martedì 24 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA NOTTE E’ OSCURA, MA LA MADONNA VIENE IN NOSTRO SOCCORSO: RIFLETTANO GLI ECCLESIASTICI 23.02.2009 - Antonio Socci - Da Libero, 22 febbraio 2009
2) GIUSSANI/ 2. Giannino: la spallata che mi diede con la sua “logica amorosa” - Oscar Giannino - lunedì 23 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
3) La storia di Vika - Mario Mauro - lunedì 23 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
4) LETTERATURA/ George Orwell e 1984: è davvero superato il totalitarismo? - INT. Vita Fortunati - lunedì 23 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
5) PMI/ Da garzone di bottega a presidente. Come fare impresa in una terra ostile - Redazione - lunedì 23 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
6) USA/ Obama promette una nuova politica sulle cellule staminali - Sharon Mollerus - martedì 24 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
7) BENEDETTO XVI/ Quando il teologo Ratzinger richiamò a un cristianesimo vivo - Pigi Colognesi - martedì 24 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
8) Eutanasia - Prendi un trapasso atroce e fanne un paradiso - di Giovanni Gobber*
9) PiùVoce.Net - 23 febbraio 2009 - Se l`obbedienza è vissuta come un limite e non come adesione a una sapienza antica - CATTOLICI "ADULTI", VITTIME DELLA RELIGIONE FAI DA TE
10) Eluana, non ho mai provato un simile schifo - UNA COMMEDIA DI BARI E IMPOSTORI CON PADRE DOLENTE
11) “Corriamo il rischio di determinare l’uomo in base al suo genoma” - Parla il dottor Manuel Santos, professore di genetica dell’Università cattolica del Cile - di Carmen Elena Villa
12) Storia di una mistica di sei anni, raccontata dalla sorella - Nennolina è stata proclamata venerabile - di Carmen Elena Villa
13) Storie di conversione: Gertrud von Le Fort - Libertà è un ponte che congiunge due rive - di Claudio Toscani – L’Osservatore Romano, 24 febbraio 2009
14) Un mese di carcere a un pastore battista nello Stato della California - Propaganda antiaborto - Condannato pastore battista in California – L’Osservatore Romano, 24 febbraio 2009
15) L’ANNO PROSSIMO, AL FESTIVAL, FATECI VEDERE UGOLE NORMALI - Gli italiani non cantano più Mancano gioia e fraternità - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 24 febbraio 2009
16) L’ANGELUS, DOPO LA SETTIMANA DI AMARE POLEMICHE - In quel «pregate per me» tutta la forza di Pietro - MARINA CORRADI – Avvenire, 24 febbraio 2009
17) «Il suicidio non diventi mai un diritto» - dibattito - Roccella: Eluana è morta con tortura di Stato, grazie a una sentenza. Englaro: libertà di cura fino alle estreme conseguenze – Avvenire, 24 febbraio 2009


LA NOTTE E’ OSCURA, MA LA MADONNA VIENE IN NOSTRO SOCCORSO: RIFLETTANO GLI ECCLESIASTICI 23.02.2009 - Antonio Socci - Da Libero, 22 febbraio 2009
Una storia emblematica. Come Paolo Brosio è andato a Medjugorje… Pronto, Paolo? Sto cercando Paolo Brosio, uno dei volti più noti della televisione. Dall’altra parte del telefono si sentono forti folate di vento e un respiro affannoso. Infine un lontano: “Pronto, chi è?”. Dico il mio nome e chiedo dove mai si trovi.

“Sono a Palermo” mi spiega “per una puntata di Stranamore, ma in questo momento sto salendo il Monte Pellegrino col rosario in mano alla ricerca del santuario di santa Rosalia”.
Ma che ti è successo? Si dice di una folgorazione sulla via di Damasco.
“Ma io sono stato a Medjugorje”, dice ridendo. “Ero provato da una grande sofferenza; ora però vivo un’immensa gioia, Antonio, perché ho trovato Gesù”.
Puoi raccontarmi come è successo o – visto il fiatone che hai – rischi di stramazzare a terra?
“No, ce la faccio. Ti dico subito. La mia vita, fino ai 50 anni era trascorsa spensierata, con un certo connotato ludico da eterno ragazzo, anche se molto dedita al lavoro. Certamente senza problemi di fede o di coscienza. Ma cominciamo dall’inizio della storia: venti anni fa ho conosciuto una ragazza e me ne sono innamorato”.

Poi cosa è successo?
“Per raggiungere lei, che lavorava a Milano, dalla Liguria, dove ero giornalista del Secolo XIX, nel 1990 sono andato al Tg di Emilio Fede. Avevo già fatto alcune cose buone, come la Moby Prince, ma con Mani Pulite cominciò la mia notorietà televisiva. Tuttavia già lì feci il primo naufragio. Io dico sempre – scherzando – che il mio primo matrimonio finì perché mi ‘misi’ con Fede e lasciai mia moglie”.

In senso professionale…

“Sì, si lavorava tutto il giorno, praticamente la mia vita coincideva col lavoro. Sia chiaro, sono grato a Fede che mi ha permesso di crescere professionalmente. Ma ho fatto veramente 900 giorni sul marciapiede, come poi ho titolato il mio libro”.
Il marciapiede davanti al Palazzo di giustizia da dove facevi i collegamenti.

“Esatto”.

Poi nel 1996 approdi al salotto di “Quelli che il calcio…” e fai l’inviato per Fabio Fazio.
“Sì, le cose vanno a gonfie vele. Scrivo libri che vendono un sacco di copie, faccio fior di programmi in Rai, dal Giro d’Italia a Domenica in, da Linea verde all’Isola dei famosi. Poi torno a Mediaset con lo sport, le prime serate, Stranamore. Insomma una carriera fortunatissima, durante la quale incontro un’altra ragazza che mi fa innamorare e che diventa mia moglie”.

Stavolta una storia felice?

“In realtà seguono quattro anni di scontri familiari. Nel frattempo era morto mio padre. E’ stato un dolore fortissimo. Era una persona meravigliosa, al contrario del figlio scellerato che sono io. Era il mio punto di equilibrio”.

Anche tua mamma è una persona straordinaria.

“Sì, un carattere forte, combattente, toscana verace, donna simpatica e sincera, di grande fede. Ma, come tutti quelli che hanno una forte personalità, non è facile starle vicino. Io ci ho litigato di continuo. Mio padre però era perfetto per lei, calmo, buono, umile pur essendo molto colto, un grande esperto di letteratura inglese antica. Era il pilastro della mia vita”.

La sua perdita è stata una mazzata per te.

“Terribile. Ma poi è arrivata l’altra, il naufragio con mia moglie. Ognuno per la sua strada. Per me un dolore infinito. A cui ho reagito nel modo peggiore”.

Cioè?

“Con la logica mondana che dice ‘chiodo scaccia chiodo’, cose contrarie al cammino con Gesù”.
Era un tentativo di dimenticare, di lenire il dolore?

“Sì, accusavo un grande vuoto, sempre più grande. Io sono andato in crisi su tutto. Quell’abbandono mi ha spaccato il cuore. Oggi però ho capito che proprio da quella mia disperazione sono sbocciate sulle mia labbra quelle parole che mi hanno salvato: Ave Maria”.

Eri religioso?

“Ma figurati. Ogni tanto capitavo distrattamente in chiesa, ma la mia vita era altrove. Ricordavo a fatica tre preghiere. Neanche il Gloria al Padre. Il Credo lo sto imparando ora. Ma quelle “Ave Maria” ripetute fra le lacrime, tante e tante volte, mi hanno salvato perché stavo percorrendo sentieri scuri, veramente brutti, credimi”.

Di che tipo?

“Beh, sentieri brutti per dimenticare mia moglie. In realtà però, in quel modo, le cose per me andavano sempre peggio e l’angoscia era sempre più dilaniante”.

Sai che ci sarà qualche sciocco che ironizzerà?

“Guarda, io non sono nessuno e non ho da insegnare niente, ma spero che raccontare questa mia vicenda possa servire anche ad altri, perché quando precipiti nel dolore sei più vulnerabile e rischi di più di finire a fare cose brutte e irrecuperabili”.

Dicevi di quelle Ave Maria gridate nel pianto…

“Sì, mi è venuto naturale cercare la sua protezione perché di Gesù, di Dio avevo timore, invece sentivo lei come una mamma buona. La sua natura umana la sentiamo più vicina a noi, alle nostre sofferenze. Lei ha una pena infinita per chi soffre”.

Ti eri raccomandato a lei altre volte?

“Io non avevo mai pregato. Ho cominciato a pregare continuamente la Madonna perché stavo male da piangere, non riuscivo più a lavorare e più cercavo di dimenticare più combinavo guai e stavo peggio. Non avere più mio padre e mia moglie al mio fianco mi aveva fatto smarrire me stesso…”.

Poi cosa è successo?

“E’ successo che, pregando, ho sentito il bisogno fortissimo di incontrare la Madonna. E dov’è che si può incontrare? In un posto solo: a Medjugorje”

(Medjugorje è il villaggio della Bosnia Erzegovina dove dal 24 giugno 1981 la Madre di Gesù appare ogni giorno a sei ragazzi. Milioni di persone vi si recano).

Quel tuo “bisogno di incontrarla” che hai avvertito – secondo chi è più esperto di Medjugorje – è la sua chiamata. Dunque colei che hai invocato fra le lacrime ti ha risposto, come una madre che prontamente tende le braccia al figlio caduto a terra e ferito…

“Sì. Prima di partire mi sono procurato dei libri su Medjugorje e ho letto tutto, subito, con un’avidità che ho provato solo da bambino quando leggevo Salgari”.

In effetti iniziava un’avventura tutta nuova…

“Infatti mi sono detto: questa è la mia strada. Ho perfino rimandato di sei giorni l’inizio delle puntate di Stranamore”. E Mediaset?

“ (Ridendo) Quando alla riunione ho detto: ‘no fermi, io il 3 ho un appuntamento con la Madonna a Medjugorje’, tutti mi hanno guardato chiedendosi se ero impazzito. Ma alla fine hanno dovuto cedere”.

A Medjugorje cosa è successo?

“Là, guidato da Milenko e Mirella, una quantità inimmaginabile di emozioni, di incontri, di storie. Non so come sia stato possibile in così pochi giorni. Un’esperienza fortissima della presenza della Madonna. Una pace, un silenzio, una gioia… Ho conosciuto anche Vicka (una dei veggenti). E poi i tanti ragazzi ex tossicodipendenti che là sono stati recuperati. I bimbi orfani di suor Cornelia. Insomma non ci sono parole umane per una cosa tanto sconvolgente. Appena sono tornato l’ho raccontato al mio amico Andrea Bocelli perché lui mi poteva capire: c’è stato anche lui e lì ha pure cantato”.

Il luogo che più ti ha colpito?

“Tutti, ma davanti al crocifisso di bronzo che sta dietro la chiesina, davanti a quelle gocce d’acqua, quelle lacrime, che inspiegabilmente scendono da Lui, ho abbracciato le gambe di Gesù e piangendo non l’ho più mollato. Io mi ero affidato a Maria e lei mi ha portato a stringermi a suo Figlio. E lì, Antonio, ho trovato la pace”.

E cos’hai fatto?

“Ho ricevuto i sacramenti e ho scritto su un foglio tutti i nomi delle persone amiche e dei malati che gli raccomandavo e l’ho dato a Vicka perché la Madonna li benedicesse durante l’apparizione. E l’ha fatto”.

E ora?

“Ora voglio fare tutto quello che posso per quella terra che mi ha salvato. Anzi, tramite te lancio questo appello: a maggio farò un aereo per portare più gente possibile a Medjugorje. Il prezzo del viaggio organizzato, seppure basso, sarà maggiorato di un po’ di euro che verranno donati all’orfanotrofio di suor Cornelia”.

Non ti ferma più nessuno… E tua madre? Chissà quanto avrà pregato quando tu stavi male?

“Oh sì, lei sente sempre Radio Maria. Da anni mi parlava di Medjugorje: guarda quanto tempo ho perso…”.
Antonio Socci - Da Libero, 22 febbraio 2009


GIUSSANI/ 2. Giannino: la spallata che mi diede con la sua “logica amorosa” - Oscar Giannino - lunedì 23 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
A quattro anni dalla sua scomparsa, è tempo per me di compiere un altro passo sulla via del riconoscimento di quel che devo a don Giussani. In una precedente occasione, ho detto di quanto mi passò da parte a parte nel mio unico incontro a quattr’occhi con lui, rinviandomi alla fede di mia madre e alludendo a quanto avesse contato per lui la sua, Angelina, come anche la mia si chiama. Con ogni probabilità, chi mi conosceva da Torino ed era nel movimento gli avrà detto qualcosa prima che ci incontrassimo. In ogni caso non fu la fattualità della circostanza, al contrario la sua assoluta imprevedibilità da parte mia a scuotermi dalle fondamenta.
Avevo già letto Il senso religioso, L’impegno del cristiano nel mondo, Tracce d’esperienza cristiana, nonché tutto quanto dei seminari e degli incontri tenuti da don Gius fosse stato sino a quel momento edito, e avevo imparato a riconoscere dall’eco che si produceva in me la forza di una spinta che nient’altro mi dava. Da anni ero alle prese con uno smottamento sempre più profondo dell’edificio interiore che avevo autonomamente eretto intorno a un razionalismo rigorosamente materialista e agnostici sta, e l’atteggiamento di solidarietà al mondo e all’umano – che pure era prepotente e mi aveva spinto alla politica fin da ragazzino – aveva al più la mera consistenza dell’amor fati stoico. La torre intellettuale che avevo costruito aveva molte crepe, ormai, frutto di domande ed esperienze nuove che avevano minato fondamenta e mura portanti. Don Gius, con le sue parole per me purtroppo solo scritte e mai udite, nella seconda metà degli anni Novanta agì su di me con la forza di un amorevole minatore, di quelli che scavano la vena con una lena che non è intaccata dal non trovar pepita. Alla fine, devo soprattutto a lui e all’esperienza intellettuale condotta sui suoi libri e testimonianze – esperienza di riflessione molto spesso praticata e condivisa che sostenevo in ospedale nel tratto terminale della propria esistenza – la nuova dimensione dell’Io, del Sé e degli Altri su cui la mia esistenza ha preso a inoltrarsi. Le tre dimensioni implicano concettualmente per me il problema dell’etica, quello logico-cognitivo, e la sfera dei fini e dei limiti dell’azione, cioè la prasseologia.
Mi rendo conto che messa così sappia di insopportabile autocentratura, e che una conversione vera e profonda è qualcosa di assai diverso da un percorso che sostituisca a un individualismo al massimo vagamente deista, un personalismo nel quale logica, morale e valore concreto dell’atto assumono “l’altro da sé” e non più “il sé e per sé” come unico orizzonte del possibile e del giusto. Ma ognuno è chiamato diversamente ai conti con il diverso se stesso che aveva costruito in precedenza. Per me la lettura, lo studio dell’esegesi delle fonti della Scrittura, poi quello sulla storicità del Cristo e sul suo operato, infine quello della Chiesa e della sua Tradizione, tutto ha comportato anni di interrogazione solitaria. Non erano prodotti dallo stridìo della sventura dell’umanità, i dubbi che avevo sempre più profondi. Né dall’attrattiva del puro amore di Dio che risuona nella vertigine di Meister Eckart o di altri mistici. Le lettere ”In attesa di Dio” di Simone Weil a Padre Perrin – appena riedite in forma completa, consiglio di leggerle a tutti – non sono il “mio” orizzonte di conversione, anche se immagino quanta forza abbia potuto avere quel tipo di stimoli nell’atroce carnaio consumato negli anni Quaranta dal superomismo eticamente auto fondato – fosse esso di colore rosso e nero – che ha insanguinato il Novecento. A dire la verità, era stata tutt’altra prospettiva a iniziare a mettermi in crisi, la lettura della Montagna dalle sette balze di Thomas Merton, e di come proprio in quegli stessi anni di furore mondiale un disordinato materialista impregnato d’arte, letteratura e di studi a Cambridge, avvertisse dentro di sé un ribaltamento di prospettiva tanto forte da indurlo a decidere di chiudersi in una Trappa.
Non potrei mai dire sinora di me quel che Simone Weil dice di esserle capitato recitando intensamente “Amore” del metafisico seicentesco George Herbert: “Cristo stesso è disceso e mi ha preso”. No, per me il cammino, che è ben lungi dall’essere compiuto, dopo lunghi deserti di sole domande e periclitanti certezze alla fine ha incontrato un’oasi dove abbeverarsi e guardare alle stelle con spirito diverso dal viaggiatore disperato. L’insegnamento per dimostrazione concreta della piena compartecipazione della fede alla ragione “per arrivare alla realtà, seguendo l’invito della realtà”, come diceva don Gius, il rispecchiarsi nell’Altro come una unica dimensione del Sé – scongiurando e sconfiggendo quella altrimenti desolante noia dell’Io prigionero del Sé, figlia di ogni razionalismo soggettivista e auto fondato – e infine – anche se è primo rispetto al resto - il “fatto” del Cristo inteso come carne e sangue che irrompe nella storia e per una salvezza che è innanzitutto storia del “centuplo quaggiù”, sono queste tre le nuove pietre angolari che don Gius mi ha regalato, con lo stesso spirito di didattica dialogante che ha sempre seguito coi giovani, sin dalla sua prima esperienza insegnando religione in un liceo.
Al punto in cui sono giunto, non credo affatto che la fuga dalla più grande rivoluzione nella storia – il Cristo – si confuti attraverso l’esperimento di forme per così dire “implicite” dell’amor di Dio, come fanno tanti razionalisti in dubbio, interrogandosi sul senso vario e generale di una religiosità analizzata sub specie di antropologia culturale levy-straussiana. Al contrario, la rivoluzione del Cristo-Uomo si affronta partendo dalle parole e dai fatti storicamente testimoniati del suo attore e motore, e caparbiamente calandoli in ogni diversa realtà e carne e sangue del suo come del nostro tempo. Usando la testa e in pieno esercizio della libertà, categoria fondante del rispetto dell’Uomo nel quale il Cristo decise di farsi per interrogarci con lui.
C’è una notte, una notte particolare ferma nel mio ricordo un paio d’anni prima che don Gius lasciasse questa terra, in cui parole che mi attanagliavano da anni mi apparvero finalmente limpide e inconfutate. Era il primo capitolo di Giovanni – da sempre croce e delizia dei razionalisti – e poi Pietro che nel sesto dice al Cristo “noi non comprendiamo quello che dici, ma se andiamo via da te, dove andiamo? Tu solo hai parole che spiegano la vita”. Devo a don Gius quella notte finalmente di luce, tutto quel che ne è venuto e ne verrà è solo figlio della mia imperfezione. Ma è don Gius, che con le sue parole ha dato la spallata definitiva – definitiva proprio perché logica, oltre che amorosa – alla torre eburnea della mia fallacia. Credo che siamo in tanti, a dovergli questo e molto, molto altro.


La storia di Vika - Mario Mauro - lunedì 23 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Vika aveva ritrovato il sorriso. In pochi giorni nel suo sguardo triste si era inaspettatamente accesa una luce di speranza. Vika non aveva mai conosciuto la felicità e quando alcuni anni fa aveva incontrato per la prima volta persone veramente preoccupate per la sua vita all’improvviso tutto era cambiato. Finalmente qualcuno di cui fidarsi. Qualcuno cui poter aprire il cuore e rivelare l’orrore che le toglieva il respiro.
Non sapeva Vika con quel gesto semplice, fidandosi, di scatenare uno dei più intricati gineprai della nostra più recente storia giudiziaria, una vicenda paradossale in cui lo Stato si è fatto forte con i deboli e debole con i forti e le istituzioni da garanti della sua felicità si sono trasformate in padroni del suo destino. E proprio a quei genitori “provvisori” le nostre “istituzioni” riservavano l’oltraggio più duro: l’onta di un processo per averla voluta sottrarre con la forza della disperazione alle sevizie e alla mancanza di affetto
L’assoluzione che solo parzialmente sana il torto che a questi “umili manzoniani” la storia dei potenti ha riservato è il compimento della vicenda giudiziaria, ma la partita che mette in premio la felicità di Vika non è ancora finita.
Dopo anni di battaglie in cui di fronte all’intero Paese avevano dovuto giustificare il loro atto e le loro posizioni, il tribunale la scorsa settimana ha assolto con formula ampia Alessandro Giusto e Maria Chiara Bornacin per la vicenda che tutti ricorderete della bambina bielorussa Vika-Maria.
Assolti “perché il fatto non costituisce reato” e perché è stato loro riconosciuto di aver “agito in stato di necessità”. Il pm aveva chiesto otto mesi, ma il tribunale di Genova ha affermato che quello che avevano fatto i genitori adottivi, i nonni, il parroco di Cogoleto e una comunità di religiosi in Valle d’Aosta, cioè cercare di impedire che la bambina tornasse nell’orfanotrofio dove per anni aveva subito ignobili abusi, non è una colpa.
Erano i signori Giusto, i nonni, il parroco ad avere ragione, ma intanto in una notte di fine estate di tre anni fa, la bambina di 11 anni era stata prelevata da una macchina della giustizia quanto mai solerte al rispondere alle sollecitazioni di una dittatura e riportata in Bielorussia. E non solo. La giustizia italiana ha perseguito i coniugi Giusto e i loro “complici” per molto tempo e un gesto d’amore è stato additato come atto di egoismo e come sfida alla legge.
L’assoluzione rappresenta una vittoria per i nostri ideali di libertà e democrazia e ha dato ragione a quei pericolosi fuorilegge che stavano dalla parte di una bambina. Insomma, ci può essere una legge che vale più di ogni altra. Quella che ci fa riconoscere e servire gli inalienabili diritti della persona umana. Ora qualcuno dovrebbe, però, spiegarlo a Vika.
L’atto dei coniugi Giusto ha risvegliato l’opinione pubblica sul tema dei diritti violati dei minori. Come la donna che davanti al giudizio di Salomone rinuncia a dare affetto al proprio figlio piuttosto che vederlo dilaniato dalla spada, così anche i coniugi Giusto hanno cercato di difendere la felicità della bambina che era stata data loro in affidamento pur essendo consapevoli con quell’atto di annullare la possibilità di ottenerne l’adozione.
Ma c’è di più. La vicenda di Vika ci racconta, infatti, di una situazione grave e complessa. Il rapporto che ho instaurato in questi anni di attività politica alla vicepresidenza del Parlamento con il capo dell'opposizione in Bielorussia, Alexander Milinkevic e con le numerose missioni che ho portato a termine nell’area balcanica e asiatica mi hanno spinto, nel corso della legislatura, a denunciare con vigore la mancanza di libertà in Bielorussia.
Oltre al caso personale che riguarda la vicenda della piccola Vika e dei coniugi Giusto, non tutti sanno che la Bielorussia risulta essere lo Stato nei confronti del quale le istituzioni europee hanno più volte denunciato le violazioni sistematiche dei diritti umani. Dal 2004 il Parlamento europeo ha votato ben 46 risoluzioni contro lo Stato ex-sovietico.
Negli ultimi anni diversi partiti politici, 22 giornali indipendenti, più di 50 Ong di vario livello e orientamento politico e diversi istituti d'istruzione sono stati chiusi “per motivi tecnici” e altri fatti accaduti tra il 2006 e il 2007 dimostrano che la persecuzione non si limita a colpire gli oppositori politici.
In Bielorussia è inesistente anche una delle libertà più importanti, la libertà di educazione. Nell'agosto del 2004 la Corte suprema di Bielorussia ha respinto il ricorso dell'Università europea di studi umanistici a Minsk riguardante la decisione del Ministro dell'Educazione di annullare la licenza per l'attività didattica.
Il Consiglio dei ministri europeo dichiarò come una chiara violazione del principio di libertà accademica e in conflitto con le pratiche accettate nell'istruzione superiore europea la persecuzione amministrativa e la confisca della licenza all'Università europea di studi umanistici a Minsk. Questa azione delle autorità bielorusse, infatti, dimostra la volontà di uniformare in modo sempre più evidente il sistema educativo nel Paese sopprimendo la libertà di pensiero e di ricerca.
In Bielorussia il regime continua a preoccupare fortemente le istituzioni europee le quali lanciano pesanti diffide nei suoi confronti, consapevoli del fatto che non potrà essere effettuata una seria e leale opposizione al governo, il quale, reprime e rende inoffensivo chiunque cerchi strade alternative alle politiche del regime. Molti sono i “reati di coscienza”: intellettuali, giornalisti, attivisti dei partiti e dei movimenti giovanili d’opposizione messi in galera solo per aver osato criticare pubblicamente il premier Lukaschenko.
È stato anche indetto un referendum farsa per legittimare la decisione di cambiare la Costituzione. Anche l'Ocse ha bollato le elezioni come “seriamente viziate”, mentre una delegazione di eurodeputati si è vista sbarrare l'accesso in Bielorussia prima del voto.
Ma nonostante i soprusi ci sono uomini di buona volontà che continuano con forza la loro opposizione, sostenendo con coraggio la volontà che la Bielorussia sia più vicina all’Europa e meno sotto l’influenza russa.
Ma cosa c’entra questo con le vicissitudini di una bambina? Forse che gli abusi patiti in orfanotrofio c’entrano qualcosa con il fatto che il Paese in cui viveva era più simile a una dittatura che a uno Stato di diritto? Se penso a come Vika-Maria è stata trattata dal nostro Stato, nessuna risposta è scontata: e allora meglio concentrare la nostra attenzione su coloro che hanno avuto il coraggio di pensare a lei prima di ogni altra convenienza.
Soffermare la nostra attenzione sui coniugi Giusto, sul parroco di Cogoleto, sui tanti che in quel piccolo Paese della Liguria non hanno mai smesso di credere nella verità e nell’amore. Perché dove ci sono uomini liberi è più facile difendere la democrazia.


LETTERATURA/ George Orwell e 1984: è davvero superato il totalitarismo? - INT. Vita Fortunati - lunedì 23 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
“L’ignoranza è forza” recitava uno slogan del “SocIng” il terribile partito capeggiato dal “Grande Fratello” (quello vero), descritto da George Orwell nel suo più celebre e cupo romanzo. Una realtà “distopica”, quella dipinta dall’intellettuale inglese, che minacciava l’umanità in quanto tale riducendo gli individui o a mere macchine non pensanti agli ordini del partito o a ribelli da riconvertire, mediante un tremendo lavaggio del cervello, e in seguito “vaporizzare”. Sarebbe alquanto pessimista sostenere che le previsioni di Orwell si siano avverate. Ciononostante il valore della sua letteratura rimane intatto, soprattutto se paragoniamo molti dei suoi giudizi circa la deriva che avrebbe preso l’umanità di fronte al potere rispetto alla realtà attuale. Alcune contemporanee forme di “non pensiero” e di massificazione sembrano infatti perfettamente in linea con altrettanti fenomeni presenti nella società orwelliana. Forme di regressione da cui non si può escludere che corrispettivi centri di potere traggano vantaggio. Ne abbiamo parlato con la professoressa Vita Fortunati, docente di letteratura angloamericana presso l’Università di Bologna e coautrice del libro “Perfezione e Finitudine”, uno studio sulla storia delle utopie
George Orwell fu volontario nelle brigate internazionali che combatterono in Spagna contro Franco a fianco dell’esercito repubblicano. La sua visione socialista però ad un certo punto cambiò, portandolo a scrivere libri critici come “La fattoria degli animali” e, ben più tragico, il celebre “1984”. Che cosa vide lo scrittore per aver cambiato così radicalmente le proprie idee?
In realtà Orwell si è sempre definito una sorta di “militante non ortodosso”. Nonostante avesse creduto, e in un certo senso anche dopo l’esperienza della guerra continuasse a credere molto nel socialismo, era una personalità che godeva di una propria e forte indipendenza di pensiero. Era sì un intellettuale militante, ma non voleva essere etichettato.
Certamente poi l’esperienza della guerra di Spagna è risultata determinante per capire ciò che stava accadendo a livello europeo e per comprendere anche le strategie che i vari regimi totalitari dell’epoca esercitavano per accattivarsi la massa popolare. Mi sembra che uno dei discorsi più interessanti che Orwell introduce in 1984, un libro che va senz’altro letto nel contesto storico, riguarda l’analisi molto acuta sul potere dei media. Questo discorso attraversa in maniera capillare il suo testo, tant’è che molti semiologi, tra cui anche Umberto Eco, hanno messo proprio in evidenza proprio il valore dell’opera orwelliana nella descrizione dell’uso che i sistemi totalitari fanno dei media. E lo stesso vale anche per l’utilizzo della pubblicità, degli slogan politici, la cui martellante presenza direi che rende 1984 un testo che ci dice molto anche oggi sotto questo aspetto.
La letteratura utopica ha origini remote. Oltre alle opere di Tommaso Moro e Campanella, che in un certo senso ne “ufficializzarono” l’esistenza letteraria, si può pensare a “La Repubblica” di Platone o al mito di Atlantide. Come mai l’uomo ne è così attratto?
Questa è una bella domanda alla quale è però difficile trovare una risposta esaustiva. Un mio collega belga ed io abbiamo pubblicato poco tempo fa in Francia, per la Champion Edizioni, un volume intitolato Storia Transnazionale dell’Utopia e dell’Utopismo, dove formuliamo un’ipotesi a seguito di alcune osservazioni.
Se si studia la tradizione letteraria utopica attraverso le varie nazioni europee, ma anche extraeuropee, si può notare una vasta e diffusa presenza dell’utopia e dell’utopismo. La prima intesa come genere letterario, il secondo come storia delle idee. Questo mette in luce che tale tendenza a pensare mondi alternativi al presente è qualcosa di ancestrale nell’animo umano.
Quindi l’utopia rappresenta una sorta di archetipo o di mito radicato nell’animo umano?
Sì, l’utopia è a tutti gli effetti una specie di mito. Anzi l’utopia affonda le radici nel mito ed è, in fin dei conti, un prodotto “laicizzato” di questo.
Per noi occidentali il concetto di utopia è collocato fra due poli. Da una parte affonda le proprie radici nei miti del mondo classico, dall’altra è protende verso il senso, di matrice giudaico cristiana, del compiersi e del rivelarsi di una società perfetta. Quindi mito ed escatologia. Si pensi alla Città Celeste descritta nell’Apocalisse.
Con Tommaso Moro si dà il via alla laicizzazione dell’utopia, concependola esclusivamente come prodotto realizzato soltanto dagli uomini, senza intervento divino. Questo è il punto cruciale, l’elemento che distingue l’utopia dal mito o dalla dimensione escatologica.
Alcuni elementi dell’opera di Orwell paiono di inquietante attualità. Prendendo ad esempio una notizia di non molto tempo fa, che riportava l’intenzione in Francia di abolire ufficialmente alcune complicate forme di scrittura e di sintassi, non può non venire alla mente la famigerata “neolingua” descritta nel romanzo come unico e ultrasemplificato modo di esprimersi imposto dal partito per impedire sempre più un pensiero complesso da parte degli adepti. Vede delle analogie?
È una strategia che consiste nel disambiguare la lingua. In Inghilterra c’è l’annosa idea del “basic english”, se vogliamo aggiungere un esempio. È la genialità orwelliana, la parte più fertile e creativa del libro ed è certamente un fenomeno profetizzato, con un’incredibile intuizione, che noi, purtroppo, stiamo vedendo in atto.
Di fatto, forse adesso un po’ di meno, ma fino a poco tempo fa, se si inviava un articolo o un saggio presso un editore inglese questi tendeva a semplificare la lingua, a tagliare le perifrasi e a evitare le subordinate. Il pensiero complesso ed espresso nel linguaggio andava evitato a tutti i costi.
Anche in ambito pubblicitario, oggi come oggi, il messaggio deve essere estremamente chiaro, deve “passare”.
Questo tipo di atteggiamento è assolutamente funzionale alla massificazione. L’uso del congiuntivo, ad esempio, è sì più difficile da imparare, ma arricchisce l’io e lo rende capace di esprimersi al meglio. La massificazione vuole impedire questo. E la lingua ne è lo strumento principale.
Un altro aspetto evidenziato in Orwell è l’abolizione della storia. Il passato non esiste più e la memoria è impedita. Questo fenomeno si è verificato pressoché in ogni autentico regime totalitario, per quale motivo?
Vaporizzazione della storia. È un altro discorso importantissimo nel testo di Orwell. I regimi totalitari hanno in genere riscritto la storia con la pretesa di fondare un nuovo inizio, di ricominciare il mondo secondo il loro personale ordine e la lo parziale visione. “Vaporizzare”, il verbo che utilizza George Orwell, è un termine ricco e pregno di significato. Discorso molto doloroso dei regimi totalitari.
Di fronte a un simile rischio l’antidoto può venire rappresentato da un recupero intelligente della tradizione?
Personalmente credo che recuperare la tradizione sia un’azione importante a patto però che questa venga sempre messa in discussione. Mi spiego, non contestata, ma posta in dialogo con il presente. La memoria collettiva degli uomini è sempre processuale, in movimento. Non parlo di revisionismi storici forzati, ma della necessità che la tradizione sia sempre negoziata con il presente. Difatti ha un senso se viene riattivata in funzione del momento attuale o con un progetto nei confronti del futuro. La tradizione va quindi certo mantenuta, ma mantenuta viva. Altrimenti si corre il rischio opposto, con un esito simile a quello del totalitarismo: il rispetto indiscutibile della legge in sé e per sé, il quale, se non è agganciato a una circostanza reale perde di significato e si cristallizza. Un risultato per certi versi analogo a un clima totalitario.
Al di là delle analogie, più o meno verificabili, fra il mondo di Orwell e il nostro, esiste o avrebbe ancora senso una letteratura utopistica oggi?
I testi antiutopici di Orwell e di Huxley sono stati quelli che hanno messo in crisi il progetto di utopia totalitaria, intesa come volontà di razionalizzare tutti gli aspetti della realtà.
Dal punto di vista dell’eredità letteraria, dagli anni ’80, c’è stata in Inghilterra, soprattutto da parte delle scrittrici, un tipo di letteratura detta “distopia critica” all’interno della quale si parte dall’analisi dei mali della società contemporanea prospettando possibili mondi alternativi. Non si scrivono più utopie nel senso canonico però il genere è rimasto in un certo senso vivo attraverso la scrittura di tali opere. Questo filone ha portato avanti per lo più i discorsi pacifisti, ecologisti, e via dicendo: si pensi ad esempio a uno scrittore come Kim Stanley Robinson, autore di “Antartica”.


PMI/ Da garzone di bottega a presidente. Come fare impresa in una terra ostile - Redazione - lunedì 23 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Contattarlo non è difficile, perché in azienda, racconta, «arrivo all’alba e la sera sono l’ultimo a spegnere la luce». E quando ti rivolgi a lui chiamandolo «dottor Lai», ribatte con un sorriso «mi chiami operaio Lai, è decisamente meglio». Ma non sono fissazioni da imprenditore vecchio stampo. «La verità è che mi piace lavorare. Non so fare altro. Non ho mai fatto altro da quando avevo 16 anni. Anche adesso che potrei, in ferie ci vado soltanto quando l’azienda è in chiusura estiva». Uomo tutto d’un pezzo, Alberto Lai. Come l’azienda che ha fondato e di cui oggi è presidente: la Neon Europa, diventata in pochi anni uno dei leader italiani nel settore dell’illuminazione industriale e commerciale nonostante sia nata e cresciuta in un’isola – la Sardegna – fisicamente ed economicamente lontana dalle rotte del business che conta. «Eppure questo non ci ha ostacolato» spiega Lai, classe 1944 da Seui (Nuoro). «Certo, visto che anche la produzione è fatta in casa, abbiamo qualche problemino logistico in più. Ma niente che non possa essere risolto».
E in che modo lo risolvete? «Con una pianificazione continua, cercando di essere efficienti al massimo e sempre vicini ai desiderata del cliente, assistenza compresa. Sembra una formula un po’ scontata, ma è davvero l’unica cosa che conta. Oggi siamo in grado di passare dal primo incontro alla consegna in 7-15 giorni, a Bolzano come a Lampedusa».
Quindi non lavorate solo in Sardegna… «No. Chiaramente questo è un mercato prioritario per noi, ma abbiamo clienti e richieste un po’ da tutta Italia».
E per quanto riguarda i mercati esteri? «Nel 2001, con altre imprese del settore, abbiamo dato vita al consorzio Neon 21, di cui oggi sono il vicepresidente. La sede è a Cologno Monzese, vicino a Milano. L’obiettivo è proprio quello di espanderci verso l’estero».
Quante persone ci lavorano? «Solo 11. La produzione è rimasta in mano alle singole aziende, mentre Cologno è il centro di progettazione, smistamento ordini e, se vuole, anche di rappresentanza. Ci permette di essere più vicini ai mercati che contano, che per il nostro settore sono quelli del grande contractoring europeo».
E in Neon Europa, invece, quanti sono i dipendenti? «Una trentina. Li conosco e me li coccolo tutti, perché nel loro campo sono i migliori».
Ma ad andare all’estero da soli non ci pensate? «Da soli abbiamo compiuto solo poche ed episodiche sortite, visto che in quel caso gestire gli aspetti logistici diventa più complicato per noi. Siamo pur sempre su un’isola. Ma in passato qualche soddisfazione ce la siamo tolta comunque. Le cabine telefoniche di Cuba, per esempio, sono un nostro brevetto di qualche anno fa».
Che c’entrano le cabine telefoniche con insegne e impianti di illuminazione? «Le insegne e gli impianti di illuminazione oggi rappresentano solo una parte del nostro business. Negli ultimi anni abbiamo insistito parecchio sulla strada della differenziazione di prodotto».
Perché? «Intanto perché la nuova sede, dove ci siamo trasferiti nel 1989, era così grande che ci permetteva di installare altri macchinari e dedicarci a nuove produzioni. E poi perché negozi, grandi catene commerciali, banche e aziende, insomma tutti i nostri clienti, chiedevano sempre più spesso la fornitura di soluzioni “chiavi in mano”».
Quindi cosa produce oggi Neon Europa? «Insegne, cartelloni, segnalature per interni, decorazioni per automezzi, pannellature in plastica per ogni uso (edilizia, arredamento, cartellonistica), lucernari, evacuatori di fumo».
Sette anni fa è nata l’ultima divisione, che produce e commercializza arredamenti per negozi e allestimenti per fiere, mostre e musei, ma anche scenografie televisive e teatrali. Può citare qualcuno dei suoi clienti principali? «Tra le banche di cui abbiamo curato il restyling ci sono Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco di Sardegna e Banco di Sassari. In tv abbiamo curato tutte le scenografie di Videolina, la principale emittente regionale. Nella grande distribuzione lavoriamo per Conad e Carrefour. E poi ci sono Heineken, Lavazza... Ma fermarsi a loro sarebbe riduttivo. Lavoriamo molto bene anche con negozi, ristoranti e bar di ogni genere».
Sul fronte del commercio al dettaglio la crisi morde anche per voi? «Non ancora, ma temo che lo farà. Salvo casi straordinari, quello sulle insegne è un investimento che in tempi duri un piccolo commerciante può anche decidere di rimandare. Senza contare che i regolamenti comunali in materia stanno diventando sempre più soffocanti nei confronti delle insegne. Questo a volte non ci permette di liberare la fantasia come vorremmo».
E per quanto riguarda i servizi alle aziende? «Il settore, per il momento, non sembra concedersi battute d’arresto. Meglio per noi».
A quanto ammonta il fatturato di Neon Europa? «A fine 2007 abbiamo superato i 2,6 milioni di euro. Non abbiamo ancora contabilizzato i dati al 31 dicembre 2008, ma nonostante le difficoltà di cui le dicevo dovremmo chiudere comunque in lieve crescita sull’esercizio precedente».
Come e quando è iniziata la sua avventura? «Avevo 16 anni e già da un po’ lavoravo nella trattoria dei miei genitori, nel Nuorese. Noi nuoresi siamo maestri di cucina: lo sapeva che oltre il 90% dei ristoranti sardi in giro per il mondo è gestito da nuoresi emigrati?».
Sinceramente no. Ma lei perché non è rimasto tra bancone e fornelli? «Perché non era quella la dimensione. Volevo muovermi, crescere e lavorare a qualcosa di diverso, di più innovativo. Anche se non sapevo ancora quale sarebbe stata davvero la mia strada, è questa la molla che mi ha mosso all’inizio».
Dove ha puntato inizialmente? «Sono finito in un negozio di elettrodomestici a fare il garzone di bottega. Meno di un anno dopo ero il responsabile di acquisti e vendite». Non male. Ma alle insegne come ci è arrivato? «Un giorno tornavo a casa e ho visto due ragazzi che montavano l’insegna di un cinema. “Corallo”, mi pare che si chiamasse così. Mi colpirono la luce e i colori. “Cercate gente?” gli chiesi. E loro: “Sì, presentati domani”».
Così è entrato in Neon Europa per poi rilevarla? «No, Neon Europa l’ho fondata io a 18 anni. Dopo pochi mesi che lavoravo in quella fabbrica di insegne, già non ne potevo più. Mi pagavano 2.500 lire a settimana, eppure quando minacciai di andarmene il capo alzò l’offerta fino a 10.000. Il quadruplo. Allora capii che se mi fossi messo in proprio avrei potuto guadagnare ancora di più. Un furgone, un socio, e poi cominciai».
Perché ha scelto il nome Neon Europa? «Neon serviva a identificare la produzione. Europa dava un respiro internazionale ed era un giusto omaggio ai miei tanti conterranei che hanno dovuto emigrare per avere fortuna».
Lei non ha mai pensato a questa eventualità? «Sinceramente no. Questa è casa mia. Ed essere riuscito ad avere successo in una terra che molte volte è ostile ai nuovi business aggiunge sapore alla sfida. Ma non mi dipinga come un mago: anche qui sull’isola le case history di successo non mancano. Guardi cosa è riuscita a mettere in piedi la Tiscali, che tra l’altro è un mio buon cliente».
Ma nemmeno i primi tempi sono stati duri? «Non troppo. Come le dicevo, la voglia di lavorare e quella di sperimentare non mi sono mai mancate. Il resto – clienti, buone intuizioni, prodotti – è venuto da sé».
In un’azienda come la sua, ricerca e sviluppo avranno un peso importante… «Sono fondamentali. Noi ci investiamo ogni anno cifre consistenti, soprattutto se si considera che siamo una piccola realtà. Ma il risultato è importante: siamo tra i pochi a poter garantire la qualità complessiva del prodotto. Molti nostri competitor italiani ed europei, infatti, si occupano solo di assemblaggio. Mentre noi il prodotto lo creiamo qui in Sardegna, seguendo tutte le fasi di lavorazione dalla A alla Z». Noi? «Io e i miei quattro figli. Una delle cose di cui vado più fiero è di averli fatti crescere tutti all’interno dell’azienda».
Che età hanno e di cosa si occupano? «Simona, che ha 40 anni, è entrata in azienda nel 1986, subito dopo il diploma, e oggi è amministratore delegato. È consigliere regionale della Cdo sarda ed è anche stata presidente dei giovani di Aifil, l’Associazione Italiana Fabbricanti Illuminazione, di cui Neon Europa è uno dei fondatori originari».
E poi? «Diego, 34 anni, è il più giovane e con Alessandra, 37, si occupa di vendite e amministrazione. Infine c’è Fabrizio, 36 anni: oggi è lui il presidente di Aifil, mentre in azienda segue la parte relativa ad allestimenti e grafica».
Soddisfatto del loro apporto? «La crescita dell’azienda, senza di loro, non sarebbe stata possibile in questi termini. Io ho molto fiducia nei miei figli, credo di essere riuscito a trasmettere loro la passione per il lavoro, l’onestà, il rispetto per le persone, il senso di responsabilità, ma anche l’impegno diretto nelle associazioni di categoria, vero strumento di crescita personale e aziendale».
Riuscite ad andare d’accordo? «Direi di sì. Qualche volta mi rimproverano di essere troppo presente e accentratore, ma questo fa parte del mio carattere. Continuo tutti i giorni a essere il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via, ma l’azienda fa parte di me».
(Gianluca Ferraris)


USA/ Obama promette una nuova politica sulle cellule staminali - Sharon Mollerus - martedì 24 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Il presidente Obama ha fatto una serie di promesse elettorali che ora deve mantenere per soddisfare i suoi sostenitori. Sebbene nei primi giorni del suo mandato abbia avviato la procedura per la chiusura della base di Guantanamo Bay e, nella prima settimana, reintrodotto il finanziamento federale degli aborti nei programmi internazionali, cancellando la cosiddetta Mexico City Policy, altre promesse non sono state ancora avviate a compimento.
I sindacati stanno chiedendo politiche protezionistiche verso le importazioni, la American Civil Liberties Union (n.d.r. Organizzazione no-profit in difesa dei diritti civili di orientamento progressista) vuole maggiore rapidità nella liberazione dei prigionieri di Guantanamo, e sono in attesa anche quelli che si aspettano di avere via libera nello sviluppo di staminali da embrione umano a scopi di ricerca.
Il presidente della Coalition for the Advancement of Medical Research (n.d.r. Organizzazione bipartisan di lobbying in favore della medicina rigenerativa), Amy Comstock Rick, sta facendo pressioni su Washington: «Vogliamo che [Obama] sappia che contiamo tutt’ora sull’impegno preso in campagna elettorale».
Il consigliere anziano di Obama, David Axelrod, li ha recentemente assicurati che un ordine esecutivo è in via di elaborazione. All’inizio di questo mese, Obama ha detto ai Democratici del Congresso: «Vi garantisco che firmerò un ordine esecutivo per le cellule staminali».
L’Amministrazione Bush aveva consentito la ricerca su linee di staminali embrionali già sviluppate, ma non aveva permesso l’uso di nuovi embrioni. Secondo Story Landis, capo della task force sulle staminali dei National Institutes of Health (n.d.r. Agenzia federale a sostegno della ricerca medica): «Pensiamo che ci sarà richiesto di sviluppare linee guida per le cellule staminali derivate da embrioni creati a scopo riproduttivo in eccesso rispetto alle necessità». Secondo il Washington Post, «qualcuno cercherà anche di spingere per linee di cellule staminali sviluppate “in altri modi”».
In gioco ci sono miliardi di dollari per la ricerca, di cui una parte verrà indirizzata alla ricerche sulle staminali da embrione. Il nuovo pacchetto di stimoli economici, pari a 787 miliardi di dollari, ha stanziato 10 miliardi per i National Institutes of Health, in aggiunta al budget annuo di 29 miliardi di dollari.
I gruppi pro-life si sono decisamente opposti all’uso di staminali derivate da embrioni, anche alla luce dei promettenti risultati della ricerca sulle staminali adulte. Recentemente, in un ragazzo israeliano curato in Russia con staminali embrionali, si sono riscontrati fatti tumorali come risultato del trattamento, e questo è un rischio che presentano le staminali embrionali rispetto a quelle adulte.
Sean Savitz, ricercatore in neurologia di Huston, ha affermato sul Scientific American: «Non vi sono sufficienti prove neppure dagli studi sugli animali, tanto meno da quelli sugli uomini» per avallare queste ricerche. Secondo LifeSite News: «La ricerca su staminali adulte, che non distrugge alcuna vita, è stata approvata per più di un centinaio di trattamenti ed è stata utilizzata per ricostruire tessuti cardiaci, nervosi, e altre parti del corpo danneggiate».


BENEDETTO XVI/ Quando il teologo Ratzinger richiamò a un cristianesimo vivo - Pigi Colognesi - martedì 24 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Capita, a volte, che certi libri, pur essendo scritti piuttosto lontano nel tempo e in condizioni storiche e culturali differenti, risultino straordinariamente pertinenti con la propria esperienza attuale. Mi è successo leggendo Escatologia morte e vita eterna di Joseph Ratzinger (Cittadella Editrice, 2008). Il testo è del 1977 (prima edizione italiana 1979) ed è l’ultima opera «da teologo» di Ratzinger, da poco nominato vescovo di Monaco; un’opera che egli stesso definisce come la sua «meglio riuscita». Il clima di allora si percepisce soprattutto nell’accenno al marxismo ampiamente penetrato anche nella Chiesa come versione attualizzante e inevitabile della speranza cristiana.
Cosa mi ha fatto percepire la profonda attualità di questo libro? Il fatto è che l’ho letto proprio nei giorni in cui scoppiava il «caso Eluana» e, quindi, il tema delle «cose ultime» (è questo il significato della parola escatologia; e la morte, tra le cose ultime, è quella che la vicenda della donna di Lecco ha messo di fronte a tutti in maniera travolgente). Inoltre, l’ho letto in un periodo in cui vicino a me, e credo vicino a tutti, i morsi della crisi economica, lo sconcerto per gli attacchi alla Chiesa per la storia dei lefebvriani, gli echi della guerra a Gaza appena finita (se poi è finita davvero), ponevano una grande domanda sul significato della speranza cristiana, della mia speranza di cristiano.
È la parola speranza quella che viene in fondo messa a tema partendo dalla riflessione sulle «cose ultime». Ed infatti molti echi di questo libro si trovano, aggiornati, nella seconda enciclica di Benedetto XVI, quella Spe salvi che si interroga e ci interroga sui contenuti e sull’essenza della seconda virtù teologale, la speranza appunto, e sulla sua efficacia nella storia degli uomini. Echi della prima parte di questo volume si trovano invece nel capitolo che Benedetto XVI da dedicato al «Regno di Dio» nel suo Gesù di Nazareth.
Speranza, dunque, è il filo rosso di questo libro, che è distribuito in tre capitoli. Nel primo si analizza il «problema escatologico»; se, cioè, il cristianesimo sia in fondo solo una delle tante attese messianiche del periodo in cui Cristo è vissuto; un’attesa sostanzialmente fallita come tutte le altre. È evidente che solo il superamento di questa visione consente di dare significato al cristianesimo oggi. L’alternativa è ributtarlo in un passato sostanzialmente irraggiungibile e, pertanto, di fatto per me inutile. Il secondo capitolo si concentra sull’aspetto individuale delle «cose ultime», in sostanza l’anima e la sua immortalità. Colpisce, leggendo queste pagine, il metodo usato da Ratzinger. A fronte delle più spericolate innovazioni teologiche, egli tende sempre a mostrare come la fedeltà al dogma della Chiesa consenta una visione delle cose non solo più attenta alla tradizione, ma indubbiamente più capace di considerare tutti i fattori, anche quelli posti dal procedere della riflessione culturale e scientifica. In questo senso il volume, che è di lettura impegnativa anche se scritto con un linguaggio piano, si pone come difesa della fede semplice del popolo di Dio, in opposizione agli avventurismi degli intellettuali. L’ultimo capitolo si occupa della «vita futura», cioè dello strabiliante articolo del Credo in cui professiamo la resurrezione della nostra carne e la nostra vita futura: inferno, purgatorio, paradiso. Con molta chiarezza Ratzinger smonta il facile cliché per cui il cristianesimo, affermando appunto tutte queste cose, implicherebbe una svalutazione della vita storica. Anzi, proprio questa apertura su una dimensione eterna, che si fonda sul fatto storico della resurrezione di Cristo e sulla sua continuità nella storia, consente la valorizzazione completa del presente e del tempo, senza che essi si trasformino in gabbia, in prigione. In altre parole: la speranza è un «attender certo della gloria futura» (Dante), tutta fondata su una certezza presente e, quindi, di questo presente liberamente amante.


Eutanasia - Prendi un trapasso atroce e fanne un paradiso - di Giovanni Gobber*
Gli eventi sono di vario tipo. Ci sono le azioni, i processi, gli stati. In un frammento di esperienza si trovano tutti: il medico visita la paziente; l’ammalata giace a letto ed è alimentata da un sondino naso-gastrico. Le frasi sono fatte di soggetti, predicati, complementi: la terminologia linguistica non è à la page, ma rende l’idea. Il significato si coglie ragionando, cioè collegando le parole all’esperienza: visitare, preso da solo, può voler dire di tutto, ma in quella frase indica un’azione ben precisa, e il medico denota un individuo che agisce intenzionalmente. Giace a letto significa uno stato, in cui versa l’ammalata, che non compie alcuna azione; è alimentata è un verbo di senso vago. Se c’è qualcuno che agisce, indica azione; in questo caso, però, si riferisce a un processo, che si compie per mezzo di uno strumento: i sondini non sono agenti razionali, dunque non agiscono. Se dico: Il noto giornalista è caduto dalle scale e ha battuto la testa contro lo spigolo dello scalino, non esprimo azioni, ma processi, perché il poveretto si è trovato coinvolto in un brutto incidente, magari causato dal gatto di casa, che passava di lì. Invece, nella frase L’infermiere è entrato nel reparto geriatrico con una siringa esprimo un’azione, perché il lavoratore ha fatto qualcosa intenzionalmente. Si consideri, poi, il caso seguente: L’infermiera spaventò la nonnina ammalata. Esprime un’azione, se lo spavento fu provocato intenzionalmente (per fare uno scherzo, o per altri fini…); è un processo, se non vi fu premeditazione: non vi è agente, quindi la frase equivale a La vista dell’infermiera spaventò l’anziana ammalata.
Sono cose ovvie, se ci si ferma a ragionare. Eppure, nella comunicazione quotidiana, avviene che un’azione sia presa per un processo, e che un individuo che si trova coinvolto in un processo sia fatto passare per un agente. Consideriamo il “caso Eluana”. L’espressione è vaga: caso significa “vicenda, ciò che è accaduto”; la parola è legata al verbo latino cadere. Non è chiaro se caso denoti un’azione o un processo: sembra che non ci siano agenti, che tutto accada così, per caso. Per descrivere la vicenda, quasi tutti i giornali italiani usano gli stessi giri di frase: non è stata uccisa da medici e infermieri consapevoli di quello che facevano, bensì è morta. Gli esperti hanno rilevato che la morte è su-bentrata per disidratazione: non si è detto, però, che la disidratazione è stata provocata intenzionalmente.

E Avvenire è «organo del Vaticano»
E all’estero non butta diversamente: «Eluana, la paziente in coma, è deceduta» (Bild). «La paziente italiana in coma è deceduta» (Neue Zürcher Zeitung). «Eluana Englaro è morta» (Frankfurter Allgemeine). «Eluana Englaro, la paziente italiana in coma, è morta» (Die Welt). Morire indica un processo in cui è coinvolto il morente. Non è un’azione, non vi è un agente: morire non è uccidere. È inoltre evidente che Eluana non si è suicidata. È morta, ma i quotidiani tedeschi precisano che c’è stata eutanasia (Sterbehilfe), come scrive la Bild esplicitamente. La Neue Zürcher Zeitung aggiunge che Eluana è deceduta «in conformità con il desiderio della famiglia». L’affermazione è imprecisa: come ben rileva il londinese Times, la famiglia ha rispettato i desideri espressi da Eluana, secondo la testimonianza resa dal padre stesso e dagli amici della ragazza.
Per arrivare alla morte, nella clinica di Udine «è stata sospesa l’alimentazione forzata». L’uso del passivo è importante: permette di cancellare l’agente. Chi ha sospeso «l’alimentazione forzata»? Non si dice, e del resto gli autori vanno considerati meri esecutori di una sentenza della Cassazione: hanno ubbidito agli ordini. Il passivo si trova in tutte le notizie di stampa sul “caso Englaro”.
La Neue Zürcher aggiunge: il padre di Eluana ha dovuto combattere una lunga battaglia nei tribunali «per l’eutanasia passiva» (für die passive Sterbehilfe). A volte, all’estero, non si riesce a distinguere la Santa Sede dai vescovi italiani (secondo il castigliano El País, il quotidiano Avvenire sarebbe «l’organo di stampa del Vaticano»). A Zurigo, inoltre, si scrive che Berlusconi, «sottoposto alla pressione del Vaticano», ha cercato di imporre per legge il mantenimento in vita della donna e «la sospensione dell’eutanasia passiva». Per la berlinese Welt si tratta di una legge «contro l’eutanasia» in generale. Secondo la Frankfurter Allgemeine, il padre ha lottato «per il diritto di sua figlia a morire» (für das Sterberecht); l’eutanasia si è realizzata interrompendo le misure per mantenerla in vita (die lebenserhaltenden Maßnahmen). Il quotidiano di Francoforte ricorda le parole di Benedetto XVI: lasciare morire Eluana è la via sbagliata. In tedesco sterben lassen significa “lasciar morire”‚ ma anche “far morire”. Sembra che la lingua sia restia a tracciare un confine tra eutanasia passiva e attiva…

I nemici del libero arbitrio
Sui diritti il Times aggiunge un dettaglio importante: Beppino Englaro ha lottato per «dare una fine dignitosa alla vita della figlia» (a dignified end to his daughter’s life). Il diritto alla morte si precisa come diritto a una fine dignitosa. Altri impiegano morire con dignità. Non sfuggirà che l’accenno a una fine dignitosa presuppone che Eluana non fosse «morta 17 anni fa». Forse però in tale espressione il verbo morire assume un significato diverso da quello abituale: indica l’inizio di una vita indegna (unwürdiges Leben) per qualità. Sembra qui emergere un concetto delineato già dalla legislazione nazionalsocialista nell’anno 1939. Ai tempi di Hitler, era il potere a stabilire quali vite indegne sopprimere. Oggi tocca all’individuo decidere “liberamente” come morire. Nella vicenda di Eluana, infatti, il governo e la Chiesa sono stati presentati come “agenzie” ostili al libero arbitrio.
Nella promozione del diritto alla morte, è cruciale il ruolo della tedesca Sterbehilfe, che si può rendere con eutanasia, ma, di per sé, vuol dire “aiuto a morire”; c’è l’idea dell’aiutino per morire in pace. Proprio la Bild osserva che il padre ha voluto «far morire in pace la figlia» (in Frieden sterben lassen). Tuttavia, egli ha invitato i politici al capezzale della figlia. In tedesco, capezzale è Krankenbett – il letto del malato. Ma se Eluana era «morta 17 anni fa» non si può considerarla malata; dunque, non sembra coerente l’uso di capezzale. L’aggettivo malato viene infatti dal latino male habitum, che designa un individuo “in cattivo stato” di salute; la forma si abbreviò in malatto e poi in malato per analogia con i participi in -ato. Se Eluana conduceva una «vita vegetativa» non era «malata», ma neppure può essere «morta in pace». Né si può dire che vivesse soffrendo. L’augurio è che ora riposi in pace.

*professore di Linguistica
all’Università Cattolica di Milano


PiùVoce.Net - 23 febbraio 2009 - Se l`obbedienza è vissuta come un limite e non come adesione a una sapienza antica - CATTOLICI "ADULTI", VITTIME DELLA RELIGIONE FAI DA TE
Chi è più maturo tra un cattolico “adulto”, che è cattolico ma su alcuni argomenti si “sente” di dissentire dal magistero della Chiesa, e un cattolico senza aggettivi, che si impegna con tutte le sue forze a capire il senso profondo di un magistero millenario che va ben oltre la nostra breve esistenza?
Leggiamo spesso sui giornali l’esaltazione di chi crede ma su alcuni temi dice la sua ribellandosi ai "diktat" di vescovi e prelati, come chi di don Lorenzo Milani conosce solo il titolo di un famoso libro, “L’obbedienza non è più una virtù”, senza leggerne mai una sola riga: l’avesse fatto, avrebbe capito che l’esperienza meravigliosa di don Lorenzo nasceva proprio dall’obbedienza alla Chiesa. Quella silenziosa, sofferta e consapevole obbedienza.
E’ un cattolico maturo un credente che si prende il lusso narcisista di dirsi tale, pur prendendo le distanze, in nome della libertà d’opinione, da tutte le questioni in cui si sente in disaccordo con la Chiesa? O non è forse anche lui vittima, come molti del resto, di quella voglia di religione “fai da te” tanto diffusa al giorno d’oggi? Un bisogno di religioso che non pone Dio al centro della propria vita, ma fa di se stessi degli dei.
E’ più maturo un cattolico che prende della religione ciò che più gli fa comodo, dall’alto della sua convinzione di sapere ciò che per lui è buono e ciò che non lo è, o un cattolico che pur non capendo, magari con immensa sofferenza, crede che nel magistero della Chiesa soffi il prezioso alito di Dio?
La storia di ciascun santo ha il suo fondamento nell’essersi affidato alla millenaria sapienza che proviene dalla parola di Dio. Ha il suo fondamento in un’obbedienza fiduciosa, un’obbedienza che non dissente. Pur con fatica, anche se non capisce.
Un`obbedienza che crede che in quella sapienza risieda la volontà di Dio per la propria vita. In quell’obbedienza, che è il fine ultimo di chi ascolta veramente, sta la maturità del cristiano e del santo. Non nel salottiero e continuo borbottare di cattolici che a pancia piena si permettono di avere l’ultima parola sempre e comunque, anche nei confronti di Cristo.
Cristian Carrara


Eluana, non ho mai provato un simile schifo - UNA COMMEDIA DI BARI E IMPOSTORI CON PADRE DOLENTE
In confronto Goebbels era un fanciullino. L’insieme di retoriche azionate a comando e vittoriosamente nel caso della ragazza presa di forza per sentenza giudiziaria e messa a morte senza moratoria si fondava sull’alone tragico del dolore di un padre. Sfida morale azzardata ma a suo modo grandiosa. L’agorà e la vita pubblica di un paese e delle sue istituzioni al servizio di una grande storia privata. Beppino ci aveva sempre assicurato di questo che solo contava per lui: offro la mia voce di padre a una bella ragazza, mia figlia, che mai avrebbe voluto vivere così, e basta. Invece niente basta. Beppino dava voce a se stesso, e perfino ai suoi ricordi ideologico-politici rispolverati a nemmeno due settimane dall’esecuzione pubblica di sua figlia, e dunque dava voce alla coorte dei suoi consiglieri e medici e specialisti e politici che hanno aspettato il giorno della morte di Eluana per scatenarsi e dire finalmente in pubblico la verità: è stata una nuova Porta Pia, un avanzamento nella eterna lotta dello spirito umano contro l’oscurantismo della chiesa. Loris Fortuna, il divorzio, l’aborto e poi, perché no?, l’eutanasia.



La famiglia Andreatta ha accudito nove anni il congiunto. Ha aspettato che arrivasse la sua ora senza violare il mistero, anche scientifico, di quel sonno. Ha fatto in tempo ad accompagnare Giorgio Napolitano, in visita a Bologna, al suo capezzale. Segno che Beniamino Andreatta era tanto vivo da potersi permettere una visita del capo dello stato, capace di firmare il registro degli ospiti ma non il decreto del governo per la ragazza. Non c’è stato chiasso, c’è stato rispetto intorno a quel letto. Un lungo silenzio di nove anni ha scandito un tempo di vita così particolare, dolori così particolari e privati. Nel caso in questione, invece, c’è stata una continua richiesta di silenzio, il silenzio come silenziamento delle ragioni degli altri, e un grande chiasso. E una continua richiesta di rispetto, ma nessun rispetto. Chi come alcuni di noi voleva lasciare Eluana Englaro alle suore che la accudivano ha espresso le sue idee con le corde vocali tarate sul dogma fuori discussione della sua libertà, espressa dalla voce del padre che parlava a nome della figlia. Eluana voleva evadere da quella prigione della carità cristiana, voleva essere “liberata”. Ma no, illusione, in un paese di bari come il nostro era chiaro quello che si poteva sospettare ma non si doveva dire: la voce non era quella di Eluana, era quella di Loris Fortuna e del suo devoto papà Beppino, pronto al comizio e al talk show, naturalmente per dare voce a tutti gli altri dopo Eluana.

E’ dunque acclarato che è stata compiuta una gigantesca operazione politica, giurisdizionale, ideologica e religiosa brandendo come strumento il corpo di una ragazza e un padre chino nell’ascolto della sua voce giovanile. Eppure, ecco perché dico che Goebbels al loro confronto era un fanciullino, sono riusciti a diffondere l’idea che fossero i preti e lo stato e altri orrendi devoti, nella figura di un papa tedesco e di un premier caudillo, ad accanirsi sul corpo di una ragazza e a violare un dolore privato. Bestiale. Chi accudiva quel corpo e desiderava rifornirlo di cibo e di acqua; chi non sarebbe mai uscito dal silenzio rispettoso che lo circondava, alla Andreatta, è stato imputato di estremismo chiassoso, di strumentalismo politico bieco, di uso di un corpo di donna a scopi ideologici. Chi ha messo in piedi il grande circo mediatico giudiziario, chi ha perseguito per la ragazza il destino dell’eutanasia passiva o, se preferite fidarvi di un baro, “l’omicidio del consenziente”; chi ha mentito dall’inizio alla fine, scambiando in una tragicommedia di imposture la propria flebile voce con la possente e simbolica voce di lei, passa o dovrebbe passare per rispettoso curatore e tutore della libertà di coscienza. Non ho mai provato un simile schifo in vita mia.
(22/02/09 - (C) Il Foglio)


“Corriamo il rischio di determinare l’uomo in base al suo genoma” - Parla il dottor Manuel Santos, professore di genetica dell’Università cattolica del Cile - di Carmen Elena Villa
CITTÀ DEL VATICANO, lunedì, 23 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Il sogno della perfezione umana “è stato oggetto di studio di migliaia di filosofi e scienziati”. Tuttavia, “quando l’uomo incentra la sua attenzione sulla scienza, cade in una visione riduttiva”.
Così si è espresso il 20 febbraio scorso il dottor Manuel Santos, nel presentare la conferenza dal titolo “Il miglioramento dell’individuo e il miglioramento della specie”, nell’ambito del Congresso vaticano su “Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell’eugenetica”, organizzato dalla Pontificia Accademia per la vita.
Nel giugno del 2000, il mondo scientifico annunciò il completamento della decodificazione delle informazioni contenute nel DNA. Questa mappatura attualmente consente di conoscere le malattie genetiche ereditarie a cui una persona può essere predisposta, al fine di poter intervenire per tempo. Dal genoma umano è possibile sapere, per ogni persona, il funzionamento, il metabolismo, la resistenza a infezioni e altre malattie.
Il professor Santos, docente di genetica della Pontificia Università cattolica di Santiago del Cile, ha parlato con ZENIT delle nuove frontiere con cui la medicina si è confrontata, nel corso di quasi un decennio, in seguito alla decodificazione del genoma umano.
Quali sono le implicazioni biologiche per il mondo scientifico, derivanti dalla mappatura del genoma umano?

Manuel Santos: Le informazioni di cui disponiamo oggi sul genoma ci permettono di conoscere molto della struttura genetica degli esseri umani. Ci consentono di scoprire le nostre caratteristiche normali, ma anche le nostre patologie e malattie. Tuttavia, da questa conoscenza del genoma nasce il pericolo di ciò che l’etica definisce come riduzionismo: ovvero, il limitarsi a pensare tutto come dipendente dai geni. Ma questi non comprendono la parte spirituale o filosofica, propria degli esseri umani. Non è competenza della genetica.
Come spiega il fatto che non tutte le informazioni dell’essere umano risiedono nei geni?

Manuel Santos: Gli esseri umani hanno una natura la cui complessità va ben al di là della sola parte biologica. Ma oggi, con il forte impatto che ha avuto la mappatura del genoma, la gente vuole vedere un’origine genetica persino nello spirito o nell’anima, che invece hanno una natura diversa. E la scienza, che per definizione ha un carattere riduzionista, considera solo la parte biologica. Il genoma certamente aiuterà ad approfondire la conoscenza della natura biologica, ma non necessariamente porterà a comprendere l’intera complessa natura degli esseri umani.
Esistono due tipi di variazioni derivanti dall’interazione con l’ambiente. Per esempio, se un bambino nasce senza braccia, non necessariamente ciò sarà dovuto ad un problema genetico, ma magari ai farmaci che la madre ha preso durante la gravidanza e che hanno inciso sullo sviluppo del feto. In questo caso non si tratta di un problema genetico, ma di un problema derivante dall’ambiente. Esistono anche mutazioni genetiche che comportano alcuni vantaggi e che fanno in modo che determinate malattie ereditarie non si sviluppino mai. Diventa chiaro quindi che ogni gene può comportarsi in modo diverso.
Come vede la nuova situazione della medicina e le nuove sfide del XXI secolo, a un decennio dalla mappatura del genoma umano?

Manuel Santos: La medicina è cambiata. Oggi esiste quella che viene definita la medicina genomica. È stato utile scoprire che esistono geni responsabili di malattie come l’ipertensione, malattie coronariche, l’infarto e altre. Se ad uno stadio precoce della vita, si scopre che la persona è soggetta a qualche malattia, si può predisporre un programma di vita perché questi geni non si attivino a causa di fattori ambientali. Per esempio una persona che ha la predisposizione all’ipertensione, deve mantenere una dieta speciale, con poco sale e colesterolo. Potendo conoscere la costituzione genetica delle persone, si può ricorrere alla medicina avanzata per trattamenti specializzati per ogni paziente.
Quali possono essere secondo lei le implicazioni che potranno derivare da una separazione tra la sfera biologica e quella spirituale dell’essere umano?

Manuel Santos: Questo è il grande problema che viviamo nel secolo attuale. La scienza ha avuto una grossa influenza. La gente si meraviglia e pensa che la scienza possa risolvere ogni cosa. Ma questa è una maniera riduzionistica di vedere la realtà. Effettivamente la scienza rappresenta un modo di vedere la realtà, ma non il solo. Aiuta a conoscere i fenomeni biologici, ma la sfera filosofica non è terreno della scienza.
Nel mio Paese mi hanno sempre chiesto quale sia il gene dell’anima e dello spirito. È impossibile determinarlo perché siamo su un altro piano rispetto alla genetica che tratta di altre cose. Certamente viviamo in una società tollerante, con molteplici visioni del mondo e i cattolici hanno una visione da condividere con quelle persone per le quali la spiritualità si svolge su un altro piano.
Lei ha citato, nel suo intervento, il romanzo di Aldous Huxley “Un mondo felice” e il film “Gattaca”, entrambi espressione di un’utopia negativa. Come si può evitare la discriminazione genetica messa in luce in queste opere?
Manuel Santos: La discriminazione è già in atto oggi. Per esempio, molti bambini con la sindrome di Down vengono oggi uccisi mentre sono ancora nell’utero della madre. La cosa grave è l’educazione che si da ai bambini sin da piccoli. Bisogna insegnare ai bambini, sin dai primi stadi della crescita, a convivere con le persone diverse. Questi bambini saranno poi, tra altri vent’anni, i futuri membri della società. Se questi avranno convissuto con persone diversamente abili, saranno più tolleranti verso coloro che hanno difetti genetici che li porteranno ad avere delle disabilità.
Lei, come scienziato, come ritiene che si possa promuovere la visione integrale dell’essere umano nel suo campo?

Manuel Santos: Io non temo i dibattiti. Ho partecipato ad alcune sessioni del Parlamento del mio Paese, per discutere una legge sul genoma umano che è stata da poco approvata. Mi sono confrontato con gente pienamente riduzionista dal punto di vista scientifico. Ma bisogna essere onesti e dire che la visione biologistica dell’essere umano deve essere contenuta e che la dimensione dell’essere umano deve essere tenuta in debito conto. Alcune persone hanno una fede che consente loro di vedere entrambe le dimensioni. Altri non ce l’hanno, ma dobbiamo rispettarci l’un l’altro, perché viviamo tutti insieme nello stesso mondo.


Storia di una mistica di sei anni, raccontata dalla sorella - Nennolina è stata proclamata venerabile - di Carmen Elena Villa
ROMA, lunedì, 23 febbraio 2009 (ZENIT.org).- In pieno centro di Roma, vicino alla Basilica di San Giovanni in Laterano, si trova la casa in cui nacque e visse Antonietta Meo, meglio conosciuta come Nennolina. Lì vive Margherita, la sorella maggiore, che oggi ha 87 anni.
Nennolina è stata riconosciuta come venerabile nel dicembre 2007 da Papa Benedetto XVI, che l'ha presentata come modello di ispirazione per i bambini (cfr. ZENIT, 20 dicembre 2007). Potrebbe essere la beata non martire più giovane della storia della Chiesa. Nacque nel 1930 e morì nel 1937, a sei anni e mezzo, dopo che le era stato diagnosticato un osteosarcoma al ginocchio, che quando le venne amputata la gamba aveva già fatto metastasi in tutto il corpo.
Antonietta, bambina molto allegra e profondamente spirituale. Pregava offrendo i suoi dolori, come Gesù sul Calvario, per la conversione dei peccatori, per le anime del Purgatorio e per scongiurare il pericolo della guerra.
Scrisse molte lettere a Gesù. Prima di imparare a scrivere le dettava a Maria, sua madre, poi le componeva personalmente. Le ultime erano firmate “Antonietta e Gesù”. Dietro a frasi semplici c'è un sorprendente contenuto mistico e teologico.
“Gesù, dammi la grazia di morire prima di commettere un peccato mortale”, scriveva la piccola in uno dei testi.
Nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, che fu la sua parrocchia, si trovano la sua tomba e alcune reliquie: i suoi vestiti, i giochi e dei manoscritti. Lì Antonietta ricevette il Battesimo, la Confermazione e la Prima Comunione.
ZENIT ha conversato con Margherita Meo, la sorella di Nennolina. Aveva 15 anni quando la piccola morì. La sua casa è piena di fotografie e ritratti della sorella venerabile, per la quale nutriva un affetto particolare.
Un'infanzia piena d'amore
L'infanzia di Antonietta fu tranquilla e molto felice. Nel diario scritto dalla mamma, pubblicato dall'associazione Apostolicam Actuositatem, si racconta come Nennolina, passando accanto al Colosseo, le abbia detto: “Guarda, una tazza rotta!”.
Per la sua fede profonda e per quella dei suoi genitori, la piccola Antonietta venne iscritta a 4 anni nell'Azione Cattolica.
Nell'ottobre 1934 iniziò a frequentare la scuola materna delle suore Zelatrici del Sacro Cuore. Le piaceva molto andare a scuola e diceva che obbedendo alle sue insegnanti obbediva anche al piano di Dio.
Con i compagni si comportava come tutte le altre bambine. “C'era un bambino che si chiamava Michelino, andava sempre in castigo e lei chiedeva alla maestra di perdonarlo. 'Vai dalla direttrice', le disse la maestra. E lei andò. La direttrice rimase colpita e lo perdonò”, ricorda Margherita.
Il senso della sofferenza
A causa dell'osteosarcoma, il 25 aprile 1936 i medici dovettero amputare la gamba sinistra di Nennolina. Margherita ricorda che i suoi genitori soffrirono molto pensando al dolore della piccola. Quando Antonietta si svegliò dall'operazione, la madre le disse: “Figlia, hai detto che se Gesù ti avesse chiesto la mano gliel'avresti data. Ora ti ha chiesto la gamba”, e lei rispose: “Ho dato la mia gamba a Gesù”.
“La prima notte dopo l'amputazione fu terribile”, testimonia Margherita. “Ma lei offriva tutti i suoi dolori, al punto che festeggiò molto contenta il primo anniversario dell'operazione, perché era un anno di offerte a Gesù”.
Alcuni mesi dopo iniziò ad andare a scuola con la protesi di legno. Nella notte di Natale fece la Prima Comunione. “Si inginocchiò per ricevere la Comunione e rimase in ginocchio anche nella seconda e la terza Messa di Natale”, racconta la sorella.
Alla bambina provocava molto dolore camminare, ma ripeteva con gioia: “Ogni passo che faccio sia una parolina d'amore”. “Le medicine la facevano soffrire molto e diventava pallida, tremava”, aggiunge Margherita.
Il 22 maggio 1937 Antonieta dovette abbandonare la scuola perché il tumore aveva prodotto metastasi. Entrò nell'ospedale di San Stefano Rotondo, dove poco dopo ricevette il sacramento dell'Unzione dei malati. Lì iniziò la sua agonia di un mese e mezzo.
Sua madre racconta nel diario che molti si recavano a far visita alla piccola e che una delle religiose infermiere che si prendeva cura di lei le domandò: “Antonietta mia, come hai fatto a sopportare in silenzio? Se l'avessero fatto a me, le grida si sarebbero sentite da San Giovanni in Laterano”.
Nella sua ultima lettera prima di morire, Nennolina scriveva a Gesù dicendo: “Io Ti ringrazio di avermi mandato questa malattia perché è un mezzo per arrivare in Paradiso. (...) Ti raccomando i miei genitori e Margherita”.
Cos'è la santità?
Margherita ricorda che la morte di Antonietta commosse profondamente tutti coloro che la conoscevano: “I funerali furono in parrocchia. Il parroco non voleva il nero perché era un angelo, e per la liturgia preferirono il bianco”.
La sorella di Nennolina afferma che questa piccola mistica continua a convertire molti cuori. Spiega che un pomeriggio un sacerdote suo amico commentò che qualche tempo prima aveva incontrato un fedele che aveva divorziato dalla moglie e viveva con un'altra donna.
“Il sacerdote aveva in mano un libro di Antonietta e allora disse al signore, che era stato un ufficiale dell'Esercito, di leggerlo. Il signore rispose scandalizzato che lui, un alto ufficiale, non poteva leggere la storia di una bambina. Alla fine, per l'insistenza del sacerdote, accettò e prese il libro. La mattina dopo andò dal parroco: aveva letto il libro tutta la notte ed era tornato pentito dalla sua famiglia”.
Margherita dichiara che la vita semplice e ricca di Antonietta è un esempio di santità nelle piccole cose: “Per me essere santa è accertare giorno per giorno quello che Dio vuole, è volere bene a tutti gli altri, anche alle persone che sembra che non ti vogliano bene – confessa –. Con l'amore si possono superare tutti gli ostacoli”.


Storie di conversione: Gertrud von Le Fort - Libertà è un ponte che congiunge due rive - di Claudio Toscani – L’Osservatore Romano, 24 febbraio 2009
L'11 ottobre del 1876, a Minde, in Westfalia, Gertrud von Le Fort nasce da una famiglia di profughi piemontesi protestanti: il padre, alto ufficiale prussiano della guerra del 1870, rigido, severo, kantianamente ligio al dovere; la madre - donna di un illustre casato di Wûrzburg - ricca di humour, fantasia e buon cuore; di pietà religiosa e di attenzioni per la Bibbia e l'Imitazione di Cristo. Studente ad Heidelberg, a Marburgo e a Berlino - teologia protestante, storia e filosofia - Gertrud è la titolare di una vita semplice, oscura, benché allieva del noto studioso del cristianesimo e storico della cultura tedesca Ernst Troeltsch, del quale, nel 1925, curerà la pubblicazione del libro Dottrina della fede (Glaubenslehre).
E proprio nel 1925, quasi cinquantenne, Gertrud von Le Fort trova l'abbraccio della Chiesa cattolica; persi ormai entrambi i genitori; vissuta anni tra Monaco e Oberstdorf - e per grave malattia in Svizzera e ad Arosa - prodigandosi in favore dei profughi della prima grande guerra.
Un solo anno prima della conversione, segnale tutt'altro che trascurabile, anzi definitivo, Gertrud aveva pubblicato gli Inni alla Chiesa (Hymnen an die Kirche), versi solenni come Salmi, che della Chiesa cantavano nascita e natura, missione e santità, amore e destino.
Esaltandone l'eterna, universale e soprannaturale potenza ordinatrice, Gertrud intende riconoscere alla Chiesa il fatto di aver raccolto e purificato in sé ogni pensiero e fermento religioso della millenaria storia nostra: pagano o profano, ateo o agnostico fosse stato il passato contesto dell'intera umana avventura, da Cristo in poi è stato posto sotto il segno della Redenzione del mondo.
Rileggendo qualche strofa di questi Inni, forte è la sensazione dell'incombenza spirituale che bussa all'animo dell'autrice.
"E nella notte ascoltai una voce, alta come il respiro del mondo che diceva: / "Chi vuol portare la corona del Salvatore?" / E il mio amore disse: "Signore, voglio". / Così la corona passò nelle mie mani e la spina nera fece scorrere il mio sangue sulle dita. / Ma la voce parlò un' altra volta: "Sul tuo capo devi porre la corona!" / E il mio amore rispose: "Sì, voglio"".
Dopo qualche altro verso, al terzo invito della Voce fuori campo, Gertrud piena di spavento risponde: "Signore, dove vuoi che porti la tua croce?".
E la Voce risponde: "La devi portare nella vita eterna".
Non esisteva, fino a non molti anni fa, un attestato biografico della conversione della von Le Fort, quando il saggista e scrittore gesuita Guido Sommavilla rintracciò e pubblicò una lettera della scrittrice che, indirizzandosi a Karl Muth - direttore della nota rivista cattolica tedesca "Hochland", vale a dire "Altopiano" - per fargli gli auguri in occasione del suo settantesimo compleanno, rivela le circostanze iniziali della sua conversione (cfr. Incognite religiose della letteratura contemporanea, 1963).
"Il mio ricordo, mentre le scrivo, scorre indietro verso un giorno non ben precisabile neppure per me del nostro dopoguerra: dunque, di quel tempo in cui ci attraversava il brivido d'un naufragio dell'occidente, e insorgeva in noi il presentimento che alla catastrofe dello stato tedesco fosse per seguire la catastrofe del patrimonio spirituale e religioso del nostro popolo, o anzi del mondo intero: o che questa seconda catastrofe, per chi guardava più a fondo, avesse già preceduto la prima".
Gertrud sta viaggiando in uno stipato treno tedesco e, seduta sopra la sua valigia, sfoglia le pagine della rivista appena acquistata, "Hochland", periodico a lei sconosciuto e che intanto, dal titolo, la invita a salire più in alto del caotico presente.
"Io mi trovai con essa veramente in un mondo dove non si credeva al naufragio dell'occidente, né a quello del nostro popolo, ma solo alla sua resurrezione e al suo rinnovamento".
Incredibile - o provvidenziale? - come semplici pagine di una pubblicazione fortunosamente venuta alle mani possano decidere il destino d'una persona, nel caso specifico il ripensamento spirituale e morale di una intelligenza già a suo modo formata e operante.
"Io mi ritrovai dentro un mondo cristiano (...) e sentii allora per la prima volta in chiarissima coscienza che nonostante tutte le dolorose tensioni e fratture all' interno del cristianesimo, esiste però un comune patrimonio cristiano (...) e colsi i tratti materni dell'anima cattolica che tutto abbraccia, l'essenza vera del cattolicesimo".
È la scoperta degli elementi materni della Chiesa e chi come lei, venuta da fuori dentro il cattolicesimo, ha modo di apprezzare d'essere diventata "figlia" di una "Madre" che tutto comprende e include, custodisce e protegge, al di là delle fratture esistenziali, tra psicologiche e spirituali, che la conversione ha richiesto.
"Il convertito - conclude la lettera - rappresenta la vivente unione dell'amore che è stato spezzato: come un ponte che tocca le due rive e le congiunge".
Saranno il cuore e la maternità della Chiesa, e soprattutto la Sua spirituale tenerezza, i temi fondanti della nuova visione religiosa della von le Fort: materna la forma e la materia delle sue poesie e della sua narrativa, filiale il giubilo della sua umile risposta - il fiat mihi dell'ancilla Dei - per la ritrovata Ecclesia Mater.
Da questo evento prorompe un'operazione letteraria che ha ben pochi eguali nel tempo da lei vissuto, sia in Germania che in Europa.
Anzi, le sue pagine sono state senza esitazioni accostate a quelle di Claudel, Bernanos, Hopkins, Dostoevskij e Manzoni. E ancora: di Graham Greene, Papini, Mauriac, Péguy e Julien Green.
Prima della conversione aveva scritto gli Inni alla Chiesa. Dopo scriverà tanti romanzi, fra i quali La fontana di Roma (in due riprese: Il lino della Veronica, 1928 e La corona degli angeli, 1946), Il Papa del Ghetto (1930), L' ultima al patibolo (1931), le nozze di Magdeburgo (1938), la donna eterna (1934), L'estasi di suor von Barby (1940), La Consolata (1947), La figlia di Farinata (1950).
Abbiamo citato la lettera-documento della conversione, nella sua piana, ma irrecusabile, nobiltà di argomenti e di fede.
Ma quale forza trascinano le stesse situazioni - per esempio ne Il velo della Veronica - quando alla convinzione dell' anima si aggiungono l'intento dell'arte, la fiamma dello stile, l'irremovibile certezza della verità finalmente posseduta e mai più dubitabile?
"Quel vecchio, rigido crocefisso a metà cancellato, quel crocefisso della più cadente basilica di Roma, vuota di preghiere (...) improvvisamente mi aperse le braccia e mi costrinse a inginocchiarmi. Mi sembrò che qualcuno alzasse una tenda sul fondo della mia anima, in cui riconobbi, simile a stigmata d'amore, la stessa immagine dinanzi alla quale mi trovavo inginocchiata: ricevuta, rinnegata, dimenticata eppure intatta, perché quell'amore si era conservato per me".
E dopo poche pagine:
"Sapevo che né in cielo né in terra né fino alla fine dei tempi né nell'eternità, mai vi potrebbe essere cosa alcuna capace di eguagliare quell'amore in forza e dolcezza. Avviluppata ad esso, strappata a me stessa, e già quasi immersa nella sua immensità, credetti di morire. Ma lo stesso infinito mi teneva in vita con un comando dolce e commovente: amami ancora".
"Poetessa della trascendenza", l'ha definita Ferdinando Castelli; "scrittrice dai mistici motivi", ha detto di lei Francesco Casnati; la sua "idea-madre è un gelosissimo ed esigentissimo senso materno", troviamo scritto nel saggio su di lei di Guido Sommavilla. E ancora: da Bonaventura Tecchi sappiamo che "l'aspro duello tra orgoglio e umiltà, tra volontà e grazia, è presente in tutta la sua opera, mentre Italo Alighiero Chiusano, di questa sua ammirata "vecchia gentildonna", ha apprezzato soprattutto "la tenace ricerca della verità, la ferma dolcezza, la signorile sicurezza".
(©L'Osservatore Romano - 23-24 febbario 2009)


Un mese di carcere a un pastore battista nello Stato della California - Propaganda antiaborto - Condannato pastore battista in California – L’Osservatore Romano, 24 febbraio 2009
Berkeley, 23. Un pastore battista afroamericano, Walter Hoye, è stato condannato a un mese di carcere per aver proposto opportunità alternative all'aborto ad alcune donne fuori da una clinica a Berkeley, nello Stato della California.
Walter Hoye è stato infatti ritenuto colpevole, lo scorso gennaio, di aver violato un'ordinanza di Oakland che vieta ai manifestanti di avvicinarsi, senza il loro consenso, a donne o al personale medico al di fuori delle cliniche in cui si pratica l'aborto. Il divieto vale entro una distanza di circa venticinque metri dalla struttura.
Il pastore battista è stato condannato dal giudice Stuart Hing della Corte superiore della Contea di Alameda a tre anni di libertà vigilata e a trenta giorni di carcere. La corte statunitense ha tuttavia permesso a Hoye di scontare la pena presso i servizi sociali. Il giudice ha anche comminato una multa di oltre mille dollari e ha, naturalmente, imposto al pastore battista di stare lontano dalla clinica di Oakland.
In sede dibattimentale, durante il processo, Hoye aveva rifiutato la libertà vigilata e la stessa diffida a stare lontano dalla clinica. Secondo la pena prevista dall'ordinanza di Oakland, il pastore avrebbe potuto trascorrere fino a due anni in prigione e pagare fino a duemila dollari di multa.
Hoye è la prima persona che viene arrestata per la violazione di questa ordinanza. I suoi sostenitori ritengono che l'ordinanza sia incostituzionale poiché limita i diritti della libertà di parola. Decine di membri delle comunità afroamericane hanno atteso la sentenza facendo sentire attivamente il loro supporto al pastore battista. Numerosi responsabili delle associazioni pro-vita afroamericane erano arrivati da altri Stati per stare vicino a Hoye che sensibilizza - attraverso la sua "Issues4Life Foundation" - su come l'aborto colpisce in maniera sproporzionata le donne di colore.
Allison Aranda, avvocato della Fondazione a difesa della vita che ha assistito Hoye, ha detto che farà ricorso. "È assolutamente incredibile che in America - ha precisato il legale - un individuo possa essere condannato per aver manifestato pacificamente in un pubblico marciapiede".
Hoye è stato arrestato nel maggio dello scorso anno. Numerose testimonianze confermano che l'uomo si limitava a distribuire opuscoli sulle alternative all'aborto mentre reggeva un cartellone con la scritta: "Gesù ama te e il tuo bambino. Permettici di aiutarti". Inoltre, il pastore battista alle donne che entravano nella clinica chiedeva: "Posso parlarti per un solo minuto delle alternative sull'aborto?".
Gli avvocati della "Issues4Life Foundation" rappresentano Walter Hoye anche in una causa relativa alla costituzionalità della stessa ordinanza di Oakland.
(©L'Osservatore Romano - 23-24 febbario 2009)


L’ANNO PROSSIMO, AL FESTIVAL, FATECI VEDERE UGOLE NORMALI - Gli italiani non cantano più Mancano gioia e fraternità - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 24 febbraio 2009
V a bene: ora che Sanremo, le paillettes, le polemiche, i vip e i mezzi vip, le strane vittorie e le strane sconfitte, insomma, ora che tutto il barcone si allontana tra abbracci e 'siam forti' verso il mare dell’oblio lasciando nell’aria i motivi di alcune belle canzoni o anche di canzoni bruttine, resta sospesa una domanda. Anzi, la domanda. Ma gli italiani cantano ancora? Abbiamo visto che cantanti professionisti bravi ce ne sono, vecchi e nuovi, che il business passato da discografico e televisivo gira ancora, insomma la 'canzone italiana' di cui al Festival si celebrano riti e miserie è ancora viva. Ma ci risulta che gli italiani cantino ancora? A volte, per strada, capita di sentire un’auto di ragazzi schizzare debordando musica e voci (più schiamazzi che canti).
Altre volte, a un semaforo, puoi vedere che la donna di fianco canticchia nell’acquario muto dell’abitacolo, probabilmente sulle note che vengono dalla radio o da un cd. Oppure, se passi vicino a un asilo o a una parrocchia o a una sala di incontri, qualche canto ti arriva. Nelle kermesse di partito alla fine mettono il disco e via. Ok, l’inno nazionale, sì quello ormai si canta, più o meno a proposito, e azzeccando o meno le parole giuste (e bruttone). Ma gli italiani non cantano quasi più, a me pare. Né quando lavorano, né quando devono fare la corte a una donna, né quando sono con i figli, né quando si ritrovano tra amici. Forse resiste su qualche pullman in gita il 'rito' della cantata che, come immortalò Jannacci, si trasforma presto in un incubo. E anche in qualche chiesa, diciamocelo, quando durante la Messa si intonano certi vocalizzi micidiali, viene da invocare il silenzio, e ci si affida alla grande misericordia di Dio che, oltre ai peccatacci nostri, deve pure sorbirsi tali cantate. A dire il vero di musica e canzoni ce n’è un sacco in giro. Ma vengono da milioni di radio, di apparecchi, mini sempre più mini, infilabili ovunque, invasivi, o da video sempre più disseminati e onnipresenti. Voci umane italiane che sia bello sentire, per così dire, 'live' poche. Si prova quasi piacere, pur misto a una stretta di pena, quando qualche musico che viene da chissà dove a raccattare spiccioli e pane per metrò o piazze intona qualcosa di nostro o di lontano. Se gli italiani non cantano, si badi, non è perché c’è la crisi. Cantavano poco anche prima. E alcune delle più belle canzoni italiane popolari sono proprio canzoni nate nella durezza del lavoro o della guerra. Se non si canta più, come già notava Pasolini decenni fa, è perché mancano la gioia e la fraternità. Sono queste le molle del cantare. La gioia, anche quella dura, che ti fa cantare per un amore che è lontano e non puoi vedere, però c’è, e non si capisce dove finisce la pena e inizia la gioia. E la fraternità è quella che ti fa mettere in comune con l’amico, ma anche con l’estraneo, le parole per vivere.
Un poeta francese, J. Lemaire, ha scritto che c’è una musica nel mondo, ma se non canti, non la senti. È vero, credo che tutti vogliamo sentire la musica, il ritmo profondo della vita, però invece che cantare la si cerca in mille ripetitori. Se non si canta davanti alla donna, o alle visioni nel bicchiere di vino, o nel lavoro, o nemmeno davanti al cielo bellissimo e fuggente d’Italia, o a Dio, possiamo pure divertirci a vedere le canzoni del Festival, ma non ne viene quel che manca, né gioia vera né fraternità. Per imparare di nuovo a cantare bisogna stare con chi canta. Per questo lancio un’idea (per tempo, per primo): se davvero vuol essere il Festival della canzone italiana, il prossimo anno, con collegamenti, teleservizi o con quel che vi pare, andate in giro a cercare italiani che cantino per strada, all’osteria, in ufficio, in auto, sui monti, all’altare, sotto la finestra.
Da soli o in compagnia. Fateceli sentire, per favore, sono sicuro che qualcuno ancora c’è. Perché dopo che finiscono i festival di qualche giorno c’è bisogno di un motivo per cantare tutti i giorni.


L’ANGELUS, DOPO LA SETTIMANA DI AMARE POLEMICHE - In quel «pregate per me» tutta la forza di Pietro - MARINA CORRADI – Avvenire, 24 febbraio 2009
D alla finestra sul sagrato di San Pietro, alla folla dei pellegrini della domenica Benedetto XVI ha chiesto di pregare per lui: «Perché possa compiere fedelmente l’alto compito che la Provvidenza mi ha affidato quale successore dell’apostolo Pietro». Pregate per me, ha detto il Papa, e la sua domanda ha fatto il giro del mondo e delle redazioni dei giornali. Che il Papa abbia paura?, si è chiesto qualcuno.
Dopo settimane aspre di polemiche, per lo più dall’estero, giunte fino a Roma, equivoci e contestazioni – in qualche caso un po’ vili – che hanno riempito le prime pagine, che il Papa sia stanco, e vacilli sotto al gran peso della cattedra di Pietro? Se anche davvero così fosse, non sarebbe uno scandalo. L’onere poderoso di guidare la Chiesa, e quell’oltre un miliardo di cristiani in tutti i continenti e le latitudini, universo su cui non tramonta mai il sole; e l’urgenza, che tanto Benedetto XVI ha fatto sua, di annunciare che la speranza cristiana non è storia di un evo lontano, ma è affidabile, qui, oggi e ora; e le persecuzioni aperte ma anche, in Occidente, quel nichilismo che rode, cercando di confondere e cancellare un’antica memoria: davvero enorme è il peso sulle spalle del Papa. E non ci meraviglia quella domanda, «pregate per me», ai fedeli della domenica, quando il sagrato è colmo di facce amiche, venute spesso da molto lontano. Forse da quella finestra anche al Papa viene il desiderio di guardare qualcuno negli occhi, laggiù nella folla, quello e non un altro, lontano eppure vicino, domandando a uno sconosciuto: prega per me. Per il mondo, certo, una domanda simile è strana: non chiedono preghiere i potenti, i leader, le star dai palchi e i maîtres à penser dalle loro cattedre di carta. Non chiedono intanto perché non ci sono abituati; dovendo poi proprio farlo, chiederebbero qualcosa di più utile che preghiere – agli occhi del mondo pie parole vane, inutile esercizio dei deboli. E dunque quella domanda umile da san Pietro commuove, prima di tutto come segno di una radicale diversità di sguardo e di cuore.
In un tempo che afferma l’individuo come padrone assoluto di sé e della sua vita – a volte, anche di quella degli altri – il Papa ricorda la radice dei cristiani, che è essere creature, dunque figli, e quindi ontologicamente legati a ogni altro uomo.
Pregare dunque è il riconoscimento di un non farsi da soli, e invece dipendere: da un Altro, dagli altri - come dalla vite i tralci. Ma è anche, quella domanda in san Pietro, leggibile nell’eco di altre parole dette poche ore prima al Seminario maggiore romano: quando Benedetto XVI ha citato la comunità dei Gàlati per dire che oggi come allora anche dentro la Chiesa la fede può degenerare in intellettualismo, e l’umiltà nell’arroganza di chi si sente migliore. È un rischio vecchio come la storia, ma più evidente ora che ogni parola viene amplificata e infinitamente ripetuta da mille potenti casse di risonanza. L’orgoglio di pronunciare una frase che nel rimando dei media acquista peso e autorevolezza potrebbe coinvolgere anche la Chiesa nel gioco infinito dei relativismi e delle personali 'verità'. Ma, ha ricordato Benedetto XVI all’Angelus, integro rimane 'il primato della cattedra di Pietro, che presiede alla comunione universale della carità'. Il giogo, dunque, è sulle spalle di uno. Non è una democrazia la Chiesa, è tutt’altro, corpo di Cristo e sua eredità. A guidarla un uomo, di cui puoi ben immaginare la profondità della solitudine – nelle sere in cui lo spazio immenso del Colonnato è vuoto, e accese solo le luci di due finestre, negli appartamenti del Papa. Un Papa che domanda: che siamo un cuore solo e un’anima sola. Che chiede: pregate per me – e il mondo, che parla un’altra lingua, si stupisce. Ma nei conventi e nelle missioni fra gli ultimi, nelle clausure e nelle parrocchie più lontane hanno ascoltato, domenica dalla radio, quell’appello. Pregano, i cristiani, per il Papa; tenaci, fedeli, senza fare rumore.


«Il suicidio non diventi mai un diritto» - dibattito - Roccella: Eluana è morta con tortura di Stato, grazie a una sentenza. Englaro: libertà di cura fino alle estreme conseguenze – Avvenire, 24 febbraio 2009
DA ROMA
« N on possiamo dar vita a una legge sul testamento biologico che sancisca il dirit­to di suicidarsi » . Lo ha soste­nuto, parlando ai microfoni di Radio24, il sotosegretario al Welfare Eugenia Roccella, re­plicando a distanza a Beppino Englaro, ospite della stessa tra­smissione radiofonica. Engla­ro ha attaccato a fondo la pro­posta di testamento biologico della maggioranza e del gover­no: « Mi chiedo se chi sta fa­cendo la legge si rende conto della scientificità di quello che sta legiferando». E, ribadendo che non ha alcuna intenzione di entrare in politica, si è e­spresso a favore della «libertà di cura e di terapia fino alle con­seguenze più estreme». Non si tratta di eutanasia, ha tenuto a precisare, « ma ogni cittadino deve essere libero di chiedere la libertà di cura e se anche io fossi l’unico a pensarla in que­sto modo, credo di avere co­munque il diritto di farlo » . E, dunque, no ai limiti sull’idra­tazione e la nutrizione: «Deve escludersi che il diritto all’au­todeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché consegua un sacrificio del bene vita. O andiamo ver­so la costituzionalità delle leg- gi o verso l’imposizione coatti­va dello Stato etico».
La replica di Eugenia Roccella non si è fatta attendere: «Se di­ventasse diritto di legge la fa­coltà di suicidarsi, non po­tremmo più bloccare chi vuo­le suicidarsi e la società cam­bierebbe volto. Possiamo fare qualunque cosa del nostro cor­po, anche praticare l’autole­sionismo – ha spiegato – ma certo non possiamo chiedere il diritto di farlo». Sul caso Elua­na, la Roccella ha ribadito che « non c’era alcuna volontà e­splicita » espressa dalla giova­ne. E ha attaccato la gestione della vicenda: «Non parlo del­la volontà del padre – ha preci­sato il sottosegretario – ma del protocollo applicato in quel ca­so, in condizioni di confine tra legalità e illegalità, costituen­do una sorta di isola extrater­ritoriale nel sistema sanitario nazionale, con la copertura de­gli enti locali e con l’accordo della Procura » . Roccella ha spiegato che « il ministero in quel caso non poteva fare nul­la di più: ha mandato gli ispet­tori, che hanno consegnato i rapporti in cui si rilevavano tut­ti i profili di irregolarità a Pro­cura ed enti locali, che sareb­bero potuti intervenire». Il sot­tosegretario ha aggiunto: «Quando penso a questa mor­te solitaria di disidratazione e denutrizione mi a me sembra ai confini con la tortura di Sta­to.
Perché questa tortura, que­sto protocollo è stato applica­to grazie alla sentenza » . Non sono mancate critiche alla ma­gistratura: dietro quelle sen­tenze «Dietro le sentenze c’è u­na linea interpretativa molto precisa, non voglio dire un di­segno, che conduce da qualche parte. Io non vorrei affidare la mia vita a un giudice, preferi­sco affidarla a una legge che metta dei paletti e mi dia assi­curazioni ». Come in quel caso, ha citato, di un uomo francese «malato di Alzheimer che si di­menticava di mangiare e bere ed è stato ritenuto una perso­na che aveva deciso di morire. Così è stato lasciato morire in una struttura pubblica».
Eugenia Roccella