domenica 15 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 15/02/2009 12:05 – VATICANO - Papa: confessare i nostri peccati ci riporta alla comunione col Padre - All’Angelus, Benedetto XVI ricorda l’episodio evangelico del lebbroso sanato per riicordare che sono i peccati e non il male fisico che allontanano da Dio. Gesù “nella sua passione, diventerà come un lebbroso, reso impuro dai nostri peccati, separato da Dio: tutto questo farà per amore, al fine di ottenerci la riconciliazione, il perdono e la salvezza”.
2) Cardinale Bagnasco: una fede che non si fa storia diventa astrazione - Nel presiedere la Santa Messa nella Cattedrale di Napoli - di Mirko Testa
3) Autopsia di Eluana: l’ha uccisa la lebbra - Domenica 15 febbraio 2009, VI Domenica del Tempo Ordinario / B - di padre Angelo del Favero*
4) L'uomo che toccò la Luna dopo Armstrong - Il coraggio di arrivare secondi - di Sabino Caronia – L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2009
5) L'intervento del nunzio apostolico Pedro López Quintana - Il dramma dei rifugiati cristiani alla plenaria dei vescovi in India – L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2009
6) DAI CONDUTTORI RISPETTO PER LE CULTURE DIVERSE - Una Rai che non sia rullo compressore sul Paese - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 15 febbraio 2009
7) S. E. Carlo Card. Caffarra - COMUNICATO STAMPA - A proposito del tragico epilogo della vicenda di Eluana Englaro, il Cardinale Arcivescovo di Bologna si rivolge ai suoi fedeli con questa riflessione che sarà pubblicata domani sul settimanale diocesano Avvenire-Bologna Sette


15/02/2009 12:05 – VATICANO - Papa: confessare i nostri peccati ci riporta alla comunione col Padre - All’Angelus, Benedetto XVI ricorda l’episodio evangelico del lebbroso sanato per riicordare che sono i peccati e non il male fisico che allontanano da Dio. Gesù “nella sua passione, diventerà come un lebbroso, reso impuro dai nostri peccati, separato da Dio: tutto questo farà per amore, al fine di ottenerci la riconciliazione, il perdono e la salvezza”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Se non vengono confessati i peccati arrivano a produrre la morte dell’anima e ci allontanano da Dio, che è pronto a purificarci e “restituirci alla comunione”. L’episodio evangelico del lebbroso guarito da Gesù è stato rammentato oggi da Benedetto XVI per tornare a raccomandare ai fedeli la pratica della confessione sacramentale.
Alle 20mila persone presenti in piazza San Pietro per la recita dell’Angelus, in una giornata limpida, ma fredda, il Papa ha spiegato il singificato anche storico della frase pronunciata da Gesù al malato: “Sii purificato”.
“Secondo l’antica legge ebraica (cfr Lv 13-14), la lebbra era considerata non solo una malattia, ma la più grave forma di “impurità”. Spettava ai sacerdoti diagnosticarla e dichiarare immondo il malato, il quale doveva essere allontanato dalla comunità e stare fuori dall’abitato, fino all’eventuale e ben certificata guarigione. La lebbra perciò costituiva una sorta di morte religiosa e civile, e la sua guarigione una specie di risurrezione. Nella lebbra è possibile intravedere un simbolo del peccato, che è la vera impurità del cuore, capace di allontanarci da Dio. Non è in effetti la malattia fisica della lebbra, come prevedevano le vecchie norme, a separarci da Lui, ma la colpa, il male spirituale e morale”.
“I peccati che commettiamo – ha detto poi - ci allontanano da Dio, e, se non vengono confessati umilmente confidando nella misericordia divina, giungono sino a produrre la morte dell’anima. Questo miracolo riveste allora una forte valenza simbolica. Gesù, come aveva profetizzato Isaia, è il Servo del Signore che “si è caricato delle nostre sofferenze, / si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4). Nella sua passione, diventerà come un lebbroso, reso impuro dai nostri peccati, separato da Dio: tutto questo farà per amore, al fine di ottenerci la riconciliazione, il perdono e la salvezza. Nel Sacramento della Penitenza Cristo crocifisso e risorto, mediante i suoi ministri, ci purifica con la sua misericordia infinita, ci restituisce alla comunione con il Padre celeste e con i fratelli, ci fa dono del suo amore, della sua gioia e della sua pace”.


Cardinale Bagnasco: una fede che non si fa storia diventa astrazione - Nel presiedere la Santa Messa nella Cattedrale di Napoli - di Mirko Testa
NAPOLI, venerdì, 13 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Il Vangelo può plasmare ed essere fermento di una cultura, ma se finisce con l'identificarsi con essa senza incidere fattivamente, rimane una pura astrazione.
E' quanto ha detto questo venerdì il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, nel presiedere una celebrazione eucaristica nella Cattedrale di Napoli in apertura della seconda giornata di lavori del Convegno
Nell'omelia il porporato ha elogiato la presenza puntuale e capillare sul territorio delle comunità ecclesiali, che si pongono come “un grande ricamo”, che “fa sentire l'amore di Dio e la maternità della Chiesa” e “che fa percepire la Chiesa come Chiesa di popolo e punto di riferimento che ama la gente perché ne condivide la vita sul campo”.
“Il cristianesimo – ha detto – non è una religione civile, ma la ricaduta pubblica del Vangelo è inevitabile perché la fede riguarda la persona nella sua interezza, e la coscienza cristiana non può essere messa tra parentesi mai quando sono in gioco i valori portanti della persona, della famiglia, della vita, dell'educazione”.
“Per questo il Vangelo è sorgente di cultura nei millenni, pur senza identificarsi ed esaurirsi in una sola cultura”.
“Il Vangelo è sorgente di una cultura rinnovata, di un modo di sentire e di concepire la sacralità della vita, la dignità di ogni persona, la bellezza del vivere insieme nell'armonia e nella pace, nella operosità che nasce dal mettere a frutto i talenti di intelligenza e di cuore che il Signore ha dato a ciascuno per il bene di tutti”, ha continuato.
Tuttavia, ha avvertito, “se la fede diventa cultura e non ispira la storia resta un'astrazione: è come dire che Dio non c'entra con la vita dell'uomo!”.
“Ma il Verbo di Dio si è fatto carne, ha posto la sua dimora tra noi, proprio per dirci che si è messo dalla nostra parte per sempre”, ha spiegato.
“Per questo non dobbiamo temere, non possiamo indulgere al pessimismo e al disfattismo”, ha affermato il Cardinale Bagnasco.
“Da una evangelizzazione più incisiva scaturisce una cultura capace di aderire alla realtà con i suoi problemi e le sue sfide.”
“Non esiste fatalità sociale – ha spiegato –. E' un problema di uomini e di cultura”.
“Su questo fronte la Chiesa – ha quindi aggiunto –, forte solo del Vangelo, ha qualcosa di importante da dire e da offrire al mondo, perché in Cristo Gesù l'uomo, mentre scopre il vero volto di Dio, scopre anche se stesso”.
E “sapere se stesso”, ha concluso, “è la premessa di una cultura capace di trasformare la società. E' questa la sfida che ci attende come Chiesa, una sfida grande ma esaltante”.


Autopsia di Eluana: l’ha uccisa la lebbra - Domenica 15 febbraio 2009, VI Domenica del Tempo Ordinario / B - di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 13 febbraio 2009 (ZENIT.org).- “Venne da lui un lebbroso che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato” (Mc 1,40-42).

La Parola del Vangelo è sempre attuale, incarnata nella vita concreta come l’acqua e il lievito nella farina, amalgamati per diventare pane. Essa è reale nutrimento per la persona, poiché, se viene accolta, infonde lo Spirito stesso di Gesù, la forza e la gioia della Sua Presenza in ogni circostanza, sia che si tratti di fatti personali chiusi nel segreto, sia di quelli di rilevanza sociale.
Anche in questa VI Domenica del Tempo Ordinario, la Parola di Dio illumina, interpreta e giudica la vicenda di Eluana, “segno di contraddizione” (Lc 2,34) per tutti e per ognuno, il cui significato ancor meglio si comprende adesso che le è stata tolta la vita. E il significato è questo: negli imperscrutabili disegni di Dio, tutto è accaduto “perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35).
Come l’autopsia serve ad accertare le cause organiche della morte di una persona, così l’evento della morte di Eluana ne ha svelato la causa prima di ordine morale e spirituale: un’autopsia compiuta da lei su quelli che, materialmente per azione diretta, o moralmente per approvazione, le hanno tolto il sondino.
L’autopsia si fa con il bisturi, per scoprire la verità clinica.
Il bisturi della “Verità” è la Parola di Dio: “viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
In questa VI Domenica il bisturi ha un nome: Eluana.
Il Vangelo racconta la guarigione di un lebbroso e viene preparato dalla prima lettura che parla dei criteri diagnostici di questa malattia secondo l’Antico Testamento, con una serie di norme che hanno soprattutto lo scopo di difendere la comunità dal contagio, isolando totalmente il malato: “Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto.., se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lv 13,45-46).
La lebbra, assieme ad altre affezioni della pelle, era considerata impurità contagiosa per se stessa (come inchiostro che macchia), incompatibile con la partecipazione al culto nel tempio e in sinagoga, allo stesso modo in cui un telo sterile in sala operatoria non può essere toccato da mano scoperta, altrimenti è inutilizzabile e si getta via. “Tuttavia si trattava di una questione religiosa, non medica. Le malattie della pelle, in cui appariva un disfacimento, venivano associate al disfacimento del cadavere. La “lebbra” era percepita come una minaccia all’integrità fisica dell’uomo e tutto ciò che corrompe o è corrotto, non può essere considerato puro. “Puro” è ciò che appartiene alla sfera di Dio e del sacro, “impuro” è ciò che vi si oppone e rende inadatti alla comunione con la divinità. La lebbra escludeva dalla comunità ed era perciò considerata segno di un castigo divino su un gravissimo peccato del soggetto colpito. Nei casi di lebbra dichiarata, la situazione del malato diventava drammatica: attraverso il suo abbigliamento che è quello del lutto (capo scoperto e vesti stracciate), attraverso la segnalazione pubblica della sua impurità, il lebbroso testimoniava la sua tragedia di escluso dalla società e dal culto” (G. Ravasi, in Nuova guida alla Bibbia, p. 104-105).
Eluana si trovava in una comunità religiosa di sorelle che avevano stabilito con lei una relazione di amicizia profonda, fatta di rassicurante presenza, di intensa comunicazione mediante lo sguardo, il volto sorridente, la tenerezza della parola e della mano. Ella poteva sentire questi messaggi d’amore, poiché i suoi sensi, corporali e spirituali, come attraverso un “sondino” li facevano giungere nel sacrario segreto del suo spirito immortale, vivo e vigile anche nel coma del corpo. Strumenti tecnici o dati di laboratorio non potevano cogliere i segnali vitali dell’anima di Eluana, ma le suore che l’hanno circondata per tanti anni li avvertivano con certezza, grazie all’amore.
Come un bambino strappato dal seno di sua madre, improvvisamente Eluana è stata separata dall’amore della “sua” comunità religiosa e relegata in uno spaventoso isolamento, per essere sottoposta ad un protocollo di morte che certo lei non voleva: può forse un bambino desiderare di morire?
Sì, Eluana da 17 anni viveva come una bambina, in tutto dipendente, in tutto serena perché affidata alle mani di persone che le volevano bene per se stessa, come si ama un figlio.
Perché è stata portata via?
Perché Eluana è un caso di lebbra, non lei ovviamente, ma gli altri.
E’ una diagnosi uscita dalla bocca di Benedetto XVI, all’Angelus del 14/ottobre/2008, commentando il Vangelo domenicale che presentava Gesù che guarisce dieci lebbrosi: “In verità, la lebbra che realmente deturpa l’uomo e la società è il peccato; sono l’orgoglio e l’egoismo che generano nell’animo umano indifferenza, odio e violenza. Questa lebbra dello spirito, che sfigura il volto dell’umanità, nessuno può guarirla se non Dio, che è Amore. Aprendo il cuore a Dio, la persona che si converte viene sanata interiormente dal male”.
Questa è la verità che scaturisce dall’autopsia operata dalla Parola di Dio su coloro che hanno causato direttamente la sua morte e su coloro che, potendolo fare, non l’hanno impedita..:”Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere” (Mt 25,42). Potranno essi rispondere: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato e non ti abbiamo servito?” (Mt 25,44). Mistero della coscienza che solo Dio può scrutare. Forse, oggi, risponderebbero: “ma se non lo abbiamo fatto, non lo abbiamo fatto per Te!”.
Proprio così: la coscienza di molti, divenuta sorda e insensibile al grido esistenziale di Eluana (è tipico dei malati di lebbra la perdita della sensibilità dolorifica periferica), ha ritenuto di farle del bene togliendole il bene fondamentale della vita. E a tal punto è giunto l’errore e l’autoinganno di coloro che si sono associati per assicurarle la morte, che si sono dati questo nome: “Per Eluana”.
“Per!”: come a convincere e a convincersi di un movente buono, favorevole alla sua vita. Si può stare davanti ad un corpo disfatto, coperto di piaghe da decubito e affermare che è perfettamente sano? Questa denominazione “Per Eluana” dice un ascesso, non un tessuto sano. Questo succede quando il cuore è diventato cieco, e non può vedere che “la vita dell’uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento” (Benedetto XVI, 11/2/2009, Discorso agli ammalati e agli operatori sanitari per la XVII Giornata mondiale del malato).
Non è solo insensato questo “per”, ma anche blasfemo, se solo facciamo memoria delle Parole di Gesù nell’ultima Cena, con le quali annuncia il dono della Sua vita per la nostra salvezza: “Questo è il mio corpo che è dato per voi;..questo è il mio sangue che è versato per voi” (Lc 22,19-20).
Coloro che hanno privato del vitale nutrimento il corpo di Eluana hanno mostrato uno stato di profonda denutrizione della propria coscienza, e il loro esempio rischia di comprometterne il retto giudizio anche in molti altri, come insegna Benedetto XVI: “Così la coscienza, che è un atto della ragione mirante alla verità delle cose, cessa di essere luce e diventa un semplice sfondo su cui la società dei media getta le immagini e gli impulsi più contraddittori” (Discorso alla Pontificia Accademia per la Vita, il 24/02/2007, in occasione del congresso su “La coscienza cristiana a sostegno del diritto alla vita”).
Ma siamo certi che Eluana non è morta invano, e dal Cielo ha già iniziato la sua missione sulla terra: quella di far comprendere la preziosità assoluta di ogni vita umana.
---------
* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.


L'uomo che toccò la Luna dopo Armstrong - Il coraggio di arrivare secondi - di Sabino Caronia – L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2009
Un libro veramente singolare questo primo romanzo di Johan Harstad, Che ne è stato di te, Buzz Aldrin? (Iperborea, 2008, euro 16,50), già fin dal titolo, che ne dichiara il tema di fondo: lo scomparire, lo sfuggire agli occhi del mondo. Il protagonista, Mattias, ha trascorso la sua vita avendo come proprio punto di riferimento, come modello da imitare, Buzz Aldrin, appunto, il secondo uomo che mise piede sulla luna in quella notte di luglio del 1969 nella quale lui stesso, Mattias, è nato. Significativa è la scelta del personaggio, una scelta quasi obbligata per Mattias che considera il suo vero eroismo quello di avere il coraggio di arrivare secondo - "Serve una forza di volontà immensa, e fortuna, e abilità per arrivare primi. Ma serve un cuore gigantesco per essere il numero due" - quello di chi, come Aldrin, aveva programmato in prima persona la discesa sulla luna, era in qualche modo colui che l'aveva resa possibile e, dopo l'impresa, accontentatosi di essere il secondo - tutto il mondo avrebbe parlato e ricordato solo Armstrong - era sparito dalla scena. Che fine ha fatto, dunque, Buzz Aldrin? In un mondo in cui sembra che l'unica cosa che conti sia mettersi in mostra e primeggiare, qui viene proposto un modello diverso, il mito dell'eroe, del campione che arriva secondo, come quell'Italo Zilioli che i meno giovani ricordano di aver amato per il semplice fatto di essere arrivato tante volte secondo al Giro d'Italia. Si pensi a Kafka, all'episodio che racconta Max Brod, in cui Franz, giungendo a casa dell'amico nel primo pomeriggio, sveglia il padre assopito su una poltrona e allora, alzando le braccia al cielo come per discolparsi e camminando in punta di piedi, ripete: "Scusi, mi consideri un sogno". Si pensi a Gadda che, ormai vecchio, dichiara al suo intervistatore: "Chi sono io per meritare un simile onore? Bacchelli, Montale, Palazzeschi, quelli sì che sono autori importanti. La mia opera è modesta, non vale la pena di occuparsene. Per favore, mi lasci nell'ombra". O ancora a Giuseppe Tomasi di Lampedusa che, in un confronto con la natia Sicilia, non poteva fare a meno di dichiarare la propria preferenza per l'Inghilterra a causa della tendenza di quella nazione all'understatement e del suo personale interesse, in comune con il popolo inglese, per l'under dog, per chi ha la peggio. Qui Mattias non fa che il giardiniere, gli piace stare in mezzo alle piante a "coltivare il proprio giardino" come il Candido di Voltaire, desidera essere solo una rotella nell'ingranaggio dell'universo: "Anch'io volevo essere utile. Ma non volevo essere d'intralcio. A quelli che volevano stare in prima fila (...) Anche loro ruote dell'ingranaggio. Né più né meno importanti, semplicemente più visibili. Solo che io non avevo nessun bisogno di farmi vedere, di sentirmi dire quanto ero bravo. Perché sapevo benissimo quando lo ero". È sempre Mattias che, in una lunga bellissima apostrofe rivolta al lettore, in cui è messo in evidenza il carattere del personaggio, dice parlando di sé: "quello di cui non riesci mai a ricordarti il nome quando tiri fuori le foto di classe dieci anni dopo (...) quello di cui eri stato compagno per quasi sei mesi prima di sapere come mi chiamassi, quello che non ti è mancato quando se ne è andato per continuare gli studi altrove". E conclude: "Ero la cosa peggiore che si possa immaginare. Ero normale. Ero quasi invisibile (...) E forse ero la persona più felice che tu potresti aver incontrato".
Quando la sua Helle, di punto in bianco, dopo dodici anni di convivenza, lo lascia, Mattias si fa convincere dagli amici ad andare alle isole Faroe per un concerto. Quegli amici che aveva fin dai tempi della scuola ma con cui, seguendo le sue regole, il legame non era mai stato troppo stretto: "Più amici metti insieme, più saranno i funerali a cui finirai per dover andare. Più persone da rimpiangere quando scompariranno. Quanto più ti esponi, tante più pietre potranno tirarti. Ma chi è solo delude solo se stesso".
Qui comincia la seconda parte del romanzo, la vicenda vera e propria.
Alle Faroe, in un paesaggio surreale e lunare che ricorda la luna di Ariosto Mattias recupererà se stesso vivendo in una casa-famiglia gestita da uno psichiatra, anche lui in fondo solo come gli altri, come gli altri problematico e insoddisfatto, ma che si è assunto la responsabilità di porsi come il punto di riferimento, valvola di sicurezza del suo gruppo. Viene fuori così l'altra tematica del romanzo, quella della responsabilità di Mattias quando si rende conto che dietro la sua atarassia, che avrebbe dovuto renderlo intangibile dal dolore, c'è sempre e c'è sempre stato un forte senso di angoscia.
Basta rileggere le considerazioni nate dall'osservazione di sé davanti allo specchio, in bagno, quando, da qualche piccolo cambiamento sul suo viso, pian piano si accorge del tempo che passa: "Non sei più quello che sei (...) Idem con quelli che ami. Che a una velocità quasi insensibile ti si sbriciolano tra le braccia, e tu vorresti poter afferrare qualcosa di durevole in loro, stringere lo scheletro, aggrapparti ai denti, alle cellule cerebrali, ma non puoi, perché è quasi tutta acqua a cui è vano pensare di tenersi stretti. Così ogni traccia svanisce, poco a poco. E più tardi svaniscono le tracce che si sono lasciati dietro, le case in cui hanno abitato, i disegni fatti per te, le parole che hanno scritto su foglietti perduti". Alla fine di questa sorta di percorso di formazione, quando Mattias sta iniziando una nuova vita, con nuovi amici, è significativa la sua riflessione a proposito di Sofus, un bambino che vive praticamente da solo con i genitori in quell'angolo delle Faroe, ormai quasi del tutto disabitato: "Devi ricordarti di essere gentile con lei, Sofus, devi ricordarti di andarla a trovare spesso come fai ora, interessarti alla sua vita anche fra dieci anni, non cominciare a nasconderti, perché se no la gente scompare, se no li perdi, uno a uno, e non tornano più". Ancora più esplicita la reazione alla tentazione di un ultimo sogno di fuga: "Ma non fu questo che accadde. Non fu quel che feci. Non questa volta. Per una volta non avrei tagliato la corda. Nemmeno a parlarne. D'ora in avanti mi sarei preso la responsabilità di quelli intorno a me". Dunque un romanzo singolare questo Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?, che non annoia e non delude mai, e nemmeno provoca angoscia, perché il racconto degli avvenimenti anche più tragici è fatto alla luce di una serena accettazione e speranza, un romanzo in cui la cosa forse più notevole è l'efficacia delle descrizioni, dense e ricche, quasi senza pause, in una sorta di flusso di coscienza, un procedimento semplice, non intellettualistico, dove a un'immagine se ne associa subito un'altra senza bisogno di punteggiatura.
(©L'Osservatore Romano - 15 febbraio 2009)


L'intervento del nunzio apostolico Pedro López Quintana - Il dramma dei rifugiati cristiani alla plenaria dei vescovi in India – L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2009
Mysore, 14. Sei mesi dopo l'inizio dell'ondata di violenze nell'Orissa indiano migliaia di cristiani continuano a vivere in condizioni disagiate nei campi per rifugiati, nell'impossibilità di fare ritorno nei loro villaggi; mentre sale anche la tensione per possibili nuovi attacchi da parte degli estremisti indù, in particolare in vista delle elezioni nazionali che si terranno a maggio. La persecuzione dei cristiani in India è al primo posto nell'agenda dei lavori della plenaria dei vescovi di rito latino, in corso di svolgimento nella diocesi di Mysore. Il nunzio apostolico, Pedro López Quintana, intervenendo all'assise ha esortato i cristiani "a non lasciarsi scoraggiare da quanto sta avvenendo, ma anzi a rafforzare la fede proprio attraverso le difficoltà". Il nunzio ha riconosciuto che la Chiesa locale "è provata da un periodo di sofferenza, persecuzione e confusione", ma ha invitato i presuli a "personalizzare la Parola di Dio, mediante una potente testimonianza". Monsignor López Quintana ha anche raccomandato di curare la formazione dei seminaristi e dei laici per rispondere con fede all'ondata di intolleranza religiosa. "Un'integrale formazione a tutti i livelli - ha sottolineato il nunzio - è la sola risposta che si può dare contro le violenze anticristiane". Il nunzio ha ricordato anche che "il Vangelo, sorgente di vita, dovrebbe ispirare i cristiani a vivere nella speranza in mezzo alle persecuzioni". Secondo quanto reso noto dalla Catholic Bishops' Conference of India - che cita quanto riferito da un funzionario del Governo in Orissa - i profughi, per la maggior parte concentrati nel distretto di Kandhamal, sarebbero circa 4.000. Di questi poi almeno 2.500 sarebbero stati trasferiti in alcuni campi di soccorso nelle vicinanze dei villaggi di origine; mentre i restanti si troverebbero ancora nei centri di accoglienza principali di Tikabali, Nuagaon e Raikia.
Inoltre, lo stesso funzionario ha detto che il Governo in Orissa si trova in difficoltà sul fronte della sicurezza in quanto gli agenti della polizia federale, ovvero quelli messi a disposizione dal governo centrale per garantire la protezione della comunità cristiana, sono passati da 6.000 a circa 3.000.
Il presidente dell'All Indian Christian Council, John Dayal, ha osservato che le cifre fornite dal Governo dell'Orissa sui rifugiati sono tutte da verificare: "Lo Stato in Orissa non tiene conto - ha spiegato - delle persone che si trovano nei campi di accoglienza non governativi, di quelle che sono ospitate nell'area di Srikakulam nello Stato confinante dell'Andhra Pradesh e delle migliaia di altri rifugiati che sono fuggiti in altre regioni".
Fra l'altro le elezioni di maggio potrebbero contribuire a infiammare nuovamente la situazione, spingendo i fondamentalisti a nuovi atti provocatori. A denunciarlo è il presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic) Sajan George: "Con le elezioni dietro l'angolo - ha evidenziato - la situazione si sta facendo ancora più tesa".
Tra i cristiani che versano in difficoltà, quelli che vivono nel distretto di Kandhamal - ha spiegato il presidente del Gcic - sono poi quelli più discriminati: molti infatti non hanno più neppure i documenti di identità che sono andati perduti o sono stati bruciati durante gli attacchi ai villaggi e, per questo, non possono neppure esercitare il diritto di voto durante le elezioni.
Ma non solo: un'altra conseguenza del pogrom è che i bambini e i giovani del distretto rischiano di perdere l'anno scolastico. Secondo le stime sarebbero migliaia gli alunni a trovarsi in questa condizione. Infatti, gli alunni cristiani non possono frequentare le lezioni e l'anno scolastico sta per terminare. "Molti giovani hanno raccontato - ha precisato il presidente del Gcic - che i loro certificati di iscrizione alle scuole o i diplomi sono stati strappati o bruciati dagli estremisti indù in preda alla loro cieca furia". "L'opera di educazione compiuta dai missionari con i dalit - ha aggiunto - è stata una delle più grandi cause dell'insofferenza e della gelosia dei fondamentalisti, che ora cercano di soffocare lo sviluppo dell'educazione dei nostri ragazzi nel Kandhamal".
(©L'Osservatore Romano - 15 febbraio 2009)


DAI CONDUTTORI RISPETTO PER LE CULTURE DIVERSE - Una Rai che non sia rullo compressore sul Paese - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 15 febbraio 2009
M i pare che nella settimana entrante dovrebbe esser nominato dalla preposta e travagliatissima Commissione parlamentare di Vigilanza il nuovo Consiglio di amministrazione Rai. Si tratta di posti ambiti, per prestigio e potere. Spero che i candidati che in queste ore si stanno dando da fare per essere scelti, abbiano più magone per la gravità dell’impegno che cupidigia per gli onori. La Rai, infatti, oltre ad essere un’azienda che come tutte le altre ha necessità di manager capaci e di ' cure' adeguate ai tempi, ha un ruolo chiave nel nostro Paese che pare navigare tra varie tempeste, a rischio di reale naufragio. Saranno seduti in posti esposti sul ponte di comando. Esposti, dunque, pure ai venti difficili di questo periodo. La forza di intervento, di indirizzo, di servizio che ha la Rai sulle opinioni, sul sentimento delle cose e sulla conoscenza dei fatti è imponente. In genere, le polemiche intorno ai programmi Rai nascono per risentimenti o per scorrettezze in campo politico. E allora quell’onorevole si infuria, il talaltro difende, e sembra che Viale Mazzini sia una succursale di tensioni e pasticci dei palazzi della politica. Non c’è da scandalizzarsene più di tanto. La politica necessita di una parte di teatralità e la Rai con i suoi vari conduttori e programmi presta il palcoscenico. Però è scandaloso se la politica si occupa tanto di se stessa e nel pensare alla Rai non si occupa della sua generale influenza sul Paese. Ci sono altre questioni magari meno appariscenti e che però devono interessare i nuovi consiglieri. Questioni sulle quali, a mio avviso, nuovi o vecchi consiglieri devono essere giudicati. Tre esempi. Nelle settimane scorse l’Italia si è vivacemente accesa intorno a una questione importantissima che riguarda il valore della vita, la morte ecc. Quanti cittadini, se interrogati oggi, sosterrebbero che hanno avuto dalla Rai un efficace servizio di informazione e di cultura intorno a tale faccenda? Al di là dei dibattiti spesso fumosi, o delle prese di posizione bloccate in sterili dialettiche, quale servizio di reale aiuto alla conoscenza delle questioni in gioco ha svolto l’editore pubblico? È stata sì presente la Rai, e salvo forse alcune eccellenti eccezioni, lo è stata forse in modo sentimentaloide e politicante, affidandosi spesso a giornalisti faziosi, non favorendo la conoscenza del dibattito scientifico e giuridico. Oppure, seconda questione. Siamo sicuri che la tanto deprecata e stupida violenza che vediamo con sgomento accendere i suoi occhi gialli nel viso di tanti ragazzi non abbia nessuna relazione con il modo superficiale, ' violento' e banalizzante con cui tante volte la tv tratta le persone? Ci sono programmi che con stupidità, con volgarità e suprema noncuranza della forza d’impatto che hanno, passano sopra alla dignità delle persone, ' maciullandole' davanti ai nostri occhi. Un uso così irresponsabile del mezzo televisivo nel presentare le persone, e persino cose delicate come l’amore, la giovinezza, il sesso, non hanno davvero nessuna relazione con la banalità del male che ci sorprende in tanti atteggiamenti che degenerano in violenza? E infine: il pluralismo culturale. Che viene prima del pluralismo politico. Perché la politica sulle questioni importanti della vita è spesso muta, o parla a sproposito, o ha voci omologate. Oggi chi non la pensa come ' la maggioranza' culturale ( o meglio: come la maggioranza degli opinion leader insediati in Rai) ha davvero diritto di parola?


S. E. Carlo Card. Caffarra - COMUNICATO STAMPA - A proposito del tragico epilogo della vicenda di Eluana Englaro, il Cardinale Arcivescovo di Bologna si rivolge ai suoi fedeli con questa riflessione che sarà pubblicata domani sul settimanale diocesano Avvenire-Bologna Sette
Cari fedeli,
sento il dovere di inviarvi alcune riflessioni che possano guidarvi in questi giorni, dopo la tragica fine di Eluana Englaro. È come se sentissi voi tutti rivolgermi la domanda del profeta: "Sentinella, quanto resta della notte? (Is 21,11)". Oso pensare e sperare che queste mie riflessioni raggiungano anche uomini e donne non credenti, e pensosi del destino del nostro popolo.
1. La prima cosa da fare è di chiamare cose ed avvenimenti col loro nome: fare chiarezza è la prima necessità nel percorso della vita.
È stata uccisa una persona umana innocente, e per giunta con l’autorizzazione di un tribunale umano. Risuonano tragicamente solenni le parole del servo di Dio Giovanni Paolo II: "Niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere per se stesso o per un altro affidato alle sue responsabilità questo gesto omicida, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo, né permetterlo" [Lett. Enc. Evangelium Vitae 57, 5].
Non è la prima volta nella storia che un tribunale dà questa autorizzazione. Ma le sentenze dei tribunali non cambiano la realtà. Né lasciamoci confondere dalle pur legittime discussioni sulla Costituzione, sulle competenze degli organi costituzionali, e da cose di questo genere. Prima che cittadini di uno Stato, siamo uomini e donne partecipi della stessa umanità. Prima della legge scritta sulle Carte costituzionali e nei Codici, c’è la legge scritta nel cuore umano. Essa insegna che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale; lo è anche quando la morte fosse causata da semplice omissione di un atto che invece avrebbe potuto tenerlo in vita .
2. Ma è accaduto anche un altro fatto sul quale vorrei che riflettessimo profondamente: è stato messo in essere il primo tentativo di delegittimare nella coscienza del nostro popolo la pietas e l’operosità della carità cristiana, di offuscarne la splendente bellezza.
Se infatti si afferma il principio che esistono uomini e donne la cui "qualità di vita" rende la loro esistenza indegna di essere vissuta, che senso ha stare loro vicini con l’amore che se ne prende cura, con la tenerezza che condivide la loro umanità devastata? Ci sono dei gesti che hanno una portata simbolica che va molto oltre a chi li compie, ed il cui significato obiettivo si insedia dentro al vissuto umano, devastandolo. Notte tragica quella in cui Eluana Englaro fu tolta alle Suore Misericordine! L’essere umano fragile è stato tolto alla carità cristiana per consegnarlo nella sua impotenza all’arbitrio della decisione di altri.
Ed allora le vere eroine in questa vicenda sono state loro, le Suore Misericordine. Sono le suore che nelle nostre Case della carità continuano ad affermare non colle parole, ma con la vita, l’unica vera libertà: la libertà di amare, la libertà di donare. E con loro vedo tutte le nostre religiose, e tutte le altre persone, famiglie ed aggregazioni dedite ai più diseredati: a chi "non ha più senso che viva".
3. Di fronte al mistero della sofferenza e del male, alla ragione che non sa rispondere alla domanda: "perché?", non resta che riconoscere umilmente che il mistero, senza negare la ragione, la trascende. Non c’è altra possibilità di salvezza per una ragione che non voglia dissolversi nell’assurdo.
Cari fedeli, a questo punto forse mi chiederete: ed allora che fare? A voi rispondo che c’è una cosa sola che ci salva dalla perdizione totale: radicarci in Cristo, vivendo un’intensa esperienza di fede nella Chiesa.
È da comunità di uomini e donne che in Cristo hanno trovato la perla preziosa che dà senso alla vita, che nasce quel nuovo modo di pensare e di vivere, di giudicare ed introdurci nella realtà che afferma il valore infinito di ogni persona umana. In una parola: solo una fede profondamente pensata e vissuta genera una cultura vera; solo una fede quotidianamente praticata potrà tenere viva nella nostra società quella grande tradizione umanistico–cristiana, la cui necessità è riconosciuta anche da non credenti.
È il grande impegno educativo: la rigenerazione di tutto l’umano in Cristo; è la via che la nostra Chiesa vuole percorrere.
A Maria affidiamo la causa dell’uomo: perché "in Lei si raccese l’amore"".
+Carlo Card. Caffarra
Arcivescovo