Occidente, e l'invenzione di un nuovo modello di società ebraica al di là dei mari.
E gli anni Settanta, a noi vicini eppure tanto lontani, sono un momento di trasformazione che tocca insieme lo Stato di Israele e le diaspore, l'ultimo cambiamento globale: il cambiamento politico della società israeliana e quello delle diaspore, vicine a Israele come non mai prima, e quello degli ebrei tutti sia in sé che nei loro rapporti con la società esterna, dopo che l'elaborazione della memoria della Shoah si è ovunque compiuta.
Il titolo, Diaspora, riferito a un momento che è quello del nascere dello Stato di Israele e del crescente rilievo del mondo ebraico americano, richiede una spiegazione. Si è voluto sotto-lineare con forza le radici diasporiche dell'esperienza statale degli ebrei e delle metamorfosi del mondo ebraico del Novecento; ricondurre a quel crogiolo creativo che fu l'ebraismo orientale sia la grande esperienza americana che quella di Israele; cogliere le radici perdute dell'autunno della diaspora.
Come sempre in sintesi di questo genere, molto è rimasto fuori dal quadro, forse arbitrariamente. Non c'è nulla, ad esempio, sull'emigrazione ebraica in America Latina, nulla o quasi sugli ebrei dei Paesi arabi. L'allargamento geografico dall'Europa al mondo è in realtà un allargamento che tiene sempre in considerazione il punto di partenza, l'Europa, e che anche così compie inevitabili tagli nella sua storia. Inevitabili non a causa del numero delle pagine, ma per la storia stessa, che se si estende in troppe direzioni perde la sua centralità, la sua anima possiamo dire. Ho scritto cercando di preservare questa anima, anche se forse era un progetto troppo ambizioso. Così in questo libro molte sono le cose che non troverete, forse più di quelle che troverete.
Pensate queste assenze come il frutto della mia soggettività di storica, che metto qui a nudo senza i soliti infingimenti di oggettività. Pensate assenze e presenze, e squilibri tra le parti, come un tentativo di interpretazione. Una scelta soggettiva di chi scrive.
(©L'Osservatore Romano - 22 gennaio 2009)
Attaccate scuole private, chiese e abitazioni - In Pakistan ancora violenze contro i cristiani – L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2009
Islamabad, 21. Non soltanto in India ma anche nel confinante Pakistan la persecuzione dei cristiani appare costante: attacchi a scuole, chiese e abitazioni della comunità si susseguono da anni in diverse aree del Paese asiatico. Oltre 170 scuole assaltate o distrutte in due anni; più di 400 fra istituti e collegi femminili costretti a chiudere per minacce e intimidazioni: è il bilancio del clima di terrore che stanno vivendo gli abitanti nel distretto di Swat, all'interno della provincia di frontiera di nordovest. Si tratta di un territorio dove di fatto governano le bande dei talebani, che hanno preso di mira in particolare gli istituti di educazione femminili. Le scuole private gestite da gruppi e istituzioni cristiane o da altre associazioni ed enti indipendenti hanno infatti deciso la chiusura per non correre rischi, in seguito alla diffusione di un editto, lanciato da una radio locale, che minacciava attentati e ritorsioni alle strutture ancora in funzione dopo il 15 gennaio. Il distretto è divenuto nel passato un campo di battaglia fra l'esercito pakistano e gli integralisti che, dopo il ritiro dei militari, hanno occupato la zona.
Presidi, educatori e genitori delle scuole private hanno concordemente deciso, vista la situazione, la chiusura a tempo indeterminato delle strutture che si potranno riaprire, sottolineano, soltanto quando l'editto verrà revocato.
Si calcola che sono oltre 125.000 le studentesse penalizzate dalla situazione e private del diritto all'istruzione. Tra l'altro, una scuola gestita dalle suore carmelitane apostoliche srilankesi, che contava circa mille studentesse è stata anche distrutta dal lancio di rudimentali bombe.
Altre violenze sono avvenute nella provincia del Punjab: un non precisato numero di musulmani, ieri, hanno assaltato la chiesa e quattro abitazioni di cristiani nel villaggio di Kot Lakha Singh, compiendo anche atti di tortura. All'origine dell'attacco ci sarebbe la disputa sulla proprietà di un terreno.
Il fatto è stato reso noto, secondo quanto riporta l'agenzia AsiaNews, dalla Commissione nazionale per la giustizia e la pace del Pakistan.
Ad essere stata assaltata per prima è stata l'abitazione di un cattolico, William Masih: gli assalitori hanno torturato i presenti, incluse donne e bambini, e successivamente hanno rubato soldi e oggetti d'oro. I musulmani hanno quindi colpito le dimore di altre tre famiglie cristiane del villaggio e, infine, hanno fatto irruzione nella chiesa che accoglie cattolici e protestanti, danneggiando gli arredi e strappando i testi sacri.
Le violenze sono state denunciate alla polizia che, tuttavia, non ha ancora individuato e arrestato alcun colpevole.
(©L'Osservatore Romano - 22 gennaio 2009)
ELUANA/ Bresso non ha voce in capitolo e sbaglia a parlare di un “ricatto” di Sacconi - INT. Aristide Police - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Piena disponibilità ad accogliere Eluana Englaro in Piemonte, ma solo in una struttura sanitaria pubblica, perché le «strutture private convenzionate sono sotto scacco del ministro Sacconi»: con queste parole assai poco concilianti Mercedes Bresso è entrata nel dibattito, già molto acceso, sul caso Englaro. E la risposta del ministro Sacconi non si è fatta attendere: «Non metto sotto scacco nessuno, ho fatto solo una ricognizione delle leggi da applicare».
Si profila dunque un nuovo conflitto, questa volta tra Regione Piemonte e ministero della Salute? Secondo Aristide Police, ordinario di Diritto amministrativo all’Univeristà di Roma Tor Vergata, questo non può accadere: la decisione di accogliere o meno Eluana Englaro in una struttura sanitaria non è di competenza del presidente di una Regione.
Professore, Mercedes Bresso non ha dunque voce in capitolo?
Per capire questo dobbiamo innanzitutto partire da una distinzione fondamentale tra competenze di tipo politico e competenze di tipo amministrativo. La vicenda di cui qui ci si occupa non è evidentemente di carattere politico, bensì amministrativo, e nemmeno di particolare rilevanza: si tratta del ricovero o meno di un utente del servizio sanitario nazionale presso una struttura.
E di chi è la competenza?
Certamente non compete al vertice politico e amministrativo della Regione, ma alla singola struttura sanitaria che dovesse ritenere di accogliere o meno Eluana Englaro per effettuare la prestazione in questione (sul fatto poi se sia lecita o meno non voglio intervenire). Del resto se si trattasse di un caso meno problematico dal punto di vista emotivo la cosa risulterebbe assolutamente evidente: la governatrice Bresso potrebbe forse far pressioni sulle aziende per far ricoverare il signor Tizio o Caio? Evidentemente no: questa scelta, come tutti sanno, viene presa dalla singola azienda sanitaria, nell’ambito delle rispettive competenze.
Dunque, se la competenza non è del vertice politico regionale, a maggior ragione non lo sarà del ministro: perché allora è stato emanato l’atto di indirizzo tanto discusso?
L’atto è un’altra cosa: il ministro ha dato un indirizzo politico generale sul modo di esercizio della attività sanitaria nell’ambito pubblico e privato convenzionato. Il ministro ha cioè esercitato un potere di indirizzo politico, a lui evidentemente consentito, essendo egli il vertice della struttura burocratica del ministero della Salute. L’atto del ministro, d’altronde, non è specificamente rivolto alla vicenda Englaro, ma ha un valore generale. La differenza dunque è sostanziale: da un lato abbiamo un ministro che dà un indirizzo a tutte le strutture del Paese, garantendo così il principio di uguaglianza nel modo di erogazione delle prestazioni sanitarie; dall’altro lato abbiamo invece un organo politico regionale che effettua un atto di ingerenza su specifiche e autonome scelte delle singole strutture sanitarie. Il politico ingerisce (questo può accadere con atti formali ma anche con dichiarazioni a mezzo stampa) su un indipendente organo amministrativo della struttura sanitaria affinché venga resa una prestazione. È come se il signor Caio venisse raccomandato dal governatore ad ottenere una prestazione sanitaria perché gli è simpatico, o perché la prestazione è politicamente conforme alle idee del governatore.
Cosa ne pensa invece dell’affermazione, sempre del governatore Bresso, in merito a un presunto ricatto operato dal ministro nei confronti delle strutture convenzionate?
È un’affermazione che rientra nella dialettica politica. Le strutture convenzionate hanno piena libertà di azione; ma è ovvio che essendo convenzionate ottengono determinati benefici e quindi si assumono anche determinati obblighi. Il ministro pone linee di indirizzo politiche generali in assenza di una norma legislativa: è pienamente legittimato a farlo, e a farlo nel modo che più ritiene opportuno. Non dimentichiamo che è un ministro di un governo che gode di una maggioranza politica e quindi di una fiducia. Se poi l’indirizzo politico è di segno diverso rispetto a quello del governatore, questo non implica che tale indirizzo sia un ricatto. L’atto poi – ripeto – è di indirizzo generale, e non specificamente rivolto al caso Englaro: è l’esercizio di una facoltà, e direi anche di un obbligo ministeriale. E come tale non può certo essere configurato come azione di ricatto.
Eppure sembra che la clinica di Udine si sia tirata indietro proprio per paura di perdere la convenzione, e che quindi si sia sentita ricattata.
Se una clinica si sente ricattata, e ritiene che la propria non condivisione dell’atto ministeriale abbia una rilevanza giuridica, ha la piena possibilità di contestare tale atto nelle opportune sedi giurisdizionali. Invece non mi pare che nessuna clinica, desiderosa di effettuare questa prestazione, abbia impugnato l’atto davanti a un qualche Tar della Repubblica. Se una clinica si sentisse ricattata non dovrebbe fare che questo: impugnare un atto non ritenuto conforme alla legge e liberarsi così dal ricatto. Se la clinica di Udine non l’ha fatto è perché sapeva di non poterlo fare.
Mentre si susseguono queste vicende, rimane il fatto che la sentenza non ha effetto: questo non è un problema?
No, perché la sentenza non prescrive ad alcuno l’effettuazione della prestazione. La sentenza, in altre parole, non ha come parte alcuna struttura sanitaria pubblica o privata, e non impone l’obbligo di effettuare alcunché. Si esprime semplicemente in termini di liceità o illiceità della prestazione. Nient’altro.
DIALOGO/ Mahmoud: l’islam moderato? C’è ma non fa notizia… - Redazione - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
«La mia è una religione aperta e non chiusa. Riconosco purtroppo che non per tutti i musulmani è così». Lo dice Asfa Mahmoud, presidente della Casa della cultura islamica di Milano. Sono stati Vittorio Emanuele Parsi e Souad Sbai, su questo giornale, a lanciare un segnale d’allarme: guai se gruppi musulmani estremisti riescono a sfruttare episodi come quello della crisi di Gaza per confondere fede e politica ed egemonizzare l’islam italiano.
Dopo le polemiche suscitate dai fatti di Milano e Bologna il presidente della Camera Gianfranco Fini è intervenuto dicendo che gli imam dovrebbero predicare in italiano. E ha fatto discutere. Lei che ne pensa?
Nella Casa della cultura islamica di Milano, fina dalla sua fondazione nel 1993, abbiamo tenuto il sermone della preghiera del venerdì in italiano. L’intervento del presidente Fini non ci ha colto di sorpresa. Siamo una realtà che punta ad una piena integrazione.
Come mai le realtà più integrate faticano ad affermarsi?
Perché la gente normale, che desidera essere integrata in questa società, non fa notizia. La nostra associazione, fin dalla sua fondazione, ha promosso moltissime iniziative che vanno nel senso dell’integrazione dei fedeli musulmani nella società italiana. Con la Chiesa cattolica, dal 1996, abbiamo creato il Forum delle religioni a Milano: è cominciato un dialogo, che due anni fa è approdato allo Statuto del Forum delle religioni a Milano, con la partecipazione di tutte le principali confessioni religiose, cristiani, ebrei, buddisti e musulmani.
Ha fatto polemica il fatto che, a Milano e Bologna, ad una manifestazione politica sia seguita una preghiera, un atto religioso pubblico, in un luogo simbolo del cattolicesimo. Che ne pensa? C’è stata l’egemonia politica da parte di certi gruppi più radicali?
Sono d’accordo che una manifestazione di solidarietà con un popolo non vada mischiata con la questione religiosa. Credo anche che gli organizzatori della manifestazione non avessero in programma la preghiera. Non era previsto l’afflusso di una decina di migliaia di persone, e quando si è capito che Piazza San Babila non sarebbe bastata a contenere tutti quelli che provenivano da Porta Venezia, la polizia ha dato agli organizzatori il permesso di andare verso Piazza Duomo. Quando i partecipanti sono arrivati in piazza, verso le 17, era l’ora della quarta preghiera del giorno. La gente si è messa a pregare spontaneamente.
A Bologna, però, è accaduta la stessa cosa. Difficile pensare che mancasse un coordinamento e che per questo gli organizzatori non avessero in mente di dare alla preghiera una valenza politica che, forse, non aveva per tutti partecipanti.
Le manifestazioni sono state fatte nello stesso tempo e alle cinque meno dieci ogni musulmano fa la preghiera del giorno. Ripeto che secondo me lo scopo era innanzitutto portare solidarietà alla popolazione di Gaza.
Cosa pensa allora di quello che è accaduto durante la manifestazione? Sono state date alle fiamme bandiere di Israele…
Come responsabile della Casa della Cultura islamica, ho già avuto modo di esprimere la mia posizione condannando il gesto. Lo abbiamo già dichiarato alla stampa. Quando è scoppiata la polemica, ho fatto una riunione con gli altri centri, con gli organizzatori e con la persona che ha guidato la preghiera, per chiarire la nostra posizione. È stata organizzata una delegazione, che si è recata da monsignor Bottoni per chiarire la vicenda, e abbiamo fatto un comunicato, che anche la Chiesa ha accettato, in cui si dice che se qualcuno si è sentito offeso la comunità musulmana chiede scusa.
Esiste l’impressione, anche in conseguenza di questi fatti recenti, che un islam moderato faccia fatica ad affermarsi e che addirittura possa esistere come tale. Qual è la sua opinione?
Spetta agli italiani valutare ogni associazione. Noi siamo aperti al pubblico, facciamo corsi di lingue, italiano e arabo, organizziamo iniziative, corsi di orientamento per gli immigrati, dicendo come ci si comporta in questo paese, insomma tutto è trasparente. Altri gruppi non lo fanno. Dispiace che dall’esterno ci considerino uguali.
Se è così, lei stesso mi conferma che nel mondo islamico, anche a Milano, non tutti gli interlocutori sono uguali….
Io capisco semplicemente che la mia fede è questa, che la mia è una religione aperta e non chiusa. Riconosco purtroppo che non per tutti i musulmani è così.
Secondo lei allora c’è un problema dell’amministrazione nell’individuare gli interlocutori giusti?
Noi ci siamo rivolti al Comune più volte per risolvere il problema della preghiera: non volendo pregare occupando i marciapiedi all’esterno, abbiamo preso in affitto due palestre. Per non creare disagio ai cittadini del quartiere, facciamo i turni. Con queste nostre iniziative vorremmo dimostrare che siamo affidabili, ma nello stesso tempo è grande la fatica nel trovare attenzione e riconoscimento nelle istituzioni. E le soluzioni che siamo riusciti a trovare, finora, sono solo temporanee.
Esiste un problema di reciproca organizzazione e riconoscimento tra le diverse comunità islamiche?
Noi ci sentiamo e vogliamo essere parte integrante della società in cui ci troviamo e di cui ormai facciamo parte; conservando naturalmente la nostra identità religiosa. L’integrazione a mio avviso è questo.
Che cosa chiedete alle autorità politiche?
Vorremmo la creazione di una Consulta, formata da comune, provincia, regione e prefettura, e con responsabili nostri, per mettere i problemi sul tavolo e trovare soluzioni condivise. Più passa il tempo, invece, più diviene difficile risolverli, come è stato per Viale Jenner. Noi però lamentiamo il fatto che il Comune di Milano, fino ad ora, non abbia aperto un confronto, legittimando la posizione degli interlocutori più moderati.
CHIESA/ Olivier Clément: sorpreso dalla gioia nel secolo del nichilismo - Adriano Dell'Asta - giovedì 22 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Una cosa colpiva sempre quando si leggeva un libro o un articolo di Olivier Clément, il grande teologo ortodosso deceduto la sera del 15 gennaio scorso a 87 anni: il suo stupore davanti a quello che lui chiamava il miracolo dell’essere; tutto per lui era miracolo, degno di essere ammirato nella sua bellezza e interrogato sulla sua origine e sul suo significato; non c’era più il nulla, non c’era più la solitudine, solo il miracolo e, soprattutto, il miracolo degli incontri, con le cose e le persone e con il loro creatore.
Lui stesso era arrivato alla fede, da adulto (dopo essere stato quasi schiacciato dal nichilismo moderno) grazie a una serie di incontri, innanzitutto l’incontro con due filosofi religiosi russi esuli a Parigi dopo il colpo di Stato dell’ottobre del 1917: Nikolaj Berdjaev e Vladimir Losskij. Da loro aveva imparato alcune cose essenziali del cristianesimo: innanzitutto che l’uomo e la sua ragione non dovevano difendersi da Cristo ma che anzi solo in Lui potevano trovare la loro pienezza e la loro verità; e poi che questa pienezza e questa verità erano quelle della libertà. L’uomo, la persona umana è irriducibile, libera, non determinata ultimamente da nessuna circostanza, perché è rapporto con l’infinito; e questa irriducibilità, questa libertà non sono appunto uno spazio vuoto ma un rapporto reale, concreto. Cristo non era per Clément un principio, un valore, un modello da seguire, una legge da rispettare, ma una persona, la Persona: «Il cristianesimo è la religione dei volti e delle persone, perché “in Cristo Dio diventa persona e l’uomo stesso diventa persona”».
Essenzialmente vita, e più precisamente vita in Cristo, questo cristianesimo non aveva traccia di spiritualismo: quello che aveva attratto un giovane pagano mediterraneo (così si era definito Clément) era stato proprio un cristianesimo come forza di trasfigurazione di tutto il creato; non c’era più nulla che restasse estraneo alla salvezza e alla luce offerte da Cristo: a salire in Croce era stato un uomo nella sua pienezza e questo uomo si era rivelato Dio, il Signore, più forte della morte.
Quando aveva ritrovato la fede, alla fine degli anni Quaranta, Clément usciva dalla guerra, dall’esperienza di una morte che, dopo l’Olocausto e con la minaccia nucleare, rischiava di diventare planetaria e che comunque di lì a poco avrebbe trionfato nelle menti e nei cuori nella forma del nichilismo; diventando cristiano, dimostrando che si poteva essere cristiani nel XX secolo, Clément fu innanzitutto testimone di questa vittoria di Cristo sulla morte, testimone del Risorto. Il non senso, il male, il dolore, la morte non erano tolti, in un irrealistico lieto fine, ma vinti, resi impotenti; quando alla fine delle sue conferenze veniva sottoposto a un vero fuoco di fila di domande, non ce n’era mai una alla quale si sottraesse, ma non c’era mai una risposta che chiudesse il discorso: la risposta era che la vita ricominciava ogni volta, che in Cristo ogni volta l’uomo rinasceva alla libertà. In fondo era quello che aveva detto di sé e del proprio incontro con Cristo: «mi ha detto che esistevo, che voleva che io esistessi, e dunque che non ero nulla. Mi ha detto che non ero tutto, ma responsabile. Che il male era quello che facevo. Ma che, ancora più profondo, lui c’era. Mi ha detto che avevo bisogno di essere perdonato, guarito e ricreato. E che in lui ero perdonato, guarito e ricreato».
Capace di rispondere al mondo contemporaneo e alla sua domanda di vita e di senso proprio perché definito da questa sensibilità al Risorto, il cristianesimo di Clément aveva un’altra caratteristica essenziale: il suo essere radicato nella Chiesa, perché, senza Chiesa, Cristo rischia ogni volta di «restare un’astrazione» e di essere ridotto alla soggettività delle nostre idee o dei nostri buoni sentimenti. Per Clément, ortodosso in un paese tradizionalmente cattolico, questo aveva voluto dire vivere il proprio incontro con Cristo come una testimonianza di unità: non l’unità come conquista o come negazione della diversità e delle differenze, ma l’unità come mai conclusa conversione personale a Cristo, fonte dell’unità, Persona nella quale tutte le differenze diventano motivo di ricchezza, da quella dell’umano e del divino, uniti senza confusione e senza separazione a quella delle singole persone, unite nella comune figliolanza. Grande testimone dell’ecumenismo, Clément era stato tale soprattutto perché aveva vissuto la tensione all’unità come aspirazione alla propria conversione all’Unico.
I MALATI DI SLA CHIEDONO AIUTO PER UNA VITA DIGNITOSA - Ma i giornalisti si agitano solo quando c’è da togliere il sondino - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 22 gennaio 2009
E ra una lunga tavolata, quella allestita lo scorso fine settimana a Salò, sulle rive del Garda, ma non c’erano piatti né bicchieri: « Noi non mangiamo», aveva sorriso uno dei commensali al giornalista rimasto interdetto. « Noi abbiamo il sondino. È così da mesi, a volte anni». Era da poco finito il primo raduno nazionale dei malati di Sla e a quel tavolo iniziava la loro festa, ma i giornalisti, gli invitati d’onore, gli unici per cui una tavola era imbandita e profumava di risotto ai funghi, erano davvero pochi. In quella sala avveniva qualcosa di importante, addirittura vitale, ma le grandi testate erano altrove.
« Siamo qui per gridare il nostro diritto a vivere», dicevano i malati di Sla, sclerosi laterale amiotrofica, nota come il morbo dei calciatori, una malattia che non perdona e in pochi anni immobilizza ogni muscolo del corpo fino a negare la capacità di deglutire e di articolare la parola. Quando a essere compromessi sono infine i muscoli respiratori, sopraggiunge la morte. « Siamo in cinquemila e vogliamo vivere, aiutateci a farlo con dignità » , ribadivano, ma il loro appello, forse oggigiorno troppo scomodo, è caduto nel silenzio mediatico. Seduti sulle sedie a rotelle, il collo sorretto dai sostegni, gridavano il loro no all’eutanasia ( non un lancio di agenzia), ricordavano che non è quella la soluzione, sostenevano che la vita va vissuta fino all’ultimo respiro, e che è bello farlo, se solo qualcuno ti sta accanto. Si ribellavano a chi, in nome della 'pietas', offre invece la morte. «Noi siamo vivi, volevamo ricordarvi questo», annunciavano alla stampa ( che non c’era), e in tempi di sentenze che giudicano vite ' degne' e vite ' meno degne' non è così scontato. Così come non suona esagerato il loro appello a non lasciarli morire: in alcune zone d’Italia le Asl non passano la sacca dell’alimentazione e dell’idratazione, troppo costosa, fanno sapere. Non solo: la Sla, « la grande bastarda » come la chiamano loro, è una nera saracinesca che pian piano ti chiude fuori dalla vita ma fino all’ultimo ti tiene sul bordo, non sei morto ma non comunichi più col mondo esterno... Un vegetale, si direbbe di questi tempi, decidendo per ' pietas' che è meglio reciderlo. Peccato che, dentro, la vita pulsi come prima, il pensiero corra lucido, la personalità e la memoria non si perdano: sono persone che amano, sentono, desiderano. Il controllo dei muscoli oculari è l’ultima funzione che resta, per questo se la Asl passa loro il ' Comunicatore' possono tornare a esprimersi con una voce vera, emessa dal sintetizzatore vocale ma attivata dal semplice movimento degli occhi. Un miracolo, « il ritorno a una vita dignitosa » , hanno provato a spiegare i malati di Sla, «il confine tra il voler continuare a vivere e il voler morire». Ma molti non l’hanno: troppo costoso. Ecco allora il pianto improvviso di una ragazza che lo attende da un anno, e lo sfogo di Mario Melazzini, il volto noto della Sla, il medico diventato paziente: « Perché per un solo italiano che vuole staccare il sondino si muovono tutti, per migliaia che lo chiedono non si muove nessuno? Si parla solo di diritto alla morte, ma prima non c’è il diritto alla vita?». Dov’erano i giornalisti? Dove i politici schierati per la morte di Eluana Englaro? Dove i cosiddetti garantisti? «È una bella gara di solidarietà » , ha commentato il neurologo Defanti, non riferendosi a chi da anni si prende cura di Eluana ma ai personaggi ( l’ultima la governatrice del Piemonte) che ora qua ora là danno la loro « disponibilità » ad « accogliere » Eluana, cioè a farla morire.
E i quindici medici della famosa équipe pronta ad accorrere gratuitamente a Udine per staccare un sondino, dove sono? Per ora sono disoccupati, perché allora non investire questa loro passione per i ' diritti' umani accanto a qualcuno di questi malati? Mettere il sondino è più dura che toglierlo, non richiede quindici giorni bensì anni di gratuità: a Salò lo gridavano in tanti, ma i giornalisti erano altrove, forse a Lecco, a registrare puntuali lo sparuto corteo radicale per la morte di Eluana.