Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e il culto spirituale in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
2) Orientamento sessuale, l'agenda nascosta della Francia - La mozione promossa all’ONU dalla Francia su “orientamento sessuale e identità di genere”, e firmata in dicembre da 66 stati membri delle Nazioni Unite è il tentativo di attuare il progetto contenuto in un documento del 2006 molto controverso e noto come i “Princìpi di Yogyakarta”.
3) Il ''diritto'' di morire, peggior incubo della post-modernità - Tentazione sconcertante - Francesco D'Agostino, Avvenire, 3 gennaio 2009
4) Decine di sostenitori interrogati, minacciati, posti sotto controllo o agli arresti, secondo ordini che vengono “da molto in alto”. Il documento censurato su internet. - Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Prosegue e si estende la repressione contro i firmatari di Carta 08, documento che chiede al governo maggiore democrazia e rispetto dei diritti umani, compresa la libertà religiosa. Il gruppo Chinese Human Rights Defenders (Chrd) documenta che almeno 39 firmatari sono stati minacciati dalla polizia o arrestati, in zone diverse e distanti.
5) 08/01/2009 09:05 - ISRAELE – LIBANO - Razzi dal Libano colpiscono il nord di Israele: si apre un nuovo fronte? - di Joshua Lapide - Feriti in modo leggero 5 israeliani in Galilea. L’esercito israeliano ha risposto al fuoco. Nessuna rivendicazione, ma si pensa al coinvolgimento del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Le minacce di Hezbollah; la visita dell’iraniano Larijani a Damasco per incontrare Khaled Meshaal e altri gruppi palestinesi vicini a Teheran. A Gaza il bilancio dei morti sale a 700; oltre 3 mila i feriti.
6) A Gaza una pace è possibile? - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 8 gennaio 2009
7) Preghiera islamica in Piazza Duomo. A far paura è l'indifferenza - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: nerella.buggio@culturacattolica.it - giovedì 8 gennaio 2009
8) DIBATTITO/ Israele: contro pregiudizi e diffidenze, c'è la fede di un popolo - Giorgio Israel - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) ISRAELE/ La guerra vista dagli Usa - Lorenzo Albacete - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) ASTRONOMIA/ Bersanelli: citando Dante, il Papa ricorda il nesso della scienza con la ricerca di un significato - INT. Marco Bersanelli - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
11) LETTERATURA/ L’anti modernità scomoda e profetica di Péguy, Claudel e Bernanos - Redazione - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Benedetto XVI e il culto spirituale in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 7 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi nell'aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, riprendendo il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sul tema: "Il culto spirituale".
* * *
Cari fratelli e sorelle,
in questa prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice.
L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una "spiritualizzazione" dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.
1. In Rm 3,25, dopo aver parlato della "redenzione realizzata da Cristo Gesù", Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo "ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue". Con questa espressione per noi piuttosto strana – "strumento di espiazione" – san Paolo accenna al cosiddetto "propiziatorio" dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo "propiziatorio", nel grande giorno della riconciliazione – "yom kippur" – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.
San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.
Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio "non fatto da mani d’uomo" – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Mc 14,58; Gv 2,19ss). Questo è il primo testo.
2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della Lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale". In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione "presentare i vostri corpi", stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di "dare in oblazione, offrire". L’esortazione a "offrire i corpi" si riferisce all’intera persona; infatti, in Rm 6, 13 egli invita a "presentare voi stessi". Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a "glorificare Dio nel vostro corpo" (1 Cor 6,20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.
Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come "sacrificio vivente, santo, gradito a Dio". È qui che incontriamo appunto il vocabolo "sacrificio". Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – "vivente" – esprime una vitalità. Il secondo – "santo" – ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – "gradito a Dio" – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio "in odore di soavità" (cfr Lev 1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.).
Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è "il vostro culto spirituale". I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (tçn logikçn latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: "rationabile obsequium". La stessa parola "rationabile" appare nella prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come "rationabile". La consueta traduzione italiana "culto spirituale" non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.
Questa formula paolina, che ritorna poi nella Preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I Profeti e molti Salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: "Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…" (vv 12–14). Nello stesso senso dice il Salmo seguente, 51 (50): "..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi" (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: "Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …" (Dan 3,38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio.
Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.
Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: "Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo "culto spirituale, ragionevole"? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti "uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28), che siamo morti nel battesimo (cfr Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui "sacrificio vivente", offrire il "culto vero". Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il "culto vero".
Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi "rationabile" – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta "rationabile" che piace a Dio. Così la Preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. Sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua Città di Dio. Cito solo due frasi. "Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo"… "Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso" (10,6: CCL 47, 27 ss).
3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: "La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere "liturgo" di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo" (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione "sacerdotale". L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, "oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo". Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno. Grazie per la vostra pazienza.
Orientamento sessuale, l'agenda nascosta della Francia - La mozione promossa all’ONU dalla Francia su “orientamento sessuale e identità di genere”, e firmata in dicembre da 66 stati membri delle Nazioni Unite è il tentativo di attuare il progetto contenuto in un documento del 2006 molto controverso e noto come i “Princìpi di Yogyakarta”.
La mozione promossa all’ONU dalla Francia su “orientamento sessuale e identità di genere”, e firmata in dicembre da 66 stati membri delle Nazioni Unite è il tentativo di attuare il progetto contenuto in un documento del 2006 molto controverso e noto come i “Princìpi di Yogyakarta”.
I “Princìpi di Yogyakarta” hanno lo scopo dichiarato di gestire “l’applicazione delle leggi internazionali sui diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e identità di genere”. I promotori asseriscono che i princìpi di Yogyakarta vincolano gli stati a nuovi standard legali anche se il documento di Yogyakarta non nasce da un accordo fra governi ma dai gruppi di pressione omosessuali e dai burocrati dell’ONU.
Alcuni delegati europei hanno detto al “Friday Fax” che la bozza originale del documento francese dibattuto internamente tra i paesi dell’Unione Europea, si riferiva esplicitamente ai "Princìpi di Yogyakarta”, ma che Irlanda, Malta e Polonia hanno insistito perché il riferimento venisse tolto.
Malgrado la correzione apportata nella versione finale della proposta francese, il ministro degli esteri olandese Maxime Verhagan, uno dei principali sostenitori, ha legato esplicitamente la mozione al documento di Yogyakarta. Inoltre, a un successivo incontro dell’ONU su “Diritti umani, Orientamento sessuale e Identità di genere”, Verhagan ha affermato che il suo governo sostiene i “Princìpi di Yogyakarta” e invita anche “tutti gli altri stati ad accettare questi princìpi”.
Anche il membro della Commissione per i Diritti Umani, Michael O’Flaherty, ha fatto esplicito riferimento ai Princìpi di Yogyakarta per definire i concetti di “orientamento sessuale” e “identità di genere” che appaiono nel documento promosso dalla Francia.
I Princìpi definiscono “orientamento sessuale” come “la capacità di ciascuna persona di provare un’attrazione sessuale profonda, emotiva e affettiva e di avere relazioni intime e sessuali con individui di un genere diverso, dello stesso genere o di più di un genere”. “Identità di genere” è invece definita come “l’esperienza di genere individuale e interiore profondamente sentita da ogni persona, che non necessariamente corrisponde al sesso assegnato alla nascita, incluso il senso personale del corpo (che può coinvolgere, se liberamente scelta, la modifica della funzione o dell’apparenza corporea per mezzo di interventi medici, chirurgici o altro) e altre espressioni di genere, quali il vestire, il parlare e le movenze”.
I critici rilevano come i riferimenti contenuti nei Princìpi di Yogyakarta laddove affermano ostentatamente la libertà di opinione ed espressione “senza riguardo all’orientamento sessuale o all’identità di genere”, in realtà limitano la libertà di parola, dato che gli stati sono invitati ad “assicurare che l’esercizio della libertà di opinione ed espressione non violi i diritti e le libertà di persone di diverso orientamento sessuale e di identità di genere”. Esemplari al proposito gli ostacoli creati al diritto dei predicatori cristiani in Canada e Svezia di pronunciarsi sulla peccaminosità degli atti omosessuali: ciò fa presagire cosa potrebbe accadere se i Princìpi di Yogyakarta venissero applicati più largamente.
I tre paesi europei che hanno ottenuto la rimozione del riferimento a Yogyakarta erano già stati decisivi in passato per rompere il consenso della UE, come ad esempio nella “Commissione 2008 sullo stato delle donne”, dove Irlanda, Polonia e Malta si sono dissociate dal linguaggio favorevole al diritto all’aborto promosso da altre nazioni europee.
Ma alcuni delegati contrari alla mozione francese, avrebbero comunque preferito che restasse il riferimento a Yogyakarta, perché la semplice rimozione fa sì che l’agenda radicale venga così mascherata e venga data una copertura a quei paesi, come nel caso dell’America Latina, che hanno un elettorato socialmente conservatore ma che desiderano essere considerati “progressisti” sostenendo la mozione francese.
di Piero A. Tozzi
SVIPOP 2-1-2009
Il ''diritto'' di morire, peggior incubo della post-modernità - Tentazione sconcertante - Francesco D'Agostino, Avvenire, 3 gennaio 2009
Sono sinceramente convinto che una legge ampiamente condivisa sulla fine della vita umana sia, nell’Italia di oggi, opportuna bioeticamente e necessaria biopoliticamente (ne ho scritto diverse volte sulle colonne di que sto giornale). E non mi turba troppo nemmeno l’espressione 'testamento biologico': è tutt’altro che corretta, ma ciò che conta non è il colore o la grafica dell’etichetta che si vuole incollare su di una scatola, quanto il contenuto di questa. Quando però leggo un articolo, scritto per perorare un 'referendum sul diritto di morire', come quello che Luca e Francesco Cavalli-Sforza hanno pubblicato su Repubblica del 2 gennaio (ma il nome che conta mediaticamente è quello del padre, Luca, illustre genetista), vengo preso da un profondo sconforto: se questo è il livello della riflessione su questioni cruciali come quella della fine della vita umana è forse meglio fermare ogni dialogo, imporre a tutti ( me compreso, ovviamente) adeguate pause di riflessione, esigere da tutti i bioeticisti un severo sforzo di onestà intellettuale.
Infatti, con chi ragiona come ragionano i due Cavalli-Sforza è davvero difficile intendersi, non solo in merito ad una possibile, saggia legge sulla fine vita, ma perfino sui più elementari concetti di bioetica: come dialogare con chi ritiene «ridicole» le opinioni altrui (quelle di chi, come ad esempio il sottoscritto, non riesce a trovare un fondamento a un preteso «diritto di morire»), con chi si inventa (perché questa è la parola esatta) che i propri avversari ritengano «reato» il suicidio, con chi qualifica alla stregua di un «sadismo senza nome» la doverosa assistenza ai malati in stato vegetativo persistente (da essi scorrettamente definiti in «coma vegetativo permanente»)?
Da due scienziati ci si aspetterebbe un linguaggio corretto, un’argomentazione lucida e fredda e soprattutto la più rigorosa competenza nella materia. Così non è per i due Cavalli-Sforza, che sono talmente convinti di poter sostenere che ogni uomo abbia un diritto insindacabile a «farla finita» (!) «qualunque fosse il motivo del suo gesto» (!), che non solo sorvolano lievemente sulla plurisecolare riflessione filosofica (e non esclusivamente religiosa!) sul suicidio, ma non dimostrano la benché minima attenzione sulla specificità bioetica che la questione della disponibilità della vita è venuta ad assumere nel nostro tempo e che coinvolge il carattere ippocratico dell’ etica medica (e in particolare la 'funzione di garanzia' a favore della vita che i sistemi sociali moderni assegnano ai medici) e la distinzione complessa, ma necessaria, tra cessazione dell’accanimento terapeutico e eutanasia.
I Cavalli-Sforza sono – o almeno sembrano – beatamente ignari della complessità di queste questioni, così come sembrano del tutto ignari dell’uso statisticamente molto limitato che le persone fanno del testamento biologico nei Paesi in cui esso è stato legalizzato: casi tragici come quelli di Eluana si ripresenteranno sempre, perché la decisione di lasciare dichiarazioni anticipate di trattamento viene di fatto assunta solo da una piccola minoranza di persone. Per ovviare a questa difficoltà (lo dimostra l’esperienza bioetica di altri Paesi), molti che (come i Cavalli-Sforza) si impegnano con tutte le loro forze per dare lo statuto di diritto umano fondamentale al principio di autodeterminazione eutanasica suggeriscono poi, con elegante noncuranza, di far valere, in mancanza di dichiarazioni espresse di fine vita, l’opinione di un fiduciario, di un tutore o comunque di un 'decisore', che ritenga di saper 'interpretare' quello che il soggetto deciderebbe per se stesso, se fosse ancora in grado di decidere.
Si giunge rapidamente in tal modo a dare concretezza al peggior incubo della post-modernità, quello di una definitiva burocratizzazione della fine della vita umana. Sono consapevoli di tutto questo i Cavalli-Sforza? Sono consapevoli che il desiderio narcisistico di far conoscere al pubblico le loro opinioni bioetiche, peraltro fragilissime, sta mandando in fumo il prestigio che Luca Cavalli-Sforza si è conquistato in anni di duro lavoro scientifico? Sono consapevoli, scrivendo quello che scrivono, che portano acqua ad un solo mulino, quello di coloro che ritengono ampiamente provato che tutto il dibattito sulle dichiarazioni anticipate di trattamento abbia una sola, autentica e soprattutto ipocrita finalità, quella di legalizzare l’eutanasia?
Decine di sostenitori interrogati, minacciati, posti sotto controllo o agli arresti, secondo ordini che vengono “da molto in alto”. Il documento censurato su internet. - Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Prosegue e si estende la repressione contro i firmatari di Carta 08, documento che chiede al governo maggiore democrazia e rispetto dei diritti umani, compresa la libertà religiosa. Il gruppo Chinese Human Rights Defenders (Chrd) documenta che almeno 39 firmatari sono stati minacciati dalla polizia o arrestati, in zone diverse e distanti.
Dal 9 dicembre il documento circola su internet e la polizia ha interrogato e minacciato i sostenitori a Pechino e Shanghai e in Liaoning, Zhejiang, Fujian, Guangdong, Hainan, Shaanxi, Hubei e Hunan.
Dall’8 dicembre mancano notizie di Liu Xiaobo, dissidente dall’epoca di piazza Tiananmen, arrestato dalla polizia con l’accusa di “istigazione alla sovversione contro lo Stato”. Ieri sua moglie Liu Xia ha chiesto notizie alla polizia, ma le è stato risposto solo che l’arresto è stato deciso “a un livello davvero alto”.
L’ex leader comunista Bao Tong, per 20 anni agli arresti domiciliari, ha sottoscritto Carta 08 firmandosi “un cittadino”. Informato delle persecuzioni, in un suo saggio osserva che nessuna parte del documento è contro lo Stato, ma richiama solo principi come diritti umani, libertà, uguaglianza, democrazia, riconosciuti in tutto il mondo, contrastati nella Cina imperiale, ma non nella moderna Repubblica di Cina. Bao osserva che se le minacce della polizia sono iniziative locali, debbono intervenire le autorità superiori a fermarle. Ma se sono decise “al massimo livello, allora è la popolazione che deve fare qualcosa. In una repubblica dovrebbe esserci un meccanismo per correggere simili problemi. Una repubblica in cui a chi è ingiusto è permesso esserlo e nella quale le ingiustizie si accumulano una sull’altra, non è degna di essere chiamata repubblica”.
“Mentre siedo qui tranquillo in attesa di essere chiamato, arrestato e interrogato – scrive – con pari calma attendo una risposta dalle autorità” [alla Carta e alla sua denuncia]. “Dico a tutti quelli che hanno già firmato la Carta e a quelli che la firmeranno, di rimanere freddi e razionali, ottimisti e risoluti. Mando i miei saluti a Zhang Zuhua, che è già tornato a casa, e a sua moglie Tian Yuan. Anche a Liu Xaobo, che è ancora detenuto, e a sua moglie Liu Xia. Auguro a tutti loro pace e buona salute”.
La Cina ha firmato nel '98 la Convenzione Onu sui diritti civili, compresa la libertà di espressione, difesa anche dall'art. 35 della Costituzione cinese.
I perseguitati sono molti: Du Yilong, Zhang Jiangkang, Yang Hai e Zhao Changqing nello Shaanxi; Liu Yiming nell’Hubei; Huang Dachuan nel Liaoning; Zhang Zuhua, Pu Zhiqiang, Jiang Qisheng, Gao Yu, Liu Di e Teng Biao a Pechino; Zheng Enchong e Jiang Danwen a Shanghai; Qin Geng nell’Hainan e Fan Yanqiong el Fujian; Ye Du, Zhao Da gong, Guo Yongfeng, Tang Jinling, Ye Huo, Zhang Jinjun, Li Tie e Chen Shaoua nel Guangdog; Wu Baojian, Zou Wei, Wang Xue’e, Gao Haibing, Zhuang Daohe, Mao Qingxiang, Liu Jincheng nel Zhejiang, e ancora tanti altri secondo Chrd, che ritiene l’elenco incompleto per difetto. Molti sono posti sotto controllo o messi agli arresti in casa. Il timore è che la repressione si aggravi nel periodo delle feste, quando osservatori e media internazionali sono meno presenti.
Sebbene le autorità censurino Carta 08 su internet, il documento continua a circolare su blog e siti web.
08/01/2009 09:05 - ISRAELE – LIBANO - Razzi dal Libano colpiscono il nord di Israele: si apre un nuovo fronte? - di Joshua Lapide - Feriti in modo leggero 5 israeliani in Galilea. L’esercito israeliano ha risposto al fuoco. Nessuna rivendicazione, ma si pensa al coinvolgimento del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Le minacce di Hezbollah; la visita dell’iraniano Larijani a Damasco per incontrare Khaled Meshaal e altri gruppi palestinesi vicini a Teheran. A Gaza il bilancio dei morti sale a 700; oltre 3 mila i feriti.
Gerusalemme (AsiaNews/Agenzie) – Almeno tre razzi Katyusha (altre fonti dicono 5) hanno colpito stamane alcune zone del nord Israele, ferendo in modo leggero cinque persone. L’esercito israeliano ha subito risposto lanciando 5 mortai nel sud Libano.
Dall’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, il 27 dicembre scorso, questa è la prima volta che dal Libano partono dei razzi su Israele. I Katyusha sono caduti nell’ovest della Galilea; i danni maggiori sono avvenuti al villaggio di Nahariya. Gli abitanti della Galilea e quelli del sud Libano temono possa riaprirsi di nuovo il fronte e gli orrori della guerra scoppiata nell’estate 2006. Nei giorni scorsi il governo libanese aveva ordinato la chiusura delle scuole nel sud, per timore di rappresaglie israeliane.
Durante il conflitto, Hezbollah ha lanciato oltre 4 mila razzi sul nord di Israele. I raid dell’aviazione israeliana hanno fatto più di 1200 morti in Libano, in maggioranza civili; i morti di parte israeliana, in maggioranza soldati, sono stati 160.
Fino ad ora il lancio dei Katyusha non è stato rivendicato da nessuno. Nei giorni scorsi molte personalità libanesi avevano escluso una partecipazione militare di Hezbollah al conflitto fra Israele ed Hamas. È però probabile – come è già avvenuto in passato - che Hezbollah lasci operare il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) di Ahmed Jibril in attacchi contro obbiettivi israeliani e americani.
Ieri Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, parlando a migliaia di sciiti in Libano (v. foto), si è detto pronto a nuovi combattimenti, minacciando che “la guerra del 2006 sarebbe considerata una passeggiata se Israele osasse lanciare un nuovo attacco” in Libano.
Intanto da ieri, nella Striscia di Gaza, dopo le 3 ore di cessate-il-fuoco garantite da Israele, è ripresa l’offensiva dell’esercito contro Hamas. Secondo fonti mediche palestinesi, i morti sono ormai più di 700 e i feriti almeno 3 mila.
Finora i Paesi arabi hanno tenuto una posizione molto moderata, condannando le violenze di Israele, ma anche la decisione di Hamas nell’interrompere la tregua di 6 mesi, sponsorizzata dall’Egitto nel giugno scorso. Hamas (ed Hezbollah) continuano a ricevere sostegno dall’Iran. Ieri il politico iraniano Ali Larijiani ha incontrato a Damasco il leader di Hamas in esilio, Khaled Meshaal, e altri gruppi palestinesi per studiare con loro la proposta egiziana di un cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza.
A Gaza una pace è possibile? - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 8 gennaio 2009
Ho ricevuto questo invito dal nostro carissimo amico Andrea Pamparana a confrontarci sulla drammatica situazione della striscia di Gaza. Raccolgo volentieri questa «provocazione», nella speranza di contribuire non al crescere delle parole o delle opinioni, ma della esperienza di pace nella terra di Gesù, e nel mondo.
Raccolgo sotto sia le parole del Papa all’Angelus (che sono ciò a cui ogni cristiano deve attenersi per un giudizio sulla realtà), sia le parole esatte dell’intervista del Card. Martino a ilsussidiario.net.
Caro Don Mangiarotti,
vorrei tanto che qui sul nostro sito si sviluppasse un forte dibattito su una questione che vado a sottoporre anche alla tua attenzione. Hamas lancia i missili contro Israele da basi situate all’interno di scuole e ospedali. Poi i valorosi combattenti lasciano il campo e osservano a debita distanza di sicurezza la reazione israeliana che inevitabilmente andrà a colpire vittime civili. Veri cultori di morte quali essi sono, sacrificano i loro stessi concittadini, meglio se giovani e giovanissimi, consapevoli che una parte vigliacca e molliccia del mondo occidentale piangerà giuste lacrime per i civili ma non batterà ciglio di fronte al provocatorio e criminale lancio dei missili verso Israele. Il cardinale Martino ha parlato di Gaza come di un campo di concentramento, indicando dunque gli israeliani come aguzzini di stampo nazista. Il cardinale Tettamanzi non solo tollera ma sembra plaudire alle centinaia di musulmani che provocatoriamente hanno pregato in piazza Duomo a Milano, cuore della cristianità ambrosiana. Io, vecchio laico perplesso e cercatore curioso della Verità, rimango esterrefatto e turbato di fronte a queste prese (o non prese) di posizione da parte di alcuni cristiani. Mi chiedo, ti chiedo, vi chiedo: perché?
Un abbraccio
Andrea Pamparana
Così il Papa Benedetto XVI ha detto all’Angelus di Domenica 4 gennaio:
«I Patriarchi ed i Capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme oggi, in tutte le Chiese della Terrasanta, invitano i fedeli a pregare per la fine del conflitto nella striscia di Gaza e implorare giustizia e pace per la loro terra. Mi unisco a loro e chiedo anche a voi di fare altrettanto, ricordando, come essi dicono, “le vittime, i feriti, quanti hanno il cuore spezzato, chi vive nell’angoscia e nel timore, perché Dio li benedica con la consolazione, la pazienza e la pace che vengono da Lui”.
Le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra.
La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente. Preghiamo, dunque, affinché “il Bambino nella mangiatoia... ispiri le autorità e i responsabili di entrambi i fronti, israeliano e palestinese, a un’azione immediata per porre fine all’attuale tragica situazione”.»
E queste sono le affermazioni del Card. Martino nell’intervista a ilsussidiario.net:
«ISRAELE/ Card. Martino: raccogliamo i frutti dell’egoismo. L’unica speranza è il dialogo
INT. a Renato Raffaele Martino (mercoledì 7 gennaio 2009)
Mentre il conflitto tra Israele e Hamas va avanti con rinnovata ostilità, il Papa è tornato ad invocare il dialogo come unica strada possibile per costruire la pace in Terra Santa. Secondo il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, la soluzione più ragionevole rimane quella del dialogo tra israeliani e palestinesi. Essi sono fratelli, figli della stessa terra. Purtroppo «nessuno vede l’interesse dell’altro. Ma le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. E a pagare sono sempre le popolazioni inermi. Impariamo dall’Iraq».
Eminenza, nella sua omelia del 1° gennaio Benedetto XVI ha affermato che la vera pace è “opera della giustizia” e che «anche la violenza, l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – da combattere». Perché il dialogo è l’unica condizione della pace?
L’alternativa al dialogo è solamente il ricorso alla forza e alla violenza. Ma la violenza non risolve i problemi e la storia è piena di conferme. L’ultimo esempio è quello della guerra in Iraq. Cosa ha risolto? Ha complicato le cose. La diplomazia della Santa Sede sapeva bene Saddam era pronto ad accettare le richieste delle Nazioni Unite. Ma non si è voluto aspettare. In Terra Santa vediamo un eccidio continuo dove la stragrande maggioranza non c’entra nulla ma paga l’odio di pochi con la vita. Abbiamo appena celebrato i trent’anni della mediazione tra Cile e Argentina, di cui la Santa sede a suo tempo fu grande promotrice. Quello è stato un frutto del dialogo.
Che cosa manca nello scenario mediorientale per intraprendere la strada del dialogo?
Un senso più acuto della dignità dell’uomo. Nessuno vede l’interesse dell’altro, ma solamente il proprio. Ma le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. A pagare sono sempre le popolazioni inermi. Guardiamo le condizioni di Gaza: assomiglia sempre più ad un grande campo di concentramento.
Eminenza, durante l’Assemblea plenaria del Consiglio Giustizia e Pace, commentando la Populorum progressio, Lei affermò «non c’è sviluppo senza un disegno su di noi e senza noi come disegno»; e che per questo lo sviluppo non è «qualcosa di facoltativo, ma un dovere da assumere». Alla luce degli ultimi avvenimenti che compiti impone questa considerazione?
Abbiamo appena celebrato i quarant’anni della stupenda enciclica di Paolo VI Populorum progressio, dove Paolo VI ha detto che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Benedetto XVI non ha mancato di richiamarlo nel suo Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace. Se si vuole costruire la pace occorre favorire lo sviluppo, non solo lo sviluppo dei paesi ma quello personale, di ogni uomo. La stessa assistenza alle nazioni in via di sviluppo non può essere un’elemosina, ma dev’essere un partenariato, un aiuto a far divenire tutti protagonisti del proprio sviluppo. Solo così l’aiuto a tutti può diventare aiuto allo sviluppo di ciascuno. Questo vale naturalmente anche e soprattutto per il Medio Oriente.
Come interroga la coscienza di un cristiano quello che accade in Terra Santa? Come mai questa terra, molto più di altre, appare lontana dalla pace e ogni tentativo di raggiungerla sembra frustrato in partenza?
Non siamo solamente noi cristiani a chiamarla Terra Santa, ma anche ebrei e i musulmani. E sembra una disdetta che proprio questa terra debba essere il teatro di tanto sangue. Ma occorre una volontà da tutte e due le parti, perché tutte e due sono colpevoli. Israeliani e palestinesi sono figli della stessa terra e bisogna separarli, come si farebbe con due fratelli. Ma questa è una categoria che il “mondo”, purtroppo, non comprende. Se non riescono a mettersi d’accordo, allora qualcun altro deve sentire il dovere di farlo. Il mondo non può stare a guardare senza far nulla.
Nonostante le continue esortazioni delle diplomazie, prevale una sensazione generalizzata di impotenza.
Si mandano missioni di pace in tutto il mondo, lì si sono fatte tante proposte ma i veti hanno sempre prevalso. Ora ho sentito che anche il presidente Bush ha cominciato a pensare che forse una missione di pace sarebbe auspicabile. Per cominciare sarebbe una misura efficace. Se venisse la pace tra palestinesi e israeliani, sarebbe un beneficio inestimabile per tutto il Medio oriente.
Quale compito spetta ai cristiani in quella terra martoriata?
Testimoniare la loro unità. In tutto il Medio Oriente i cristiani stanno perdendo la speranza e hanno cominciato ad andarsene, soprattutto dall’Iraq. Quando ero a New York, alle Nazioni Unite, ho incontrato moltissimi rifugiati negli Usa che mi dicevano: che futuro potevo io assicurare ai miei figli? È un grido di dolore al quale è difficile dare una risposta. Lo può fare solo la speranza che viene dalla fede. Ma al mondo questo non importa e sta a guardare.
I cristiani, ai quali quella terra appartiene al pari di ebrei e musulmani, pagano un prezzo alto ma silenzioso. Perché?
Ogni anno sono troppi i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i missionari, i laici che perdono la vita nell’esercizio della missione più cristiana di tutte, quella di aiutare i sofferenti e i bisognosi. Perché i cristiani alla fine soffrono più degli altri? Per l’apertura del cristianesimo a considerare tutti come fratelli, mentre l’estremismo islamico non ammette né conversioni né altra religione che la propria. E questo è fonte di inimicizie e violenza.»
Preghiera islamica in Piazza Duomo. A far paura è l'indifferenza - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: nerella.buggio@culturacattolica.it - giovedì 8 gennaio 2009
Ci spiacerebbe scoprire che si trattava di prove tecniche di colonizzazione islamica, che si trattava di una sfida e noi non l’abbiamo capito, eravamo troppo indifferenti per accorgercene.
“Conoscere l’islam. Incontrare i musulmani” è’ il titolo di un corso promosso da Diesse Lombardia, con il patrocinio dell’assessorato all’istruzione della Regione Lombardia, cui ho partecipato di recente, molto utile per capire un mondo come l’islam, complesso che comprende un miliardo e trecentomilioni di persone con molteplici appartenenze etniche, con usi e costumi differenti.
Un mondo guardato troppo spesso con occhi stereotipati, un mondo verso il quale spesso vi è diffidenza smisurata o apertura incondizionata.
Sia chiaro, non basta un corso per capire, non basta, ma è un inizio per cominciare a comprendere la complessità e le contraddizioni dell’islam dove religione e politica sono la stessa cosa, dove il profeta è al tempo stesso condottiero e legislatore, dove non esiste un’autorità religiosa unica e riconosciuta, ma chiunque può diventare un imam, può predicare ciò che ritiene opportuno e interpretare il Corano, dove l’autorità è sempre incontrastata e basta scrivere un libro con parole non consone per essere messi al bando e rischiare la pena capitale.
Questo corso dovrebbero farlo nei seminari, nelle scuole, negli oratori, nei corsi d’aggiornamento per insegnanti e assistenti sociali, volontari della Caritas, che ogni giorno si trovano a doversi confrontare con culture differenti e che spesso in buona fede, confondono, l’accoglienza con la rinuncia alla propria identità e al rispetto delle regole del paese in cui si vive.
Farebbe bene frequentarlo anche a qualche Vescovo a qualche arciprete, perché i fedeli non possono essere sempre invitati al dialogo, alla comprensione, all’accoglienza, senza mai dire quali sono le regole che devono essere condivise perché il dialogo e l’accoglienza siano proficui.
Ecco perché sottovalutare quanto accaduto in alcune piazze italiane sabato 4 gennaio a mio avviso è un errore.
Non si possono fare spallucce, e dire: "che saranno mai un migliaio di musulmani che in Piazza Duomo pregano rivolti alla Mecca?" I manifestanti in questione avevano il permesso per una manifestazione sulla guerra di Gaza che doveva terminare in Piazza San Babila.
Il prefetto stabilisce dove inizia, quale percorso fa e dove finisce una manifestazione, questa è la regola e va rispettata, anche dai musulmani.
Vogliamo fingerci ingenui e credere all’imam che sostiene che casualmente giunta l’ora della preghiera, si trovavano in Piazza Duomo e allora, eccoli a svolgere il loro compito, un posto vale l’altro?
Vogliamo fingerci ingenui e affermare che si avevano appena finito di bruciare bandiere ma erano fatte artigianalmente, poco più di lenzuoli bianchi con uno scarabocchio azzurro a forma di stella dipinto al centro, suvvia, che sarà mai?
Non dimentichiamo però tra un’ingenuità e l’altra, che per l'Islam, un luogo dove si prega diventa immediatamente sacroe nello stesso giorno si pregava anche a Bologna in Piazza Maggiore davanti alla Chiesa di San Petronio.
Qualche domanda dovremmo pur farcela.
Da qualche dubbio dovremmo pur lasciarci ferire.
Ci spiacerebbe scoprire che si trattava di prove tecniche di colonizzazione islamica, che si trattava di una sfida e noi non l’abbiamo capito, eravamo troppo indifferenti per accorgercene.
Scoprire che dovevamo allarmarci se non per i gesti compiuti, almeno per l’indifferenza con cui questi gesti sono recepiti, senza comprendere che i simboli per l’islam hanno un grande valore e che forse questi gesti hanno un regista che non stava certo in piazza, anche se a Milano guidava la manifestazione l’imam di Viale Jenner, condannato a tre anni e otto mesi per terrorismo (prosciolto per prescrizione)
Resta una domanda - e se domani un migliaio di fedeli cattolici si attardassero davanti ad una moschea a dire il vespero che accadrebbe?-
Provare per credere?
No, sarebbero additati come provocatori e condannati dagli stessi cattolici, giustamente, perché va rispettata la sensibilità altrui, rispettati i luoghi di culto.
Però resta il fatto, che sciolto il gruppo dei fedeli cristiani in preghiera, quel suolo non avrebbe cambiato padrone.
DIBATTITO/ Israele: contro pregiudizi e diffidenze, c'è la fede di un popolo - Giorgio Israel - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Ogni qualvolta si riapre la ferita purulenta della crisi mediorientale riemerge il solito doloroso problema: le mezze parole che nascondono un equilibrio apparente e, in realtà, lo squilibrio verso una parte, e poi la disinformazione, il riproporsi infinito degli stessi pregiudizi, le diffidenze, le incomprensioni, l’ignoranza della storia, dei sentimenti e delle ragioni altrui.
Ne trovo tristemente le tracce anche su questo giornale informatico. Per esempio, leggo in un’intervista di Luigi Geninazzi: «Quando si dice, a titolo di esempio, “ma cosa fareste voi italiani o voi francesi se vi tirassero missili dallo Stato vicino?”, è una domanda sbagliata, perché la Striscia di Gaza non è uno Stato vicino! Sono territori che fino a qualche tempo fa erano tecnicamente occupati. E giuridicamente lo sono ancora, perché è stato Israele a occuparli e non può trattare quell’offensiva alla stregua di un attacco esterno. Israele ha diritto di difendersi, ma non può farlo continuando a occupare dei territori».
Leggo e mi stropiccio gli occhi. È vero che Gaza era occupata, fino al 2005. Ma da allora non lo è più. Come si può seriamente raccontare al lettore che “giuridicamente lo è ancora”? La si vada a chiedere al governo di Hamas che controlla Gaza sotto ogni aspetto, se quei territori non sono sottratti al controllo di Israele! E che diamine vuol mai dire che un territorio è giuridicamente ancora di Israele perché è stato Israele a occuparli? Allora bisognerebbe dire che i territori di tutto il mondo appartengono giuridicamente ancora a coloro che un tempo li occuparono… Se Trieste venisse bombardata dall’Istria l’Italia non potrebbe difendersi, perché un tempo occupava l’Istria. È un puro e semplice mascherarsi dietro un’argomentazione apparentemente “tecnica” e oggettiva per poter condannare Israele e negare il suo diritto a difendersi, in quanto “occupa territori”. Se non li occupasse bisognerebbe inventarseli.
Nell’intervista del Cardinale Martino leggo: «le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. A pagare sono sempre le popolazioni inermi. Guardiamo le condizioni di Gaza: assomiglia sempre più ad un grande campo di concentramento». Forse bisognerebbe andarci piano con i confronti, ma se anche quella parola – campo di concentramento – fosse appropriata bisognerebbe specificare subito chi ne tiene le chiavi, chi sono i carcerieri. Altrimenti si rischia, restando nel vago, di dar credito alla parola d’ordine “Gaza come Auschwitz, ebrei come nuovi nazisti” tanto cara a certi movimenti di estrema sinistra filoislamista. Gaza poteva essere il primo nucleo del nuovo stato palestinese – dopo la fine dell’occupazione– e invece un movimento terrorista, Hamas, se ne è impadronito facendone una piattaforma di lancio per missili verso Israele e una base da cui si prepara il nuovo capitolo dello scontro con l’“entità sionista” da eliminare. Se non si parla chiaro, Eminenza, e non si dicono le cose con il nome e il cognome quell’ingiustizia che Lei giustamente depreca diventerà un nostro peccato.
Circolano anche parole apparentemente pacate e, nella sostanza, contundenti. C’è chi sostiene che, a differenza della minoranza araba cristiana e de pochi israeliani cristiani gli arabi e agli ebrei di buona volontà sono ridotti al silenzio da una maggioranza resa cieca dall’odio o dalla paura. È il contrario della verità. Nessun ebreo di Palestina è ridotto al silenzio da una maggioranza resa cieca dall’odio o dalla paura. Israele è un paese democratico, dove si manifesta contro il governo, anche la minoranza araba lo fa, si inalberano cartelli senza censura, nessuno ha paura del potere. A Gaza invece comanda un movimento, Hamas, che ha preso il potere con la violenza e chi dissente viene semplicemente ucciso. Ecco la verità.
Poi c’è chi non capisce l’importanza della Terrasanta per i non cristiani, per gli ebrei in particolare, chi sostiene che per essi si tratti soltanto di un territorio, di un ricordo di fatti avvenuti, di un passato glorioso. Mentre per i cristiani è la Memoria di un Fatto avvenuto, di un Dio che si è fatto uomo e che è tuttora realmente presente.
Davvero siamo ancora a questo punto di incomprensione? Per duemila anni gli ebrei, alla fine della festa di Pesach (la Pasqua) chiudono con la frase: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Lo fanno per ricordo di un passato glorioso, per tigna, per nostalgia paesaggistica? No. Gerusalemme è il luogo dello spirito per gli ebrei, Gerusalemme è la capitale della Torah, e il luogo dove la terra tocca il Cielo. Andate a Gerusalemme, su quello che è poi il Monte degli Ulivi dove Gesù tenne il celebre discorso: quello per duemila anni è stato il cimitero dove migliaia e migliaia di ebrei da tutto il mondo venivano a morire per essere più vicini al Cielo. Il grande poeta medioevale Yehuda Ha-Levi concluse la sua vita come tanti riuscendo a toccare il Muro Occidentale, unico resto del Grande Tempio distrutto dai romani. Qui fu trapassato con una lancia da un saraceno. Passeggiare tra quelle lapidi, negli ultimi decenni pietosamente restaurate, dopo che il governo giordano le aveva utilizzare per pavimentare strade o come urinatoi, dà il senso di che cosa è Gerusalemme per gli ebrei.
Chi abbia sensibilità e rispetto per la fede altrui e non indulga al nefasto impulso di trasformare la giusta adesione alla propria fede in denigrazione di quella altrui dovrebbe passeggiare per le strade di Gerusalemme, assistere a un tramonto, contemplare l’incredibile intreccio che si consuma sul suo territorio tra le tre religioni monoteiste. Tutto è in bilico tra il dramma e il miracolo, tra l’intolleranza e l’incomprensione.
Ma chi ha pagato il prezzo dell’incomprensione e della sottrazione della propria memoria e della propria spiritualità è stato soltanto l’ebraismo. Oggi, mentre dal 1967 i Luoghi Santi conoscono una libertà di accesso in precedenza mai vista, l’unica religione di cui si mettono i discussione i diritti sulla Terrasanta è l’ebraismo. Per taluni sarebbe puro attaccamento nazionalista, ostinato e anacronistico tentativo di ricreare un regno perduto. Altri – gli integralisti islamici – dicono semplicemente che gli ebrei in Terrasanta non ci sono mai stati, che è tutto un imbroglio, che un Tempio non è mai esistito, e così via. Nel 2001 il Cardinale Ratzinger ammoniva che «un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo» e invitava a un «rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’Antico Testamento».
Ebbene, si segua questo ammonimento, leggendo e rileggendo la Bibbia. È un dovere per un cristiano che si rispetti capire che cosa sia il legame tra l’ebraismo e la Terrasanta e Gerusalemme in particolare. È un dovere, non un’opzione e non subordinato alla buona volontà di un ebreo. In tal modo si coglierà quale legame profondo – legame dello spirito e della carne – esista tra gli ebrei e la Terrasanta. Certo, oggi un simile legame deve conciliarsi con il rispetto delle altre fedi. Ma questo Israele ha dimostrato di saperlo fare come pochi.
Non ci si illuda però. C’è chi vuole la Terrasanta tutta per sé, ed è l’integralismo islamico. E vuole molto molto di più. Il suo nemico non è soltanto l’ebraismo, bensì anche il cristianesimo, proprio nella misura in cui esso si radica nell’Antico Testamento, pena la sua dissoluzione. Perciò chi si illude di cavarsela lasciando gli ebrei per le peste è come quel signore che gioiva di essere l’ultimo della lista nel menu del coccodrillo.
Vorrei terminare incitando caldamente all’ascolto di questo sermone tenuto da un imam di Hamas [clicca qui].
Lo devono ascoltare non soltanto le scimmie e i porci che popolano la Palestina (gli ebrei), bensì anche coloro che hanno spedito laggiù queste scimmie e porci, ovvero i cristiani, le cui capitali – Roma, in primis – saranno presto conquistate.
Ascoltatelo con un occhio alle immagini della preghiera verso la Mecca sul sagrato del Duomo di Milano e di San Petronio a Bologna.
ISRAELE/ La guerra vista dagli Usa - Lorenzo Albacete - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Durante l’ultima parte delle vacanze di Natale, le notizie sulla guerra a Gaza hanno dominato i notiziari di tutti canali televisivi via cavo degli Stati Uniti. Quasi tutti gli americani “normali” intervistati hanno dichiarato di essere confusi e sorpresi. In pochissimi si erano accorti di quanto stava per accadere, essendo l’attenzione concentrata sulla crisi economica e sulle possibilità per il presidente eletto Obama di portare miglioramenti significativi alla situazione e di diminuire la paura dell’americano medio circa il proprio futuro e quello della propria famiglia. Poi, all’improvviso, è venuta questa nuova crisi e la gente si chiede se e come essa cambierà le priorità del presidente.
È fuori discussione che la maggioranza degli americani sostengano Israele. Un sostegno che non è dovuto all’influenza politica degli ebrei americani, ma al riconoscimento di Israele come uno Stato moderno, democratico e laico. I cristiani evangelici appoggiano Israele per ragioni derivanti dalla Bibbia, in quanto credono che la seconda venuta di Gesù avverrà quando Israele sarà al sicuro e pronto alla conversione. Gli ebrei americani si trovano di fronte a un dilemma: la maggioranza di loro vota a favore delle istanze progressiste, ma i progressisti tendono nel conflitto a schierarsi con i palestinesi. Quindi, in questo caso, la maggioranza degli ebrei americani si trova a fianco dei conservatori. Tra i cattolici la situazione è rovesciata: i conservatori cattolici, con le loro simpatie per la causa palestinese, si trovano a fianco dei progressisti.
La gestione televisiva della crisi è conseguenza delle propensioni ideologiche dei tre canali via cavo che danno notizie 24 ore su 24. Fox, canale conservatore, ha sottolineato il diritto di Israele all’autodifesa. Dato che Israele non ha permesso ai giornalisti di attraversare il confine con Gaza, la maggior parte del materiale televisivo disponibile arriva dalle televisioni arabe e mostra le sofferenze dei civili palestinesi in conseguenza dell’invasione israeliana. Perciò Fox ha utilizzato molti personaggi neo-con per difendere Israele dai tentativi palestinesi di influenzare l’opinione pubblica americana. I neo-conservatori sostengono che Israele sta combattendo quella che prima o poi sarebbe diventata altrimenti una guerra americana, perché i reali nemici sono l’Iran e la Siria, il cui obiettivo non è solo Israele ma anche l’America.
Il canale MSNBC, che sembra aver deciso di porsi come l’alternativa progressista a Fox, ha presentato i propri esperti per condannare quella che viene considerata una “sproporzione” tra le conseguenze degli attacchi missilistici di Hamas contro Israele e le distruzioni e le vittime causate dalla reazione israeliana. Sorprendentemente, durante l’ultimo week-end MSNBC ha deciso di mandare in onda i suoi normali programmi invece che coprire la guerra.
CNN, d’altro canto, ha sospeso buona parte dei suoi programmi per offrire una copertura di 24 ore della guerra. Non potendo inviare i propri cronisti a Gaza, CNN ha offerto la possibilità a civili palestinesi, attraverso video internet e interviste telefoniche, di raccontare quanto stava succedendo.
Dall’inizio della settimana, comunque, è ricominciata la trasmissione delle altre notizie, a partire dall’arrivo di Obama a Washington e delle notizie politiche collegate. Con l’avvicinarsi dell’insediamento di Obama, a meno di qualche nuovo importante avvenimento in Medio Oriente, l’attenzione del pubblico sarà sempre più indirizzata all’inizio della nuova Amministrazione.
ASTRONOMIA/ Bersanelli: citando Dante, il Papa ricorda il nesso della scienza con la ricerca di un significato - INT. Marco Bersanelli - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
«C’è dunque nel cristianesimo una peculiare concezione cosmologica, che ha trovato nella filosofia e nella teologia medievali delle altissime espressioni. Essa, anche nella nostra epoca, dà segni interessanti di una nuova fioritura, grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali – sulle orme di Galileo – non rinunciano né alla ragione né alla fede, anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità».
Con queste parole Benedetto XVI nell’omelia durante la S. Messa dell’Epifania, è nuovamente tornato a parlare di Galileo e degli astronomi che, con i loro metodi e i loro strumenti, riescono a leggere il “libro” dell’universo e aiutano tutti noi a sintonizzarci sulla “sinfonia del creato”. Una sinfonia nella quale spicca un “Solista”, centro del cosmo e della storia, entrato nel mondo e artefice di quella che i Padri della Chiesa – ha ricordato il Papa – hanno visto come «una sorta di rivoluzione cosmologica».
Ma come percepisce queste parole un cosmologo moderno? Abbiamo rivolto la domanda a Marco Bersanelli, ordinario di astronomia e astrofisica all’università di Milano, che sta seguendo gli ultimi preparativi per il lancio, previsto il prossimo aprile, di una missione spaziale della quale è uno dei responsabili scientifici: è la missione Planck dell'Agenzia Spaziale Europea, dedicata a misure ad alta precisione della radiazione cosmica di fondo, testimone dell’universo primordiale.
«Mi sembra una sottolineatura molto giusta e realistica; perché effettivamente nella comunità scientifica c’è un buon numero di scienziati che, contrariamente all'immagine che normalmente se ne ha, vive un’esperienza di fede. E la vive "positivamente": non come un problema da conciliare, in qualche modo, con la conoscenza scientifica ma proprio come allargamento della ragione, la quale trova nel metodo scientifico uno dei modi con cui rapportarsi al mistero della realtà. Questa è anche la mia personale esperienza. È come se la fede, anche in questo caso, fosse capace di rendere più bello ciò che è bello e più vero ciò che è vero, offrendo il contesto della totalità a quello che altrimenti rimarrebbe un particolare, sia pure affascinante, come quello della conoscenza scientifica».
Senza questo inserimento in un orizzonte di totalità, è facile scivolare in una visione riduttiva, che assolutizza ed esaspera alcuni fattori con i quali la scienza tenta di descrivere e spiegare i fenomeni naturali. Il Papa ha sottolineato invece che «le stelle, i pianeti, l'universo intero non sono governati da una forza cieca e non obbediscono alle dinamiche della sola materia». Bersanelli ritiene molto interessante tale osservazione: i fisici, è vero, studiano l’azione dalle forze della natura, ma è evidente che lo studio quantitativo delle interazioni tra i corpi, siano essi nel microcosmo o nel macrocosmo, non esaurisce la realtà nella sua interezza. «Anche dall'interno della ricerca scientifica ci si rende conto sempre più che la fecondità dell'universo e della sua capacità di evolvere per miliardi di anni - oggi si reputa l'età dell'universo di 13,7 miliardi di anni - fino a diventare luogo ospitale per la vita, appare difficilmente compatibile con un'immagine di pura casualità. Ciò non toglie che quando uno studia realtà fisica da un punto di vista scientifico quello con cui ha a che fare sono questi aspetti particolare del reale, quelli che le leggi della fisica riescono a descrivere; ma tali leggi sembrano tutt’altro che sterili, anzi si rivelano prodigiosamente capaci di creare le condizioni per la vita e per l’emergere della coscienza».
C’è un altro passaggio dell’omelia di Benedetto XVI che colpisce particolarmente il nostro interlocutore: è la citazione del verso sublime col quale Dante conclude il Paradiso riferendosi a Dio come a «l'amor che move il sole e l'altre stelle»? Cosa vuol dire per un astrofisico pensare a Dio che «muove le stelle»? Bersanelli ritorna sul tema della completezza della ragione che tende ad abbracciare tutto il reale: la scienza non è certo in grado di dimostrare che esiste un livello della realtà che la trascende, che supera le sue possibilità conoscitive; tuttavia gli scienziati continuano a trovare segni che esiste qualcosa che va oltre la scienza. Qualcosa che ha a che fare con lo scopo: delle stelle, dell'universo così come della vita della singola persona.
«È significativo che il Papa citi Dante su questo punto. Quello che Dante esprime è una unità della conoscenza, che noi moderni abbiamo perduto. La lettura della Divina Commedia è una miniera di scoperte: ci si imbatte continuamente in passaggi in cui Dante parla della natura e dell'universo in termini assolutamente originali, con un linguaggio e una capacità di osservazione anche quantitativa che contiene il germe dell'approccio e della sensibilità scientifica moderna, che verrà portata a piena consapevolezza con Galileo. Soprattutto, Dante viveva questa sensibilità dentro una unità: per lui parlare della luce, delle stelle, dell'arcobaleno voleva dire riferirsi a qualcosa che immediatamente era in rapporto con la totalità e quindi con il significato. Noi moderni sappiamo tante cose in più sulle stelle, sulla luce o sull'arcobaleno; ma è come se fossimo davanti a tanti frammenti di un quadro che non ha più quella sua unità e compiutezza, e che quindi non sappiamo più guardare».
Bersanelli tuttavia nota come in molte parti della comunità scientifica stia riaffiorando il desiderio e quasi la necessità di ritrovare quella unità, che è possibile solo se la ragione ammette la possibilità di uno scopo. «La stessa parola universo richiama il fatto che la materia ha una unità, uno scopo per cui è stata fatta».
Infine non possiamo evitare l’accostamento tra i Magi e l’astronomia: il Papa stesso ha detto che "i magi erano con tutta probabilità degli astronomi". Un accostamento che fa sorridere lo scienziato, che però riconosce che «se sono stati così pronti a riconoscere qualcosa di nuovo nel cielo è perché il cielo lo guardavano con attenzione. In ogni caso i Magi sono figure affascinanti e il loro fascino sta nel fatto che nel cielo hanno cercato la verità: e questo è il mestiere dell'astronomo, di ogni scienziato e di ogni persona che vive la propria umanità»
a cura di Mario Gargantini
LETTERATURA/ L’anti modernità scomoda e profetica di Péguy, Claudel e Bernanos - Redazione - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Il saggio scritto da Jacques Julliard Il denaro, Dio e il diavolo. Péguy, Bernanos, Claudel di fronte al mondo moderno ci sorprende per molte ragioni. Innanzitutto per la stranezza del titolo; in secondo luogo per la scelta dei tre scrittori, tutti di matrice cattolica benché al loro tempo siano stati volutamente ignorati se non criticati. Ci chiediamo quindi: perché questo titolo? Perché associare i tre scrittori?
Vorrei iniziare a rispondere all’ultima domanda. L’approccio di Juillard ai tre scrittori e alla loro opera è inusuale per un lettore abituato a leggere di Péguy, I Misteri; di Bernanos Il diario di un curato di campagna; di Claudel L’annuncio a Maria o La scarpina di raso. Le opere da lui citate sono altre: la rivista Cahiers de la Quinzaine, Eve e Notre Jeunesse di Péguy, La France contre le robots, La Grande Peur, Les Grands Cimitières di Bernanos. Infine, oltre al suo Journal e alle Conversations dans le Loir-et-Cher, Julliard fa spesso riferimento alle opere teatrali giovanili di Claudel: Tête d’Or e La Ville o La trilogie des Coûfontnine.
Questa cernita di opere, apparentemente a carattere più “politico” che cattolico, non appare come arbitraria o “forzata”, né settaria. Risponde a una precisa logica e volontà dell’autore. Julliard precisa che tutti e tre gli scrittori, in epoche diverse, hanno rappresentato uno «strumento di emancipazione intellettuale» in quanto hanno, attraverso le loro opere e il loro percorso esistenziale, operato una “liberazione” del proprio tempo, aiutandolo a prendere le distanze dalle influenze culturali in esso dominanti. I tre sono accomunati dalla loro matrice cattolica e ciò ha implicato, data la società laica o addirittura laicista in cui hanno operato, la loro messa al bando. Ma la solitudine più o meno voluta non li ha fatti sprofondare nella marginalità; al contrario ha fatto acquistare loro una profonda “chiaroveggenza” e una grande capacità di resistenza alla “volgarità dell’ambiente”. C’è un bel passaggio in cui Julliard precisa cosa intende per chiaroveggenza. Parlando di Péguy, dice che il suo “programma” come storico e giornalista, la sua “passione per la verità” nasceva dalla sua posizione “interiore” che Juillard precisa con una frase di Mounier: «L’avvenimento sarà il nostro maître intérieur (interiorità)». Julliard commenta questa frase del filosofo personalista dicendo che «noi (giornalisti, scrittori) non possiamo scegliere la materia. Né la creiamo. Essa sorge dalla nostra stessa vita, dalla nostra stessa esperienza, dalla nostra stessa epoca. Le idee non camminano nude per le strade. Bisogna prenderle per la mano e condurle allo scoperto».
Julliard nel saggio va oltre al valore di questo metodo intrinseco e ideale, riconosciuto ai tre scrittori. Prova una riabilitazione della loro visione culturale che spesso si è tradotta in scelte politiche mal “riconosciute” e di fatto “marginalizzate” o che li ha portati a marginalizzarsi. Non a caso, il primo capitolo s’intitola Levée d’écrou (tradotto letteralmente: uscire di prigione; metaforicamente: sdoganare).
Chiarito l’intento dell’autore, possiamo ora porci la domanda del rapporto tra i tre scrittori e il titolo principale del libro. Se l’argomento del “denaro” è più che mai d’attualità, lo è un po’ meno se associato a “ Dio” e ancor più al “diavolo”.
L’autore si mostra preoccupato dal fatto che l’originalità di Péguy, Bernanos, Claudel oltre a non essere stata veramente colta e riconosciuta a suo tempo, corre il rischio di essere totalmente persa in un mondo che egli stesso definisce “post-moderno”; i tre scrittori, infatti, sono per loro scelte degli “anti-moderni”. Per non perderci nelle varie sfaccettature della questione, oseerviamo che Julliard privilegia l’angolo sociale, poiché tale aspetto ha un’incidenza maggiore a livello culturale. La sua tesi è che “il sistema borghese”, storicamente attraverso la rivoluzione francese, ha “dinamitato” e “snaturato” la società. Esso infatti ha sovvertito i valori (“onore, carità, solidarietà”) apparentati tra loro e che legavano a loro volta il sistema aristocratico a quello cristiano e operaio (di chi lavora), introducendo valori “mercantili e materialisti”. Questo cambiamentoha avuto come conseguenza l’abbattimento di una mentalità che si concepiva come “collettiva e solidale” in favore di una visione più “individualista”. In sintesi: l’individuo, da solo, contro o in opposizione, all’Universo/Universalità.
Questo processo storico-sociale è divenuto culturale e quindi possibile grazie al denaro, in quanto agente “magico” e equivalente di qualsiasi principio universale. Infatti, nel mondo d’oggi ogni aspetto ha un suo “corrispettivo in denaro”. Non si tratta più di uno scambio ma di un “prezzo”; non più di valore (“qualità”) bensi’ di “quantità” di soldi per acquistarlo. Péguy, Bernanos, Claudel con sfumature diverse (Claudel ha una posizione più complessa e dialettica), si sono “scaglaiati” contro questa riduzione del valore del mondo a moneta, perché in tal modo, in fondo, l’uomo non fa altro che sostituirsi a Dio: «Dio ha creato le cose, e l’uomo ha creato le specie. Nell’universo precapitalista... il mondo appapriva estremamente variegato; nel mondo moderno cioé borghese ogni cosa assomiglia a tutte le altre, sotto forma di valore di scambio». Attraverso “la tecnica” e “il negozio” si è “snaturata la creazione”.
È interessante la riflessione fatta da Julliard sia come fondo che rispetto dei tre scrittori. Essa fa scoprire come la loro fede non sia spiritualista ma in rapporto alla società in cui vivevano e con un giudizio sulle trasformazioni da essa subite.
Al di là delle analisi contenute nel volume, che possiamo condividere o meno, mi sembra interessante porsi la domanda come mai si sia stato dato per acquisito, in particolare dal dopo guerra in poi, che questa mentalità “mercantile” sia stata assorbita da generazioni di genitori ed educatori come criterio educativo indiscusso. L’apporto del saggio di Julliard sul “denaro” nell’esperienza culturale di Péguy, Bernanos, Claudel, mi sembra aprire una breccia nella mentalità di quanti hanno considerato e considerano il “boom economico”, o un fenomeno di benessere economico, come un bene in sé senza guardare più da vicino alle derive culturali che dobbiamo pagare (come si vede in particolare in questi mesi), ma soprattutto alle derive educative che influiscono pesantemente sulle giovani generazioni
(Silvio Guerra)
1) Benedetto XVI e il culto spirituale in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
2) Orientamento sessuale, l'agenda nascosta della Francia - La mozione promossa all’ONU dalla Francia su “orientamento sessuale e identità di genere”, e firmata in dicembre da 66 stati membri delle Nazioni Unite è il tentativo di attuare il progetto contenuto in un documento del 2006 molto controverso e noto come i “Princìpi di Yogyakarta”.
3) Il ''diritto'' di morire, peggior incubo della post-modernità - Tentazione sconcertante - Francesco D'Agostino, Avvenire, 3 gennaio 2009
4) Decine di sostenitori interrogati, minacciati, posti sotto controllo o agli arresti, secondo ordini che vengono “da molto in alto”. Il documento censurato su internet. - Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Prosegue e si estende la repressione contro i firmatari di Carta 08, documento che chiede al governo maggiore democrazia e rispetto dei diritti umani, compresa la libertà religiosa. Il gruppo Chinese Human Rights Defenders (Chrd) documenta che almeno 39 firmatari sono stati minacciati dalla polizia o arrestati, in zone diverse e distanti.
5) 08/01/2009 09:05 - ISRAELE – LIBANO - Razzi dal Libano colpiscono il nord di Israele: si apre un nuovo fronte? - di Joshua Lapide - Feriti in modo leggero 5 israeliani in Galilea. L’esercito israeliano ha risposto al fuoco. Nessuna rivendicazione, ma si pensa al coinvolgimento del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Le minacce di Hezbollah; la visita dell’iraniano Larijani a Damasco per incontrare Khaled Meshaal e altri gruppi palestinesi vicini a Teheran. A Gaza il bilancio dei morti sale a 700; oltre 3 mila i feriti.
6) A Gaza una pace è possibile? - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 8 gennaio 2009
7) Preghiera islamica in Piazza Duomo. A far paura è l'indifferenza - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: nerella.buggio@culturacattolica.it - giovedì 8 gennaio 2009
8) DIBATTITO/ Israele: contro pregiudizi e diffidenze, c'è la fede di un popolo - Giorgio Israel - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
9) ISRAELE/ La guerra vista dagli Usa - Lorenzo Albacete - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
10) ASTRONOMIA/ Bersanelli: citando Dante, il Papa ricorda il nesso della scienza con la ricerca di un significato - INT. Marco Bersanelli - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
11) LETTERATURA/ L’anti modernità scomoda e profetica di Péguy, Claudel e Bernanos - Redazione - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Benedetto XVI e il culto spirituale in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 7 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi nell'aula Paolo VI.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, riprendendo il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sul tema: "Il culto spirituale".
* * *
Cari fratelli e sorelle,
in questa prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice.
L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una "spiritualizzazione" dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.
1. In Rm 3,25, dopo aver parlato della "redenzione realizzata da Cristo Gesù", Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo "ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue". Con questa espressione per noi piuttosto strana – "strumento di espiazione" – san Paolo accenna al cosiddetto "propiziatorio" dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo "propiziatorio", nel grande giorno della riconciliazione – "yom kippur" – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.
San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.
Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio "non fatto da mani d’uomo" – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Mc 14,58; Gv 2,19ss). Questo è il primo testo.
2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della Lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale". In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione "presentare i vostri corpi", stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di "dare in oblazione, offrire". L’esortazione a "offrire i corpi" si riferisce all’intera persona; infatti, in Rm 6, 13 egli invita a "presentare voi stessi". Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a "glorificare Dio nel vostro corpo" (1 Cor 6,20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.
Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come "sacrificio vivente, santo, gradito a Dio". È qui che incontriamo appunto il vocabolo "sacrificio". Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – "vivente" – esprime una vitalità. Il secondo – "santo" – ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – "gradito a Dio" – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio "in odore di soavità" (cfr Lev 1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.).
Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è "il vostro culto spirituale". I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (tçn logikçn latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: "rationabile obsequium". La stessa parola "rationabile" appare nella prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come "rationabile". La consueta traduzione italiana "culto spirituale" non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.
Questa formula paolina, che ritorna poi nella Preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I Profeti e molti Salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: "Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…" (vv 12–14). Nello stesso senso dice il Salmo seguente, 51 (50): "..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi" (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: "Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …" (Dan 3,38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio.
Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.
Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: "Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo "culto spirituale, ragionevole"? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti "uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28), che siamo morti nel battesimo (cfr Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui "sacrificio vivente", offrire il "culto vero". Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il "culto vero".
Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi "rationabile" – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta "rationabile" che piace a Dio. Così la Preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. Sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua Città di Dio. Cito solo due frasi. "Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo"… "Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso" (10,6: CCL 47, 27 ss).
3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: "La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere "liturgo" di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo" (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione "sacerdotale". L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, "oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo". Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno. Grazie per la vostra pazienza.
Orientamento sessuale, l'agenda nascosta della Francia - La mozione promossa all’ONU dalla Francia su “orientamento sessuale e identità di genere”, e firmata in dicembre da 66 stati membri delle Nazioni Unite è il tentativo di attuare il progetto contenuto in un documento del 2006 molto controverso e noto come i “Princìpi di Yogyakarta”.
La mozione promossa all’ONU dalla Francia su “orientamento sessuale e identità di genere”, e firmata in dicembre da 66 stati membri delle Nazioni Unite è il tentativo di attuare il progetto contenuto in un documento del 2006 molto controverso e noto come i “Princìpi di Yogyakarta”.
I “Princìpi di Yogyakarta” hanno lo scopo dichiarato di gestire “l’applicazione delle leggi internazionali sui diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e identità di genere”. I promotori asseriscono che i princìpi di Yogyakarta vincolano gli stati a nuovi standard legali anche se il documento di Yogyakarta non nasce da un accordo fra governi ma dai gruppi di pressione omosessuali e dai burocrati dell’ONU.
Alcuni delegati europei hanno detto al “Friday Fax” che la bozza originale del documento francese dibattuto internamente tra i paesi dell’Unione Europea, si riferiva esplicitamente ai "Princìpi di Yogyakarta”, ma che Irlanda, Malta e Polonia hanno insistito perché il riferimento venisse tolto.
Malgrado la correzione apportata nella versione finale della proposta francese, il ministro degli esteri olandese Maxime Verhagan, uno dei principali sostenitori, ha legato esplicitamente la mozione al documento di Yogyakarta. Inoltre, a un successivo incontro dell’ONU su “Diritti umani, Orientamento sessuale e Identità di genere”, Verhagan ha affermato che il suo governo sostiene i “Princìpi di Yogyakarta” e invita anche “tutti gli altri stati ad accettare questi princìpi”.
Anche il membro della Commissione per i Diritti Umani, Michael O’Flaherty, ha fatto esplicito riferimento ai Princìpi di Yogyakarta per definire i concetti di “orientamento sessuale” e “identità di genere” che appaiono nel documento promosso dalla Francia.
I Princìpi definiscono “orientamento sessuale” come “la capacità di ciascuna persona di provare un’attrazione sessuale profonda, emotiva e affettiva e di avere relazioni intime e sessuali con individui di un genere diverso, dello stesso genere o di più di un genere”. “Identità di genere” è invece definita come “l’esperienza di genere individuale e interiore profondamente sentita da ogni persona, che non necessariamente corrisponde al sesso assegnato alla nascita, incluso il senso personale del corpo (che può coinvolgere, se liberamente scelta, la modifica della funzione o dell’apparenza corporea per mezzo di interventi medici, chirurgici o altro) e altre espressioni di genere, quali il vestire, il parlare e le movenze”.
I critici rilevano come i riferimenti contenuti nei Princìpi di Yogyakarta laddove affermano ostentatamente la libertà di opinione ed espressione “senza riguardo all’orientamento sessuale o all’identità di genere”, in realtà limitano la libertà di parola, dato che gli stati sono invitati ad “assicurare che l’esercizio della libertà di opinione ed espressione non violi i diritti e le libertà di persone di diverso orientamento sessuale e di identità di genere”. Esemplari al proposito gli ostacoli creati al diritto dei predicatori cristiani in Canada e Svezia di pronunciarsi sulla peccaminosità degli atti omosessuali: ciò fa presagire cosa potrebbe accadere se i Princìpi di Yogyakarta venissero applicati più largamente.
I tre paesi europei che hanno ottenuto la rimozione del riferimento a Yogyakarta erano già stati decisivi in passato per rompere il consenso della UE, come ad esempio nella “Commissione 2008 sullo stato delle donne”, dove Irlanda, Polonia e Malta si sono dissociate dal linguaggio favorevole al diritto all’aborto promosso da altre nazioni europee.
Ma alcuni delegati contrari alla mozione francese, avrebbero comunque preferito che restasse il riferimento a Yogyakarta, perché la semplice rimozione fa sì che l’agenda radicale venga così mascherata e venga data una copertura a quei paesi, come nel caso dell’America Latina, che hanno un elettorato socialmente conservatore ma che desiderano essere considerati “progressisti” sostenendo la mozione francese.
di Piero A. Tozzi
SVIPOP 2-1-2009
Il ''diritto'' di morire, peggior incubo della post-modernità - Tentazione sconcertante - Francesco D'Agostino, Avvenire, 3 gennaio 2009
Sono sinceramente convinto che una legge ampiamente condivisa sulla fine della vita umana sia, nell’Italia di oggi, opportuna bioeticamente e necessaria biopoliticamente (ne ho scritto diverse volte sulle colonne di que sto giornale). E non mi turba troppo nemmeno l’espressione 'testamento biologico': è tutt’altro che corretta, ma ciò che conta non è il colore o la grafica dell’etichetta che si vuole incollare su di una scatola, quanto il contenuto di questa. Quando però leggo un articolo, scritto per perorare un 'referendum sul diritto di morire', come quello che Luca e Francesco Cavalli-Sforza hanno pubblicato su Repubblica del 2 gennaio (ma il nome che conta mediaticamente è quello del padre, Luca, illustre genetista), vengo preso da un profondo sconforto: se questo è il livello della riflessione su questioni cruciali come quella della fine della vita umana è forse meglio fermare ogni dialogo, imporre a tutti ( me compreso, ovviamente) adeguate pause di riflessione, esigere da tutti i bioeticisti un severo sforzo di onestà intellettuale.
Infatti, con chi ragiona come ragionano i due Cavalli-Sforza è davvero difficile intendersi, non solo in merito ad una possibile, saggia legge sulla fine vita, ma perfino sui più elementari concetti di bioetica: come dialogare con chi ritiene «ridicole» le opinioni altrui (quelle di chi, come ad esempio il sottoscritto, non riesce a trovare un fondamento a un preteso «diritto di morire»), con chi si inventa (perché questa è la parola esatta) che i propri avversari ritengano «reato» il suicidio, con chi qualifica alla stregua di un «sadismo senza nome» la doverosa assistenza ai malati in stato vegetativo persistente (da essi scorrettamente definiti in «coma vegetativo permanente»)?
Da due scienziati ci si aspetterebbe un linguaggio corretto, un’argomentazione lucida e fredda e soprattutto la più rigorosa competenza nella materia. Così non è per i due Cavalli-Sforza, che sono talmente convinti di poter sostenere che ogni uomo abbia un diritto insindacabile a «farla finita» (!) «qualunque fosse il motivo del suo gesto» (!), che non solo sorvolano lievemente sulla plurisecolare riflessione filosofica (e non esclusivamente religiosa!) sul suicidio, ma non dimostrano la benché minima attenzione sulla specificità bioetica che la questione della disponibilità della vita è venuta ad assumere nel nostro tempo e che coinvolge il carattere ippocratico dell’ etica medica (e in particolare la 'funzione di garanzia' a favore della vita che i sistemi sociali moderni assegnano ai medici) e la distinzione complessa, ma necessaria, tra cessazione dell’accanimento terapeutico e eutanasia.
I Cavalli-Sforza sono – o almeno sembrano – beatamente ignari della complessità di queste questioni, così come sembrano del tutto ignari dell’uso statisticamente molto limitato che le persone fanno del testamento biologico nei Paesi in cui esso è stato legalizzato: casi tragici come quelli di Eluana si ripresenteranno sempre, perché la decisione di lasciare dichiarazioni anticipate di trattamento viene di fatto assunta solo da una piccola minoranza di persone. Per ovviare a questa difficoltà (lo dimostra l’esperienza bioetica di altri Paesi), molti che (come i Cavalli-Sforza) si impegnano con tutte le loro forze per dare lo statuto di diritto umano fondamentale al principio di autodeterminazione eutanasica suggeriscono poi, con elegante noncuranza, di far valere, in mancanza di dichiarazioni espresse di fine vita, l’opinione di un fiduciario, di un tutore o comunque di un 'decisore', che ritenga di saper 'interpretare' quello che il soggetto deciderebbe per se stesso, se fosse ancora in grado di decidere.
Si giunge rapidamente in tal modo a dare concretezza al peggior incubo della post-modernità, quello di una definitiva burocratizzazione della fine della vita umana. Sono consapevoli di tutto questo i Cavalli-Sforza? Sono consapevoli che il desiderio narcisistico di far conoscere al pubblico le loro opinioni bioetiche, peraltro fragilissime, sta mandando in fumo il prestigio che Luca Cavalli-Sforza si è conquistato in anni di duro lavoro scientifico? Sono consapevoli, scrivendo quello che scrivono, che portano acqua ad un solo mulino, quello di coloro che ritengono ampiamente provato che tutto il dibattito sulle dichiarazioni anticipate di trattamento abbia una sola, autentica e soprattutto ipocrita finalità, quella di legalizzare l’eutanasia?
Decine di sostenitori interrogati, minacciati, posti sotto controllo o agli arresti, secondo ordini che vengono “da molto in alto”. Il documento censurato su internet. - Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Prosegue e si estende la repressione contro i firmatari di Carta 08, documento che chiede al governo maggiore democrazia e rispetto dei diritti umani, compresa la libertà religiosa. Il gruppo Chinese Human Rights Defenders (Chrd) documenta che almeno 39 firmatari sono stati minacciati dalla polizia o arrestati, in zone diverse e distanti.
Dal 9 dicembre il documento circola su internet e la polizia ha interrogato e minacciato i sostenitori a Pechino e Shanghai e in Liaoning, Zhejiang, Fujian, Guangdong, Hainan, Shaanxi, Hubei e Hunan.
Dall’8 dicembre mancano notizie di Liu Xiaobo, dissidente dall’epoca di piazza Tiananmen, arrestato dalla polizia con l’accusa di “istigazione alla sovversione contro lo Stato”. Ieri sua moglie Liu Xia ha chiesto notizie alla polizia, ma le è stato risposto solo che l’arresto è stato deciso “a un livello davvero alto”.
L’ex leader comunista Bao Tong, per 20 anni agli arresti domiciliari, ha sottoscritto Carta 08 firmandosi “un cittadino”. Informato delle persecuzioni, in un suo saggio osserva che nessuna parte del documento è contro lo Stato, ma richiama solo principi come diritti umani, libertà, uguaglianza, democrazia, riconosciuti in tutto il mondo, contrastati nella Cina imperiale, ma non nella moderna Repubblica di Cina. Bao osserva che se le minacce della polizia sono iniziative locali, debbono intervenire le autorità superiori a fermarle. Ma se sono decise “al massimo livello, allora è la popolazione che deve fare qualcosa. In una repubblica dovrebbe esserci un meccanismo per correggere simili problemi. Una repubblica in cui a chi è ingiusto è permesso esserlo e nella quale le ingiustizie si accumulano una sull’altra, non è degna di essere chiamata repubblica”.
“Mentre siedo qui tranquillo in attesa di essere chiamato, arrestato e interrogato – scrive – con pari calma attendo una risposta dalle autorità” [alla Carta e alla sua denuncia]. “Dico a tutti quelli che hanno già firmato la Carta e a quelli che la firmeranno, di rimanere freddi e razionali, ottimisti e risoluti. Mando i miei saluti a Zhang Zuhua, che è già tornato a casa, e a sua moglie Tian Yuan. Anche a Liu Xaobo, che è ancora detenuto, e a sua moglie Liu Xia. Auguro a tutti loro pace e buona salute”.
La Cina ha firmato nel '98 la Convenzione Onu sui diritti civili, compresa la libertà di espressione, difesa anche dall'art. 35 della Costituzione cinese.
I perseguitati sono molti: Du Yilong, Zhang Jiangkang, Yang Hai e Zhao Changqing nello Shaanxi; Liu Yiming nell’Hubei; Huang Dachuan nel Liaoning; Zhang Zuhua, Pu Zhiqiang, Jiang Qisheng, Gao Yu, Liu Di e Teng Biao a Pechino; Zheng Enchong e Jiang Danwen a Shanghai; Qin Geng nell’Hainan e Fan Yanqiong el Fujian; Ye Du, Zhao Da gong, Guo Yongfeng, Tang Jinling, Ye Huo, Zhang Jinjun, Li Tie e Chen Shaoua nel Guangdog; Wu Baojian, Zou Wei, Wang Xue’e, Gao Haibing, Zhuang Daohe, Mao Qingxiang, Liu Jincheng nel Zhejiang, e ancora tanti altri secondo Chrd, che ritiene l’elenco incompleto per difetto. Molti sono posti sotto controllo o messi agli arresti in casa. Il timore è che la repressione si aggravi nel periodo delle feste, quando osservatori e media internazionali sono meno presenti.
Sebbene le autorità censurino Carta 08 su internet, il documento continua a circolare su blog e siti web.
08/01/2009 09:05 - ISRAELE – LIBANO - Razzi dal Libano colpiscono il nord di Israele: si apre un nuovo fronte? - di Joshua Lapide - Feriti in modo leggero 5 israeliani in Galilea. L’esercito israeliano ha risposto al fuoco. Nessuna rivendicazione, ma si pensa al coinvolgimento del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Le minacce di Hezbollah; la visita dell’iraniano Larijani a Damasco per incontrare Khaled Meshaal e altri gruppi palestinesi vicini a Teheran. A Gaza il bilancio dei morti sale a 700; oltre 3 mila i feriti.
Gerusalemme (AsiaNews/Agenzie) – Almeno tre razzi Katyusha (altre fonti dicono 5) hanno colpito stamane alcune zone del nord Israele, ferendo in modo leggero cinque persone. L’esercito israeliano ha subito risposto lanciando 5 mortai nel sud Libano.
Dall’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, il 27 dicembre scorso, questa è la prima volta che dal Libano partono dei razzi su Israele. I Katyusha sono caduti nell’ovest della Galilea; i danni maggiori sono avvenuti al villaggio di Nahariya. Gli abitanti della Galilea e quelli del sud Libano temono possa riaprirsi di nuovo il fronte e gli orrori della guerra scoppiata nell’estate 2006. Nei giorni scorsi il governo libanese aveva ordinato la chiusura delle scuole nel sud, per timore di rappresaglie israeliane.
Durante il conflitto, Hezbollah ha lanciato oltre 4 mila razzi sul nord di Israele. I raid dell’aviazione israeliana hanno fatto più di 1200 morti in Libano, in maggioranza civili; i morti di parte israeliana, in maggioranza soldati, sono stati 160.
Fino ad ora il lancio dei Katyusha non è stato rivendicato da nessuno. Nei giorni scorsi molte personalità libanesi avevano escluso una partecipazione militare di Hezbollah al conflitto fra Israele ed Hamas. È però probabile – come è già avvenuto in passato - che Hezbollah lasci operare il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) di Ahmed Jibril in attacchi contro obbiettivi israeliani e americani.
Ieri Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, parlando a migliaia di sciiti in Libano (v. foto), si è detto pronto a nuovi combattimenti, minacciando che “la guerra del 2006 sarebbe considerata una passeggiata se Israele osasse lanciare un nuovo attacco” in Libano.
Intanto da ieri, nella Striscia di Gaza, dopo le 3 ore di cessate-il-fuoco garantite da Israele, è ripresa l’offensiva dell’esercito contro Hamas. Secondo fonti mediche palestinesi, i morti sono ormai più di 700 e i feriti almeno 3 mila.
Finora i Paesi arabi hanno tenuto una posizione molto moderata, condannando le violenze di Israele, ma anche la decisione di Hamas nell’interrompere la tregua di 6 mesi, sponsorizzata dall’Egitto nel giugno scorso. Hamas (ed Hezbollah) continuano a ricevere sostegno dall’Iran. Ieri il politico iraniano Ali Larijiani ha incontrato a Damasco il leader di Hamas in esilio, Khaled Meshaal, e altri gruppi palestinesi per studiare con loro la proposta egiziana di un cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza.
A Gaza una pace è possibile? - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 8 gennaio 2009
Ho ricevuto questo invito dal nostro carissimo amico Andrea Pamparana a confrontarci sulla drammatica situazione della striscia di Gaza. Raccolgo volentieri questa «provocazione», nella speranza di contribuire non al crescere delle parole o delle opinioni, ma della esperienza di pace nella terra di Gesù, e nel mondo.
Raccolgo sotto sia le parole del Papa all’Angelus (che sono ciò a cui ogni cristiano deve attenersi per un giudizio sulla realtà), sia le parole esatte dell’intervista del Card. Martino a ilsussidiario.net.
Caro Don Mangiarotti,
vorrei tanto che qui sul nostro sito si sviluppasse un forte dibattito su una questione che vado a sottoporre anche alla tua attenzione. Hamas lancia i missili contro Israele da basi situate all’interno di scuole e ospedali. Poi i valorosi combattenti lasciano il campo e osservano a debita distanza di sicurezza la reazione israeliana che inevitabilmente andrà a colpire vittime civili. Veri cultori di morte quali essi sono, sacrificano i loro stessi concittadini, meglio se giovani e giovanissimi, consapevoli che una parte vigliacca e molliccia del mondo occidentale piangerà giuste lacrime per i civili ma non batterà ciglio di fronte al provocatorio e criminale lancio dei missili verso Israele. Il cardinale Martino ha parlato di Gaza come di un campo di concentramento, indicando dunque gli israeliani come aguzzini di stampo nazista. Il cardinale Tettamanzi non solo tollera ma sembra plaudire alle centinaia di musulmani che provocatoriamente hanno pregato in piazza Duomo a Milano, cuore della cristianità ambrosiana. Io, vecchio laico perplesso e cercatore curioso della Verità, rimango esterrefatto e turbato di fronte a queste prese (o non prese) di posizione da parte di alcuni cristiani. Mi chiedo, ti chiedo, vi chiedo: perché?
Un abbraccio
Andrea Pamparana
Così il Papa Benedetto XVI ha detto all’Angelus di Domenica 4 gennaio:
«I Patriarchi ed i Capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme oggi, in tutte le Chiese della Terrasanta, invitano i fedeli a pregare per la fine del conflitto nella striscia di Gaza e implorare giustizia e pace per la loro terra. Mi unisco a loro e chiedo anche a voi di fare altrettanto, ricordando, come essi dicono, “le vittime, i feriti, quanti hanno il cuore spezzato, chi vive nell’angoscia e nel timore, perché Dio li benedica con la consolazione, la pazienza e la pace che vengono da Lui”.
Le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra.
La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente. Preghiamo, dunque, affinché “il Bambino nella mangiatoia... ispiri le autorità e i responsabili di entrambi i fronti, israeliano e palestinese, a un’azione immediata per porre fine all’attuale tragica situazione”.»
E queste sono le affermazioni del Card. Martino nell’intervista a ilsussidiario.net:
«ISRAELE/ Card. Martino: raccogliamo i frutti dell’egoismo. L’unica speranza è il dialogo
INT. a Renato Raffaele Martino (mercoledì 7 gennaio 2009)
Mentre il conflitto tra Israele e Hamas va avanti con rinnovata ostilità, il Papa è tornato ad invocare il dialogo come unica strada possibile per costruire la pace in Terra Santa. Secondo il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, la soluzione più ragionevole rimane quella del dialogo tra israeliani e palestinesi. Essi sono fratelli, figli della stessa terra. Purtroppo «nessuno vede l’interesse dell’altro. Ma le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. E a pagare sono sempre le popolazioni inermi. Impariamo dall’Iraq».
Eminenza, nella sua omelia del 1° gennaio Benedetto XVI ha affermato che la vera pace è “opera della giustizia” e che «anche la violenza, l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – da combattere». Perché il dialogo è l’unica condizione della pace?
L’alternativa al dialogo è solamente il ricorso alla forza e alla violenza. Ma la violenza non risolve i problemi e la storia è piena di conferme. L’ultimo esempio è quello della guerra in Iraq. Cosa ha risolto? Ha complicato le cose. La diplomazia della Santa Sede sapeva bene Saddam era pronto ad accettare le richieste delle Nazioni Unite. Ma non si è voluto aspettare. In Terra Santa vediamo un eccidio continuo dove la stragrande maggioranza non c’entra nulla ma paga l’odio di pochi con la vita. Abbiamo appena celebrato i trent’anni della mediazione tra Cile e Argentina, di cui la Santa sede a suo tempo fu grande promotrice. Quello è stato un frutto del dialogo.
Che cosa manca nello scenario mediorientale per intraprendere la strada del dialogo?
Un senso più acuto della dignità dell’uomo. Nessuno vede l’interesse dell’altro, ma solamente il proprio. Ma le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. A pagare sono sempre le popolazioni inermi. Guardiamo le condizioni di Gaza: assomiglia sempre più ad un grande campo di concentramento.
Eminenza, durante l’Assemblea plenaria del Consiglio Giustizia e Pace, commentando la Populorum progressio, Lei affermò «non c’è sviluppo senza un disegno su di noi e senza noi come disegno»; e che per questo lo sviluppo non è «qualcosa di facoltativo, ma un dovere da assumere». Alla luce degli ultimi avvenimenti che compiti impone questa considerazione?
Abbiamo appena celebrato i quarant’anni della stupenda enciclica di Paolo VI Populorum progressio, dove Paolo VI ha detto che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Benedetto XVI non ha mancato di richiamarlo nel suo Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace. Se si vuole costruire la pace occorre favorire lo sviluppo, non solo lo sviluppo dei paesi ma quello personale, di ogni uomo. La stessa assistenza alle nazioni in via di sviluppo non può essere un’elemosina, ma dev’essere un partenariato, un aiuto a far divenire tutti protagonisti del proprio sviluppo. Solo così l’aiuto a tutti può diventare aiuto allo sviluppo di ciascuno. Questo vale naturalmente anche e soprattutto per il Medio Oriente.
Come interroga la coscienza di un cristiano quello che accade in Terra Santa? Come mai questa terra, molto più di altre, appare lontana dalla pace e ogni tentativo di raggiungerla sembra frustrato in partenza?
Non siamo solamente noi cristiani a chiamarla Terra Santa, ma anche ebrei e i musulmani. E sembra una disdetta che proprio questa terra debba essere il teatro di tanto sangue. Ma occorre una volontà da tutte e due le parti, perché tutte e due sono colpevoli. Israeliani e palestinesi sono figli della stessa terra e bisogna separarli, come si farebbe con due fratelli. Ma questa è una categoria che il “mondo”, purtroppo, non comprende. Se non riescono a mettersi d’accordo, allora qualcun altro deve sentire il dovere di farlo. Il mondo non può stare a guardare senza far nulla.
Nonostante le continue esortazioni delle diplomazie, prevale una sensazione generalizzata di impotenza.
Si mandano missioni di pace in tutto il mondo, lì si sono fatte tante proposte ma i veti hanno sempre prevalso. Ora ho sentito che anche il presidente Bush ha cominciato a pensare che forse una missione di pace sarebbe auspicabile. Per cominciare sarebbe una misura efficace. Se venisse la pace tra palestinesi e israeliani, sarebbe un beneficio inestimabile per tutto il Medio oriente.
Quale compito spetta ai cristiani in quella terra martoriata?
Testimoniare la loro unità. In tutto il Medio Oriente i cristiani stanno perdendo la speranza e hanno cominciato ad andarsene, soprattutto dall’Iraq. Quando ero a New York, alle Nazioni Unite, ho incontrato moltissimi rifugiati negli Usa che mi dicevano: che futuro potevo io assicurare ai miei figli? È un grido di dolore al quale è difficile dare una risposta. Lo può fare solo la speranza che viene dalla fede. Ma al mondo questo non importa e sta a guardare.
I cristiani, ai quali quella terra appartiene al pari di ebrei e musulmani, pagano un prezzo alto ma silenzioso. Perché?
Ogni anno sono troppi i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i missionari, i laici che perdono la vita nell’esercizio della missione più cristiana di tutte, quella di aiutare i sofferenti e i bisognosi. Perché i cristiani alla fine soffrono più degli altri? Per l’apertura del cristianesimo a considerare tutti come fratelli, mentre l’estremismo islamico non ammette né conversioni né altra religione che la propria. E questo è fonte di inimicizie e violenza.»
Preghiera islamica in Piazza Duomo. A far paura è l'indifferenza - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: nerella.buggio@culturacattolica.it - giovedì 8 gennaio 2009
Ci spiacerebbe scoprire che si trattava di prove tecniche di colonizzazione islamica, che si trattava di una sfida e noi non l’abbiamo capito, eravamo troppo indifferenti per accorgercene.
“Conoscere l’islam. Incontrare i musulmani” è’ il titolo di un corso promosso da Diesse Lombardia, con il patrocinio dell’assessorato all’istruzione della Regione Lombardia, cui ho partecipato di recente, molto utile per capire un mondo come l’islam, complesso che comprende un miliardo e trecentomilioni di persone con molteplici appartenenze etniche, con usi e costumi differenti.
Un mondo guardato troppo spesso con occhi stereotipati, un mondo verso il quale spesso vi è diffidenza smisurata o apertura incondizionata.
Sia chiaro, non basta un corso per capire, non basta, ma è un inizio per cominciare a comprendere la complessità e le contraddizioni dell’islam dove religione e politica sono la stessa cosa, dove il profeta è al tempo stesso condottiero e legislatore, dove non esiste un’autorità religiosa unica e riconosciuta, ma chiunque può diventare un imam, può predicare ciò che ritiene opportuno e interpretare il Corano, dove l’autorità è sempre incontrastata e basta scrivere un libro con parole non consone per essere messi al bando e rischiare la pena capitale.
Questo corso dovrebbero farlo nei seminari, nelle scuole, negli oratori, nei corsi d’aggiornamento per insegnanti e assistenti sociali, volontari della Caritas, che ogni giorno si trovano a doversi confrontare con culture differenti e che spesso in buona fede, confondono, l’accoglienza con la rinuncia alla propria identità e al rispetto delle regole del paese in cui si vive.
Farebbe bene frequentarlo anche a qualche Vescovo a qualche arciprete, perché i fedeli non possono essere sempre invitati al dialogo, alla comprensione, all’accoglienza, senza mai dire quali sono le regole che devono essere condivise perché il dialogo e l’accoglienza siano proficui.
Ecco perché sottovalutare quanto accaduto in alcune piazze italiane sabato 4 gennaio a mio avviso è un errore.
Non si possono fare spallucce, e dire: "che saranno mai un migliaio di musulmani che in Piazza Duomo pregano rivolti alla Mecca?" I manifestanti in questione avevano il permesso per una manifestazione sulla guerra di Gaza che doveva terminare in Piazza San Babila.
Il prefetto stabilisce dove inizia, quale percorso fa e dove finisce una manifestazione, questa è la regola e va rispettata, anche dai musulmani.
Vogliamo fingerci ingenui e credere all’imam che sostiene che casualmente giunta l’ora della preghiera, si trovavano in Piazza Duomo e allora, eccoli a svolgere il loro compito, un posto vale l’altro?
Vogliamo fingerci ingenui e affermare che si avevano appena finito di bruciare bandiere ma erano fatte artigianalmente, poco più di lenzuoli bianchi con uno scarabocchio azzurro a forma di stella dipinto al centro, suvvia, che sarà mai?
Non dimentichiamo però tra un’ingenuità e l’altra, che per l'Islam, un luogo dove si prega diventa immediatamente sacroe nello stesso giorno si pregava anche a Bologna in Piazza Maggiore davanti alla Chiesa di San Petronio.
Qualche domanda dovremmo pur farcela.
Da qualche dubbio dovremmo pur lasciarci ferire.
Ci spiacerebbe scoprire che si trattava di prove tecniche di colonizzazione islamica, che si trattava di una sfida e noi non l’abbiamo capito, eravamo troppo indifferenti per accorgercene.
Scoprire che dovevamo allarmarci se non per i gesti compiuti, almeno per l’indifferenza con cui questi gesti sono recepiti, senza comprendere che i simboli per l’islam hanno un grande valore e che forse questi gesti hanno un regista che non stava certo in piazza, anche se a Milano guidava la manifestazione l’imam di Viale Jenner, condannato a tre anni e otto mesi per terrorismo (prosciolto per prescrizione)
Resta una domanda - e se domani un migliaio di fedeli cattolici si attardassero davanti ad una moschea a dire il vespero che accadrebbe?-
Provare per credere?
No, sarebbero additati come provocatori e condannati dagli stessi cattolici, giustamente, perché va rispettata la sensibilità altrui, rispettati i luoghi di culto.
Però resta il fatto, che sciolto il gruppo dei fedeli cristiani in preghiera, quel suolo non avrebbe cambiato padrone.
DIBATTITO/ Israele: contro pregiudizi e diffidenze, c'è la fede di un popolo - Giorgio Israel - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Ogni qualvolta si riapre la ferita purulenta della crisi mediorientale riemerge il solito doloroso problema: le mezze parole che nascondono un equilibrio apparente e, in realtà, lo squilibrio verso una parte, e poi la disinformazione, il riproporsi infinito degli stessi pregiudizi, le diffidenze, le incomprensioni, l’ignoranza della storia, dei sentimenti e delle ragioni altrui.
Ne trovo tristemente le tracce anche su questo giornale informatico. Per esempio, leggo in un’intervista di Luigi Geninazzi: «Quando si dice, a titolo di esempio, “ma cosa fareste voi italiani o voi francesi se vi tirassero missili dallo Stato vicino?”, è una domanda sbagliata, perché la Striscia di Gaza non è uno Stato vicino! Sono territori che fino a qualche tempo fa erano tecnicamente occupati. E giuridicamente lo sono ancora, perché è stato Israele a occuparli e non può trattare quell’offensiva alla stregua di un attacco esterno. Israele ha diritto di difendersi, ma non può farlo continuando a occupare dei territori».
Leggo e mi stropiccio gli occhi. È vero che Gaza era occupata, fino al 2005. Ma da allora non lo è più. Come si può seriamente raccontare al lettore che “giuridicamente lo è ancora”? La si vada a chiedere al governo di Hamas che controlla Gaza sotto ogni aspetto, se quei territori non sono sottratti al controllo di Israele! E che diamine vuol mai dire che un territorio è giuridicamente ancora di Israele perché è stato Israele a occuparli? Allora bisognerebbe dire che i territori di tutto il mondo appartengono giuridicamente ancora a coloro che un tempo li occuparono… Se Trieste venisse bombardata dall’Istria l’Italia non potrebbe difendersi, perché un tempo occupava l’Istria. È un puro e semplice mascherarsi dietro un’argomentazione apparentemente “tecnica” e oggettiva per poter condannare Israele e negare il suo diritto a difendersi, in quanto “occupa territori”. Se non li occupasse bisognerebbe inventarseli.
Nell’intervista del Cardinale Martino leggo: «le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. A pagare sono sempre le popolazioni inermi. Guardiamo le condizioni di Gaza: assomiglia sempre più ad un grande campo di concentramento». Forse bisognerebbe andarci piano con i confronti, ma se anche quella parola – campo di concentramento – fosse appropriata bisognerebbe specificare subito chi ne tiene le chiavi, chi sono i carcerieri. Altrimenti si rischia, restando nel vago, di dar credito alla parola d’ordine “Gaza come Auschwitz, ebrei come nuovi nazisti” tanto cara a certi movimenti di estrema sinistra filoislamista. Gaza poteva essere il primo nucleo del nuovo stato palestinese – dopo la fine dell’occupazione– e invece un movimento terrorista, Hamas, se ne è impadronito facendone una piattaforma di lancio per missili verso Israele e una base da cui si prepara il nuovo capitolo dello scontro con l’“entità sionista” da eliminare. Se non si parla chiaro, Eminenza, e non si dicono le cose con il nome e il cognome quell’ingiustizia che Lei giustamente depreca diventerà un nostro peccato.
Circolano anche parole apparentemente pacate e, nella sostanza, contundenti. C’è chi sostiene che, a differenza della minoranza araba cristiana e de pochi israeliani cristiani gli arabi e agli ebrei di buona volontà sono ridotti al silenzio da una maggioranza resa cieca dall’odio o dalla paura. È il contrario della verità. Nessun ebreo di Palestina è ridotto al silenzio da una maggioranza resa cieca dall’odio o dalla paura. Israele è un paese democratico, dove si manifesta contro il governo, anche la minoranza araba lo fa, si inalberano cartelli senza censura, nessuno ha paura del potere. A Gaza invece comanda un movimento, Hamas, che ha preso il potere con la violenza e chi dissente viene semplicemente ucciso. Ecco la verità.
Poi c’è chi non capisce l’importanza della Terrasanta per i non cristiani, per gli ebrei in particolare, chi sostiene che per essi si tratti soltanto di un territorio, di un ricordo di fatti avvenuti, di un passato glorioso. Mentre per i cristiani è la Memoria di un Fatto avvenuto, di un Dio che si è fatto uomo e che è tuttora realmente presente.
Davvero siamo ancora a questo punto di incomprensione? Per duemila anni gli ebrei, alla fine della festa di Pesach (la Pasqua) chiudono con la frase: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Lo fanno per ricordo di un passato glorioso, per tigna, per nostalgia paesaggistica? No. Gerusalemme è il luogo dello spirito per gli ebrei, Gerusalemme è la capitale della Torah, e il luogo dove la terra tocca il Cielo. Andate a Gerusalemme, su quello che è poi il Monte degli Ulivi dove Gesù tenne il celebre discorso: quello per duemila anni è stato il cimitero dove migliaia e migliaia di ebrei da tutto il mondo venivano a morire per essere più vicini al Cielo. Il grande poeta medioevale Yehuda Ha-Levi concluse la sua vita come tanti riuscendo a toccare il Muro Occidentale, unico resto del Grande Tempio distrutto dai romani. Qui fu trapassato con una lancia da un saraceno. Passeggiare tra quelle lapidi, negli ultimi decenni pietosamente restaurate, dopo che il governo giordano le aveva utilizzare per pavimentare strade o come urinatoi, dà il senso di che cosa è Gerusalemme per gli ebrei.
Chi abbia sensibilità e rispetto per la fede altrui e non indulga al nefasto impulso di trasformare la giusta adesione alla propria fede in denigrazione di quella altrui dovrebbe passeggiare per le strade di Gerusalemme, assistere a un tramonto, contemplare l’incredibile intreccio che si consuma sul suo territorio tra le tre religioni monoteiste. Tutto è in bilico tra il dramma e il miracolo, tra l’intolleranza e l’incomprensione.
Ma chi ha pagato il prezzo dell’incomprensione e della sottrazione della propria memoria e della propria spiritualità è stato soltanto l’ebraismo. Oggi, mentre dal 1967 i Luoghi Santi conoscono una libertà di accesso in precedenza mai vista, l’unica religione di cui si mettono i discussione i diritti sulla Terrasanta è l’ebraismo. Per taluni sarebbe puro attaccamento nazionalista, ostinato e anacronistico tentativo di ricreare un regno perduto. Altri – gli integralisti islamici – dicono semplicemente che gli ebrei in Terrasanta non ci sono mai stati, che è tutto un imbroglio, che un Tempio non è mai esistito, e così via. Nel 2001 il Cardinale Ratzinger ammoniva che «un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo» e invitava a un «rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’Antico Testamento».
Ebbene, si segua questo ammonimento, leggendo e rileggendo la Bibbia. È un dovere per un cristiano che si rispetti capire che cosa sia il legame tra l’ebraismo e la Terrasanta e Gerusalemme in particolare. È un dovere, non un’opzione e non subordinato alla buona volontà di un ebreo. In tal modo si coglierà quale legame profondo – legame dello spirito e della carne – esista tra gli ebrei e la Terrasanta. Certo, oggi un simile legame deve conciliarsi con il rispetto delle altre fedi. Ma questo Israele ha dimostrato di saperlo fare come pochi.
Non ci si illuda però. C’è chi vuole la Terrasanta tutta per sé, ed è l’integralismo islamico. E vuole molto molto di più. Il suo nemico non è soltanto l’ebraismo, bensì anche il cristianesimo, proprio nella misura in cui esso si radica nell’Antico Testamento, pena la sua dissoluzione. Perciò chi si illude di cavarsela lasciando gli ebrei per le peste è come quel signore che gioiva di essere l’ultimo della lista nel menu del coccodrillo.
Vorrei terminare incitando caldamente all’ascolto di questo sermone tenuto da un imam di Hamas [clicca qui].
Lo devono ascoltare non soltanto le scimmie e i porci che popolano la Palestina (gli ebrei), bensì anche coloro che hanno spedito laggiù queste scimmie e porci, ovvero i cristiani, le cui capitali – Roma, in primis – saranno presto conquistate.
Ascoltatelo con un occhio alle immagini della preghiera verso la Mecca sul sagrato del Duomo di Milano e di San Petronio a Bologna.
ISRAELE/ La guerra vista dagli Usa - Lorenzo Albacete - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Durante l’ultima parte delle vacanze di Natale, le notizie sulla guerra a Gaza hanno dominato i notiziari di tutti canali televisivi via cavo degli Stati Uniti. Quasi tutti gli americani “normali” intervistati hanno dichiarato di essere confusi e sorpresi. In pochissimi si erano accorti di quanto stava per accadere, essendo l’attenzione concentrata sulla crisi economica e sulle possibilità per il presidente eletto Obama di portare miglioramenti significativi alla situazione e di diminuire la paura dell’americano medio circa il proprio futuro e quello della propria famiglia. Poi, all’improvviso, è venuta questa nuova crisi e la gente si chiede se e come essa cambierà le priorità del presidente.
È fuori discussione che la maggioranza degli americani sostengano Israele. Un sostegno che non è dovuto all’influenza politica degli ebrei americani, ma al riconoscimento di Israele come uno Stato moderno, democratico e laico. I cristiani evangelici appoggiano Israele per ragioni derivanti dalla Bibbia, in quanto credono che la seconda venuta di Gesù avverrà quando Israele sarà al sicuro e pronto alla conversione. Gli ebrei americani si trovano di fronte a un dilemma: la maggioranza di loro vota a favore delle istanze progressiste, ma i progressisti tendono nel conflitto a schierarsi con i palestinesi. Quindi, in questo caso, la maggioranza degli ebrei americani si trova a fianco dei conservatori. Tra i cattolici la situazione è rovesciata: i conservatori cattolici, con le loro simpatie per la causa palestinese, si trovano a fianco dei progressisti.
La gestione televisiva della crisi è conseguenza delle propensioni ideologiche dei tre canali via cavo che danno notizie 24 ore su 24. Fox, canale conservatore, ha sottolineato il diritto di Israele all’autodifesa. Dato che Israele non ha permesso ai giornalisti di attraversare il confine con Gaza, la maggior parte del materiale televisivo disponibile arriva dalle televisioni arabe e mostra le sofferenze dei civili palestinesi in conseguenza dell’invasione israeliana. Perciò Fox ha utilizzato molti personaggi neo-con per difendere Israele dai tentativi palestinesi di influenzare l’opinione pubblica americana. I neo-conservatori sostengono che Israele sta combattendo quella che prima o poi sarebbe diventata altrimenti una guerra americana, perché i reali nemici sono l’Iran e la Siria, il cui obiettivo non è solo Israele ma anche l’America.
Il canale MSNBC, che sembra aver deciso di porsi come l’alternativa progressista a Fox, ha presentato i propri esperti per condannare quella che viene considerata una “sproporzione” tra le conseguenze degli attacchi missilistici di Hamas contro Israele e le distruzioni e le vittime causate dalla reazione israeliana. Sorprendentemente, durante l’ultimo week-end MSNBC ha deciso di mandare in onda i suoi normali programmi invece che coprire la guerra.
CNN, d’altro canto, ha sospeso buona parte dei suoi programmi per offrire una copertura di 24 ore della guerra. Non potendo inviare i propri cronisti a Gaza, CNN ha offerto la possibilità a civili palestinesi, attraverso video internet e interviste telefoniche, di raccontare quanto stava succedendo.
Dall’inizio della settimana, comunque, è ricominciata la trasmissione delle altre notizie, a partire dall’arrivo di Obama a Washington e delle notizie politiche collegate. Con l’avvicinarsi dell’insediamento di Obama, a meno di qualche nuovo importante avvenimento in Medio Oriente, l’attenzione del pubblico sarà sempre più indirizzata all’inizio della nuova Amministrazione.
ASTRONOMIA/ Bersanelli: citando Dante, il Papa ricorda il nesso della scienza con la ricerca di un significato - INT. Marco Bersanelli - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
«C’è dunque nel cristianesimo una peculiare concezione cosmologica, che ha trovato nella filosofia e nella teologia medievali delle altissime espressioni. Essa, anche nella nostra epoca, dà segni interessanti di una nuova fioritura, grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali – sulle orme di Galileo – non rinunciano né alla ragione né alla fede, anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità».
Con queste parole Benedetto XVI nell’omelia durante la S. Messa dell’Epifania, è nuovamente tornato a parlare di Galileo e degli astronomi che, con i loro metodi e i loro strumenti, riescono a leggere il “libro” dell’universo e aiutano tutti noi a sintonizzarci sulla “sinfonia del creato”. Una sinfonia nella quale spicca un “Solista”, centro del cosmo e della storia, entrato nel mondo e artefice di quella che i Padri della Chiesa – ha ricordato il Papa – hanno visto come «una sorta di rivoluzione cosmologica».
Ma come percepisce queste parole un cosmologo moderno? Abbiamo rivolto la domanda a Marco Bersanelli, ordinario di astronomia e astrofisica all’università di Milano, che sta seguendo gli ultimi preparativi per il lancio, previsto il prossimo aprile, di una missione spaziale della quale è uno dei responsabili scientifici: è la missione Planck dell'Agenzia Spaziale Europea, dedicata a misure ad alta precisione della radiazione cosmica di fondo, testimone dell’universo primordiale.
«Mi sembra una sottolineatura molto giusta e realistica; perché effettivamente nella comunità scientifica c’è un buon numero di scienziati che, contrariamente all'immagine che normalmente se ne ha, vive un’esperienza di fede. E la vive "positivamente": non come un problema da conciliare, in qualche modo, con la conoscenza scientifica ma proprio come allargamento della ragione, la quale trova nel metodo scientifico uno dei modi con cui rapportarsi al mistero della realtà. Questa è anche la mia personale esperienza. È come se la fede, anche in questo caso, fosse capace di rendere più bello ciò che è bello e più vero ciò che è vero, offrendo il contesto della totalità a quello che altrimenti rimarrebbe un particolare, sia pure affascinante, come quello della conoscenza scientifica».
Senza questo inserimento in un orizzonte di totalità, è facile scivolare in una visione riduttiva, che assolutizza ed esaspera alcuni fattori con i quali la scienza tenta di descrivere e spiegare i fenomeni naturali. Il Papa ha sottolineato invece che «le stelle, i pianeti, l'universo intero non sono governati da una forza cieca e non obbediscono alle dinamiche della sola materia». Bersanelli ritiene molto interessante tale osservazione: i fisici, è vero, studiano l’azione dalle forze della natura, ma è evidente che lo studio quantitativo delle interazioni tra i corpi, siano essi nel microcosmo o nel macrocosmo, non esaurisce la realtà nella sua interezza. «Anche dall'interno della ricerca scientifica ci si rende conto sempre più che la fecondità dell'universo e della sua capacità di evolvere per miliardi di anni - oggi si reputa l'età dell'universo di 13,7 miliardi di anni - fino a diventare luogo ospitale per la vita, appare difficilmente compatibile con un'immagine di pura casualità. Ciò non toglie che quando uno studia realtà fisica da un punto di vista scientifico quello con cui ha a che fare sono questi aspetti particolare del reale, quelli che le leggi della fisica riescono a descrivere; ma tali leggi sembrano tutt’altro che sterili, anzi si rivelano prodigiosamente capaci di creare le condizioni per la vita e per l’emergere della coscienza».
C’è un altro passaggio dell’omelia di Benedetto XVI che colpisce particolarmente il nostro interlocutore: è la citazione del verso sublime col quale Dante conclude il Paradiso riferendosi a Dio come a «l'amor che move il sole e l'altre stelle»? Cosa vuol dire per un astrofisico pensare a Dio che «muove le stelle»? Bersanelli ritorna sul tema della completezza della ragione che tende ad abbracciare tutto il reale: la scienza non è certo in grado di dimostrare che esiste un livello della realtà che la trascende, che supera le sue possibilità conoscitive; tuttavia gli scienziati continuano a trovare segni che esiste qualcosa che va oltre la scienza. Qualcosa che ha a che fare con lo scopo: delle stelle, dell'universo così come della vita della singola persona.
«È significativo che il Papa citi Dante su questo punto. Quello che Dante esprime è una unità della conoscenza, che noi moderni abbiamo perduto. La lettura della Divina Commedia è una miniera di scoperte: ci si imbatte continuamente in passaggi in cui Dante parla della natura e dell'universo in termini assolutamente originali, con un linguaggio e una capacità di osservazione anche quantitativa che contiene il germe dell'approccio e della sensibilità scientifica moderna, che verrà portata a piena consapevolezza con Galileo. Soprattutto, Dante viveva questa sensibilità dentro una unità: per lui parlare della luce, delle stelle, dell'arcobaleno voleva dire riferirsi a qualcosa che immediatamente era in rapporto con la totalità e quindi con il significato. Noi moderni sappiamo tante cose in più sulle stelle, sulla luce o sull'arcobaleno; ma è come se fossimo davanti a tanti frammenti di un quadro che non ha più quella sua unità e compiutezza, e che quindi non sappiamo più guardare».
Bersanelli tuttavia nota come in molte parti della comunità scientifica stia riaffiorando il desiderio e quasi la necessità di ritrovare quella unità, che è possibile solo se la ragione ammette la possibilità di uno scopo. «La stessa parola universo richiama il fatto che la materia ha una unità, uno scopo per cui è stata fatta».
Infine non possiamo evitare l’accostamento tra i Magi e l’astronomia: il Papa stesso ha detto che "i magi erano con tutta probabilità degli astronomi". Un accostamento che fa sorridere lo scienziato, che però riconosce che «se sono stati così pronti a riconoscere qualcosa di nuovo nel cielo è perché il cielo lo guardavano con attenzione. In ogni caso i Magi sono figure affascinanti e il loro fascino sta nel fatto che nel cielo hanno cercato la verità: e questo è il mestiere dell'astronomo, di ogni scienziato e di ogni persona che vive la propria umanità»
a cura di Mario Gargantini
LETTERATURA/ L’anti modernità scomoda e profetica di Péguy, Claudel e Bernanos - Redazione - giovedì 8 gennaio 2009 – IlSussidiario.net
Il saggio scritto da Jacques Julliard Il denaro, Dio e il diavolo. Péguy, Bernanos, Claudel di fronte al mondo moderno ci sorprende per molte ragioni. Innanzitutto per la stranezza del titolo; in secondo luogo per la scelta dei tre scrittori, tutti di matrice cattolica benché al loro tempo siano stati volutamente ignorati se non criticati. Ci chiediamo quindi: perché questo titolo? Perché associare i tre scrittori?
Vorrei iniziare a rispondere all’ultima domanda. L’approccio di Juillard ai tre scrittori e alla loro opera è inusuale per un lettore abituato a leggere di Péguy, I Misteri; di Bernanos Il diario di un curato di campagna; di Claudel L’annuncio a Maria o La scarpina di raso. Le opere da lui citate sono altre: la rivista Cahiers de la Quinzaine, Eve e Notre Jeunesse di Péguy, La France contre le robots, La Grande Peur, Les Grands Cimitières di Bernanos. Infine, oltre al suo Journal e alle Conversations dans le Loir-et-Cher, Julliard fa spesso riferimento alle opere teatrali giovanili di Claudel: Tête d’Or e La Ville o La trilogie des Coûfontnine.
Questa cernita di opere, apparentemente a carattere più “politico” che cattolico, non appare come arbitraria o “forzata”, né settaria. Risponde a una precisa logica e volontà dell’autore. Julliard precisa che tutti e tre gli scrittori, in epoche diverse, hanno rappresentato uno «strumento di emancipazione intellettuale» in quanto hanno, attraverso le loro opere e il loro percorso esistenziale, operato una “liberazione” del proprio tempo, aiutandolo a prendere le distanze dalle influenze culturali in esso dominanti. I tre sono accomunati dalla loro matrice cattolica e ciò ha implicato, data la società laica o addirittura laicista in cui hanno operato, la loro messa al bando. Ma la solitudine più o meno voluta non li ha fatti sprofondare nella marginalità; al contrario ha fatto acquistare loro una profonda “chiaroveggenza” e una grande capacità di resistenza alla “volgarità dell’ambiente”. C’è un bel passaggio in cui Julliard precisa cosa intende per chiaroveggenza. Parlando di Péguy, dice che il suo “programma” come storico e giornalista, la sua “passione per la verità” nasceva dalla sua posizione “interiore” che Juillard precisa con una frase di Mounier: «L’avvenimento sarà il nostro maître intérieur (interiorità)». Julliard commenta questa frase del filosofo personalista dicendo che «noi (giornalisti, scrittori) non possiamo scegliere la materia. Né la creiamo. Essa sorge dalla nostra stessa vita, dalla nostra stessa esperienza, dalla nostra stessa epoca. Le idee non camminano nude per le strade. Bisogna prenderle per la mano e condurle allo scoperto».
Julliard nel saggio va oltre al valore di questo metodo intrinseco e ideale, riconosciuto ai tre scrittori. Prova una riabilitazione della loro visione culturale che spesso si è tradotta in scelte politiche mal “riconosciute” e di fatto “marginalizzate” o che li ha portati a marginalizzarsi. Non a caso, il primo capitolo s’intitola Levée d’écrou (tradotto letteralmente: uscire di prigione; metaforicamente: sdoganare).
Chiarito l’intento dell’autore, possiamo ora porci la domanda del rapporto tra i tre scrittori e il titolo principale del libro. Se l’argomento del “denaro” è più che mai d’attualità, lo è un po’ meno se associato a “ Dio” e ancor più al “diavolo”.
L’autore si mostra preoccupato dal fatto che l’originalità di Péguy, Bernanos, Claudel oltre a non essere stata veramente colta e riconosciuta a suo tempo, corre il rischio di essere totalmente persa in un mondo che egli stesso definisce “post-moderno”; i tre scrittori, infatti, sono per loro scelte degli “anti-moderni”. Per non perderci nelle varie sfaccettature della questione, oseerviamo che Julliard privilegia l’angolo sociale, poiché tale aspetto ha un’incidenza maggiore a livello culturale. La sua tesi è che “il sistema borghese”, storicamente attraverso la rivoluzione francese, ha “dinamitato” e “snaturato” la società. Esso infatti ha sovvertito i valori (“onore, carità, solidarietà”) apparentati tra loro e che legavano a loro volta il sistema aristocratico a quello cristiano e operaio (di chi lavora), introducendo valori “mercantili e materialisti”. Questo cambiamentoha avuto come conseguenza l’abbattimento di una mentalità che si concepiva come “collettiva e solidale” in favore di una visione più “individualista”. In sintesi: l’individuo, da solo, contro o in opposizione, all’Universo/Universalità.
Questo processo storico-sociale è divenuto culturale e quindi possibile grazie al denaro, in quanto agente “magico” e equivalente di qualsiasi principio universale. Infatti, nel mondo d’oggi ogni aspetto ha un suo “corrispettivo in denaro”. Non si tratta più di uno scambio ma di un “prezzo”; non più di valore (“qualità”) bensi’ di “quantità” di soldi per acquistarlo. Péguy, Bernanos, Claudel con sfumature diverse (Claudel ha una posizione più complessa e dialettica), si sono “scaglaiati” contro questa riduzione del valore del mondo a moneta, perché in tal modo, in fondo, l’uomo non fa altro che sostituirsi a Dio: «Dio ha creato le cose, e l’uomo ha creato le specie. Nell’universo precapitalista... il mondo appapriva estremamente variegato; nel mondo moderno cioé borghese ogni cosa assomiglia a tutte le altre, sotto forma di valore di scambio». Attraverso “la tecnica” e “il negozio” si è “snaturata la creazione”.
È interessante la riflessione fatta da Julliard sia come fondo che rispetto dei tre scrittori. Essa fa scoprire come la loro fede non sia spiritualista ma in rapporto alla società in cui vivevano e con un giudizio sulle trasformazioni da essa subite.
Al di là delle analisi contenute nel volume, che possiamo condividere o meno, mi sembra interessante porsi la domanda come mai si sia stato dato per acquisito, in particolare dal dopo guerra in poi, che questa mentalità “mercantile” sia stata assorbita da generazioni di genitori ed educatori come criterio educativo indiscusso. L’apporto del saggio di Julliard sul “denaro” nell’esperienza culturale di Péguy, Bernanos, Claudel, mi sembra aprire una breccia nella mentalità di quanti hanno considerato e considerano il “boom economico”, o un fenomeno di benessere economico, come un bene in sé senza guardare più da vicino alle derive culturali che dobbiamo pagare (come si vede in particolare in questi mesi), ma soprattutto alle derive educative che influiscono pesantemente sulle giovani generazioni
(Silvio Guerra)