domenica 25 gennaio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 25/01/2009 12:22 – VATICANO - Papa: Buon Anno cinese, nella festa della conversione di san Paolo - Benedetto XVI ha fatto gli auguri a tutti i popoli dell’Asia orientale, perché vivano in gioia e armonia con Dio e la creazione. Conversione è accogliere la salvezza e il dono dell’amore di Gesù, che ci salva dall’egoismo e dalla tristezza. La conclusione della Settimana per l’unità dei cristiani a san Paolo fuori le Mura e la Giornata mondiale per i malati di lebbra. Due bambini liberano 2 colombe dalla finestra del papa.
2) CONGO/ L'imprevedibile alleato ruandese accende una timida speranza: la pace - INT. Edoardo Tagliani - sabato 24 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
3) OBAMA/ Sull'aborto e le prime vere scelte si incrina il mito di "San Barack" - Augusto Lodolini - domenica 25 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
4) IMPRESA SOCIALE/ Le organizzazioni non profit: ruolo e prospettive di sviluppo - Alceste Santuari - domenica 25 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
5) TERRA SANTA/ Il luogo dove la guerra non riesce a fermare i pellegrini - Redazione - domenica 25 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
6) LA CHIESA, LO STATO E IL CASO ELUANA - DOPPIA OBBEDIENZA? NO, RICHIAMO ALLA GIUSTIZIA - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 25 gennaio 2009
7) SERVE UN INTERVENTO CONTRO L’ESODO FORZATO - Cristiani e iracheni a pieno titolo Il mondo ascolti il Papa - RICCARDO REDAELLI – Avvenire, 25 gennaio 2009
8) LE STORIE L’infanzia in oratorio, poi l’abbandono della scuola, la contestazione con i suoi estremismi, 11 anni come infermiere in ospedale...Quindi, grazie a un film con Aldo e Giovanni, la chiamata casuale di un prete e la riscoperta della fede - Il Vangelo secondo Giacomo - Il noto comico tiene una rubrica sulla rivista missionaria dei gesuiti e al Centro San Fedele di Milano commenterà la parabola del ricco Epulone «Il mio è stato un percorso di riavvicinamento dopo un esodo di anni. Nella Chiesa ho trovato enorme libertà» - di Angela Calvini – Avvenire, 25 gennaio 2009


25/01/2009 12:22 – VATICANO - Papa: Buon Anno cinese, nella festa della conversione di san Paolo - Benedetto XVI ha fatto gli auguri a tutti i popoli dell’Asia orientale, perché vivano in gioia e armonia con Dio e la creazione. Conversione è accogliere la salvezza e il dono dell’amore di Gesù, che ci salva dall’egoismo e dalla tristezza. La conclusione della Settimana per l’unità dei cristiani a san Paolo fuori le Mura e la Giornata mondiale per i malati di lebbra. Due bambini liberano 2 colombe dalla finestra del papa.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Benedetto XVI ha fatto gli auguri del Nuovo anno cinese a tutti i popoli dell’Asia orientale, che seguono il calendario lunare è che da domani celebrano l’Anno del Bue. Parlando alla fine della preghiera dell’Angelus con i fedeli in piazza san Pietro, il papa ha detto: I popoli di vari Paesi dell’Asia Orientale si preparano a celebrare il capodanno lunare. Auguro a loro di vivere questa festa nella gioia. La gioia è l’espressione dell’essere in armonia con se stessi: e ciò può derivare solo dall’essere in armonia con Dio e con la sua creazione. Che la gioia sia sempre viva nel cuore di tutti i cittadini di quelle Nazioni, a me tanto care, e si irradi sul mondo!”. Fra i Paesi che seguono questo calendario vi sono la Cina, Giappone, Taiwan, Hong Kong, Singapore, le Coree, il Vietnam e tutti i Paesi dove vi sono importanti comunità cinesi come l’Indonesia, la Malaysia, le Filippine.
Ma il tema della sua riflessione prima della preghiera mariana è stato focalizzato dalla conversione di san Paolo, la cui memoria viene celebrata oggi dalla Chiesa. “Per la verità – ha detto il papa - nel caso di Paolo, alcuni preferiscono non usare questo termine, perché – dicono - egli era già credente, anzi ebreo fervente, e perciò non passò dalla non-fede alla fede, dagli idoli a Dio, né dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo. In realtà, l’esperienza dell’Apostolo può essere modello di ogni autentica conversione cristiana”.
La conversione di Paolo, ha continuato il papa, “maturò nell’incontro col Cristo risorto; fu questo incontro a cambiargli radicalmente l’esistenza. Sulla via di Damasco accadde per lui quello che Gesù chiede nel Vangelo di oggi: Saulo si è convertito perché, grazie alla luce divina, "ha creduto nel Vangelo". In questo consiste la sua e la nostra conversione: nel credere in Gesù morto e risorto e nell’aprirsi all’illuminazione della sua grazia divina. In quel momento Saulo comprese che la sua salvezza non dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge, ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui – il persecutore – ed era risorto”.
Per ogni cristiano, il battesimo è il segno della conversione. “Convertirsi – ha precisato il pontefice - significa, anche per ciascuno di noi, credere che Gesù ‘ha dato se stesso per me’, morendo sulla croce (cfr Gal 2,20) e, risorto, vive con me e in me. Affidandomi alla potenza del suo perdono, lasciandomi prendere per mano da Lui, posso uscire dalle sabbie mobili dell’orgoglio e del peccato, della menzogna e della tristezza, dell’egoismo e di ogni falsa sicurezza, per conoscere e vivere la ricchezza del suo amore”.
Benedetto XVI ha poi ricordato che oggi pomeriggio presiederà i vespri solenni nella basilica di san Paolo fuori le Mura, insieme ai leader ecumenici di Roma. “Noi cristiani – ha aggiunto - non abbiamo ancora conseguito la mèta della piena unità, ma se ci lasciamo continuamente convertire dal Signore Gesù, vi giungeremo sicuramente”.
Un altro appuntamento ricordato dal pontefice è quello della 56ma Giornata mondiale per i malati di lebbra. “Mi rallegro – ha detto il papa - che le Nazioni Unite, con una recente Dichiarazione dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, abbiano sollecitato gli Stati alla tutela dei malati di lebbra e dei loro familiari. Da parte mia, assicuro ad essi la mia preghiera e rinnovo l’incoraggiamento a quanti lottano con loro per la piena guarigione e un buon inserimento sociale”.
Un saluto speciale e “ con grande affetto” è stato rivolto ai bambini dell’Azione cattolica di Roma, che per tutto il mese si sono impegnati in incontri, riflessioni, attività legate alla “Carovana della Pace”. Alla fine dell’Angelus, due bambini, insieme al pontefice, hanno liberato due colombe bianche.


CONGO/ L'imprevedibile alleato ruandese accende una timida speranza: la pace - INT. Edoardo Tagliani - sabato 24 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Lo scorso 22 gennaio, giovedì sera, il leader congolese dei ribelli Tutsi, Laurent Nkunda, è stato arrestato a seguito di un’operazione congiunta e condotta dai governi del Congo e del Ruanda. Le milizie di quest’ultimo Stato hanno attraversato il confine del Paese in accordo col governo di Kinshasa. Si tratta di un’improvvisa alleanza che ha lasciato sorprese popolazione e comunità internazionale. E quali risvolti potrà avere questo nuovo corso degli eventi è davvero difficile prevederlo. Abbiamo chiesto a Edoardo Tagliani, cooperante AVSI per il Congo ed ex giornalista, di raccontarci questi ultimi concitati giorni nel martoriato Paese
Com’è attualmente la situazione del Congo?
La situazione è terribilmente confusa. Neanche il più lungimirante tra coloro che lavorano su questo territorio avrebbe potuto immaginarsi qualcosa di simile a quanto sta accadendo nelle ultime ore. Nell’arco di tre giorni l’esercito Ruandese è entrato nel territorio congolese, con l’accordo ovviamente di Kinshasa, e quello che era il capo della ribellione dal 2004, da quando invase la città di Bunangana, è stato arrestato dagli stessi ruandesi. Quindi il tutto ha certamente generato ovunque una situazione piuttosto confusa e nessuno capisce di preciso che cosa succeda.
Ovviamente speriamo tutti nelle logiche più ottimistiche del caso, ossia che avvenga realmente quello che apparentemente sembra, e che sia un inizio della risoluzione della crisi quasi quindicinale del Kivu.
Come viene percepita a livello popolare l’invasione “pacifica” delle milizie ruandesi?
Due giorni fa i poveri congolesi che abitano a ridosso della strada, la prima percorsa dalle milizie ruandesi, hanno spalancato la bocca e si sono chiesti che cosa stesse succedendo, se si trattava di un’invasione, di una guerra o quant’altro.
Oggi vanno in giro le teorie più disparate. C’è chi è contento e chi è ottimista. C’è chi rifiuta la presenza di ruandesi sul territorio o chi pensa che sia un trucco del Ruanda per occupare il Congo. E infine c’è chi dice: «finalmente siamo ad un punto di svolta di questa crisi e c’è stato un accordo serio fra i due governi». È proprio la confusione più totale specialmente fra la gente più povera la quale, rispetto a noi volontari che siamo comunque dei privilegiati, è totalmente traumatizzata, esce da quattordici anni di guerra, e, soprattutto, si ricorda di quando i ruandesi erano nemici. Ricordiamo che per anni interi la posizione dei ruandesi è stata parecchio ondivaga nei loro confronti. Dunque i cittadini congolesi non sanno davvero più di chi fidarsi, sono spaventati. Ma, forse per la prima volta, si trovano anche a sperare che qualcosa cambi.
Qual è adesso il maggiore interlocutore istituzionale per il popolo congolese?
Questo è un altro problema grosso. Purtroppo il Paese ha scarsissimi mezzi di comunicazione la maggior parte dei quali sono schierati. In una nazione dove si svolge un conflitto infatti è più facile avere il possesso della propaganda mediatica rispetto a quanto avviene nella normale politica interna.
Diverso è invece il discorso se riguarda la politica locale. In città ad esempio ci sono diverse e disparate rappresentanze politiche, ognuna delle quali dice la sua. Personalmente credo che la politica locale sia informata tanto quanto noi, gli amministratori civici non sanno che pesci prendere. Questa invasione insomma è un avvenimento passato diversi chilometri sopra la testa della gente.
Qual è la ragione della durata così estesa del conflitto congolese?
Credo che ormai gli osservatori internazionali siano tutti convinti di una cosa: la guerra in corso ha radici economiche, come la maggior parte delle guerre. Poi, purtroppo, facendo una guerra per ragioni economiche, si vanno a toccare altri tasti come ad esempio quello etnico o a fomentare odi di altro tipo.
Sono giunte notizie relative a focolai di virus ebola, può dirci di che entità è l’epidemia in corso?
Sicuramente ci sono dei focolai. Sono distanti dall’est del Congo dove attualmente mi trovo. La situazione è certamente preoccupante, l’ebola è un morbo terribile e si espande con velocità. Occorre certo farvi attenzione, ma non credo che l’epidemia attuale sia particolarmente drammatica in termini di cifre.
Quando si sentono simili notizie non occorre evocare immagini da film alla Virus letale. Bisogna invece rendersi conto di quanto sia ben più grave e cronica la diffusione di febbri emorragiche di diversi ceppi in tutto il Paese. Una mia concittadina, che lavorava in Angola, vicino al confine col Congo, proprio in alcune zone dove si parlava di ebola, è invece purtroppo deceduta a causa del morbo di Marburg che è un tipo di febbre emorragica. Ripeto, non credo che sull’ebola attualmente si corra un rischio particolarmente maggiore al solito. Anche perché chi ci sta lavorando in questo momento, i Medici Senza Frontiere è in collaborazione con le misere e povere strutture ospedaliere che ci sono offrendo le proprie competenze che sono davvero eccellenti.
A cosa attribuisce lo scarso interesse dimostrato finora dalle diplomazie internazionali sulla situazione del Congo?
Non le so rispondere in maniera certa. Un’ipotesi che si può formulare è che lontani dai riflettori dei media è più facile realizzare e ottenere ciò che si vuole senza avere un’opinione pubblica che possa fare pressioni o magari, si spera, indignarsi. Quando cala il silenzio è difficile avere un’opinione su una cosa che non si conosce, e ciò sicuramente giova a molteplici interessi.
Nei fatti questo spot mediatico che abbiamo avuto negli ultimi tre mesi ha cambiato un po’ le cose. La diplomazia internazionale, pungolata, si è data una mossa notevole rispetto al passato. Non so dire se la situazione di oggi sia da attribuire a una buona manovra di questa o ad altre cause, ma sicuramente in questi ultimi tempi si è cercato di fare di più di quanto non si facesse prima.
Quindi le cose stanno lievemente cambiando in senso positivo?
Sì. Io sono di solito un individuo molto positivo se così non fosse non farei il volontario e non sarei qua. Non mi illuderei del tutto però, perché più volte abbiamo visto i riflettori accendersi su di noi per tre mesi e poi calare di nuovo l’oblio su questo Paese. Ricordiamoci che questa è una regione che resta comunque molto complicata. Se si intendesse compiere una seria operazione militare ciò implicherà senza dubbio un enorme dramma umano e umanitario. È difficile pensare che la situazione si sia risolta per una maggiore attenzione internazionale e per l’arrivo delle milizie ruandesi. Intanto abbiamo qualche speranza in più, per il resto staremo a vedere


OBAMA/ Sull'aborto e le prime vere scelte si incrina il mito di "San Barack" - Augusto Lodolini - domenica 25 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Non vi è dubbio, come ha sottolineato Lorenzo Albacete nel suo editoriale di qualche giorno fa, che la cerimonia di insediamento di Obama rimarrà impressa nella memoria degli americani e anche di molti europei, malgrado lo scetticismo tipico del Vecchio Continente che ha spesso considerato queste manifestazioni con una certa sussiegosità, dimenticando in molti casi le “oceaniche adunate” del proprio passato.
Certo è che l’avvento di Obama è stato segnato da un certo messianesimo, salutato come l’inizio di una nuova era di rigenerazione dell’immagine esterna e dell’unità interna degli Stati Uniti, entrambe frantumate dal “perfido” Bush. Altrettanto certo è che Obama è stato molto abile in campagna elettorale, presentandosi come l’uomo del cambiamento radicale, ma evitando clamorose rotture, a volte rievocando sensazioni molto “nostrane”, dalle “convergenze parallele” al “progresso senza avventure”, in una sorta di forte e pugnace “maanchismo”.
Dopo aver reso l’onore delle armi all’avversario McCain e averne ricevuto una sorta di viatico, ha riservato nella formazione del governo, pur saldamente presidiato dai suoi Chicago boys, un ruolo fondamentale all’antagonista interna, Hillary Clinton, e ha dato un segnale di continuità rilevante mantenendo il precedente responsabile in un dicastero nevralgico come la difesa.
Tutto bene quindi? Forse non del tutto. I primissimi giorni dei suoi pieni poteri rimarranno segnati da due decisioni che si pongono in forte discontinuità con la precedente Amministrazione. Il primo è l’immediato mantenimento di una chiara promessa elettorale: la chiusura di Guantanamo, accompagnata dall’ordine di eleminare ogni luogo di detenzione abusivo della Cia all’estero e dal bando totale dell’impiego della tortura, anche per fini di sicurezza nazionale, tutte misure su cui non si può che concordare.
La seconda decisione rappresenta una specie di tormentone per gli Stati Uniti e riguarda la cosiddetta Mexico City Policy, istituita da Ronald Reagan nel 1984, che imponeva alle Ong, per poter usufruire dei fondi federali, di non attuare né promuovere in altri paesi l’aborto come metodo di pianificazione familiare, salvo casi eccezionali come stupro o incesto. Questa disposizione venne annullata da Bill Clinton il 22 gennaio del 1993 e ripristinata da George W. Bush lo stesso giorno del 2001. Il 23 gennaio 2009, la Mexico City Policy è stata nuovamente abolita da Barack Obama.
Si tratta anche qui di una promessa elettorale, anche se non sottolineata nelle ultime fasi di campagna, ma che era stata oggetto di una dichiarazione congiunta con il candidato alla vicepresidenza Joe Biden il 22 gennaio 2008, trentacinquesimo anniversario della sentenza della Corte Suprema denominata Roe v. Wade, che aprì praticamente le porte all’aborto legale negli Usa. Questa decisione sta già provocando proteste da parte dei movimenti pro-life e anche la Chiesa cattolica ha espresso le proprie gravi preoccupazioni.
Diversi commentatori avevano già indicato il tema dell’aborto come uno dei principali possibili inciampi all’apparente idillio di Obama con il popolo americano, essendo il presidente stretto tra il proprio curriculum politico pro-choice e l’appoggio ottenuto su questa base dalle frange più liberal dei Democratici, e il desiderio di non rompere con quella parte di elettorato, anche tra i progressisti, contraria alla liberalizzazione dell’aborto.
Anche sul piano della politica economica si intravvedono possibili rotture, segnalate dal forte ribasso in Borsa in occasione dell’insediamento, quasi doppio rispetto alla prima elezione di Reagan, penalizzato dal fatto di essere un attore e neppure tanto importante ( la sua rielezione fu invece accolta positivamente da Wall Street). Forse più significative sono le preoccupazioni per il timore di un ritorno degli Stati Uniti a politiche protezionistiche, soprattutto nei paesi emergenti che ne temono le conseguenze negative per le proprie economie.
Sono pochi a credere che sul successo di Obama sia stato ininfluente il fattore razziale e molti pensano che se Barack fosse stato bianco, ora gli Stati Uniti avrebbero un presidente donna. Ad un Obama commosso che dice che sessant’anni fa uno come lui avrebbe avuto difficoltà perfino ad entrare in un ristorante di bianchi, fa il contrappunto il “reazionario” vicepresidente uscente Dick Cheney, che si dice felice per l’elezione di Obama perché dimostra quanto grande sia il paese e quanti passi avanti abbia fatto in questi anni.
Tuttavia, il giorno dell’insediamento il Financial Times ha intervistato alcuni afroamericani dell’altra Washington, quella povera e diseredata, scoprendo che non tutti lo considerano uno di loro, non solo perché tecnicamente non lo è, ma perché fa parte a tutti gli effetti dell’establishment, al di là del colore della pelle. Obama ne è conscio e ha già promesso di adoperarsi per superare il divario economico e sociale tra le due Washington, ma difficilmente potrà adottare una politica preferenziale nei confronti degli afroamericani, a meno di voler far torto ad altre comunità in condizioni altrettanto disagiate, come buona parte degli ispanici. Qui le scelte in materia di aborto, per esempio, possono diventare una discriminante, così come saranno importanti le posizioni che prenderà in merito alla legislazione sull’immigrazione. Obama ha voluto porre la cerimonia del suo insediamento sotto l’egida di Abraham Lincoln, il primo Repubblicano eletto presidente degli Stati Uniti e promotore della abolizione della schiavitù, avvenuta dopo la fine della sanguinosa Guerra di Secessione, e dopo il suo assassinio, con l’approvazione del Tredicesimo Emendamento, il 6 dicembre 1865. Un secolo e mezzo dopo, gli Stati Uniti hanno un presidente per metà di origine africana, ma la strada degli afroamericani verso una completa emancipazione sembra ancora lunga.


IMPRESA SOCIALE/ Le organizzazioni non profit: ruolo e prospettive di sviluppo - Alceste Santuari - domenica 25 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
In momenti di crisi come quello attuale si fa appello anche al ruolo che le aggregazioni sociali non lucrative sono in grado di svolgere, in specie considerando la loro intrinseca matrice solidale e sussidiaria (si vedano gli articoli apparsi su Il Sole 24 Ore di lunedì, 19 gennaio 2009). Colpisce invero osservando l’esperienza, la capacità delle organizzazioni non profit di saper intervenire per rispondere alle mutate e diversificate esigenze che promanano dalla società civile e soprattutto dagli strati più deboli e svantaggiati della stessa.
E forse questa capacità colpisce maggiormente se si muove dall’assunto – ricordato da Stefano Zamagni nell’articolo sopra citato – che le organizzazioni non profit non possono “limitarsi a migliorare le condizioni di vita delle persone, ma devono pensare a migliorare le loro capacità di vita”. Ciò implica, tra l’altro, presentare assetti organizzativi, “sensibilità” territoriale e “vocazione” all’altro, elementi che insieme definiscono azioni ed interventi che superano i confini della funzione redistributiva e che integrano la nozione di “servizi di interesse generale”, così come definiti a livello comunitario. Una siffatta configurazione produce (inevitabilmente) ricadute sulle forme giuridico-organizzative e sui rapporti con gli enti locali.
In passato si è sostenuto (anche chi scrive lo ha fatto) che la cornice normativa dovesse (e in talune parti dovrebbe) essere rivista e aggiornata allo scopo di permettere uno sviluppo più moderno e in linea con altre esperienze europee. In questa direzione, allora si è correttamente richiamata l’attenzione sull’azione economico-imprenditoriale delle associazioni e fondazioni, così da permettere alle stesse di recuperare efficienza ed efficacia nell’erogazione dei servizi. Componente essenziale per un futuro e strutturato sviluppo delle organizzazioni non profit, ma che oggi alla luce delle evoluzioni della società civile, dell’azione degli enti pubblici, in specie a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione del 2001 e del riconosciuto principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 u.c) non sembra più risultare forse così determinante. L’impresa sociale, invero, in questo contesto, è già realtà vissuta e sperimentata prima ancora che “disciplinata”. Si tratta invero di un contesto composito di organizzazioni ed esperienze impegnate a sviluppare soluzioni innovative capaci di intercettare e “guidare” i nuovi bisogni, espressione non solo di istanze soggettive e materialmente identificabili, ma anche domanda di socialità e di compagnia. A questo riguardo, si pensi all’esperienza positiva (ancorché iniziale in molti territori) dell’amministratore di sostegno ovvero del trust a favore dei soggetti deboli. In entrambi i casi le organizzazioni senza scopo di lucro possono giocare un ruolo “strategico”, in quanto realtà radicate sul territorio, conosciute, stimate e, per questo, ritenute in grado di prendersi cura dei propri cari/famigliari. E le esperienze ad oggi conosciute dicono che quanto più le organizzazioni sono “collegate” con il territorio (comuni, banche di credito cooperativo, fondazioni bancarie, ecc.), tanto maggiore è il loro grado di “appeal” istituzionale.
L’evoluzione giurisprudenziale, talune interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate, nonché il contesto normativo, sia esso nazionale ovvero regionale sembrano, oggi più che in passato, anche grazie alle “chiavi di lettura” fornite a livello UE, favorevole ad una evoluzione positiva delle organizzazioni non profit. Le forme giuridico-organizzative oggi a disposizione per la gestione e l’erogazione di servizi di interesse generale non sembrano invero impedire alle organizzazioni non profit di innovare ovvero di sviluppare la loro azione, in specie a livello locale. In molti casi, le stesse organizzazioni (associazioni, fondazioni e cooperative sociali) sono alla ricerca di assetti interni di governance e di collaborazioni con altre realtà non lucrative sul territorio, attraverso i quali, pur non volendo rinunciare alla loro precisa configurazione, condividere risorse e realizzare progetti integrati a beneficio della comunità.


TERRA SANTA/ Il luogo dove la guerra non riesce a fermare i pellegrini - Redazione - domenica 25 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Quattordici anni fa avevo giurato a me stesso che non sarei più tornato in Terra Santa. Troppo caldo, troppo disordine, troppa sporcizia. Voci orientali scomposte e aggressive, cibo poco invitante, pellegrini chiassosi e superficiali.
Insomma, orribile. Era il mio primo viaggio laggiù e sarebbe stato l'ultimo. Mai più sarei tornato in quella Terra che pure ammettevo avrei sempre riconosciuto come Santa.
Parafrasando le celebri parole di Giovanni XXIII a Loreto, mentre ricordava l'esperienza triste di un pellegrinaggio là in età giovanile, dicevo: «Signore mio, ti voglio tanto bene, ma qui non mi vedrai mai più». E aggiungevo: «Scusa, sai, ma avresti fatto meglio ad incarnarti per esempio in Carinzia o in Borgogna. Perché proprio 'sto postaccio invivibile?».
Quest'autunno invece sono stato (fortunatamente? provvidenzialmente?) obbligato a rimettere piede in Terra Santa. Il disordine è rimasto tale, la sporcizia pure, la gente non è diventata più simpatica e i pellegrini non erano meno chiassosi.
Chi è cambiato sono io. Occhi diversi. Cuore diverso.
Sarà l'età più avanzata, sarà il clima più gradevole, sarà la compagnia degli amici, ma sostanzialmente quello cambiato sono io. Questa volta non sono andato per prendere qualcosa, per vedere e imparare, per aggiungere un'esperienza. No. Sono andato per stare ad ascoltare, per capire, insomma con un atteggiamento più umile e più ricettivo. E allora il diario potrebbe aprirsi e schiudere mille considerazioni, mille passi compiuti nell'animo.
Basterà qui dire che cosa significa essere appena stato in Terra Santa ora che le prime notizie di tutti i giornali e telegiornali ne parlano. Semplicemente, non ci si stupisce di nulla. Si ridimensiona tutto quel che si vede e si sente dire della guerra. Quella è una terra così, fatta di contraddizioni, di odio profondo, di animi esasperati. Verrà mai la pace? La natura, l'identità stessa di quel Paese sono la negazione di ogni speranza umana. Tutti parlano di negoziati e di diplomazia, ma questo è un caso che non si risolve.
Che non possiamo risolvere noi, con mezzi umani. Se non ci si appella al Dio vero, al Dio di tutti, non si combina nulla. E quando dico il Dio vero, intendo il Dio capace di portare la pace vera. Non il pacifismo, l'irenismo, la non belligeranza: ci sono già tanti che ne parlano, si atteggiano da illuminati ma se vai a guardare scopri che appendono le bandiere della pace sul balcone e poi litigano ferocemente con il vicino di casa. Io invece intendo il Dio di Gesù Cristo, tanto malamente testimoniato da noi cristiani, che ne portiamo il nome, ma tanto innamorato di tutti noi da essersi incarnato per sollevarci. Un Dio che non fa la pace a parole. Uno che accetta di venire ad abitare in una Terra per niente bella, per niente facile, ma per portare la pace dall'alto della Croce. Parlando al cuore e alla coscienza dell'uomo e chiedendo di essere accolto e obbedito come Dio del perdono e dell'amore.
Così penso, pellegrino rincasato, mentre leggo i giornali.
(Aldo Cerefogli)


LA CHIESA, LO STATO E IL CASO ELUANA - DOPPIA OBBEDIENZA? NO, RICHIAMO ALLA GIUSTIZIA - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 25 gennaio 2009
Come molti altri, ritengo che la sentenza del­la Cassazione sul 'caso Englaro' sia profondamente sbagliata. Auspico che ad essa non ven­ga dato seguito, anche considerando che la sen­tenza si limita ad 'autorizzare' e di certo non 'im­pone' la sospensione dell’ alimentazione artifi­ciale che mantiene in vita Eluana. Plaudo al car­dinale Poletto, che ha il coraggio, con espressio­ni sobrie e rispettose, ben diverse da quelle da al­tri usate contro di lui, di chiamare con il termine più corretto la fine della vita che si sta progettan­do per la povera ragazza: 'eutanasia'. E lo rin­grazio per come sta esortando all’ obiezione di coscienza i medici che dovessero essere coinvol­ti nella morte di Eluana. Come va valutata questa posizione, che non è solo del cardinale, ma anche mia e soprattut­to di tanti altri laici e cattolici? Stiamo facendo violenza allo Stato di diritto? Stiamo calpe­stando la legalità? Rechiamo offesa allo Stato, 'unico titolare della sovranità'? Stiamo alte­rando i suoi giusti rapporti con la Chiesa? Di­rei piuttosto che stiamo richiamando lo Stato al suo dovere più autentico, che è quello di le­giferare secondo giustizia. Ragioniamo, se almeno questo ci è concesso, con un po’ di pacatezza e cerchiamo di individuare il punto centrale del dibattito. Si è detto: nel caso Englaro, il cardinale Poletto si sarebbe compor­tato correttamente se si fosse limitato a invitare i singoli medici all’obiezione. Egli invece ha solle­citato collettivamente un’intera categoria profes­sionale a mobilitarsi, per mandare a vuoto una sentenza dello Stato! Nel nome dell’ identità cat­tolica, egli avrebbe 'inventato' una sorta di 'ob­bligazione di appartenenza', ricordando ai me­dici che il dovere di ubbidire alla legge di Dio è un dovere prioritario rispetto a quello che essi han­no nei confronti dello Stato. Ma allora che ne è del­la separazione tra Stato e Chiesa e della parità morale nelle discussioni pubbliche?
Argomenti del genere dimostrano purtroppo quanto continui ad essere difficile per (alcuni) lai­cisti italiani capire in che cosa davvero si sostan­zi il principio di laicità e la distinzione (più che la 'separazione') tra Stato e Chiesa. In molti casi la Chiesa si batte (legittimamente) per se stessa, per i propri luoghi di culto, per i propri religiosi e le proprie religiose, per la tutela e la promozione della sua tradizione nel nostro Paese e dell’inse­gnamento pubblico della propria dottrina: tutte questioni di rilievo politico ed eventualmente concordatario, per regolare correttamente le qua­li la distinzione tra Stato e Chiesa è assolutamen­te indispensabile. Quando però la Chiesa inter­viene per difendere il bene umano, non lo fa per ragioni confessionali: infatti i suoi interventi sul­la vita, sulla famiglia, sulla guerra, sulla dignità dei lavoratori, sull’ umanizzazione delle pene e su tanti temi sociali non concernono i 'credenti', ma tutti gli uomini, senza distinzione alcuna. Se si fosse rivolto ai medici come singoli, il cardina­le Poletto avrebbe umiliato l’etica ippocratica, che è, da ben cinque secoli prima di Cristo, schierata a difesa della vita, riducendone indebitamente l’ambito a quello di un ristretto orizzonte con­fessionale. Paradossalmente, nel suo rivolgersi al­la classe medica in quanto tale e non ai singoli me­dici credenti, il cardinale ci ha dato una limpida lezione di laicità.
In tal modo però, insistono i laicisti, ci si chiude gli occhi di fronte al relativismo delle democrazie odierne, che riconoscono sì alla Chiesa il diritto di parlare alle coscienze, ma non quello di crea­re forme alternative di 'obbligazione religiosa', che contrasterebbero con il principio democra­tico che affida all’ autonoma decisione dei laici o­gni decisione politica concreta. L’errore sta in que­sto, che quella che i laicisti confondono con una 'obbligazione religiosa' altro non è in buona so­stanza che il costante appello perché nelle dina­miche politiche e civili ogni legge, ogni sentenza, ogni pratica sociale abbiano come propria misu­ra la giustizia. Sappiamo che nel mondo d’oggi su non poche questioni etiche e bioetiche fonda­mentali la coscienza dei cittadini è non solo divi­sa, ma addirittura lacerata. Guai però se la presa d’atto di questa lacerazione fosse utilizzata per produrre indifferenza o per legittimare qualsiasi forma di scetticismo. Sappiamo con quanta fer­mezza (alcuni) laici protestano, quando li si ac­cusa, in quanto non credenti, di non avere ade­guati valori morali. Ma se così stanno le cose, per­ché stigmatizzare interventi a difesa non dell’ au­torità del Papa, ma della vita, interventi sobri, ar­gomentati, rispettosi, autorevoli? La Chiesa non pretende una doppia ubbidienza da parte di chic­chessia: pretende, ma soprattutto prega, perché gli uomini non cessino mai di cercare la verità e di operare per il bene di tutti.


SERVE UN INTERVENTO CONTRO L’ESODO FORZATO - Cristiani e iracheni a pieno titolo Il mondo ascolti il Papa - RICCARDO REDAELLI – Avvenire, 25 gennaio 2009
Un discorso forte, con parole di affetto e di vicinanza che non lasciano spazio a dubbi, quello rivolto da papa Benedetto XVI durante l’udienza con la comunità cristiana caldea, la principale dell’Iraq. Un incontro particolarmente significativo alla luce delle terribili violenze che i cristiani stanno subendo nel Paese asiatico, specialmente a Mosul, la città simbolo di una presenza che risale alle origini del cristianesimo e che fa dei cristiani la componente più antica di quella nazione. Il Pontefice ha voluto testimoniare la propria vicinanza alle sofferenze dei fedeli e ha ricordato le tante vittime e lo stesso arcivescovo della città, monsignor Faraj Rahho, barbaramente assassinato. Ma il suo messaggio è andato oltre la semplice vicinanza. Benedetto XVI ha chiesto con forza che le autorità irachene si adoperino per assicurare la protezione ai cristiani, a pieno titolo cittadini del Paese, con gli stessi doveri e gli stessi diritti. È questo un punto cruciale per il futuro dell’Iraq.
Le persecuzioni contro i cristiani sono dilagate soprattutto nel 2007 e 2008, pur essendo cominciate subito dopo l’occupazione anglo-americana del 2003. L’escalation degli attacchi è avvenuta proprio quando l’anarchia e il terrore diminuivano, grazie all’aumento delle truppe statunitensi e alle nuove strategie militari. È nel 2007 che le violenze calano quasi ovunque, ma crescono a danno dei cristiani, e non per caso: il 'nuovo Iraq' si rafforza, esce dall’emergenza e, quindi, il controllo politico sul territorio e il bilanciamento fra i vari gruppi etnici e religiosi ritornano centrali. Mosul è la città cristiana per eccellenza e risulta contesa fra curdi, arabi e altre minoranze. L’obiettivo delle feroci violenze che sono dilagate per mesi è chiaro: ridurne la presenza, magari spingendo tutti i cristiani fuori da Mosul verso l’altipiano di Ninive, per costruire una sorta di enclave delimitata e vulnerabile. O svuotare i loro quartieri storici di Baghdad, confinandoli in poche aree protette. Ora la situazione è apparentemente migliorata: più protezione alle persone e ai luoghi simbolo, meno attacchi, meno omicidi. Negli scorsi mesi il governo centrale ha sostituito molti responsabili della sicurezza nella provincia con altri più fidati, o per lo meno più efficienti dei loro predecessori. Lo stesso premier al-Maliki ha promesso più vigilanza. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti: nel giro di pochi anni la presenza cristiana si è ridotta a poche centinaia di migliaia di persone, meno della metà di quella del 2003. Dare sicurezza non implica infatti solo fermare le violenze o tutelare meglio i luoghi di culto; è qualcosa di più: significa far sentire i cristiani, iracheni a tutti gli effetti, parte di una visione dello Stato basata sul rispetto della pluralità e assicurare alle minoranze spazi di rappresentanza politica non solo formali o di testimonianza. Le decisioni prese nell’autunno scorso dal Parlamento sulle quote garantite nei consigli locali e provinciali non convincono, dato che garantiscono un numero di seggi troppo esiguo. E neppure rassicurano le sempre più evidenti tensioni fra governo regionale curdo e governo centrale, o le pressioni dei gruppi musulmani più ortodossi per una progressiva islamizzazione delle leggi nazionali. Per questo il Papa ha incoraggiato i cristiani iracheni «ad amare la terra dei loro antenati, alla quale sono profondamente legati». Ma, per mantenere questo legame, è cruciale una maggior attenzione di tutta la comunità internazionale, nonché l’avvio di programmi mirati di aiuto e assistenza. Molti cristiani iracheni si sono rifugiati in altri Paesi della regione, dal Libano alla Siria. È importante riconoscere il loro status e aiutarli mentre si creano le condizioni politiche e di sicurezza per un loro ritorno. Il futuro peggiore per questa comunità sarebbe infatti un lento esodo, con l’emigrazione di piccoli gruppi frammentati chi in Medio Oriente, chi in Occidente, nel silenzio di una comunità internazionale distratta.


LE STORIE L’infanzia in oratorio, poi l’abbandono della scuola, la contestazione con i suoi estremismi, 11 anni come infermiere in ospedale...Quindi, grazie a un film con Aldo e Giovanni, la chiamata casuale di un prete e la riscoperta della fede - Il Vangelo secondo Giacomo - Il noto comico tiene una rubrica sulla rivista missionaria dei gesuiti e al Centro San Fedele di Milano commenterà la parabola del ricco Epulone «Il mio è stato un percorso di riavvicinamento dopo un esodo di anni. Nella Chiesa ho trovato enorme libertà» - di Angela Calvini – Avvenire, 25 gennaio 2009
« Io credo che Dio ci abbia creati perché ci vuole felici. E la comicità è la cosa che più si avvicina su questa terra alla felicità » . Giacomo Poretti lo sa bene, perché con gli amici Aldo Baglio e Giovanni Storti di gente ne ha resa felice – perlomeno per qualche minuto – tanta. Sia travestito da circense bulgaro, da martellante Tafazzi o da avvoltoio, « Giacomino » con gli altri del trio ha proposto una comicità semplice e pulita che ha sbancato spesso l’auditel in tv e il botteghino a teatro e al cinema. E adesso il « piccolo » attore, che dal suo metro e 55 non dimostra affatto 52 anni, spiazza dedicandosi a programmi « alti » per il Centro culturale San Fedele di Milano: cura una nuova rubrica sulla rivista dei gesuiti Popoli ( « Il prossimo commento sarà sulla cittadinanza ai migranti » , dice), organizza incontri culturali e spirituali e il 13 maggio commenterà la parabola evangelica del ricco Epulone. Eppure un filo logico c’è.
« Giacomino » guarda con una luce speciale negli occhi e un sorriso sornione dietro ai baffetti sottili. Sinora, con grande discrezione, ha sempre evitato di parlare del suo percorso di fede. « Il mio è stato un percorso di riavvicinamento alla Chiesa dopo un esodo durato anni. Avevo però un’inquietudine continua, il desiderio di qualcosa d’altro. Da 10 anni, invece, anche grazie a mia moglie Daniela che aveva le stesse esigenze, e al Centro San Fedele, sono ' tornato alla base'. Non a caso abbiamo battezzato nostro figlio ( due anni e mezzo) Emanuele, ' Dio con noi': vorremmo che gli rimanesse una traccia delle nostre scelte » .
Ma allora una « base » cattolica c’era...
« Certo, l’oratorio per me è stato fondamentale. Sono nato da una famiglia di operai a Villa Cortese, vicino a Legnano, e come tutti i ragazzini frequentavo l’oratorio.
Era bellissimo, tra una lezione di catechismo con qualche sbadiglio, qualche scappellotto e ore passate a giocare a calcio. Lì è nata la passione per il teatro. Don Giancarlo aveva creato una filodrammatica. Tra gli 8 e gli 11 anni ho cominciato così a recitare, era un gioco bellissimo, veniva tutto il paese. Tanto che da ragazzo volevo entrare nei Legnanesi,
ma non mi presero » .
E poi, cosa è successo?
« Poi ci fu la rottura con tutto, coi genitori, con la Chiesa. Facevo la terza media, e mi misi in contrapposizione, dolorosa ma necessaria, con tutto. Mollai la scuola per geometri per andare a lavorare in fabbrica come metalmeccanico. Un grande errore, perché poi ho capito che avrei voluto laurearmi o in medicina o in lettere ma è stato impossibile. A 18 anni entrai in ospedale come infermiere. Nel frattempo mi davo al cabaret e alla contestazione politica » .
Doveva ancora trovare la sua vera strada.
« Erano i primi anni ’ 70 e venni tirato dentro dai gruppi della sinistra più contestatrice.
Idealità molto forti, ma anche rigidità e intolleranza. Il marxismo portava a considerare nemici quelli che non la pensavano come te. Ricordo un episodio che mi fece riflettere: alla scuola per infermieri insegnava un professore di Cl con cui avevamo idee divergenti. Era il primo maggio del 1979: ci fu una zuffa in piazza Duomo tra noi e i ciellini e mi ritrovai faccia a faccia col professore, tutti e due pronti a colpirci con l’ombrello. Ci guardammo negli occhi, ci fu un attimo di imbarazzo e abbassammo le ' armi'. Per questo per me oggi è importante il dialogo, interculturale e interreligioso, e apprezzo il lavoro dei cardinali Martini e Tettamanzi » .
E gli anni da infermiere, a contatto con la sofferenza?
« Io ho fatto l’infermiere per 11 anni, di cui 5 in oncologia. È stata un’esperienza umana molto forte. Ho visto morire centinaia di persone. Di 3 o 4 di loro ho un ricordo indelebile. Ma dovevo stare attento a non affezionarmi. Quando morì il mio primo paziente per due giorni non andai in ospedale, volevo mollare tutto » .
Ha trovato un senso al dolore?
« La vita è una ricerca continua di significato. Siamo stati creati da un Dio che è avvolto nel mistero, come la sua volontà.
Noi possiamo solo accettarla, io posso solo intuire. Lo ripeto: lui ci vuole felici, ma noi spesso cogliamo solo la paura, l’assurdità.
Ma la vita è una cosa bellissima, e va sempre promossa » .
C’è qualcosa di questa fede nel comico?
« Il talento e l’armonia fanno parte di un disegno divino. Non so spiegarlo, ma sento che insieme ad Aldo e Giovanni scatta la molla della creatività. Non che non ci siano conflitti, ma al di là c’è l’amicizia profonda, la consapevolezza della fortuna che abbiamo di esprimere la vita attraverso la risata.
Credo molto all’amicizia, per questo ho letto di recente al San Fedele il Diario dell’amicizia di Van Broeckhoven, un prete operaio morto a 34 anni. Un libro illuminante » .
E i due colleghi che dicono della sua svolta?
« Pensi che è stata causata proprio da un nostro film, Chiedimi se sono felice,. Ci invitarono a parlarne al San Fedele. Ci andai, ma poco convinto. Invece lì conobbi il direttore padre Eugenio Bruno, persona eccezionale. L’abbiamo invitato a casa nostra per parlare di filosofia: ancora oggi con altre coppie di amici ci riuniamo una volta al mese per parlare di libri. ' Perché ho fatto il sacerdote? Perché Dio è amore', ci disse con una fede e una sincerità che mi colpirono.
Cominciai così a frequentare il San Fedele. E, devo ammetterlo, nella Chiesa ho trovato una libertà enorme » .
Ormai per lei è un’attività a tempo pieno?
« Tra un film e fare il papà dedico il resto del tempo al San Fedele, insieme a mia moglie.
Organizzo cicli di conferenze e di reading, un percorso spirituale a tappe con proiezioni di film e commenti di scrittori e artisti. Il prossimo appuntamento sarà il 9 febbraio, con ' Germogli di compassione' da Etty Hillesum, Pasolini e Dostoevskij, che leggerò insieme a Giovanni, mentre il quarto s’intitolerà ' È possibile rinascere?' » .
Giacomo, infine ha trovato quel che cercava?
« Sì. La risposta è questa faticosissima fede » .