domenica 22 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 22/02/2009 12:07 – VATICANO - Papa: aiutatemi a compiere il ministero di Pietro - La festa della Cattedra di san Pietro, occasione per sottolineare l’autorità del vescovo di Roma, garanzia dell’unità e delle “varietà legittime” nella Chiesa, testimoniata fin dal II secolo. Gesù è capace di salvare anche dalla “paralisi dello spirito”. Preghiera a Maria per “entrare” nella Quaresima, che inizia mercoledì 25 febbraio.
2) GLI OCCHI DI DON GIUSSANI 21.02.2009 22 FEBBRAIO. - Antonio Socci
3) Quattro anni fa la morte di don Luigi Giussani - Non per un comandamento ma per l'amore di un Altro - Alle prime ore del 22 febbraio 2005 moriva a Milano don Luigi Giussani. Uno dei suoi primi allievi - oggi superiore generale della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo - lo ricorda con un volume giunto in questi giorni in libreria (Don Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2009, pagine 165, euro 14). Del libro proponiamo ampi stralci tratti dal capitolo intitolato "La vita come vocazione". - di Massimo Camisasca – L’Osservatore Romano, 22 febbraio 2009
4) Conversione di Paolo Brosio a Medjugorje - Mi sono convertito a Medjugorje. In quel Santuario ho ritrovato slancio e voglia di credere. Il mio stile di vita non mi piaceva più, solo un cattolicesimo di facciata. Ora ho la gioia della vera fede. In alcune foto vedo luci particolari
5) L'eugenetica e la dignità della persona - Ogni uomo va trattato come un piccolo Dio - Alla Pontificia Accademia per la Vita è in corso il congresso "Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell'eugenetica". Pubblichiamo uno stralcio della relazione dell'arcivescovo di Oristano. - di Ignazio Sanna – L’Osservatore Romano, 21 febbraio 2009
6) Il cammino di John Henry Newman verso la Verità - Un brindisi alla coscienza - A dispetto di Goering - di Hermann Geissler – L’Osservatore Romano, 21 febbraio 2009
7) L'influenza del vescovo di Milano sul cardinale inglese - «Che emozione essere nella città di Ambrogio» - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 21 febbraio 2009
8) «La scienza dica no all’eugenetica» - Fisichella: le leggi della natura vanno rispettate. Altrimenti non c’è futuro - DA ROMA SALVATORE MAZZA – Avvenire, 21 febbraio 2009
9) I travestimenti contemporanei dell'eugenismo - Non chiediamo alla scienza di spiegare il senso di una vita
10) Eluana e il progetto di una nuova “Porta Pia” - Ma i massoni hanno perso
11) L’ESEMPIO/ Ecco come Dante può raccontarci tutta un’altra scuola - Stefania Barbieri - sabato 21 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
12) L’EUGENETICA: DA VIOLENTA A «LIBERALE» - LO SPETTRO DELLE CATTIVE IDEE CI INSEGUE - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 22 febbraio 2009


22/02/2009 12:07 – VATICANO - Papa: aiutatemi a compiere il ministero di Pietro - La festa della Cattedra di san Pietro, occasione per sottolineare l’autorità del vescovo di Roma, garanzia dell’unità e delle “varietà legittime” nella Chiesa, testimoniata fin dal II secolo. Gesù è capace di salvare anche dalla “paralisi dello spirito”. Preghiera a Maria per “entrare” nella Quaresima, che inizia mercoledì 25 febbraio.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Nel giorno in cui la Chiesa festeggia la Cattedra di san Pietro (22 febbraio), Benedetto XVI si è rivolto ai pellegrini radunati in piazza san Pietro per l’Angelus, chiedendo loro di “accompagnarmi con le vostre preghiere, perché possa compiere fedelmente l’alto compito che la Provvidenza divina mi ha affidato quale Successore dell’apostolo Pietro”.
“La Cattedra di Pietro – ha spiegato il pontefice - simboleggia l’autorità del Vescovo di Roma, chiamato a svolgere un peculiare servizio nei confronti dell’intero Popolo di Dio. Subito dopo il martirio dei santi Pietro e Paolo, alla Chiesa di Roma venne infatti riconosciuto il ruolo primaziale in tutta la comunità cattolica, ruolo attestato già nel II secolo da sant’Ignazio di Antiochia (Ai Romani, Pref.: Funk, I, 252) e da sant’Ireneo di Lione (Contro le eresie III, 3, 2-3). Questo singolare e specifico ministero del Vescovo di Roma è stato ribadito dal Concilio Vaticano II. "Nella comunione ecclesiastica, - leggiamo nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa - vi sono legittimamente delle Chiese particolari, che godono di proprie tradizioni, rimanendo integro il primato della Cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale della carità (cfr S. Ign. Ant., Ad Rom., Pref.), tutela le varietà legittime, e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva" (Lumen gentium, 13).
In precedenza il papa, parlando alle decine di migliaia di presenti, ha commentato brevemente il Vangelo della domenica, che riferisce l’episodio del paralitico perdonato e guarito da Gesù (Mc 2,1-12). “Mentre Gesù stava predicando, tra i tanti malati che gli venivano portati, ecco un paralitico su una barella. Al vederlo il Signore disse: ‘Figlio, ti sono perdonati i peccati’ (Mc 2,5). E poiché alcuni dei presenti, all’udire queste parole, erano restati scandalizzati, aggiunse: ‘Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua’ (Mc 2,10-11). E il paralitico se ne andò guarito. Questo racconto evangelico mostra che Gesù ha il potere non solo di risanare il corpo malato, ma anche di rimettere i peccati; ed anzi, la guarigione fisica è segno del risanamento spirituale che produce il suo perdono. In effetti, il peccato è una sorta di paralisi dello spirito da cui soltanto la potenza dell’amore misericordioso di Dio può liberarci, permettendoci di rialzarci e di riprendere il cammino sulla via del bene”.
Prima della preghiera mariana e dei saluti nelle diverse lingue, Benedetto XVI ha rivolto una preghiera alla Madonna perché ci aiuti “ad entrare con le dovute disposizioni d’animo nel tempo della Quaresima, che inizierà mercoledì prossimo con il suggestivo rito delle Ceneri”. Il papa riceverà le Ceneri durante la cerimonia pomeridiana nella basilica in Santa Sabina.


GLI OCCHI DI DON GIUSSANI 21.02.2009 22 FEBBRAIO. - Antonio Socci
A quattro anni dalla morte Spesso ai miei figli ho desiderato parlare degli occhi di don Giussani. Del suo sguardo. Perché gli amici di Gesù finiscono per somigliargli, per avere lo stesso cuore e lo stesso sguardo. Noi abbiamo potuto accorgercene. La nostra generazione ha avuto questa sfacciata fortuna. Questa Grazia. Noi che abbiamo potuto ascoltare don Giussani, conoscerlo, parlarci. Guardarlo parlare. Noi che ci siamo sentiti guardare, uno per uno, ognuno – anche fra altri diecimila – in una maniera esclusiva, che abbracciava la mia anima, la tua anima. Con una stima indomabile in noi che stava insieme a una infinita misericordia. Il suo sguardo diceva a ciascuno di noi: “io sono con te!”. Era veramente con me, più di me stesso. Mi avrebbe difeso contro il mondo intero. Anzi, mi ha difeso contro il mondo intero. Ha scommesso su di me anche dopo mille miei errori. Mi ha abbracciato dopo mille cadute. (E come lui anche i suoi figli, i miei fratelli, lo fanno). Questo è quello che si percepiva. E che abbiamo visto con i nostri occhi. E che continua ad accadere.

E pensando al suo sguardo e al suo volto mi viene in mente quando raccontava certi episodi del Vangelo. Li avevi letti tante volte, li avevi sentiti una miriade di volte, ma con lui succedeva una cosa strana: li faceva accadere. Lì, davanti ai tuoi occhi. Ti sembrava di vederli, ti sembrava di sentirli per la prima volta. Ti sembrava che lui li avesse visti. Che lui ci fosse quel giorno con Gesù.

Viene in mente, pensando a don Giussani, ciò che Hauviette – nel “Mistero della carità” di Péguy – diceva a Giovanna d’Arco: “Tu vedi. Tu vedi. Quello che sappiamo, noi altri, tu lo vedi. Quello che c’insegnano, a noi altri, tu lo vedi. Il catechismo, tutto il catechismo, e la chiesa, e la messa, tu non lo sai, tu lo vedi, e la tua preghiera non la dici, non la dici soltanto, tu la vedi. Per te non ci sono settimane. E non ci sono giorni. Non ci sono giorni nella settimana; e non ore nella giornata. Tutte le ore per te suonano come la campana dell’Angelus. Tutti i giorni sono domeniche e più che domeniche e le domeniche più che domeniche”.

La generazione dei nostri figli non ha visto lo sguardo che ha incantato e fatto fiorire la nostra giovinezza. Io mi sono sentito dire: “beati voi”. E’ vero. Beati.

Anche la Giovanna d’Arco di Péguy, pensando a coloro che poterono vedere Gesù, dice così: “Felici coloro che bevevano lo sguardo dei tuoi occhi”. E dice ancora: “Voi avete visto il colore dei suoi occhi; avete udito il suono delle sue parole. Voi avete udito il suono stesso della sua voce. Come dei fratelli minori vi siete rifugiati nel calore, nel tepore del suo sguardo. Vi siete riparati, vi siete messi al coperto al riparo della bontà del suo sguardo. Di voi stessi ebbe pietà davanti a quella folla. Gesù, Gesù, ci sarai mai così presente”.

“Egli è qui”, così Madre Garvaise risponde a questo grido di Giovanna. E anche attraverso il volto dei santi Gesù raggiunge ogni generazione. Nei secoli. Attraverso lo sguardo, il volto, la voce di don Giussani ci ha raggiunto lo sguardo, il volto, la voce di Gesù. E si vive per questo. Per vedere ogni giorno, di nuovo, il suo sguardo che “ebbe pietà di noi”. Per risentirlo parlare e accadere. Oggi proprio come allora. Come don Gius ripeteva sempre, con le parole di Moelher: “Io credo che non potrei più vivere se non lo sentissi più parlare”.
Ma “Egli è qui”.
Antonio Socci


Quattro anni fa la morte di don Luigi Giussani - Non per un comandamento ma per l'amore di un Altro - Alle prime ore del 22 febbraio 2005 moriva a Milano don Luigi Giussani. Uno dei suoi primi allievi - oggi superiore generale della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo - lo ricorda con un volume giunto in questi giorni in libreria (Don Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2009, pagine 165, euro 14). Del libro proponiamo ampi stralci tratti dal capitolo intitolato "La vita come vocazione". - di Massimo Camisasca – L’Osservatore Romano, 22 febbraio 2009
Nella sua polemica contro l'intellettualismo, il moralismo, il volontarismo, contro le accentuazioni giansenistiche che avevano allontanato sempre più gli uomini dalla Chiesa, il fondatore di Cl descrive l'uomo cristiano come l'uomo realizzato, protagonista della storia. Tutto in lui è opera di Dio, per questo la strada dei consigli evangelici è un dono realizzato dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Anche queste parole si possono comprendere soltanto in rapporto a Gesù Cristo. Descrivono il suo rapporto col Padre, con gli uomini, con il mondo, con la storia. Giussani vuol far uscire dalla scontatezza questi termini, che sono sulle labbra di tutti i credenti. Togliere le parole dal loro uso abitudinario è sempre stata una delle sue preoccupazioni pedagogiche fondamentali. Perché per esempio ha usato così tanto la parola "Destino"? Perché essa, pur non essendo una parola confessionale, è aperta all'infinito, all'oltre. Nello stesso tempo non è una parola bigotta, scontata, clericale. Per lui verginità, obbedienza e povertà descrivono il vertice dell'umano e ciò a cui tutti gli uomini sono chiamati in un modo o in un altro, all'interno di qualunque storia personale e vocazionale. (...) L'uomo vero, l'uomo realizzato, l'uomo non confinato ai margini della storia, non bigotto, non ridotto nella sua umanità, il laico, direbbero gli intellettuali d'oggi, è per Giussani l'uomo che vive povertà, obbedienza e verginità. Ma c'è un altro paradosso. Mentre don Giussani accoglie da una parte la tradizione della Chiesa, dall'altra la rinnova completamente. (...) Mentre per una gran parte della storia cristiana i consigli evangelici sono la condizione di vita di taluni, per Giussani, come ho detto, essi sono l'ideale a cui tutti sono chiamati. Non solo: per la coscienza diffusa degli uomini, penetrata anche in vasti settori della Chiesa, i consigli evangelici indicano un di meno di umanità. Si fa di tutto per spiegare i limiti dell'obbedienza, si considera sventurata la povertà e una follia impossibile la verginità. Per don Giussani è esattamente l'opposto. Per lui "obbedienza" è seguire ciò che ci attrae, ciò che è ragionevole, ciò in cui il nostro cuore trova il suo compimento. Non si può vivere umanamente se non si ama la propria umanità, ma per questo occorre seguire il disegno di un Altro, perché noi siamo creature. Per Giussani, come per Agostino, amore di sé e donazione coincidono. "La nostra vita, se obbedisce, diventa più grande di quanto sarebbe mai stata, cioè si realizza. L'obbedienza per noi, cioè il seguire il disegno di un Altro, il fare la sua volontà, è ragionevole in un solo caso: deve essere consapevole che in essa sta la riuscita della vita". Per questo Giussani vede nell'amicizia il vertice dell'obbedienza. Dalla meditazione sui consigli evangelici e sulle virtù teologali, in particolare la carità, nasce spontaneamente la riflessione morale: se Dio ci ama così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri (cfr. Prima Lettera di Giovanni, 4, 11). La morale è proprio questa imitazione del Padre. D'altra parte Gesù stesso aveva detto: "Siate perfetti come lo è il Padre vostro" (cfr. Matteo, 5, 48), indicando con queste parole non una misura, impossibile per l'uomo, ma una tensione. La vita morale è un cammino, un cammino verso il Padre. E tutta la sproporzione, tutto il limite umano non è obiezione a questo: "Santità non è non sbagliare", afferma Giussani riprendendo sant'Ambrogio, "ma cercare continuamente di non cadere". Come un bambino che, pur disubbidendo alla mamma, le rimane attaccato e, col tempo, quando diventa più cosciente di questa affezione e dell'amore gratuito della madre, gli rincresce di farle del male e allora cerca di non farlo più. Dall'amore di cui è fatto oggetto nasce nell'uomo lo sforzo morale, dalla coscienza della dignità ontologica di cui lo ha rivestito il Padre sgorga in lui la preghiera alla Madonna perché "ci costringa a rendere il nostro esistere coincidente con il nostro essere". Per una gratitudine, per un amore, non semplicemente per rispettare un comando. Ma se l'amore è Dio stesso (cfr. Prima Lettera di Giovanni, 4, 8), allora "la morale è imitare Dio in questo, è seguire Gesù o imitare il Padre". "Perfetto come il Padre nostro: ma chi è capace? Come raccomandazione è sconsiderata, come raccomandazione produce l'inverso: la paura. Invece c'é il passo parallelo di san Luca che spiega cosa vuol dire: "Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre che sta nei cieli''. La perfezione è questa commozione in atto verso il bisogno dell'uomo". Per il fondatore di Cl, come per i grandi della Chiesa, per esempio Agostino e Tommaso, tutta la morale si riconduce all'amore, non è nient'altro che il comandamento di Gesù: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Marco, 12, 31; Matteo, 22, 39). La legge dell'io è una sola: amare, perché Amore è lo stesso nome di Dio. Giussani ha una visione assolutamente positiva della vita morale. Anche per lui essa implica rinunce e sacrifici, ma è definita in primo luogo da ciò che amiamo, non da ciò che non amiamo. Il cambiamento della vita avviene in un possesso sempre più grande che Cristo realizza legandoci sempre più a sé. Adrienne von Speyr ha espresso bene questa stessa tensione: "La santità non consiste nel fatto che l'uomo dà tutto, ma nel fatto che il Signore prende tutto". La perfezione indicata da Gesù ci rivela che la moralità è una traiettoria verso l'infinito. Quanto più Cristo prende possesso della mia vita, tanto più io avverto l'urgenza di donare me stesso. Questa tensione è stata descritta infinite volte (...) (da Giussani, ndr) ma soprattutto nei capitoli di un volumetto pubblicato dalla Jaca Book nel 1990 e significativamente intitolato Moralità: memoria e desiderio. Qui la moralità è identificata alla santità. Il santo per Giussani è un uomo che aderisce a Dio dentro la sua umanità che rimane tale, eppure diventa diversa. Rimangono in lui tanti limiti, tanti difetti, tanti peccati, ma essi non lo definiscono più, è abitato da un Altro, ha una nuova coscienza di sé. È questo che rende possibile anche il sacrificio. Fa impressione veder tornare in Giussani molte volte parole come sacrificio e mortificazione. A prima vista sembrano contraddire la sua positività, la sua esaltazione della vita. Ma egli sa benissimo che senza sacrificio non c'è vita, che senza mortificazione non c'è cammino in avanti. Conosce troppo bene il peccato originale e le sue conseguenze per non sapere che vivere è seguire uno che ci rende capaci di bene e in tale sequela opera il nostro cambiamento. "Ciò che brama il santo non è la santità come perfezione; è la santità come incontro, appoggio, adesione, immedesimazione con Gesù Cristo". Egli "non rinuncia a qualcosa per Cristo, ma vuole Cristo. vuole l'avvenimento di Cristo in modo tale che la sua vita ne venga permeata".
La moralità dunque è l'adesione a una presenza, alla vita di Gesù che diventa familiare per noi nella vita della Chiesa. "L'immanenza di sé al mistero comunionale... fa penetrare... l'essere personale di una misura e di una sensibilità nuove... e rende possibile... una nuova gioia... che rende la speranza capace di motivi "contro ogni speranza"".
(©L'Osservatore Romano - 22 febbraio 2009)


Conversione di Paolo Brosio a Medjugorje - Mi sono convertito a Medjugorje. In quel Santuario ho ritrovato slancio e voglia di credere. Il mio stile di vita non mi piaceva più, solo un cattolicesimo di facciata. Ora ho la gioia della vera fede. In alcune foto vedo luci particolari
Giovedì 19 Febbraio 2009
Lo aveva già accennato in una precedente intervista a Pontifex. Oggi Paolo Brosio, giornalista e uomo di spettacolo è esplicito: “ grazie a Medjugorje ho ritrovato la fede e mi sono convertito, oggi sono un’altra persona, mi sento vivo”. Brosio è stato il primo febbraio a Medjugorje e racconta così la sua esperienza: “ guardi, non è che io fossi ateo. Ma il mio era un cattolicesimo rituale, vuoto, anche stanco. Quello classico, ereditato dalla famiglia, messa di prima comunione, a Natale, Pasqua, e basta. Insomma, ero insoddisfatto del mio stile di vita, non piacevo a Cristo”, né a me stesso”. In più, due situazioni personali gravi ne avevano minato fede e certezze: “ vero. Ho passato anni difficili. Prima la scomparsa di mio padre al quale ero molto legato,poi la separazione da mia moglie Gretel, molto dolorosa. Ero ridotto male”. Grazie a quattro valenti e santi sacerdoti, Brosio si è avvicinato al pianeta Medjugorje: ...
... “ devo a questi bravi preti se, prima sui libri,poi in pratica, ho conosciuto la realtà di Medjugorje”. Lei è stato a febbraio,come è tornato?: “ diverso,trasformato. Oggi credo davvero e voglio fare del bene. Devo dire che a Medjugorje la Madonna mi ha fatto avvicinare a Suo Figlio, la mia vita, grazie alla preghiera e al Santo Rosario è cambiata, si è stabilizzata sia in senso emotivo ed etico,che professionale. Certo, non voglio peccare di presunzione, ma dopo la separazione da mia moglie Gretel mi ero quasi abituato alla logica pagana del chiodo scaccia chiodo, ed essendo un personaggio famoso, forse anche benestante,le occasioni non mi mancavano. Ma non era questa la vita vera che cercavo. Nel Rosario e nell’Avemaria ho trovato la mia bussola. Ora voglio restituire a Dio quello che mi ha dato”.
In concreto che cosa intende fare?: “ aiutare e lo ho promesso a Gesù ,una struttura di suor Cornelia, presente a Medjugorje che si occupa di bambini orfani e di anziani, l’alfa e l’omega, la fine e l’inizio della nostra vita”. Spiega anche come farà: “ a maggio, con tutta probabilità, organizzerò da Pisa un volo Charter per Medjugorje, e oltre alla quota di iscrizione, da fissare, vi sarà un contributo da destinare appunto alla struttura di accoglienza per orfani ed anziani di suor Cornelia”. Una comunicazione di servizio. I particolari non sono ancora del tutto noti, ma chi volesse saperne di più potrà contattare la Onlus di Brosio a Milano denominata Fondatori Olimpiadi del Cuore al telefono 02 48 18 123, un bella e nobile iniziativa che vi segnaliamo e che merita ogni favore. Dice ancora Brosio: “ credo che sia giusto dire: la mia, a Medjugorje, è stata davvero una conversione fulminante, ho compreso la bellezza della fede, l’importanza dei sacramenti e dell’aiuto fraterno. Credo che questa esperienza vada divulgata e fatta conoscere. La Madonna ci parola, ci invita alla pace e alla solidarietà”.
Sorosio non lo dice apertamente, lo rivelerà a giorni,ma nelle foto scattate vi è qualche segno strano: “ preferisco mantenere prudenza, può darsi che sia un difetto di luminosità della macina fotografica. Ma dagli scatti fatti nella Chiesa emergono inspiegabili macchie luminose difficilmente spiegabili. Ora non ne parlo, lo farò solo dopo attento studio tecnico per non dare appigli ai soliti scettici e denigratori. Una cosa è certa: a Medjugorje la mia vita è cambiata e mi sono convertito”.
Bruno Volpe


L'eugenetica e la dignità della persona - Ogni uomo va trattato come un piccolo Dio - Alla Pontificia Accademia per la Vita è in corso il congresso "Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell'eugenetica". Pubblichiamo uno stralcio della relazione dell'arcivescovo di Oristano. - di Ignazio Sanna – L’Osservatore Romano, 21 febbraio 2009
La fondazione teologica della dignità dell'uomo e dei diritti umani non è una semplice sovrastruttura apposta ai moderni diritti umani generalmente riconosciuti. Essa non può limitarsi a ripetere con parole teologiche solenni ciò che altri hanno conquistato combattendo in duri scontri, e che a loro appare chiaro anche senza un tale rivestimento teologico. La fondazione teologica è piuttosto un aiuto originario e originale, per una comprensione autentica della dignità umana e dei diritti dell'uomo, che ci permette non solo di decifrarne il vero significato, ma anche di difendere l'una e gli altri da una loro possibile strumentalizzazione ideologica.
Il fondamento ultimo della dignità dell'essere umano risiede nel fatto che egli partecipa della natura di Dio, il Filantropo, l'Emanuele, il Dio con l'umanità. Il nucleo centrale di questa fondazione teologica è senz'altro la concezione dell'uomo come immagine di Dio. Filosoficamente, essa si basa sul fatto che l'uomo, per natura, si esprime e si realizza all'interno di una fiducia originaria in Qualcuno, e solo nella misura in cui può ancorarsi a questo Qualcuno, può vedere garantite le sue attese e le sue aspirazioni umane fondamentali. Non il fato, non le energie dell'evoluzione, ma lo Spirito divino è ciò che dà origine all'essere vivente, e il punto di riferimento per l'autocomprensione non è il cosmo, ma Dio stesso. L'uomo non è un piccolo cosmo, un microcosmo, ma un piccolo Dio. La Gaudium et spes, nell'offrire un abbozzo di antropologia cristiana, tutta centrata sul tema dell'immagine di Dio, dedica il primo capitolo della prima parte alla dignità della persona umana, e collega a essa la costituzione corporea e spirituale dell'uomo, la sua intelligenza, con cui egli partecipa della luce della mente di Dio, la coscienza, considerata come il nucleo più segreto e il sacrario dove l'uomo è solo con Dio, la libertà, segno altissimo dell'essere creato a immagine di Dio. In ultima analisi, è la dimensione teologica che fonda e protegge l'unicità e irripetibilità d'ogni essere umano, che rende ogni uomo una persona, un interlocutore di Dio, l'unica creatura che Dio ha voluto per se stessa. Come scrive Giovanni Paolo II, "l'affermazione più radicale ed esaltante del valore di ogni essere umano è stata fatta dal Figlio di Dio nel suo incarnarsi nel seno d'una donna" (Christifideles laici, 37).

L'origine più vera della concezione della persona, quindi, è teologica, anche se, per un verso, una sua idea seppure ancora confusa è già presente nella letteratura classica antica, e per un altro verso, nel corso dei secoli, questa origine teologica si è andata perdendo e il concetto di persona si è progressivamente secolarizzato, divenendo appannaggio della filosofia e del diritto. Dalla persona divina si passò alla persona umana, dalla teologia alla filosofia e al diritto, in una sorta di movimento circolare ove antropologia e teologia si intrecciano reciprocamente.
In forza di questa origine teologica della concezione della persona, l'uomo si autocomprende come soggetto spirituale dotato di valori eterni, capace di entrare in rapporto dialogico con un Dio trascendente. Quando Dio crea l'uomo non crea un oggetto in più, accanto ad altri oggetti, ma crea un tu, e lo crea chiamandolo per nome, ponendolo davanti a sé come un essere responsabile, un essere, cioè, che può rispondere, un partner del dialogo inter-personale. Ma l'uomo non è soltanto terra, materia. Dio gli ispira dentro un alito di vita, cioè la luce dell'autocoscienza, come è definita, appunto, l'alito di vita, così che l'uomo diventa un essere vivente, una persona. Benché tratto dalla terra e, quindi, essenzialmente legato a essa, l'uomo è aperto a Dio, che lo fa vivere e gli conferisce la sua precisa identità personale.
Ogni uomo e tutti gli uomini sono qualcosa di unico e irripetibile; ogni uomo è un valore a sé e per sé. Il fatto che Dio abbia creato l'uomo per se stesso, come fine e non come mezzo, fa di costui un valore assoluto, che non può essere posto in funzione di nessuna realtà, sia essa la produzione, la classe, lo stato, la religione, la società. L'uomo, come persona, è un valore assoluto, perché Dio lo considera in modo assoluto. Cristo, uomo fra gli uomini, con la sua vita e la sua opera di redenzione, ha confermato il valore assoluto della persona umana, perché è morto per ogni uomo, per ogni fratello.
Se è vero che la prima e fondamentale dimensione della persona è quella teologica, che fa riferimento alla trascendenza di Dio, è anche vero, però, che questa trascendenza di Dio si rivela a noi nell'evento storico di Cristo. Per rapportarsi a Dio, nella sua trascendenza, e anche per rapportarsi agli uomini, nella loro prossimità, è ormai necessaria la mediazione del Cristo. Perciò, la persona ha una dimensione cristologica, sia quando la si vuole definire nei confronti di Dio, sia quando la si vuole definire nei confronti degli altri uomini.
Gesù Cristo, nella sua condizione di Figlio, è sì unico e irripetibile, perché solo Egli ha la relazione al Padre che lo costituisce nella sua sussistenza personale, ma, nella sua risurrezione, Egli ha donato al credente il suo Spirito, lo stesso principio della sua attuazione, in virtù del quale ha condotto a termine la sua esistenza storica e dalla cui forza è stato risuscitato dai morti. Gesù, così, è diventato il principio della nuova vita per tutti gli uomini. Il suo essere uomo è diventato paradigmatico per quello di tutti gli uomini. Grazie allo Spirito Santo che si concede a noi come Spirito di Gesù, possiamo partecipare tutti nella filiazione divina, che solo Egli possiede originariamente. Il principio della nostra esistenza è lo stesso che animò quella di Gesù. Come in Gesù l'unione ipostatica non significa diminuzione né detrazione dell'umanità ma il suo potenziamento massimo, così anche nel credente la presenza dello Spirito che riproduce l'immagine di Gesù implica la massima perfezione del suo essere personale. Se Gesù è persona in quanto pura relazione al Padre, anche il credente sarà persona nella misura in cui è chiamato a partecipare a questa relazione, benché a partire dalla sua contingenza creaturale. Lo Spirito di Gesù, presente in lui, rende possibile la sua apertura a Dio, la sua essenziale relazione a Dio, e contribuisce così a realizzare la sua perfezione umana. Maggiore unione con Dio significa, infatti, maggiore realizzazione possibile della propria essenza e del proprio essere creaturale.
È chiaro che nell'esporre la dimensione teologica e cristologica come costitutiva della persona non intendiamo circoscrivere al solo credente la possibilità di riconoscere sé stessi e gli altri come soggetti personali e valori assoluti. Anche gli umanesimi laici possono e devono rendere ragione della loro affermazione del singolo individuo come fine incondizionato. La ragione umana può dimostrare che l'uomo è un essere intelligente e libero, dunque di natura spirituale, e, come tale, un essere fine a se stesso. Basti pensare a come Kant stesso abbia insistito efficacemente sulla non strumentalizzazione della persona nei rapporti con gli altri uomini e con la società. Dal principio che la natura ragionevole esiste come fine in se stesso, il filosofo di Königsberg ricavò l'imperativo categorico che si deve agire in modo da trattare l'umanità, sia nella propria persona, sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo. Ciò che, però, in primo luogo, bisogna comunque riconoscere è che quando si attribuisce un valore assoluto a un tu umano, indirettamente, si afferma l'esistenza di un Assoluto come fondamento del rispetto e della dignità di questo tu umano.
In realtà, al di fuori di una visione religiosa che veda nell'uomo per lo meno una lontana presenza di Dio, è assai problematico fondare la dignità assoluta, e dunque l'intangibilità dell'uomo. Giovanni Paolo II affermando che il senso dell'uomo è strettamente collegato con il senso di Dio, sostiene che "il vangelo dell'amore di Dio per l'uomo, il vangelo della dignità della persona e il vangelo della vita sono un unico e indivisibile vangelo".(Evangelium vitae, 2; cfr. anche 21). D'altra parte, "pur tra difficoltà e incertezze, precisa il Pontefice, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario". Bisogna, tuttavia, riconoscere che, dal punto di vista storico, "solo la dottrina cristiana di un'incarnazione di Dio nell'uomo ha formulato e portato fino alle sue ultime conseguenze l'intuizione umanistica che l'uomo è l'essere supremo per l'uomo, postulando così con efficacia ineguagliabile l'imperativo etico di relazioni interumane rette dalla dignità personale di ciascun soggetto, e opponendosi decisamente a un modello di relazioni dove la natura prevale sulla persona, l'io trasforma l'altro in una cosa, le entità astratte (lo stato, la razza, la società, la classe) diventano mediatrici degli individui concreti; dove, insomma, non si arriva a capire sul serio che ogni uomo deve essere trattato come Dio, perché Dio ha voluto essere e lasciarsi trattare come uomo".
(©L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2009)


Il cammino di John Henry Newman verso la Verità - Un brindisi alla coscienza - A dispetto di Goering - di Hermann Geissler – L’Osservatore Romano, 21 febbraio 2009
John Henry Newman, nacque il 21 febbraio 1801 a Londra, e nell'anniversario della sua nascita può essere opportuno richiamare alcuni pensieri del grande teologo inglese, noto anche come "Dottore della coscienza". "La dottrina di Newman sulla coscienza divenne per noi fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti col suo fascino. La nostra immagine dell'uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza. Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo. Hermann Goering aveva detto del suo capo: "Io non ho nessuna coscienza. La mia coscienza è Adolf Hitler". L'immensa rovina dell'uomo che ne derivò, ci stava davanti agli occhi. Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il "noi" della Chiesa non si fondava sull'eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza". Queste parole pronunciate nel 1990 dall'allora cardinale Joseph Ratzinger evidenziano l'attualità della dottrina di Newman sulla coscienza. Affermare la centralità della coscienza significa rigettare ogni forma sia di totalitarismo sia di soggettivismo: la via della coscienza non è una via della chiusura nel proprio Io, ma dell'apertura, della conversione, dell'obbedienza a Colui che è l'amore e la verità. Il cammino personale di Newman mette in evidenza il legame intrinseco tra coscienza e verità. Cerchiamo di ripercorrere brevemente le tappe più importanti che lo condussero ad abbracciare la pienezza della Verità. Educato nella confessione anglicana, il giovane Newman fu introdotto alla lettura della Bibbia, ma praticava una religiosità dei sentimenti e "non aveva convinzioni religiose precise". A solo quattordici anni subì la tentazione della incredulità e dell'autosufficienza: voleva essere un gentleman, ma non credere in Dio. Mentre lottava con questa tentazione, Dio bussò al suo cuore. Nelle vacanze del 1816 lesse il libro La forza della verità di Thomas Scott e ne fu profondamente colpito. In seguito sperimentò la sua "prima conversione", che considerò una delle più grandi grazie della sua vita: si trattava di una acuta consapevolezza della presenza di Dio e del mondo invisibile. Nell'Apologia pro vita sua confessò che quest'esperienza aveva avuto un grande influsso sulla sua persona: "Isolandomi, cioè, dalle cose che mi circondavano, confermandomi nella mia sfiducia nella realtà dei fenomeni materiali e facendomi riposare nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, me stesso e il mio Creatore". Cominciò così a rendersi conto dell'importanza delle grandi verità cristiane: l'incarnazione del Figlio di Dio, l'opera della redenzione, il dono dello Spirito che abita nel battezzato. Nell'intimo della coscienza aveva percepito l'eco della voce di un Altro che lo toccava, lo affascinava e lo guidava. Un anno dopo, Newman entrò nel Trinity College a Oxford per dedicarsi allo studio della teologia. Dopo solo tre anni fece gli esami finali e divenne poi fellow nel famoso Oriel College. In quel periodo capì che Dio lo chiamava al suo servizio e nel 1824 fu ordinato diacono. Preparandosi a quest'ordinazione, si accorse che era chiamato al servizio, che negli occhi di Dio aveva una responsabilità non solo per se stesso, ma anche per gli altri. Nel giorno dell'ordinazione diaconale scrisse nel suo diario: "Ora sono responsabile per le anime fino al giorno della mia morte". Scoprì così la dimensione pastorale della sua vocazione e comprese che la coscienza ha una dimensione non solo verticale - la relazione con Dio - ma anche orizzontale - la relazione con la Chiesa, con il prossimo. Diventò così un pastore di anime e non a caso scelse poi, come motto cardinalizio, le parole Cor ad cor loquitur. Si sentì toccato dal cuore di Dio e si impegnò a toccare il cuore, la coscienza degli uomini. Nelle vacanze del 1828 cominciò a leggere i padri della Chiesa. Questi studi diventarono per lui la chiave per scoprire la pienezza della Rivelazione. Aveva già studiato accuratamente la Scrittura e ne conosceva grandi parti a memoria. Da quel momento gli si aprì anche il tesoro della Tradizione. I padri ebbero un immenso influsso sul suo sviluppo. Più tardi, come cattolico, confessò: "I padri mi fecero cattolico". Nel 1833, insieme con alcuni amici, iniziò il Movimento di Oxford. Denunciarono il distacco della nazione inglese dalla pratica della fede e lottarono per un ritorno al cristianesimo primitivo, attraverso una solida riforma dogmatica, spirituale e liturgica. Con la pubblicazione di trattati di facile divulgazione, cercarono di penetrare nella coscienza dei fedeli. Newman si rese conto che la polemica contro il liberalismo aveva bisogno di un buon fondamento dottrinale. Si convinse di aver trovato questo fondamento negli scritti dei padri. Capì che la sua coscienza di fede, come quella dei suoi connazionali, esigeva un rinnovamento a partire dalla coscienza dei padri, che considerava i veri araldi della verità cristiana. Mentre il movimento si diffondeva, Newman sviluppò la teoria della Via media: intendeva dimostrare che la Comunione anglicana era l'erede legittima della prima cristianità in quanto non presentava né gli errori dei protestanti, né le corruzioni che pensava di vedere nella Chiesa di Roma. Ma studiando la storia del cristianesimo del quarto secolo, fece una grande scoperta: trovò rispecchiata nei tre gruppi di allora la cristianità del suo secolo - negli ariani i protestanti, nei romani la Chiesa di Roma, nei semi-ariani gli anglicani. Poco dopo lesse un articolo in cui si paragonava la posizione dei donatisti al tempo di Agostino con quella degli anglicani. Newman non poteva più dimenticare la frase Securus iudicat orbem terrarum, citata da sant'Agostino, ovvero, nella traduzione dello stesso Newman: "Il giudizio deliberato a cui finalmente tutta la Chiesa si rimette e si acquieta, è una regola infallibile". Capiva che nella Chiesa antica i conflitti dottrinali venivano risolti non soltanto in base al principio dell'antichità, ma anche in base a quello della cattolicità: il giudizio della Chiesa intera è decreto infallibile. Perciò "la teoria della Via media era assolutamente polverizzata" ed egli intuiva che la sua coscienza, per essere veramente ecclesiale e in piena sintonia con quella dei padri della Chiesa, doveva ancora maturare. Intanto alcuni fedeli guidati da Newman cominciarono a convertirsi alla Chiesa cattolica. I 39 articoli, fondamento dell'anglicanesimo, sembravano loro troppo protestanti. Perciò Newman cercò di dare a tali 39 articoli un'interpretazione cattolica. Questo fu il Tract 90, uscito nel 1841 come l'ultimo e il più famoso trattato del Movimento di Oxford. Ma le autorità anglicane rifiutarono decisamente tale interpretazione. Newman decise pertanto di ritirarsi a Littlemore, un villaggio presso Oxford, per trovare una soluzione alla sua grande questione, quella della vera Chiesa. Avvertiva sempre di più la gravità della sua situazione. "L'unico interrogativo è questo: posso io (la domanda è personale; non può qualcun altro, ma posso io) salvarmi nella Chiesa d'Inghilterra? Sarei io salvo, se dovessi morire stanotte? È un peccato mortale, per me, non passare a un'altra comunione?". Qui si esprime tutta la drammaticità della ricerca di Newman: la questione della verità era collegata con quella della salvezza. Nello studio Newman iniziò a tirare le fila di una riflessione che lo accompagnava già da molti anni: se la Chiesa di Roma era nella continuità apostolica, come giustificare quelle dottrine che non sembravano far parte del patrimonio di fede della prima cristianità? Il principio dell'autentico sviluppo, che egli elaborò, gli permise di rendere ragione dei vari nuovi insegnamenti nella vita della Chiesa: i dogmi più tardi erano sviluppi autentici della Rivelazione originale. Questo argomento, decisivo per il suo futuro, egli lo ha illustrato nel suo famoso saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana. "Man mano che progredivo le mie difficoltà scomparivano, sicché cessai di parlare di "cattolici romani" e li chiamai, in tutta libertà, "cattolici". Prima di arrivare alla fine, mi risolsi di chiedere di essere ammesso fra loro, e il libro è rimasto allo stato in cui si trovava allora, incompiuto". Il 9 ottobre 1845 John Henry Newman abbracciò la fede cattolica e fu accolto dal beato Domenico Barberi, un passionista italiano, "nell'unico ovile di Cristo", come scrisse in una lettera da lui inviata alla vigilia di questo giorno a numerosi amici e parenti. Per Newman la conversione non fu una rottura, ma la conseguenza della sua "prima conversione". Lasciare la Church of England non è stato facile per lui: amava il suo vescovo, il suo lavoro a Oxford, la sua famiglia e i suoi amici. Ma la chiamata della coscienza era più forte di ogni legame umano. Trent'anni dopo la conversione scrisse: "Dal 1845 non ho mai esitato, neppure per un solo istante, nella convinzione che fosse mio preciso dovere entrare, come allora ho fatto, in questa Chiesa cattolica che, nella mia propria coscienza, ho sentita essere divina". Nella Chiesa guidata dal Successore di Pietro trovava la perfetta pace, anche se a prezzo di tante prove e sofferenze. Fu premiato più tardi, quando Papa Leone xiii lo creò cardinale nel 1879. Morì l'11 agosto 1890 a Birmingham.
Newman ha sempre ribadito la dignità della coscienza, senza cedere minimamente all'arbitrarietà o al relativismo. Ha dimostrato che la coscienza non è opposta alla Verità, ma - al contrario - è l'avvocata della medesima nel nostro cuore, è "l'originario vicario di Cristo". In questo senso va inteso il suo famoso detto: "Senza dubbio, se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa".
(©L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2009)


L'influenza del vescovo di Milano sul cardinale inglese - «Che emozione essere nella città di Ambrogio» - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 21 febbraio 2009
Tra i Padri che hanno attratto John Henry Newman c'è sant'Ambrogio, anzi, c'è specialmente sant'Ambrogio. Newman era ancora adolescente quando lo aveva incontrato. Scrive nell'Apologia pro vita sua: "Nell'autunno 1816, quando avevo quindici anni (...) lessi la storia della Chiesa di Joseph Milner e letteralmente mi innamorai dei lunghi estratti da sant'Agostino, da sant'Ambrogio e dagli altri padri che vi trovai. Li leggevo vedendo in essi la religione dei primi cristiani". Sempre nell'Apologia, parlando degli anni 1841-1845, noterà: "Sentivo tutta la forza della massima di sant'Ambrogio: Non in dialectica complacuit Deo salvum facere populum meum (De fide, i, 42; "Non piacque a Dio di operare la salvezza del suo popolo mediante la dialettica"). E avevo una grande antipatia per la logica sulla carta. Nel caso mio non era la logica a spingermi avanti (...) Si ragiona con tutto l'essere, nella sua concretezza". E ne Gli ariani del iv secolo a proposito dell'"ortodossia dell'insieme dei fedeli durante l'arianesimo" ricorderà i contrasti tra Ambrogio e gli ariani appoggiati dalla corte, la pretesa di questi ad avere una basilica, e il sostegno del popolo al suo vescovo. Era intenzione di Newman dedicare ad Ambrogio - oltre che a Gerolamo e forse ad Atanasio - uno dei suoi Historical Sketches, ma vi dovette rinunciare: avremmo certamente avuto uno dei suoi penetranti e avvincenti ritratti interiori, con i tratti della non confondibile originalità del vescovo di Milano. "Di solito ciò che viene chiamato la Vita consiste in poco più di una serie di aneddoti raccolti da un certo numero di ambienti indipendenti; aneddoti che possono colpire, certo, ed edificare, ma preziosi in sé, e non perché parte di una biografia; preziosi qualunque possa essere il loro soggetto, e non perché rendono onore a un particolare santo. Sarebbe difficile confondere un paragrafo di sant'Ambrogio con uno di san Girolamo, o di sant'Agostino; molto facile invece confondere un capitolo della vita di un santo missionario o di una suora con un capitolo della vita di un altro". "Quanto - osserva ancora Newman - una poesia devozionale ha abbellito alcuni dei mediocri ritratti del grande san Carlo! Quanto è diverso l'aspetto originale di sant'Ignazio dall'espressione militaresca che gli hanno conferito matite mediocri!". Newman vede il vescovo di Milano - "il maestoso Ambrogio" - come "la grande luce dell'Occidente" che insieme con Basilio e Gregorio Nazianzeno in Oriente fu lo strumento della Provvidenza "per riparare e consolidare i bastioni (della fede cattolica) con le parole, gli scritti, le azioni, una volta dissipato il furore degli assalti (degli ariani)" e che conserverà "tenacemente la sua sede in una città imperiale, difendendosi contro l'eresia di una corte con l'aiuto vivo di una popolazione devota".
In particolare, rispetto a Basilio Newman nota una "curiosa differenza, nel grande Ambrogio di Milano, che era un uomo di mondo": mentre il primo viveva riservato, teneva la sua porta ermeticamente chiusa ed era insofferente verso quelli che la oltrepassavano, "il secondo offre questa caratteristica di non restare mai chiuso in casa sua, ma di essere sempre accessibile a tutti". La figura e l'opera di Ambrogio sono richiamate e ammirate da Newman nella fine e penetrante analisi che egli fa della conversione di Agostino, che soprattutto sarà attratto dall'"amabilità dei suoi modi", dalla grazia della sua parola, anche se non gli riuscirà di "penetrare l'intimo del suo cuore e di precisare i pensieri e i sentimenti che erano la regola della sua condotta". Newman soggiornò a Milano dal 20 settembre al 23 ottobre del 1846 con Ambrose St. John, durante il suo viaggio verso Roma, e Milano è per lui soprattutto la "città di sant'Ambrogio". Egli ripeterà, scrivendo ai suoi amici d'Inghilterra: "Questo è il luogo più meraviglioso, che mi impressiona più che non Roma. Certo, io non ero ancora cattolico quando vi andai, ma Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu sant'Ambrogio, sant'Agostino, santa Monica, sant'Atanasio. Fino a san Leone Roma raramente offre rilevanti motivi di interesse dal profilo della storia, eccetto ovviamente alcuni grandi martirii, come quello di san Lorenzo". Durante quella permanenza a Milano soprattutto furono frequenti le visite alla chiesa di sant'Ambrogio: "Siamo stati ovviamente nella chiesa di sant'Ambrogio - scriveva a qualche giorno dal suo arrivo - è stupendo essere sullo scenario dei grandi avvenimenti dei quali prima d'ora ho tanto letto e scritto; essere all'ombra di sant'Ambrogio il cui nome, per trent'anni - un lungo periodo - ho tanto onorato e amato".
"È meraviglioso andare nella chiesa di sant'Ambrogio - dove si trova il suo corpo - e inginocchiarsi presso le sue reliquie, che sono state così portentose, e di cui io ho sentito e letto più che di ogni altro santo fin da quando ero ragazzo. Posso dire che sono trent'anni proprio questo mese da che Dio mi ha fatto religioso, e sant'Ambrogio nella storia di Milners fu uno dei primi oggetti della mia venerazione. Come anche sant'Agostino, che qui si è convertito! Qui venne anche santa Monica a cercarlo. Sempre qui, nel suo esilio, venne il grande Atanasio per incontrare l'imperatore. Io non sono mai stato in una città che mi abbia maggiormente commosso, neppure Roma".
Nel suo testamento Newman aveva scritto: "Se nel chiostro si mettesse una lapide, simile alle altre tre che già vi sono, vorrei che vi fosse inciso quanto segue, se tuttavia il latino è giudicato buono e non presenta alcuna obiezione; ma non lo si faccia, se coloro ai quali io devo deferenza trovassero in questa iscrizione qualche cosa che sapesse di scetticismo: Johannes Henricus Newman / Ex umbris et imaginibus in veritatem / Die... A. S. 18... / Requiescat in pace". Ed è esattamente nell'orazione funebre di Ambrogio per la morte del fratello Satiro (ii, 109) che ricorre l'espressione: "Troviamo l'ombra nella legge, l'immagine nel vangelo, la verità nell'ultimo giudizio (umbram in lege, imaginem in evangelio, in iudicio veritatem)". ùSolo di là da questa vita, in quella eterna, apparirà, secondo Newman, la verità: quaggiù viviamo invece avvolti dal velo delle ombre e delle immagini. Era una sua antica persuasione, che risaliva agli anni dell'infanzia. Scrive nell'Apologia pro vita sua: "Pensavo che la vita potesse essere un sogno, oppure io essere un angelo, e tutto questo mondo un inganno, dove i miei compagni angelici, per un giocoso stratagemma, mi si nascondevano e m'illudevano con l'apparenza di un mondo materiale". In certo modo, quella persuasione e quella sensibilità proseguirono nell'età adulta nelle sue convinzioni a proposito degli angeli, alimentate "alla scuola alessandrina e alla Chiesa primitiva". Nel 1831 in un sermone per la festa di san Michele aveva scritto: "Ogni alito d'aria, ogni raggio di luce o di calore, ogni bella vista è, per così dire, l'orlo della loro veste, l'ondeggiare del manto di coloro i cui volti contemplano Dio". Newman era convinto che "la natura" fosse "una parabola", "la Scrittura" "un'allegoria", "la Santa Chiesa coi suoi sacramenti e la sua scala gerarchica, (...) fino alla fine del mondo, soltanto un simbolo di quelle realtà celesti che riempiono l'eternità", e "i suoi misteri (...) soltanto un'espressione, in termini umani, di verità che la mente umana non è in grado di spiegare".
Alla luce di questi testi possiamo meglio comprendere la ragione per cui Newman scelse come iscrizione per la sua lapide tombale: "Dalle ombre e dalle immagini alla verità". Con la morte egli avrebbe oltrepassato le parvenze umbratili dell'esistenza terrena, con le sue parabole e i suoi veli, per entrare nel mondo di quella Luce, che nei momenti dolorosi della sua crisi invocava perché benignamente lo guidasse.
(©L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2009)


«La scienza dica no all’eugenetica» - Fisichella: le leggi della natura vanno rispettate. Altrimenti non c’è futuro - DA ROMA SALVATORE MAZZA – Avvenire, 21 febbraio 2009
C’ è una «tentazione prometeica», striscian­te, sempre in agguato. Una sorta di «sen­so di onnipotenza» che «spesso accom­pagna alcune fasi della ricerca». A questa tentazio­ne è necessario dire «no», perché un «sano» pro­gresso » «impone» che le «leggi proprie» della natu­ra «siano rispettate», e «la ricerca scientifica e tec­nologica sarà tanto più feconda e produttiva quan­to più sarà in grado di questo rispetto e della sua ge­losa custodia». «è urgente e importante che si senta la voce della Chiesa nel riaffermare l’insegnamento di sempre. L’uomo è debitore della sua vita. È uscito dalle ma­ni del Creatore e la sua realizzazione piena si potrà concretizzare solo nella condizione di percepire se stesso e costruire la propria esistenza personale e sociale senza mai volersi sostituire a Dio».
Per Fisichella «le nuove frontiere della genetica ci pongono dinanzi a sfide e rischi» che «non sono un limite imposto alla scienza, ma un richiamo forte ad entrare sempre di più nella natura e soprattutto nelle sue forme più nascoste che sono cariche di in­telligibilità ». La «vera sfida», pertanto, «si pone nel­la nostra capacità a saper percepire e cogliere il mi­stero della creazione... In questo modo, chiunque si accosterà a essa con meraviglia non potrà che ri­manere stupito di come tanta complessità nascon­da in sé altrettanta semplicità». Monsignor Rino Fisichella, presidente della Ponti­ficia Accademia per la Vita, lo ha ribadito aprendo ieri mattina il Congresso internazionale promosso dallo stesso organismo vaticano sul tema “Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell’eugenetica”, che si conclude oggi con l’udienza del Papa. Tema cru­ciale, riguardo al quale, ha sottolineato il presule, «il richiamo alla natura non è un’invenzione cattolica, ma una realtà che ci precede, ci accompagna e ci se­guirà nonostante i tentativi di alcuni nel volerla u­miliare, ferire e forse violentare». Per questo moti­vo, ha insistito, «non ci sarà futuro autentico per le nuove generazioni se non saremo capaci di conse­gnare loro una ricchezza di cultura che pone la na­tura come un patrimonio comune che è offerto e non può essere distrutto». Un patrimonio, ha anco­ra evidenziato, «con le sue leggi che tutti devono ri­conoscere e accogliere prima ancora di essere rifor­mulate in formule chimiche o in sistemi giuridici». E leggi, appunto, che vanno dunque «rispettate» da una ricerca scientifica e tecnologica che sarà tanto più «feconda e produttiva» quanto più sarà in gra­do di svilupparsi in armonia con quel patrimonio. Per questo allora, «dinanzi a una visione spesso ri­duttiva della persona e della sua dignità, come pu­re di fronte a forme antropologiche che creando di­visioni e dualismi ne minano l’integrità e quindi ne umiliano la dignità», secondo monsignor Fisichella È il caso di quella che viene definita la «medicina personalizzata», nella quale molti vedono «il futuro dell’umanità», come ha detto Kevin Fitzgerald, del dipartimento di Oncologia della Georgetown Uni­versity di Washington. Ma il rischio implicito in que­sta tendenza – derivante dal rapido sviluppo nel se­quenziamento del genoma umano, che ha aperto in­finite possibilità per l’assistenza medica – è di cade­re in una «tirannia individuale» che metta «a repen­taglio tutti i benefici che si perseguono». Ciò in quan­to, per Fitzgerald, «lo sviluppo di una medicina per­sonalizzata richiede una comprensione unitaria del­la persona umana che sappia integrare le nuove informazioni genetiche con le concezioni comples­se di salute e di natura umana che giù circolano in campo medico e nella società».


I travestimenti contemporanei dell'eugenismo - Non chiediamo alla scienza di spiegare il senso di una vita
CITTA' DEL VATICANO, sabato, 21 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito quasi integralmente la relazione pronunciata dal prof. Didier Sicard, Presidente emerito del Comitato di Bioetica francese, a conclusione del Convegno “Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell'eugenetica”, organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita.
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di Didier Sicard
Il termine «eugenismo» ci rimanda alle pattumiere della storia. Mai più! Come non vi saranno mai più sperimentazioni selvagge sull'uomo senza il suo consenso, mai più disprezzo per le persone vulnerabili... Il paradosso, ma non è il solo in questa situazione, è che la messa al bando del termine permette la sua pratica con la coscienza tranquilla. L'eliminazione demonizzata del termine permette la sua realizzazione in totale tranquillità. Ma insorgono immediatamente voci di protesta: «C'è un eugenismo buono, il nostro, in opposizione a quello cattivo, quello di un tempo», «il nostro eugenismo, se esiste è individuale e non collettivo», «voi negate il progresso scientifico e le sue capacità predittive prima sconosciute», «noi non facciamo altro che evitare la venuta al mondo della sofferenza di un essere», «noi permettiamo di nascere a degli esseri normali che non sarebbero nati senza di noi».
I termini «eugenismo» e «aborto» devono essere ormai banditi dal nostro vocabolario, chiede la società. Devono essere sostituiti da «scelta libera di una vita che sta per nascere», interruzione medica, o meglio terapeutica (!) di gravidanza. Piuttosto che rinchiudersi in un dibattito senza via d'uscita, ricostruiamo il mondo su altre realtà. Smettiamo di fare paura alla società parlando di embrioni clonati o di clonazione a fini terapeutici. Ma usiamo l'espressione «trasferimento somatico di materiale nucleare». Così la società sarà decolpevolizzata non avendo più di fronte direttamente il concetto e i ricercatori non saranno più interrogati e in imbarazzo riguardo alle conseguenze sociali delle loro ricerche.
Chiediamo alla legge — per esempio, le leggi francesi dette di bioetica del 1994 e del 2004, il codice francese di salute pubblica — di proibire esplicitamente «qualsiasi pratica eugenica tendente a organizzare la selezione delle persone». La legge la vieta, dunque passiamo oltre, rassicuriamoci, non può esistere. Certo, ci sono delle «interruzioni terapeutiche di gravidanza», ma il loro numero non è noto perché non esiste un registro epidemiologico e ciò non solo rende difficile una valutazione delle pratiche, ma impedisce anche di condurre una vera riflessione.
Tentiamo tuttavia, senza eccessiva passione, di condurla.
Si possono distinguere così chiaramente l'eugenismo individuale e l'eugenismo collettivo? Apparentemente sì, perché non c'è una politica di Stato né una volontà di miglioramento delle stirpi umane. Ma c'è una politica di salute pubblica. Anche se non esprime un'intenzione, il risultato è che, per il suo carattere sistematico — è vero, sistematicamente proposto e non imposto, ma è la stessa cosa — e per il farsene carico collettivamente, attraverso il sistema sanitario della diagnosi prenatale, si delinea a poco a poco il progetto di una nascita senza handicap prevedibile o predicibile. Certo, non vi sono norme scritte, né linee guida, ma sembra stabilito che un bambino portatore di una trisomia 21 o 18 non dovrebbe nascere. Se nasce, c'è un errore, o persino una mancanza di responsabilità da parte del medico o della famiglia che deve essere sanzionata, con quella strana ma comprensibile idea che più il livello socioculturale s'innalza meno si verifica la nascita di un bambino trisomico (10 per cento contro 30 per cento).
Certo, non esistono testi che definiscono l'anormalità, la decisione d'interruzione medica di gravidanza si prende sempre caso per caso, l'ecografia non è obbligatoria, e neppure i test biologici. Ma guai a colei che li avrà ignorati! Così l'offerta medica e la domanda sociale provocano effettivamente un risultato selettivo che non si vuole riconoscere come tale.
«C'è un eugenismo buono, in opposizione a quello cattivo del passato». Questa affermazione si fonda sull'individuazione di un chiaro limite fra ciò che sarebbe o non sarebbe accettabile per una vita da essere vissuta. Le zone grigie sono naturalmente imbarazzanti, ma bisogna pur sempre pagare il prezzo di questo obbligo medico non stabilito. I ginecologi non amano il concetto di «pendio scivoloso». Ma non si può non constatare che le tecniche, i marker biologici, sempre più accessibili senza un intervento forzato sul corpo della madre, i progressi della diagnostica per immagini, concorrono a estendere senza fine l'ambito di ciò che è inaccettabile. Il feto deve essere sempre più trasparente. L'agenesi del corpo calloso (anomalia morfologica del cervello) comporta oggi quasi sempre l'interruzione di gravidanza detta “terapeutica” sebbene la metà dei bambini colpiti da questa malformazione non presenterà alcun deficit fisico o mentale. Lo stesso avviene per la malattia di Marfan, e meno male che Abraham Lincoln, Felix Mendelssohn, Sergej Rachmaninov sono vissuti nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo. L'eliminazione richiesta nel caso di emofilia non è più un tabù. I cancri con predisposizione genetica forte (al seno, al colon) si considerano non per il dibattito, ma per l'eliminazione attraverso una diagnosi pre-impianto. A partire dal momento in cui la finitezza umana s'iscrive in marker sempre più sofisticati, non c'è alcun limite per interrompere questa predizione che precede proprio l'interruzione di gravidanza. Il medico si può ribellare ma la pressione sociale sempre più intollerante verso l'handicap (malgrado i discorsi umanistici e generosi) plaude a ciò che considera come un progresso scientifico e umano senza limiti. Il medico, suo malgrado, è il braccio armato di una società che esige sempre più una nascita perfetta.
«Voi negate il progresso scientifico e ignorate che al contrario esseri che non sarebbero nati oggi nascono perché i genitori confidano nella medicina per avere un bambino normale». Questa argomentazione positivista s'iscrive in uno strano immaginario, con quella confusione esistente fra l'aiuto medico alla procreazione che, grazie alla diagnosi pre-impianto, sceglie gli embrioni buoni ed elimina quelli cattivi e quello che permette effettivamente di far nascere bambini in coppie considerate sterili, a causa del padre o della madre, con quella grande ambiguità che è la trasmissione volontaria di una mutazione prima non trasmissibile, come ad esempio proprio la sterilità legata ad anomalie del cromosoma Y nel padre. Certo, le cifre sono infinitesimali, ma permettono di avere la buona coscienza di far nascere bambini che non sarebbero nati senza la medicina. Farne tuttavia il versante rassicurante di una politica di depistaggio a scopo di eliminazione è quantomeno inquietante.
C'è poi il problema del «riduzionismo genetico». Dalla fine del diciannovesimo secolo, la scienza è tentata di imporre una forma di razionalismo che finirebbe per esprimere la verità dell'uomo. Il rinchiudersi in leggi matematiche, dalle quali sarebbe derivata la natura umana, finisce con l'intimidire le scienze umane, dette «scienze molli» in contrasto con le scienze dette «dure». La medicina si è ormai schierata. Occorre proporle e poi imporle modelli teorici come forme uniche di conoscenza. La schematizzazione è indubbiamente essenziale per la scienza, poiché senza di essa non è possibile alcuna ricerca; ma la questione resta epistemologicamente quella del modello come unica realtà che s'impone. La schematizzazione non ama i parametri caotici, il caso, le influenze esterne, il rapporto con l'ambiente che nella sua infinita complessità disorienta sempre lo scienziato. È patetico affidare ancora ai geni una spiegazione o piuttosto un'identità totalizzante; la genetica è arrivata dopo tutte le misure antropometriche ritenute un tempo la causa di un comportamento, ma questo non è bastato. Lombroso non è poi tanto lontano da Craig Venter... La conoscenza dell'interazione fra i geni, l'epigenetica, dovrebbe rendere più prudente la scienza circa la qualità delle sue predizioni.
Al di là di questi casi rari, e persino eccezionali di malattia monogenica o di cromosomi modificati, la genetica ha aperto la via alla nozione di predisposizione o di suscettibilità a una o a un'altra affezione. Da questa predisposizione all'eliminazione di qualsiasi rischio c'è purtroppo solo un passo, compiuto troppo in fretta. Il futuro delle predisposizioni cambia la percezione delle persone riducendo instancabilmente il fenomeno del vivente a una programmazione genetica. Ogni specialista presenta il suo gene, creando questa lista, questa banca dati per stabilire un progresso umano senza fine. Di recente, ad esempio, alcuni specialisti dell'ipertensione arteriosa polmonare primitiva, alcune forme della quale sono geneticamente determinate, hanno chiesto di poterne fare la diagnosi prenatale o pre-impianto, anche se solo il 20 per cento dei bambini che nascerebbero con questi geni correrebbero il rischio di presentarne i sintomi da 1 a 75 anni! Il gene detta la condotta da tenere, che è sempre la stessa, la promozione della sua assenza.
Lo Human Genome Project ha affascinato l'umanità per la sua rapidità nel definire la mappatura del genoma umano di cui Craig Venter ha avuto il primo campione personale. La sua mappatura dice qualcosa di lui, oltre a rivelare la sua ambizione insaziabile di assicurare un futuro radioso a questo mercato tentato più dall'imbroglio che dalla generosità?
Questa invasione dell'umano da parte di ciò che dicono i geni ha una tendenza naturale ad andare sempre verso ciò che vi è di meno grave e di più incerto. La soglia di quanto è accettabile dipende sempre più da ciò che è prevedibile. Sempre il modello! Ma la gravità delle manifestazioni diviene a geometria variabile a seconda del giudizio culturale di una o di un'altra comunità. Qui lo sradicamento della malattia di Tay Sachs, là della talassemia. La comprensione di tali atteggiamenti quando sono al centro della sopravvivenza di un gruppo umano divenuto così vulnerabile, lo diviene meno quando riguardano l'ipercolesterolemia familiare, le forme genetiche di Alzheimer e così via.
La genetica non ha il monopolio di questo rifiuto dell'umano. La diagnostica per immagini del feto sempre più sofisticata, nonostante l'assenza di risposte formali alle sue domande, non vuole più correre il rischio di individuare un'anomalia senza concludere che si tratta di un'anomalia che ormai non ha più diritto di cittadinanza. Einstein non supererebbe il filtro della diagnostica fetale contemporanea.
La biologia «da caccia», con le sue ricerche ed esami di cellule fetali circolanti nella donna incinta, tende a informarla il più presto possibile dell'identificazione cromosomica di questo o quel carattere che possono tradire eventualmente qualcosa di sgradevole del bambino che nascerà.
Tutti questi esperimenti hanno un solo fine: non quello di venire in aiuto, ma quello di prevenire la vita futura. Non si tratta forse di forme contemporanee nuove di eugenismo? L'eugenismo si definisce come un progetto politico o scientifico volto a influenzare la trasmissione di caratteri ereditari al fine di migliorare la razza umana. La scienza contemporanea ha semplicemente aggiunto alla trasmissione genetica la previsione a partire da una forma...
Stiamo andando verso una «normalizzazione umana». Se l'imperfezione tesse incessantemente la sua tela, si profila allo specchio l'immagine della perfezione. «Non vogliamo un bambino perfetto ma vogliamo un bambino normale» esclamano i difensori di queste strategie. Cosa vuol dire normale? Un bambino intelligente al quale manca un dito, che non potrà essere violinista ma un grande pensatore, o un corpo completo dall'intelligenza limitata che non potrà essere Einstein ma batterà il record del mondo di salto in alto? La normalità del medico non è quella dello scienziato, dei genitori, del padre, della madre, della società, del Paese di nascita.
Quale umanità stiamo costruendo? Un'umanità che non avrà le mutazioni genetiche scoperte nel suo tempo, ma quelle del futuro attualmente sconosciute, tanto più disastrose forse perché un gene non è altro che un recettore di influenze molteplici, represse o sollecitate. La storia umana è fatta di questi geni che hanno le due facce di Giano. Sopprimerne una permette forse di esprimere l'altra fino a quel momento censurata.
Una normalità umana è all'opposto della biodiversità tanto incensata nel nostro tempo. La ricchezza umana è sempre e per sempre legata alla presenza di persone anormali, devianti, e non di quelle normali. Dopo due secoli di scienza si potrebbe sperare che l'umanità ne abbia preso coscienza. Un giorno le ragazze non avranno più diritto all'esistenza come avviene in alcuni Paesi asiatici, un altro giorno toccherà ai ragazzi, come se questo squilibrio fosse senza conseguenze. L'umanità ha scelto la selezione scegliendo criteri sempre più filtranti, senza rendersi conto che essa stessa è il risultato di un meraviglioso caso.
Cambia lo sguardo sull'altro. Possiamo continuare a guardare senza disagio un essere colpito da una malattia di Marfan come un sopravvissuto di un'altra epoca? Possiamo continuare a ridurre un essere alla sua identità genetica, biologica o morfologica e capire che l'identità umana è felicemente multipla (Amartya Sen), mutevole e interrelazionale, e fortunatamente inafferrabile? A poco a poco la scienza statistica, con cifre del 20 o dell'80 per cento, detta il futuro dell'uomo. Quanto spazio resta per l'immaginario dei genitori? Come si può immaginare il futuro di quel bambino sempre più legato a marker il cui mercato finisce per essere l'unica finalità? Il gene uccide il sogno.
Il progresso scientifico ci distoglie forse dai valori che da sempre ci fondano, la speranza e il rispetto per l'altro. Non è perché dei progressi scientifici hanno permesso di impedire o di attenuare la sofferenza esistenziale di alcuni esseri che la risposta della società deve necessariamente portare alla loro eliminazione in nome della felicità umana. Non chiediamo alla scienza di illuminarci sul senso di una vita. La preoccupazione per l'altro passa forse prima di tutto per il suo diritto a esistere.
[Fonte: “L'Osservatore Romano”]


Eluana e il progetto di una nuova “Porta Pia” - Ma i massoni hanno perso
Dietro a Beppino Englaro un gruppo di professionisti, di competenze diverse, con l’intento preciso di portare avanti una loro battaglia. Una battaglia nella quale hanno trovato a Udine dei meravigliosi alleati. Una cupola di indole massonica, che ha messo in campo una solidarietà formidabile, cementata in modo trasversale, capace di superare qualsiasi appartenenza politica, di categoria, di professione. La vicenda Englaro doveva essere, per l’Italia, un’altra Porta Pia…- di Nicoletta Tiliacos - Il Foglio 20 febbraio 2009

Dino Boffo, il direttore di Avvenire, non ha mai avuto la percezione di muoversi controcorrente, nelle settimane nelle quali combatteva per salvare la vita di Eluana Englaro: "Non mi ci sono sentito certamente rispetto al senso comune, all’umore popolare, mentre naturalmente è ben diverso il discorso rispetto all’intellighenzia laica e alla pubblicistica corrente".
Boffo racconta al Foglio il senso di molti mesi di battaglia, la cui parte finale è stata semplicemente la più concitata e dolorosa, ma che aveva alle spalle un lavoro costante, condiviso in modo convinto da tutta la redazione del quotidiano dei vescovi: "Fin dall’estate scorsa, quando ormai si andava profilando il tipo di iniziativa che si sarebbe svolta nei mesi successivi in nome di Eluana, avevamo individuato una compatta strategia di un gruppo di professionisti, di competenze diverse, che affiancavano Beppino Englaro. Una strategia dove i radicali, a differenza del caso di Piergiorgio Welby, erano i principali portabandiera ma non gli attori e gli ispiratori principali. Ricordo di aver detto ripetutamente, in riunione di redazione, che se quella strategia fosse andata avanti, ci saremmo trovati - come è poi accaduto - a vivere in diretta un’agonia di giorni e giorni, con l’Italia stretta in una morsa angosciosa".
Non era difficile, prosegue Boffo, "immaginare questo tipo di situazione. Già allora, e parlo della scorsa estate, mi sembrava di capire che avremmo dovuto remare controvento, controcorrente, rispetto a tutta una pubblicistica schierata altrimenti, a parte pochissime eccezioni. La sensazione che ho sempre avuto ben chiara - salvo i momenti importantissimi in cui ho sentito il Foglio vogare dalla stessa parte, e al di là delle ultime settimane, nelle quali si è schierato il Giornale, con alcuni servizi e interventi fondamentali - è quella di essere stati beatamente soli".
Una solitudine che Boffo ha sentito "fin nelle ossa, è inutile negarlo. Ma devo anche dire, con il cuore in mano, che in questa vicenda ho davvero sentito la chiesa come il popolo della vita. L’ho sentito, direi, molto più che nella battaglia sulla legge 40 e ancor più che in occasione della polemica sui Dico e della preparazione del Family day". Boffo dice che c`è stato "uno spontaneo acconsentire, attorno alle ragioni del perché Eluana dovesse vivere, che mi ha molto confortato e ha dato forza e determinazione al nostro lavoro".
La situazione era segnata fin dall’inizio "da sondaggi terrificanti. Ne ricordo uno di Renato Mannheimer, che dava al settanta per cento la posizione contraria alla nostra. Ricordo anche di aver detto alle persone con le quali discuto di solito di queste cose, che potevamo farcela soltanto se fossimo riusciti a portare gli italiani a comprendere qual era la vera posta in gioco". Da quel momento le forze del giornale si sono concentrate su questo, perché "non avevo e non ho dubbi, su quale sia il sentire della gente comune, di quella gente che `fa popolo` in Italia, e che è ancora oggi schierata dalle parti della vita e molto, ma molto perplessa tutte le volte che ingegneri e sperimentatori vari vanno a mettere le loro manacce in quel tesoro insondabile" che qualcuno ha chiamato "eccezione italiana". Un`eccezione, prosegue Boffo, "che aveva bisogno, per emergere anche in questo caso, di qualcuno che scoprisse i giochi. E` questo il nostro merito, se merito c’è stato. Ma dall’altra parte le cose sono state condotte con una tale superbia, e immaginando di avere in pugno l’Italia, che a un certo punto in tanti hanno dovuto prendere atto della loro cantonata".
Il direttore di Avvenire ricorda "le parole di Marco Pannella, pronunciate nel corso della consueta conversazione radiofonica domenicale su Radio radicale, il giorno prima della morte di Eluana. Quelle parole non si possono dimenticare, perché di fatto Pannella ammetteva di aver perso. Diceva che l’Italia non era con loro, con chi chiedeva di far morire Eluana. Diceva, insomma, che era stato fatto affidamento su un’Italia che nella realtà non c’è". Ricordiamo, per i lettori del Foglio, che Pannella, in quell’intervento, aveva sostenuto che, per come si stavano mettendo le cose, non conveniva più andare fino in fondo al protocollo di morte per Eluana, perché la battaglia fondamentale poteva risultarne gravemente pregiudicata: per Beppino Englaro - sempre secondo Pannella - sarebbe quindi stato meglio fermarsi, altrimenti in pochi giorni si rischiava di far approvare una legge che avrebbe impedito di sospendere alimentazione e idratazione nelle dichiarazioni anticipate di trattamento. E` successo, dice Dino Boffo, "che tirava un’aria diversa, che i nuovi sondaggi raccontavano di un paese spaccato a metà. E, immaginando i numeri reali che dovevano esserci dietro a quei sondaggi, un uomo come Marco Pannella, politico navigatissimo ma notoriamente non abituato a contenere schiettezza e irruenza, si è sfogato e ha dovuto ammettere, con Emma Bonino che gli è andata dietro il giorno dopo: l’Italia non è con noi. Chi aveva pensato a un paese che digerisse senza fiatare la morte di Eluana si era sbagliato".
Il ruolo del giornale dei vescovi, assunto senza timidezze, è stato allora quello di "ribattere colpo su colpo alle menzogne, agli alibi, alle manipolazioni" che dovevano far passare quella morte come "naturale": "Siamo stati l’altra campana, ed è stato faticoso, perché - sottolinea Boffo con calore - avevamo di fronte un`opera intelligentissima di dissimulazione, di cui il professor Defanti, il neurologo di Eluana, si è dimostrato maestro insuperabile. Pensiamo alla sua intervista uscita il giorno in cui Eluana sarebbe morta (è quella, pubblicata sul Corriere della Sera, nella quale Defanti parlava della buona salute di Eluana e spiegava che la donna non aveva mai avuto bisogno nemmeno di un antibiotico in diciassette anni, ndr)".
Era dunque necessario raccontare l’entourage di Beppino Englaro, "scoprire i personaggi, spiegare che non erano semplici professionisti di alto livello arruolati dal padre. No, erano semmai loro gli arruolatori del padre, che si erano prima sincerati della capacità di resistenza di quell`uomo addolorato e determinato (e che rispettiamo, perché non sappiamo che cosa può avvenire quando ci si trova nella sua situazione). Una volta avuta la certezza della `tenuta` di Beppino Englaro, quei personaggi si sono messi a suo servizio conducendo in realtà la loro battaglia". Una battaglia, prosegue Boffo, "nella quale hanno trovato a Udine dei meravigliosi alleati. Una cupola di indole massonica, che ha messo in campo una solidarietà formidabile, cementata in modo trasversale, capace di superare qualsiasi appartenenza politica, di categoria, di professione".
Tra i personaggi che hanno fatto corona al padre di Eluana, Boffo trova che "in fondo il più sincero sia stato il bioeticista Maurizio Mori. Lo ha detto chiaramente: la vicenda Englaro doveva essere, per l’Italia, un’altra Porta Pia. E allora è stato scelto un caso, che aveva le caratteristiche giuste, anche familiari. Quel caso è stato costruito con scienza, allo scopo di dimostrare che non è vero che la vita è indisponibile, che non è vero che la vita è sacra". Questa era, ed è, la posta in gioco, oltre alla vita per sempre perduta di Eluana Englaro.
Una volta capito questo, non c’è stata scelta, per il compassato direttore di Avvenire, un veneto schivo che tutti descrivono come ostinatamente restio a comparire in prima fila ("Non vado in televisione e nemmeno alla radio. Preferisco sparire, far parlare il giornale", dice al Foglio Boffo. Che pure dirige, oltre all’Avvenire, la rete televisiva e la radio della Cei, Sat2000 e Blusat2000). L’unica scelta possibile, di fronte alla dichiarazione di guerra all’idea dell’indisponibilità della vita, fatta sul corpo e sulla vita concreta di una persona, "è stata quella di infrangere lucidamente una caratteristica strutturale di Avvenire, che è un giornale di equilibrio e di misura, dedicando pagine su pagine alla vicenda di Eluana. L’ho dovuto fare, quando ho capito che il progetto era anche quello di buttare dalla rupe Tarpea, insieme con la vita di Eluana, anche la testimonianza delle suore Misericordine. E` bastato sentir dire all`anestesista di Udine, che aveva appena preso in consegna Eluana, quello che tutti ricordiamo sulle condizioni della donna durante il viaggio". C’era "la volontà di addossare alle suore la responsabilità di una situazione che non era certamente quella di Eluana finché era rimasta affidata alle loro cure. Abbiamo dovuto raccontare la verità, le cose che nessuno avrebbe mai potuto smentire".
Boffo accetta la sfida di chi ha minacciato querele e denunce: "Lo facciano, e vedremo se Avvenire ha detto cose false. Abbiamo verificato qualsiasi notizia fino allo spasimo. Non ho mai voluto fare del sensazionalismo. Io e la mia redazione abbiamo voluto mettere in pagina tutto ciò che serviva a salvare la vita di Eluana e la testimonianza esemplare delle sue suore". Attaccare quella testimonianza era indispensabile, da parte dei volenterosi teorizzatori della morte necessaria di Eluana, "perché il nichilismo non sopporta la bontà. E quelle suore sono un monumento alla bontà, alla dedizione più leale, pura, generosa, senza nessun tornaconto. Quando ho capito che si stava buttando nella spazzatura anche questo, perché la versione menzognera da far valere era quella delle condizioni di Eluana già disastrose al momento in cui era uscita dalla clinica di Lecco, il mio giornale non ha potuto far altro che assumersi il compito di raccontare la verità".
Compito difficile, quando ogni due per tre "ci trovavamo di fronte a giornalisti che in tv sciattamente ripetevano la sciocchezza delle `macchine da staccare`. E` stata già titanica l`impresa di far capire che macchine da staccare non ce ne erano mai state". Farsi capire, raccontare la posta in gioco, spiegare contro ogni semplificazione che equivaleva a un avallo, più o meno innocente, più o meno inconsapevole, di una sentenza di morte.
Ma è vero o no, come ha scritto sull’Osservatore Romano la storica Lucetta Scaraffia a novembre, che stavolta la voce cattolica non è mancata ma non è stata capace di farsi ascoltare, di trovare le giuste parole per spiegare e spiegarsi? Tanto che, ha scritto Scaraffia, "questa volta sembra che la voce del pensiero cattolico sia stata poco ascoltata, come se le ragioni che portava a favore della vita di Eluana non fossero abbastanza convincenti"? Dino Boffo non è d’accordo con questa interpretazione: "Credo invece che quel popolo che nessuno interroga veramente abbia capito perfettamente quello che stava succedendo, e alla fine lo ha dimostrato. La chiesa e i cattolici hanno parlato senza equivoci, è semmai questo che viene loro rimproverato come indebita ingerenza. Parliamoci chiaramente: se una religione, una religione di popolo come la nostra, non si interessa della vita e della morte, di che cosa altro mai si dovrebbe interessare? Non stiamo parlando del sistema elettorale delle elezioni provinciali. Stiamo parlando della vita e della morte. Se la religione maggioritaria di un popolo non dice una parola quando sono in gioco la vita e la morte, non ha più titolo morale per esserci".
Avvenire non si è tirato indietro, dice Boffo, "e comunque il popolo ha capito. Anche la chiesa, a mio giudizio, è stata compatta e convergente attorno alla necessità di testimoniare in Eluana l’amore alla vita". E` vero, "ci sono state due voci discordanti di vescovi: due su quattrocento. Una percentuale assolutamente sopportabile, molto inferiore rispetto ad altri momenti di svolta. Ma le corrispondenze che arrivavano in redazione ci raccontavano di una miriade di iniziative dei vescovi, piccoli e grandi segni che da tutte le diocesi manifestavano una partecipazione fortissima alla vicenda di Eluana".
Ogni giorno bisogna scegliere la strada da percorrere con il proprio giornale, aggiunge Boffo, e "ogni giorno lo si fa, ad Avvenire, sapendo di avere addosso gli occhi dell’opinione pubblica, e di dover gestire un patrimonio di credibilità senza paragoni, come è quello della chiesa, che farebbe tremare le gambe a chiunque. Devo dire però che sono stati di immensa forza e di enorme significato gli interventi di Papa Benedetto XVI. Nei quali mai è stata direttamente nominata Eluana, ma che (legandosi provvidenzialmente alla giornata della sofferenza del malato, da sempre celebrata l`11 febbraio) hanno fatto capire la vicinanza del Pontefice al popolo della vita. Leggendo e rileggendo quelle parole, non ho avuto dubbi sulla direzione da seguire".
Non è stato possibile impedire che si arrivasse alla morte di Eluana Englaro. Dino Boffo e il suo giornale si sentono sconfitti? "No, non mi sento sconfitto. Non lo dico perché ritenga umiliante ammettere una sconfitta. Ho sofferto davvero per quello che accadeva a Eluana. La sentivo mia sorella, pur non avendola mai vista, e sono tuttora molto addolorato per la sua fine. Ma c’è un lascito che, sono convinto, rimarrà presente in tutti noi. Quella vicenda ha fatto capire agli italiani - in qualche caso anche ai più ubriachi di indifferenza e di futilità - qual era la vera posta in gioco, come dicevo all’inizio. E` stato un dono di Eluana, e il dono successivo sarà quello di arrivare a una legge nitida, che faccia tesoro della sua esperienza per impedire che accada di nuovo.
Credo che oggi ci voglia un gran coraggio a sostenere che acqua e cibo sono terapie, e che possiamo toglierli a chi non è in grado di provvedere a se stesso". In questo senso, conclude il direttore di Avvenire, "la rivoluzione antropologica da qualcuno brillantemente studiata a tavolino non è riuscita. Non sono stati sovvertiti i codici della civiltà, nonostante la formidabile strategia messa in atto e nonostante le minacce che sono arrivate anche a noi. Le abbiamo registrate, le abbiamo attentamente ascoltate. Poi abbiamo detto, tutti insieme, con la mia magnifica redazione, fatta di persone appassionate della vita, che scattano senza nemmeno bisogno di chiederglielo: benissimo, abbiamo detto, si va avanti".
di Nicoletta Tiliacos - Il Foglio 20 febbraio 2009


L’ESEMPIO/ Ecco come Dante può raccontarci tutta un’altra scuola - Stefania Barbieri - sabato 21 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Ci raccontano che la scuola è a pezzi; leggiamo che la crisi dell’istruzione e dell’educazione sono irrimediabili; dalla Francia ci giungono agghiaccianti statistiche sul numero di insegnanti aggrediti in un anno dai loro studenti (13.000!!!), su studenti che entrano a scuola con il giubbotto anticoltello e noi con sgomento ci chiediamo fra quanto tempo (poco) sarà così anche da noi. Intanto i malcapitati ministri che si alternano al governo tentano di tappare i buchi di una nave allo sfascio, con rimedi più o meno adeguati, spesso del tutto insufficienti non per propria inadeguatezza, ma per l’immane rovina cui dovrebbero mettere mano.
E noi scopriamo ancora una volta, grazie a tutto questo disastro, che la scuola ultimamente non dipende da tutto ciò; che può accadere la meraviglia dell’insegnamento, di un rapporto tra docenti e studenti che sia vero apprendimento, che sia vera scuola. Sono I Colloqui Fiorentini a dircelo. E’ Dante ai Colloqui Fiorentini, che ci racconta un’altra storia.
Egli non si fermò ad analizzare la sua “selva oscura” per tentare di risolverla, perché sapeva bene che tre fiere insuperabili vi si aggiravano, ma colse nella selva un inaspettato, grazioso imprevisto, una possibile via di salvezza: era Virgilio.
Così noi, dell’associazione Diesse, come tutti i nostri colleghi siamo immersi nella selva oscura della scuola e della vita, ma non ci affatichiamo nel tentativo di creare il sistema perfetto che ne risolva i guai: noi partiamo da una certezza: insegnare è sempre possibile, in qualsiasi situazione, in qualsiasi crisi, perché insegnare significa incontrare gli studenti comunicando un’esperienza culturale viva, che alimenta innanzitutto le nostre giornate, che sostiene il nostro quotidiano vivere. E questo è possibile farlo nelle scuole ipertecnologiche di un futuro sempre troppo lontano a venire, come in quelle specie di scantinati che spesso sembrano i nostri istituti. Perché ovunque accade l’incontro libero di docenti e studenti vivi, accade scuola.
Questa storia ci raccontano I Colloqui Fiorentini, un convegno della durata di tre giorni, con il quale da otto anni, l’associazione Diesse – Didattica e Innovazione Scolastica – con la collaborazione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, della Provincia e del Comune di Firenze convoca docenti e studenti delle scuole medie superiori italiane per un appuntamento, a cui in tanti ormai non sanno rinunciare.
Ogni anno infatti una media di mille partecipanti ha affrontano un grande autore della letteratura italiana: Montale, Ungaretti, Pirandello, Pascoli, Svevo, Pavese, Calvino.
Quest’anno l’ottava edizione dal titolo Dante. “Allor si mosse…” si svolgerà dal 26 al 28 febbraio 2009 in Firenze con sede nel Palazzo dei Congressi.
Si sono iscritti 1.500 docenti e studenti provenienti da 120 scuole di tutte le regioni di Italia, che si incontrano con il desiderio di paragonarsi con Dante, la sua opera e la sua vita. Una tre giorni in cui si alternano relazioni di docenti universitari a seminari, nei quali gli studenti possono presentare le tesine di ricerca che hanno dovuto elaborare per partecipare al Convegno e discutere, dibattere, confrontare i propri lavori, le proprie scoperte, le proprie ricerche.
E poi momenti di aggiornamento per docenti, esposizione delle opere d’arte realizzate dai ragazzi inerenti alla tematica del Convegno, letture e commento dei canti di Dante, visite guidate alla città sulle orme del poeta fiorentino.
Gli iscritti potranno partecipare a cinque concorsi con premi in denaro: per la miglior tesina di ricerca del triennio; la miglior tesina di ricerca del biennio; la miglior produzione artistica; la miglior produzione narrativa; il miglior progetto didattico (regolamenti e programma sul sito www.diessefirenze.org).
Il tema di quest’anno “Allor si mosse…” è un invito per gli studenti ad intraprendere assieme ai loro docenti l’arduo viaggio della conoscenza di sé e della realtà. Dante ci ha detto che è possibile, ci indica il cammino, senza altra preoccupazione se non di fare il viaggio con lui, di vedere, udire e toccare quel che vedeva, sentiva e toccava lui, fino a constatare che doveva essere proprio questo il suo intento: portarci con sé.”
Tre giorni di scuola, dunque, di scuola vera, di scuola viva, di una scuola che troppo spesso ci siamo dimenticati o non abbiamo mai sperimentato. Non a caso il Convegno è stato inserito dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca nell’Elenco delle Esperienze di promozione delle Eccellenze.


L’EUGENETICA: DA VIOLENTA A «LIBERALE» - LO SPETTRO DELLE CATTIVE IDEE CI INSEGUE - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 22 febbraio 2009
Solo a sussurrarle con pudore, alcune parole evocano immani tragedie che la storia, anche recente, ha consegnato ad alcune delle sue pagine più nefaste. Se è giusto non volgere continuamente lo sguardo al solco del passato, ed essere in­vece più attenti ad arare il terreno che ci sta dinanzi gettando del buon seme per il domani, la fretta di archiviare ciò che è accaduto talora tradisce la voglia di non imparare la lezione che la storia ci im­partisce. Così, la messa al bando di paro­le come 'eugenetica' assume il compito di esorcizzare il tempo presente dagli spettri di cattive idee che riteniamo essere già sepolte insieme a coloro che le han­no diffuse o praticate. Ma le cattive idee sono più pericolose degli uomini cattivi perché talora sopravvivono alla morte di questi ultimi, si lavano dalle vistose mac­chie di violenza e di sangue che le hanno originalmente segnate, e acquistano una nuova, falsa identità che consente loro di circolare pressoché indisturbate nella so­cietà odierna. Sembra essere, questa, la vicenda della parola 'eugenetica', che è la lunga «sto­ria di una cattiva idea», come l’ha defini­ta Elof Axel Carlson. L’idea, cioè, che la dignità di una donna o di un uomo di­penda dalle proprie qualità congenite, dalla capacità di svilupparsi in un sog­getto sano, robusto, intelligente, comu­nicativo, in grado di inserirsi con succes­so nella società, contribuendo al suo be­nessere con la propria attività e non gra­vandola di oneri assistenziali. Persone o categorie di persone che hanno meno va­lore di altre a motivo delle loro origini o del loro stato di malattia, handicap, op­pure suscettibilità a disordini fisici e com­portamentali, la cui vita viene definita 'i­nadatta', 'indesiderabile' o 'non degna di essere vissuta'.
Occorre distinguere tra la genetica uma­na, preziosa scienza dell’ereditarietà e dell’informazione biologica, e l’eugene­tica, deplorevole ideologia della selezio­ne degli esseri umani. Benedetto XVI lo ha fatto lucidamente e incisivamente nel suo discorso di ieri agli accademici pon­tifici. Da una parte, la genetica «ha con­tribuito al prodigioso sviluppo delle co­noscenze sull’architettura invisibile del corpo umano e i processi cellulari e mo­lecolari che presiedono alle sue molte­plici attività». Grazie a «queste cono­scenze, frutto dell’ingegno e della fatica di innumerevoli studiosi», è oggi possibile «una più efficace e precoce diagnosi del­le malattie genetiche» e si intravedono anche nuove «terapie destinate ad alle­viare le sofferenze dei malati».
Ma vi è anche un’altra faccia della meda­glia al valore. Mentre è da tutti condivisa «la disapprovazione per l’eugenetica uti­lizzata con la violenza da un regime di Stato» – osserva il Santo Padre – si «insi­nua una nuova mentalità», talora chia­mata 'eugenetica liberale', volta a di­scriminare l’essere umano «in presenza di un difetto nel suo sviluppo o di una malattia genetica». Ciò porta i genitori, con la complicità di alcuni medici, alla «selezione e al rifiuto della vita in nome di un ideale astratto di salute e di perfe­zione fisica». Anche in questo caso – con­clude il Papa – a far da padrone sulla vita è «l’arbitrio del più forte».
Riconoscendo in essa una strada verso la conoscenza dell’immenso mistero del creato e una grande possibilità di servi­zio al bene comune, la Chiesa nutre profonda stima verso la scienza, rispetta e promuove l’uso di un corretto metodo scientifico, e incoraggia le buone appli­cazioni delle sue scoperte alla diagnosi e alla terapia medica. Al tempo stesso, però, la Chiesa non può tacere di fronte alla ri­nascita, sotto diverse spoglie, di un pen­siero e di una azione che, appellandosi a effettive o presunte conoscenze scienti­fiche, discriminano l’uomo e lo umiliano, lui, l’unica creatura che porta in sé la co­scienza di tutto l’universo.
Una cattiva idea, l’eugenetica (di stato o privata che sia), perché esalta il potere dei più forti sui più deboli, dei nati sui non ancora nati, dei genitori sui figli, e dei sani sui malati.