venerdì 13 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Banco Farmaceutico - IX GIORNATA NAZIONALE DI RACCOLTA DEL FARMACO - "DONA UN FARMACO A CHI NE HA BISOGNO" - SABATO 14 FEBBRAIO 2009 - La carità ti cambia la vita
2) Riposi in Pace! Noi altri, no! - di padre Gonzalo Miranda, L.C. - *Docente presso la Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma
3) Benedetto XVI e la Shoah - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 12 febbraio 2009
4) «Il curioso caso di Benjamin Button» che percorse l'esistenza a ritroso - Condannato a ringiovanire fino alla morte - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 13 febbraio 2009
5) EDUCAZIONE/ Mastrocola: i nostri ragazzi, schiacciati tra il “caso Eluana” e il Grande Fratello - INT. Paola Mastrocola - venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
6) USA/ Obama inaugura il ministero della fede: forse uno stato meno laico? - Maria Elena Monzani venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
7) SHOAH/ Dalle parole del Papa una nuova unità tra ebrei e cristiani - Claudio Morpurgo - venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
8) WELFARE/ Lombardia, al via da lunedì il “Buono Famiglia” - Redazione - venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
9) FILOSOFIA/ Ellul: contro il tecnicismo inesorabile, la fede nella Provvidenza - INT. Lucetta Scaraffia - venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net


Banco Farmaceutico - IX GIORNATA NAZIONALE DI RACCOLTA DEL FARMACO - "DONA UN FARMACO A CHI NE HA BISOGNO" - SABATO 14 FEBBRAIO 2009 - La carità ti cambia la vita
Sabato 14 febbraio, in tutta Italia, recandosi nelle farmacie che espongono la locandina del Banco Farmaceutico, si potrà acquistare e donare
un farmaco da banco a chi oggi vive ai limiti della sussistenza (oltre 7 Milioni di persone, ISTAT 08).
La Fondazione Banco Farmaceutico, in collaborazione con la Federazione dell'Impresa Sociale - Compagnia delle Opere, organizza il prossimo 14 Febbraio, la IX Giornata Nazionale di Raccolta del Farmaco. L'iniziativa si terrà in 78 province, oltre 1.200 comuni e circa 3.000 farmacie che aderiranno all’iniziativa in tutta Italia.
Sabato 14 febbraio, nelle farmacie che esporranno la locandina della raccolta, circa 10.000 volontari spiegheranno l'iniziativa ai cittadini. Gli stessi farmacisti, rispetto alla domanda degli enti assistiti, consiglieranno il tipo di farmaco da banco (cioè quelli senza prescrizione medica) di cui è maggiormente avvertita la necessità. A beneficiare dell'iniziativa saranno le oltre 400.000 persone che quotidianamente vengono assistite dai 1.200 enti caritatevoli convenzionati con il Banco Farmaceutico in tutta Italia.
In 8 anni sono stati raccolti oltre 1.400.000 di medicinali per un valore di circa 8.7 milioni di euro.
Per introdurre al significato della Giornata di Raccolta viene proposta una frase che sottolinea il valore educativo dell'iniziativa:
In questo particolare momento della nostra vita la crisi economica, colpendo molte persone, sta mettendo a dura prova la stabilità della famiglia e della società, portando al rischio di chiudersi di fronte alle difficoltà. Un gesto di carità cristiana come quello proposto dal Banco Farmaceutico, piccolo quanto si vuole ma reale, ridesta la speranza, getta le basi per ricostruire, per ripartire. La carità aiuta chi la riceve e chi la fa.
La Fondazione Banco Farmaceutico ha lo scopo di aiutare le persone indigenti rispondendo al loro bisogno farmaceutico, attraverso la collaborazione con le realtà assistenziali che operano localmente, al fine di educare l’uomo alla condivisione e alla gratuità.
La Giornata Nazionale di Raccolta del Farmaco si svolge con l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, con il patrocinio del Segretariato Sociale della RAI e della Fondazione Pubblicità Progresso.
Si ringraziano i farmacisti per il sostegno economico all’iniziativa e L’ANIFA (Associazione nazionale delle industrie farmaceutiche dell’automedicazione) che ogni anno contribuisce al successo dell’iniziativa con importanti donazioni.
Si ringraziano inoltre: i testimonial Paolo Cevoli e Claudia Penoni, Publitalia, IGPDecaux.


Riposi in Pace! Noi altri, no! - di padre Gonzalo Miranda, L.C. - *Docente presso la Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma

ROMA, giovedì, 12 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Eluana non è più con noi. Riposi in pace. Noi altri, no: non possiamo riposare in pace, come se niente fosse successo.
Suo padre, Beppino, chiede di essere lasciato solo, in silenzio. E non ha l'obbligo di leggere quello che scriviamo. Ma noi non possiamo tacere, come se fosse calato il sipario alla fine di un lungo spettacolo drammatico: chi piange, chi applaude, chi commenta... E tutti a casa, per tornare alla vita reale. No, quello che abbiamo vissuto tutti, è vita reale. Anzi, morte reale. Più precisamente: omicidio reale.
I significati e le conseguenze di questi fatti e dei fiumi di parole, argomentazioni, slogan e imprecazioni che hanno invaso tutto il paese intorno a questa vicenda, sono enormi. E vanno ancora al di là della vita preziosa di Eluana Englaro. Toccano più o meno direttamente altre 2500 persone che si trovano in stato simile al suo. Si ripercuotono poi inevitabilmente su tante altre persone che soffrono o possono soffrire situazioni mediche in base alle quali qualcuno tenderà di nuovo a dire: "È già morto... E' solo un vegetale... È una vita indegna di essere vissuta...". Ed eventualmente spingere per una fine simile a quella di Eluana.
Non possiamo riposare in pace. Abbiamo l'obbligo morale di "tormentarci", di riflettere, di imparare e di trarre le dovute conclusioni, etiche e legali.
In questo sforzo di riflessione, possiamo per esempio chiederci: chi era Eluana? Non: chi era quella bella ragazza bruna, sempre sorridente, che abbiamo visto mille volte e che abbiamo imparato ad amare.
Chi era la Eluana sul cui destino abbiamo tutti discusso appassionatamente: a casa, nel bar, nei tribunali, nelle radio e le tv, e alla fine, troppo tardi, anche al Senato. Chi era, come si trovava veramente, qual era la sua immagine reale?
Possiamo forse ricordarla? No, non ci hanno fatto vedere nemmeno un solo scatto. Sembrerebbe la cosa più logica: il padre voleva custodire giustamente la sua intimità. Possiamo, però, ricordare l'immagine di Terry Schiavo, la donna americana fatta morire nel 2005 perché si trovava, anche lei, in stato vegetativo persistente? Certo che ci ricordiamo!
Quelle immagini, non potremo mai dimenticarle. Qual è la differenza? Molto semplice: in quel caso doloroso, qualcuno voleva che vedessimo. Nel caso doloroso di Eluana si voleva che non vedessimo.
I genitori di Terry (non il marito, Michael, che la portò fino alla morte) volevano che noi la vedessimo, affinché potessimo capire. Volevano che la gente, i giudici e tutti, potessero comprendere che Terry non era un vegetale; che era una persona viva che apriva e chiudeva gli occhi, che respirava perfettamente senza alcuna macchina, che reagiva sorridendo - solo meccanicamente? - alle carezze della mamma.
Il signor Englaro faceva bene a proteggere la privacy della figlia. Ma intanto, per 10 anni è andato in tutte le televisioni e radio di questo paese a parlare di Eluana, mostrando le sue foto - solo quelle anteriori all'incidente - e facendo diventare sua figlia un "caso pubblico". Un caso doloroso che ha toccato, anzi ferito, tutti noi. Ma noi non l'abbiamo vista. Evidentemente si voleva che non vedessimo, affinché non potessimo capire.
E allora, nel nostro doveroso sforzo di riflessione, dobbiamo tentare di vedere per capire. Conosciamo sempre più casi di persone che escono dallo stato vegetativo, anche dopo parecchi anni. Sappiamo di Salvatore Crisafulli, uscito dopo due anni. Ma chi ha seguito il tema da tempo, conosce anche tanti altri: Patti White Bull, dopo 16 anni; il polacco Jan Grzebski, dopo 19 anni; Terry Wallis, dopo 19; Massimiliano N., dopo 10...
In tutti questi casi, come in molti altri, gli interessati raccontano di aver sentito, capito, patito e addirittura di aver tentato di comunicare. Motivati da queste esperienze innegabili, l'equipe medica inglese guidata da A.M. Owen, ha voluto verificare l'eventuale attività cerebrale in una giovane in stato vegetativo persistente.
L'articolo scientifico pubblicato sulla rivista Science nel 2006 ha lasciato attoniti i più increduli: la Risonanza Magnetica Funzionale ha mostrato l'attivazione delle varie zone cerebrali, in corrispondenza con gli inviti da parte dei ricercatori ad immaginare di salire delle scale piuttosto che di giocare una partita di tennis, in maniera esattamente uguale a quanto evidenziato nel cervello dei "soggetti di controllo" sani.
Infatti, gli esperti si convincono sempre più - come riferisce un testo pubblicato due mesi fa dal President's Council of Bioethics degli Stati Uniti - del fatto che in queste situazioni "la valutazione clinica si limita a misurare la capacità di rispondere all'ambiente" e che "ci sono buone ragioni per essere molto cauti prima di assumere che la vita cosciente si sia estinta".
Certo, alcuni continueranno a dire, nonostante queste conferme sempre più numerose e schiaccianti, che comunque si tratta di vite "non degne di essere vissute", al punto che provocare la loro morte sarebbe una "liberazione".
In fondo si tratta di una profonda corruzione ideologica in relazione al valore della persona, di ogni persona umana. Corruzione che si esprime in quella che Giovanni Paolo II chiamò "Cultura della morte".
Con questa espressione non denunciava la nostra società come se fosse tutta assetata di sangue e di morte. La "cultura della morte" consiste in una mentalità - plasmata in una serie di realtà sociali - che, avendo perso di vista il valore intangibile di ogni vita umana, la considera come un bene relativo e disponibile per la libertà dell'individuo, così che considera la morte come la soluzione migliore davanti a certi problemi e l'opzione per essa un diritto che la legge deve riconoscere all'individuo.
Nel caso di una gravidanza non desiderata, pericolosa o problematica, la soluzione è la morte del nascituro; se si tratta di un malato in stato grave che non trova senso per la sua vita, la soluzione è anticipare "dolcemente" la sua morte; se si desidera portare avanti la ricerca per eventuali cure future con le cellule staminali pluripotenti, la soluzione passa attraverso la distruzione di embrioni umani. La morte, non come un bene desiderabile, ma sì come soluzione per la quale si può, e addirittura conviene, optare.
In verità dovremmo parlare, non di "cultura", ma di "anti-cultura". Cultura dice coltivazione dello spirito umano nella società. Qui stiamo tornando invece allo stato selvaggio, non coltivato. Stiamo tornando indietro. Le conseguenze, se andiamo in quella direzione, saranno abissali.
Non possiamo, dunque, tacere e chiudere gli occhi della mente e del cuore. Eluana riposi in pace. Noi no.
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*Docente presso la Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma


Benedetto XVI e la Shoah - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 12 febbraio 2009
Qualsiasi attacco agli ebrei o all’ebraismo è un attacco alla Chiesa e a Benedetto XVI

«La storia bimillenaria del rapporto fra l’ebraismo e la Chiesa ha attraversato molte diverse fasi, alcune delle quali dolorose da ricordare. Ora che possiamo incontrarci in spirito di riconciliazione, non dobbiamo permettere alle difficoltà passate di trattenerci dal porgerci reciprocamente la mano dell’amicizia. Infatti, quale famiglia non è mai stata attraversata da tensioni di un tipo o dell’altro? La Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra aetate è stata una pietra miliare lungo il cammino verso la riconciliazione e ha chiaramente evidenziato i principi che hanno governato da allora l’atteggiamento della Chiesa nella relazione fra cristiani ed ebrei.
L’odio e il disprezzo per uomini, donne e bambini manifestati nella Shoah sono stati un crimine contro Dio e l’umanità. Questo dovrebbe essere chiaro a tutti, in particolare a quanti appartengono alla (stessa) tradizione delle Sacre Scritture, secondo le quali ogni essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,26-27). E’ ovvio che qualsiasi negazione o minimizzazione di questo terribile crimine è intollerabile e del tutto inaccettabile. Di recente, in un’udienza pubblica, ho affermato che la Shoah (o volontà di schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità) deve essere un “monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti” (28 gennaio 2009). Questo capitolo della nostra storia non dovrà mai essere dimenticato» [Benedetto XVI, Agli esponenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane, 12 febbraio 2009].

Perché qualsiasi attacco agli ebrei e all’ebraismo è un attacco alla Chiesa e a Benedetto XVI?
Nel suo libro Gesù di Nazareth, richiamando il n. 12 della Costituzione sulla Divina Rivelazione del Concilio Vaticano II secondo cui chi vuole comprendere la Scrittura nello spirito in cui è stata scritta, ispirata, deve badare al contenuto e all’unità dell’intera Scrittura, Benedetto XVI ne dà il motivo teologico che qualsiasi attacco agli ebrei e all’ebraismo è un attacco alla Chiesa. “Soffermiamoci dapprima sull’unità della Scrittura. E’ un dato teologico che non è, tuttavia, attribuito solo dall’esterno a un insieme eterogeneo di scritti. L’esegesi moderna ha mostrato come le parole trasmesse nella Bibbia divengano Scrittura attraverso un processo di sempre nuove riletture: i testi antichi, in una situazione nuova, vengono ripresi, compresi e letti in modo nuovo. Nella lettura, nella lettura progrediente, mediante correzioni, approfondimenti e ampliamenti taciti, la formazione della Scrittura si configura come un processo delle parole che a poco a poco dischiude le sue potenzialità interiori, che in qualche modo erano presenti come semi, ma si aprono solo di fronte alla sfida di nuove situazioni, nuove esperienze e nuove sofferenze”.
“Chi osserva questo processo – certamente non lineare, spesso drammatico e tuttavia in progresso – a partire da Gesù Cristo può riconoscere che nell’insieme c’è una direzione, che l’Antico e il Nuovo Testamento sono intimamente collegati tra loro. Certo, l’ermeneutica cristologica, che in Gesù Cristo vede la chiave del tutto e, partendo da Lui, apprende a capire la Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questa scelta di fede ha dalla sua la ragione – una ragione storica – e permette di vedere l’intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità storica” (pp. 14-15).
Entrando Benedetto XVI nel maggio del 2006 nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, in quel luogo di orrore, scenario di indicibile sofferenza, ha meditato sugli innumerevoli prigionieri di quel campo e di tutti i campi di prigionia. Su quei figli di Abramo, colpiti dal lutto e spaventosamente umiliati, avevano ben poco da sostenersi oltre alla propria fede nel Tu perenne, vicino, di Dio fin dai loro padri, una fede che noi cristiani condividiamo con questi nostri fratelli e sorelle. Come comprendere l’enormità di ciò che è accaduto in quelle prigioni infami? L’intero genere umano prova una profonda vergogna per la brutalità selvaggia mostrata allora verso il popolo ebreo e quindi verso la Chiesa. Benedetto XVI ha ripetuto quanto aveva detto in quella triste occasione: “I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra (perché puntava ad eliminare la Chiesa). Allora le parole del Salmo: “Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello” si verificarono in modo terribile”.
A questo punto Benedetto XVI, ricordando l’annuale visita in Israele della Leadership Mission, ha fatto l’annuncio ufficiale: “Anch’io mi sto preparando a visitare Israele, una terra che è santa cioè particolarmente di Dio per i cristiani e per gli ebrei, poiché le radici della nostra fede si trovano lì. Infatti, la Chiesa trae sostentamento dalla radice di quel buon albero di olivo, il popolo di Israele, su cui sono innestati i rami di olivo selvatico dei Gentili (Romani 11,17-24). Fin dai primi giorni del cristianesimo, la nostra identità e ogni aspetto della nostra vita e del nostro culto sono intimamente legati all’antica religione dei nostri padri nella fede”.

Vincoli ancor più stretti fra cattolici ed ebrei
Nel saluto il Rabbino Arthur Schneier ha ringraziato Benedetto XVI perché comprende il dolore degli ebrei ed è contro la negazione o il riduzionismo della Shoah: “Nell’autunno della nostra vita dobbiamo trasmettere alle future generazioni il “mai più” raccontando loro la Shoah. Ciò può essere un appello alla coscienza e farci risvegliare dal sonno dell’indifferenza di fronte alla minaccia di genocidio ai giorni nostri. Santità, grazie alla Nostra aetate abbiamo potuto guarire le ferite del passato e giungere alla riconciliazione fra la Chiesa e la comunità ebraica. Il suo impegno personale e quello del Papa Giovanni Paolo II, di venerata memoria, per “abbracciare il fratello maggiore” ci ha dato ulteriore incoraggiamento a creare vincoli ancora più stretti fra cattolici ed ebrei in tutto il mondo. Santità, la ringraziamo per esserci ripetutamente vicino mentre affrontiamo la nuova piaga dell’antisemitismo, la profanazione e l’incendio delle sinagoghe”.
La Chiesa è profondamente e irrevocabilmente impegnata a rifiutare ogni forma di antisemitismo e a continuare a costruire relazioni buone e durature fra le due comunità. “Una particolare immagine – ha concluso Benedetto XVI – che esprime questo impegno è quella del momento in cui il mio amato predecessore Papa Giovanni Paolo II ha sostato presso il Muro occidentale di Gerusalemme, implorando il perdono di Dio dopo tutta l’ingiustizia che il popolo ebraico aveva dovuto subire. Ora faccio mia la sua preghiera: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome fosse portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi suoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’Alleanza. Per Cristo nostro Signore” (26 marzo 2000). Il ricordo, come dice giustamente, è memoria futuri, un ammonimento a noi per il futuro e un monito a lottare per la riconciliazione. Ricordare significa fare tutto il possibile per prevenire qualsiasi recrudescenza di questa catastrofe nella famiglia umana, edificando ponti di amicizia duratura. Prego con fervore affinché il ricordo di questo crimine orrendo rafforzi la nostra determinazione a guarire le ferite che da troppo tempo affliggono le relazioni fra cristiani ed ebrei. Desidero sinceramente che la nostra amicizia diventi sempre più forte affinché l’impegno irrevocabile della Chiesa per relazioni rispettose e armoniose con il Popolo dell’Alleanza portino frutti abbondanti”.


«Il curioso caso di Benjamin Button» che percorse l'esistenza a ritroso - Condannato a ringiovanire fino alla morte - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 13 febbraio 2009
"È una disdetta che la parte migliore della vita sia all'inizio e la peggiore alla fine". È stata probabilmente questa massima di Mark Twain a suggerire a Francis Scott Fitzgerald l'idea di scrivere negli anni Venti il breve racconto Il curioso caso di Benjamin Button che narra le vicende di un uomo che nasce vecchio e muore in fasce. Una storia stravagante, a suo modo anche divertente, che ha ispirato il film dall'analogo titolo, diretto da David Fincher, candidato a ben tredici premi Oscar e in uscita nelle sale italiane. A quasi settant'anni dalla morte, dunque, arriva una sorta di risarcimento da parte di Hollywood al grande scrittore che non ebbe molta fortuna al cinema, né come sceneggiatore, né come scrittore. I suoi copioni non piacquero ai produttori e i film tratti da suoi apprezzati romanzi - Il grande Gatsby e Gli ultimi fuochi diretti rispettivamente da Francis Ford Coppola e da Elia Kazan - non ottennero successo di pubblico. Ora si ritenta, anche se in verità del racconto di Fitzgerald nella pellicola di Fincher resta ben poco; il regista ne trae solo l'idea di fondo, ma per il resto segue una sua storia. Una storia che parla di una vita vissuta inspiegabilmente a rovescio, concretizzando in qualche modo il sogno di quanti credono che si trarrebbe il massimo dall'esistenza se alla giovinezza anagrafica si potesse unire la saggezza dell'età. Ma le cose non sono così semplici, come mostra la straordinaria, ma triste vicenda di Benjamin Button. "Sono nato in circostanze particolari", racconta Benjamin, che vede la luce a New Orleans il giorno della fine della prima guerra mondiale, "una buona notte per nascere". Ma pur essendo un neonato, ha le fattezze di un anziano. La madre muore nel metterlo al mondo e il padre, inorridito dal suo aspetto, lo abbandona sugli scalini di una casa di riposo, dove la giovane custode nera, nonostante tutto, lo accoglie come un figlio. Per il medico dovrebbe morire il giorno dopo, visto che ha la salute di un ottantenne, ma ogni giorno che passa restituisce Benjamin pienamente alla vita. Durante la sua strana crescita - la sua esistenza "contromano" attraverserà l'intero Novecento - si innamorerà della bella Daisy, ma le loro strade si incontreranno e si divideranno più volte, e mentre lei invecchierà, lui diventerà sempre più giovane. "Mi amerai ancora quando sarò vecchia?", gli chiede Daisy, la sempre brava Kate Blanchett. "E tu mi amerai ancora quando avrò l'acne?", gli risponde Benjamin, interpretato da Brad Pitt, candidato all'Oscar come miglior attore protagonista, sul quale è stato fatto un lavoro incredibile sperimentando una tecnica digitale innovativa di motion capture. Il regista (Seven, The game, Fight club, Panic room) narra questa storia attraverso il classico diario: quello di Button, letto dalla figlia a una Daisy anziana e ormai vicina alla fine, ricoverata in un ospedale di New Orleans proprio mentre si scatena l'uragano Katrina. Un espediente, il diario, che permette, con continui flashback, di far rivivere un intero secolo, utilizzando tra l'altro una fotografia che accentua il ricordo con un timbro patinato. Il pur bravo sceneggiatore Eric Roth (Oscar per Forrest Gump), nell'intento di raccontare il più possibile della vita di Benjamin Button, pecca talvolta di superficialità. Cosicché l'opera - un melodramma in stile fantasy, forse troppo lungo con i suoi 163 minuti - emoziona solo a tratti, soprattutto nella parte finale, quando si evidenzia drammaticamente il percorso di ringiovanimento del protagonista. Tuttavia il film, insistendo sulla frase che ripete spesso la madre adottiva di Benjamin "non sai mai cosa c'è in serbo per te", non manca di suscitare riflessioni sulla vita e sulla morte.
Le vicende di Button strappano sorrisi, non di rado amari. Si scopre che, pur in una condizione apparentemente favorevole, i sogni di felicità celano non poche imperfezioni, anche se le esperienze che il protagonista fa - le amicizie importanti, le inevitabili perdite soprattutto nei primi anni, il primo bacio, l'innamoramento e persino la paternità - sono per lui significative e arricchenti. Sperimenta che non si possono tenere strette persone o cose, perché prima o poi bisogna rassegnarsi a lasciarle andare. E soffre perché la sua innaturale condizione non gli consente di trovare la giusta collocazione nel mondo. Nemmeno come genitore, se poi un giorno potrebbe essere un figlio a dovegli fare da padre.
Così, mentre il messaggio sembra essere, malgrado tutto, che non importa se si è costretti a vivere la vita a ritroso, l'importante è come la si vive e che comunque ognuno è responsabile del proprio destino, in realtà è sempre più evidente che è il tempo a governare il destino di ciascuno. Non solo. In una società in cui si è alla ricerca dell'eterna giovinezza, dell'elisir di lunga vita, questa storia paradossale e malinconica ci dice anche altro. In primo luogo, insinua che ringiovanire potrebbe essere tutt'altro che un'esperienza piacevole, soprattutto se allontana inesorabilmente dalle persone amate; potrebbe anzi diventare una terribile condanna, stemperata solo - come avviene nel film e nel racconto - dal progressivo venir meno della memoria e dei ricordi. In secondo luogo, sottolinea che la vita va accettata così com'è, con i suoi ritmi, le sue stagioni, con le sue gioie e i suoi limiti, e che è vano illudersi di poter rovesciare il corso delle cose, sovvertendo e violentando la natura. Come sembra ricordare l'incombere dell'uragano Katrina: un richiamo al presente, ma anche un monito per il futuro.
(©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2009)


EDUCAZIONE/ Mastrocola: i nostri ragazzi, schiacciati tra il “caso Eluana” e il Grande Fratello - INT. Paola Mastrocola - venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Si è fatto un gran discutere, nei giorni scorsi, della querelle sul palinsesto “prime time” di Canale 5 la sera in cui è morta Eluana Englaro. Da una parte le polemiche innescate dal dimissionario Enrico Mentana, su tutte le furie per la decisione della sua rete di mantenere la programmazione già prevista (e il caso ha voluto fosse quanto di più lontano dal dramma di quelle ore, cioè il Grande Fratello). Dall’altra parte i dati dell’audience: otto milioni di persone hanno bellamente ignorato i vari programmi dedicati alla morte di Eluana, per godersi lo spettacolo della “Casa”. Inutile precisare che la maggior parte di questi milioni di spettatori siano stati giovani.
Una «bancarotta etica», l’ha addirittura definita il Riformista. Ma anche una sorta di reazione contro gli eccessi di un’informazione quasi morbosa, secondo altri. Così, ad esempio, la pensa Paola Mastrocola, insegnante e scrittrice, e attenta osservatrice di tutto ciò che ha a che fare con il mondo dei ragazzi e l’educazione.
Professoressa, non è forse una «bancarotta etica» il fatto che gli italiani, e i giovani in particolare, preferiscano guardare il Grande Fratello piuttosto che informarsi sul caso di Eluana?
Prima ancora di fare un raffronto, è bene precisare che non è tanto un dramma che i giovani guardino il Grande Fratello la sera della morte di Eluana, bensì il fatto che lo guardino sempre. Quindi, a prescindere dal caso particolare, è bene ribadire ancora una volta che le Tv dovrebbero evitare di offrire ai nostri ragazzi programmi di questo genere; e d’altro canto la gente dovrebbe smettere di guardarli. Detto questo, capisco però anche il fatto che quella sera non si avesse alcuna voglia di guardare programmi che parlassero della povera Eluana.
In che senso?
Intendo dire che è possibile che i giovani, e insieme a loro anche tutti noi, la gente in generale sia stata alla fine molto provata dal battage mediatico intorno a tutta questa faccenda, da avere alla fine bisogno di tutt’altro che di altri programmi tv. L’alternativa non era certo il Grande Fratello, ma al contrario ciò di cui c’era bisogno era un po’ di silenzio, di riflessione, molto interiore e molto personale. Questo è ad esempio il motivo per cui io da tempo avevo smesso di leggere i giornali e guardare la tv su questa vicenda. Non perché uno non abbia motivi di riflessione sull’argomento; anzi, proprio perché li ha, ha spento il rumore. Ripeto: l’alternativa non era guardare il Grande Fratello, ma tenere tutto spento, proprio per lasciare spazio a questa riflessione.
I programmi televisivi dunque non hanno aiutato gli italiani a stare di fronte in modo approfondito al caso Englaro?
Decisamente no. E, anzi, io vorrei proprio prendere l’occasione per dire tutto il mio disgusto per ciò che è stato detto e fatto. Non si doveva arrivare a tanto, dall’una parte e dall’altra parte. Ma soprattutto, secondo me, la cosa più grave è che i giornali e le tv abbiano dato veramente il peggio di sé. Sono arrivata a un punto tale da sperare che i giornali finissero, che chiudessero definitivamente, perché se il giornale diventa questo, non lo voglio, e non capisco a cosa serva.
Che cosa in particolare le ha dato fastidio?
Tutto questo seguire passo passo, giorno per giorno, fin nei minimi dettagli. La vicenda così drammatica di Eluana è stata alla fine trattata alla stregua di una notizia come tutte le altre. Con la sola differenza che era evidentemente una notizia particolarmente clamorosa, e come tale è stata fortemente cavalcata. Una semplice notizia che “tira”, che assicura molto pubblico, ma senza che ci fosse alcuna considerazione degli aspetti più delicati della vicenda. Questo mi ha dato molto fastidio.
E secondo lei i ragazzi come hanno vissuto tutta questa vicenda, e il modo con cui è stata trattata?
Volutamente, ho evitato di parlarne con loro in modo diretto; però li ho comunque sondati, e ho capito che loro stessi non desideravano parlarne, proprio perché anch’essi subissati da questo esagerato rumore di fondo. Per questo non ci è restato che fare in modo che ognuno andasse dentro di sé, e parlasse a se stesso di questa vicenda. Perché il troppo parlare in pubblico è alla fine dannoso. Non è, questa, una questione su cui “sfruculiare” le opinioni. Gli opinionisti qui non c’entravano, e dovevano essere lasciati da parte.
Da quello che lei dice, risulta chiaro che casi come quello di Eluana fanno riflettere sulle finalità dell’informazione, e sulle sue responsabilità (o irresponsabilità) dal punto di vista educativo.
La cosa più importante su cui dobbiamo interrogarci è: quale informazione? Perché io sono stata sconcertata dalla confusione che c’è stata. Le opinioni sono una cosa, e sono di un tipo e dell’altro; ma qui non si trattava di opinioni. Quando uno scienziato viene intervistato e dice una cosa, e cioè che per Eluana non ci sarà sofferenza, e il minuto esattamente successivo un altro scienziato, nello stesso programma, dice che invece ci sarà sofferenza, allora vuol dire che quelle sono pure e semplici opinioni. Ma io non voglio opinioni dalla scienza. E poi tutto quello che ci viene detto, viene subito smentito: Eluana ha veramente detto certe cose a suo padre e agli amici? Gli uni dicono sì, gli altri dicono no. Allora questa che informazione è? Semplicemente non è informazione, perché dopo aver sentito tutte queste voci io, sul fatto in questione, non so nulla di più, e come me nessun altro. È esattamente il contrario dell’informazione: è qualcosa che fa uscire confusi. E allora è meglio non ascoltare.


USA/ Obama inaugura il ministero della fede: forse uno stato meno laico? - Maria Elena Monzani venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Leggendo contemporaneamente i giornali italiani e quelli americani in questi giorni, salta all’occhio uno stridente contrasto: mentre in Italia il Presidente della Repubblica rifiuta di firmare un decreto legge presentato dal Presidente del Consiglio in nome della laicità dello Stato e ci si straccia le vesti di fronte alla supposta ingerenza dei Vescovi nel dibattito pubblico, il presidente degli Stati Uniti inaugura con grande fanfara mediatica il ministero delle iniziative basate sulla fede, dopo aver invitato il pastore evangelico Rick Warren a pregare a suo nome durante la cerimonia di inaugurazione, e dopo aver partecipato a numerose cerimonie ufficiali di preghiera. Cosa sta succedendo? Forse gli Stati Uniti hanno smesso di essere un paese laico? Non era Bush l’integralista religioso? E Obama non dovrebbe fare qualcosa “di sinistra”?
È opportuno, a questo proposito, ripercorrere per accenni la storia del concetto di laicità dello Stato (o della separazione fra Stato e Chiesa), partendo dalla sua origine, ovvero dall’editto di Costantino (313), che garantiva “ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che a ciascuno apparisse preferibile”, rinunciando, per la prima volta nella storia, all’imposizione di una religione di Stato. Nella formazione giuridica dell’editto di Milano, “la reverenza offerta alla Divinità” viene menzionata esplicitamente “tra le cose che potevano portare vantaggio all'umanità” e quindi all’Impero: la laicità dello Stato viene quindi stabilita come tutela della libertà religiosa dell’individuo, a vantaggio dello Stato stesso. Questa intuizione rivoluzionaria di Costantino sarà destinata ad una storia complessa e laboriosa, che porterà alla fine alla lotta per le investiture e al concordato di Worms (1122), nel quale saranno gettate le basi per la moderna separazione fra Stato e Chiesa.
Le due grandi rivoluzioni del XVIII secolo (quella americana del 1775 e quella francese del 1789) diedero risposte completamente diverse alla problematica del rapporto fra Stato e Chiesa: la laicité francese si concretizzò nella confisca dei beni ecclesiastici, nella persecuzione di religiosi e semplici fedeli e nella distruzione di uno sterminato patrimonio monastico; al contrario, la Dichiarazione di Indipendenza americana pose la libertà religiosa a fondamento della nascente nazione (tra l’altro servendosi di una formulazione sorprendentemente simile a quella di Costantino) e la susseguente carta costituzionale istituì una serie di meccanismi atti a garantire la separazione fra Stato e Chiesa: non per escludere la Chiesa dal dibattito pubblico, ma anzi per proteggere l’indipendenza delle istituzioni religiose dal controllo degli Stati e del governo. Questo ci fa capire come negli Stati Uniti nessuno si scandalizzi per le preghiere o le iniziative “basate sulla fede” di Obama, che sarebbero ormai impensabili in Europa.

La dialettica fra lo Stato e i diritti fondamentali dell’individuo è tuttora irrisolta nel Vecchio Continente: da un lato c’è chi vorrebbe riconoscere gli Stati come sorgente unica dei diritti dei cittadini, negando ad altri interlocutori la possibilità di intervenire nel dibattito e cancellando eventualmente la tradizione religiosa che sta alla base dell’Europa stessa; dall’altro c’è chi vorrebbe affermare l’esistenza a priori di un certo nucleo di diritti fondamentali dell’individuo, non decisi dagli Stati ma dei quali gli Stati dovrebbero farsi garanti, riconoscendo l’appartenenza religiosa come fattore fondamentale del dibattito civile e legislativo. L’Italia, grazie al suo legame straordinario con la Chiesa Cattolica, si trova in modo drammatico davanti a questo bivio: e presto dovrà scegliere se abbracciare un concetto astratto di laicità, che si fa nemico della propria tradizione e della propria identità, o se costruire un autentico Stato laico, basato sulla difesa dell’esperienza cristiana tra le cose che possono portare vantaggio all'umanità.


SHOAH/ Dalle parole del Papa una nuova unità tra ebrei e cristiani - Claudio Morpurgo - venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Le parole pronunciate da Benedetto XVI nell'incontro di ieri con i leaders delle principali associazioni ebraiche americane sono state di forza e portata storica.
Intanto perché hanno chiuso l'odiosa polemica innestata dal Vescovo Williamson e da altri esponenti a questo vicini sul tema del negazionismo.
La Chiesa Cattolica, ha riconosciuto il Papa, condanna ogni forma di minimizzazione o negazione della Shoah. La Shoah rappresenta un crimine contro Dio e contro l'umanità. Il messaggio è inequivocabile perché la persecuzione del Popolo Ebraico, in tutte le forme in cui si è manifestata nella storia, è una ingiustizia, non solo nei confronti degli uomini che la hanno patita, ma anche verso Dio. In altre parole, l'antisemitismo è intollerabile e costituisce una delle modalità più terribili con cui l'uomo ha cercato di estromettere, cancellare, relativizzare il senso religioso.
La condanna, quindi, riguarda, sia il tentativo di proporre una distorta e strumentale ricostruzione dei fatti, sia una tendenza al male che potrebbe pur sempre riproporsi nel futuro.
Benedetto XVI in proposito ha richiesto inoltre una costante autoresponsabilizzazione. Non è sufficiente chiedere perdono per il passato, se non si assume al contempo «l'impegno irrevocabile per relazioni rispettose e armoniose con il popolo dell'Alleanza». Il tutto finalizzato a portare «frutti abbondanti».
Impegno, responsabilità, azione: questi sono tre concetti fondamentali sostanzialmente ricordati da Benedetto XVI.
Il dialogo ebraico-cristiano, in base a tale impostazione, assume quello che è probabilmente il suo significato più forte e rilevante.
Non è infatti più limitato al confronto teologico, alla ricostruzione oggettiva di un passato spesso tragico e controverso, ma richiama gli uomini di fede, nel rispetto delle diversità, ad agire - tutti, indistintamente - in prima persona. Non a caso, gli ebrei sono chiamati «padri nella fede» e, altrettanto non casualmente, è quanto mai significativa la menzione del concetto di «Alleanza». Lo stesso viaggio in Israele assume allora una valenza straordinaria perché muove dalla esaltazione del rapporto con l'ebraismo di cui lo Stato ebraico costituisce la più evidente espressione di vitalità e anelito alla trasmissione identitaria di generazione in generazione.
Ebrei e cristiani devono oggi alzare l'asticella dei loro rapporti, testimoniare insieme nella società il valore essenziale dell'esperienza religiosa.
La centralità della persona umana, la sua costante tutela e promozione, il rispetto dei diritti universali dell'uomo e di ogni forma di libertà, in un mondo malato di relativisimo, richiedono uno sforzo comune, abbandonando sterili e inutili tendenze all'isolamento.
Il mondo ha bisogno di sensibilità e senso religioso.
Da ieri, ebrei e cristiani sono più vicini e saldi in un compito che non accetta esclusivismi, ma richiede una comune responsabilità.


WELFARE/ Lombardia, al via da lunedì il “Buono Famiglia” - Redazione - venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Da lunedì prossimo 16 febbraio e fino a venerdì 13 marzo alle Asl della Lombardia potranno essere presentate le domande per l’ottenimento del “Buono Famiglia”. Si entra così nella fase operativa di un provvedimento straordinario istituito dalla Regione Lombardia per aiutare le famiglie ad affrontare una situazione economica che si prospetta più difficile di quelle degli anni passati.
Affiancandosi alle altre misure regionali sulla crisi (in particolare quelle a sostegno delle piccole e medie imprese), il Bonus si riferisce specificatamente ai nuclei familiari a basso reddito con almeno tre figli minorenni e consiste in un contributo di 1500 euro che verrà corrisposto in tre tranches. Spetta dunque alle Asl la raccolta delle domande, la verifica della loro ammissibilità, la predisposizione delle graduatorie degli aventi diritto in base al reddito, l'erogazione dei contributi e la verifica della veridicità dei dati che i richiedenti hanno fornito. L'Asl ha anche il compito di fornire informazioni, di comunicare alle famiglie l'assegnazione del contributo e di disporre per il bonifico o per l'invio del vaglia postale.
Secondo l’Assessore alla Famiglia e solidarietà sociale, Giulio Boscagli, saranno circa 15 mila le famiglie interessate: «Si tratta di nuclei dal reddito medio basso - spiega - che devono proseguire senza incertezze il compito di accudire i figli, accogliere gli anziani, assistere i disabili». Dunque il nuovo bonus regionale, che si aggiunge ad analoghi interventi messi in campo dal Governo in queste settimane, interviene sulle famiglie più bisognose, sostenendo in particolare quelle più numerose. Una decisione figlia della scarsità di risorse disponibili (la misura utilizzerà complessivamente 20 milioni di euro), ma anche di una strategia che vede la Regione impegnata anche su altri fronti.
«Per le famiglie di ceto medio - spiega ancora l’Assessore Boscagli - esiste da tempo una politica regionale che incide positivamente sull’assistenza e sull’educazione. Il bonus si occupa della fascia più a rischio nell’attuale contesto economico. Potrà essere richiesto infatti dalle famiglie con almeno tre figli (compresi quelli in affido) minorenni, uno dei quali deve avere meno di sei anni. Abbiamo voluto includere la fascia di età 0-6 anni perché è quella nella quale l’onere della cura è più elevato e per la quale invece non sono previsti altri sostegni».
Per poter essere ammessi alla misura è necessario avere un ISR (Indicatore della Situazione Reddituale), riferito ai redditi percepiti da tutti i componenti della famiglia nel 2007, non superiore a 10 mila euro. Al calcolo dell'ISR concorrono il numero dei componenti della famiglia, il reddito complessivo (eventualmente ridotto del canone annuale di locazione dell'abitazione di residenza) e altre caratteristiche strutturali (famiglie unigenitoriali e con due genitori lavoratori; presenza di persone con handicap o invalidità). Una scelta che viene così motivata da Boscagli: «L’utilizzo dell’ISR, preferita al più utilizzato (e discusso) ISEE (Indicatore di Situazione Economica Equivalente), permette di valorizzare elementi qualitativi particolarmente interessanti ai fini di una equa ripartizione dello stanziamento complessivo di 20 milioni di euro previsto dalla Giunta regionale per questo provvedimento. Uno stanziamento che riteniamo “iniziale”: se si ripresentasse la necessità si cercherà di ricavare dal bilancio regionale ulteriori disponibilità».
Anche per questo motivo il bonus ha un carattere sperimentale e verrà sottoposto ad una valutazione rispetto all’applicazione dei nuovi criteri della ripartizione. «In un prossimo futuro – conclude Boscagli - gli stessi nuovi criteri introdotti dal bonus potrebbero allora essere riproposti per interventi a beneficio di una fascia più ampia di popolazione, includendo anche le famiglie di ceto medio. Privilegiare chi ha tre figli, chi deve pensare a disabili e a anziani, significa prevedere un principio di equità che dovrebbe informare tutte le politiche pubbliche».


FILOSOFIA/ Ellul: contro il tecnicismo inesorabile, la fede nella Provvidenza - INT. Lucetta Scaraffia - venerdì 13 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Jacques Ellul nacque a Bordeaux nel 1912, dove morì nel 1994. Teologo protestante, filosofo, sociologo e giurista, a lui come a pochi si addice il detto «nessuno è profeta in patria». Celebrato negli Stati Uniti, era pressoché sconosciuto in Francia. Sostenne che la tecnica si era trasformata nella nota dominante dell'intera società. E che aveva assunto le caratteristiche di un immane organismo, di una struttura autonoma slegata dalla volontà degli uomini che la utilizzano. Di per sé priva di contenuti morali, è semplicemente ingestibile. I suoi effetti prescindono dagli scopi prefissati nell'impiegarla. Il più delle volte è la tecnica stessa a indicare la meta e la via da seguire. Il che comporta questioni etiche non indifferenti e solleva numerosi interrogativi. Alla maggioranza dei quali Ellul diede voce puntualmente. Interpretando il tempo che viveva alla luce della sua esperienza religiosa. E del tentativo di mettere in guardia l'uomo dagli esiti perversi del progresso incontrollato. Di recente, anche nei contesti accademici europei, si è ripreso a parlare di lui. E in Italia è stata pubblicata la traduzione de Il Sistema Tecnico – La gabbia delle società contemporanee (Jaca Book, 2009), uno dei suoi scritti più significativi, per anni introvabile anche in Francia. Di Ellul ci parla Lucetta Scaraffia, scrittrice, docente di Storia Contemporanea alla Sapienza di Roma ed editorialista per i quotidiani Il Corriere della Sera, Il Foglio, L’Osservatore Romano e L’Avvenire.
Uno dei concetti fondamentali e più originali di Ellul, attorno al quale ruota il suo impianto teorico, è quello di tecnica. Che significato attribuiva al termine?
Per Ellul la tecnica è quell’insieme di conoscenze e metodologie che consentono di fare una cosa nel modo migliore possibile. Sembra una frase bella, una intenzione positiva, ma Ellul ci mette in guardia: questo è un meccanismo che macina tutto, che non ha morale. Secondo lui, la tecnica obbliga l’uomo ad un processo inevitabile e continuo: tutto ciò che può esser fatto, sarà sempre fatto. Senza badare al percorso che si segue o agli effetti prodotti.
Ellul trattava la tecnica come un’entità animata. Ma questo corrisponde alla realtà? Non stiamo parlando, pur sempre, di uomini che la utilizzano e ne decidono l’orientamento?
No. Per Ellul la tecnica agisce indifferentemente dalle intenzioni degli uomini. Non è uno strumento privo di connotazione morale. Semplicemente non sopporta alcun giudizio morale. Tende ad auto-indirizzarsi e si autoalimenta. Una scoperta tecnica, nata per risolvere un problema, porta inevitabilmente alla genesi di nuovi problemi. A loro volta risolvibili con altre tecniche.
Per esempio?
Basti pensare all’inquinamento. È prodotto da processi industriali. Per porvi rimedio, si utilizzano altri processi industriali, si impiegano formule chimiche. Tutto ciò produce nuovo inquinamento.
A detta del filosofo, chi detiene la conoscenza tecnica detiene il potere. I tecnocrati rappresenterebbero l’elite più influente e decisiva della società. E i politici, i finanzieri o le lobbie culturali?
È evidente come costoro detengano un potere reale. Ma i finanzieri, ad esempio, nella loro attività utilizzano tecniche finanziarie, sempre più complesse e sofisticate, Che, come vediamo, possono generare immani pasticci. Risolvibili con altre tecniche finanziarie, ancora più complesse e sofisticate. I giornali, poi, sono normalmente ossequiosi verso tutto ciò che riguarda la ricerca scientifica. E il cittadino che legge i quotidiani è indotto a credere che qualunque cosa abbia a che fare con la scienza sia sempre e solo buono.
L’ambito in cui, oggi, la tecnica - sotto il profilo esistenziale - sembra in grado di sortire le conseguenze più decisive, è la biomedica. Ellul avrebbe mai immaginato la possibilità di produrre chimere manipolando gli embrioni?
Forse non avrebbe immaginato le chimere. Ma aveva capito bene dove si sarebbe andati a finire. Ha intuito che si stava mettendo in moto un processo che avrebbe distrutto l’uomo. Che l’evoluzione scientifica incontrollata produce danni nefasti. E che mentivano gli scienziati che si ostinavano a sostenere che la tecnica si può usare bene, che tutto è sotto controllo: la verità è che tutti la utilizzano, e basta.
Non c’è un sottofondo di pessimismo a oltranza? È così assurdo pensare che si possa utilizzare la tecnica a fin di bene?
Ellul non lo pensava. Per lui, semplicemente, era impossibile. Addirittura aveva vissuto in campagna per preservarsi dagli effetti del progresso. Le sue osservazioni sulla tecnica, certo, sono improntate al pessimismo. Ma la sua concezione del mondo è animata dall’ottimismo cristiano. Era convinto che Dio agisce nella storia e che, quindi, interverrà per salvare l’uomo da se stesso. Si tende a scindere i suoi scritti filosofici e sociologi da quelli teologici. Ma per lui il rapporto con la tecnica è legato in modo indissolubile a quello con Dio. E, in particolare, alla funzione che Dio ha affidato all’uomo nel mondo: quella di conoscere ma non distruggere, di dominare la realtà rispettandola, di aspirare al meglio preservando il senso del limite.
Ellul ha analizzato in maniera sistematica e precisa la società in cui viveva, ma non sembra aver voluto azzardare proposte o soluzioni.
Pensava che fosse suo compito educare a mantenere un occhio vigile su quello che accade, instillare il dubbio e tenere desta l’attenzione. In modo da comprendere i processi in corso, prima che il male fosse compiuto, quando è troppo tardi e si può solo prenderne atto. In questo risiede parte della soluzione. Era un insegnate, educava i suoi allievi a pensare diversamente e a utilizzare la ragione. Con questi aveva dato vita a dei piccoli “cenacoli”. I suoi studenti, una volta sparsi per il mondo, hanno realizzato critiche e analisi che sarebbero emerse dopo. Si sta affermando in diversi ambienti culturali l’idea che il progresso non possa essere lasciato in balia di se stesso. E questo è merito di Ellul
Era snobbato in Francia ed osannato in America. È un caso?
La sua storia è simile a quella di tanti intellettuali europei. Penso a grandi intellettuali del 900, critici della modernità, come René Girard e Ivan Illich, entrambi legati ad Ellul. Pensatori accomunati dall’elaborazione di un pensiero critico sulla modernità in chiave cristiana. L’Europa ha subito una secolarizzazione molto più profonda rispetto all’America e per questo – fino a poco tempo fa - si è dimostrata indisponibile alla ricezione di riflessioni di questo genere. Ora in Francia qualcosa sta cambiando. Si assiste alla rinascita di un’elite culturale cattolica, anche se non ancora del cattolicesimo di base. Anche questo, in gran parte, è merito di Ellul.
(Paolo Nessi)