giovedì 26 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Messaggio della Madonna di Medjugorje del 25 febbraio 2009 - Cari figli, in questo tempo di rinuncia, preghiera e penitenza vi invito di nuovo: andate a confessare i vostri peccati affinché la grazia possa aprire i vostri cuori e permettete che essa vi cambi. Convertitevi, figlioli, apritevi a Dio e al suo piano per ognuno di voi. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
2) Benedetto XVI propone una Quaresima di conversione - Presiedendo il rito delle Ceneri
3) Il Cardinale Caffarra: le ceneri, segno di conversione - L'Arcivescovo di Bologna spiega come passare dall’iniquità alla pietà - di Antonio Gaspari
4) Quali ragioni per credere nella fede cattolica? - Corso intensivo di Apologetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” - di Alfonso Aguilar, L.C.
5) Respiro di sollievo di Cina e Usa: l’economia è più importante dei diritti umani - Per la Clinton i diritti umani non saranno più in primo piano. In cambio la Cina ha deciso di continuare ad acquistare buoni del tesoro Usa per sostenere l’economia di Washington…
6) Eugenetica: uno spettro che si aggira per l'Europa - Autore: Negri, Mons. Luigi Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it - mercoledì 25 febbraio 2009
7) La sedazione palliativa nei malati terminali - Far dormire - non è far morire - di Ferdinando Cancelli – L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009
8) Riflessioni sulla «Dignitas personae» - Per non riportare indietro le lancette della storia - di Rino Fisichella - Arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita – L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009
9) Quale futuro per i Balcani? - Roberto Fontolan - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
10) MEDIOEVO/ Identità e appartenenza, gli ingredienti di una civiltà viva - Guido Cariboni - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
11) Gran Bretagna - E per i malati mentali «cure minime» - di Carlo Bellieni – Avvenire, 26 febbraio 2009 - Rapporto choc dell’associazione per i diritti dei disabili: i medici che curano pazienti handicappati sono troppo spesso disattenti, superficiali e fatalisti. «È discriminazione»


Benedetto XVI propone una Quaresima di conversione - Presiedendo il rito delle Ceneri
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 25 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Presiedendo la Stazione quaresimale nella Basilica di Santa Sabina all'Aventino, in occasione del Mercoledì delle Ceneri, Benedetto XVI ha lanciato un sentito appello alla conversione.
Per raggiungere questo obiettivo, il Papa ha proposto di vivere i quaranta giorni che preparano ala passione, morte e risurrezione di Cristo nel permanente ascolto della Parola di Dio.
Il rito è iniziato alle 16.30 nella chiesa di Sant’Anselmo all’Aventino, a Roma, con un momento di preghiera, seguito dalla processione penitenziale verso la Basilica di Santa Sabina.
Alla processione hanno presso parte Cardinali, Arcivescovi, Vescovi, i monaci benedettini di Sant’Anselmo, i padri domenicani di Santa Sabina e i fedeli.
Al termine della processione, nella Basilica di Santa Sabina, il Pontefice ha presieduto la celebrazione eucaristica, nella quale ha ricevuto l'imposizione delle Ceneri.
Durante l'omelia, ha esortato i presenti a “ricevere le ceneri sul capo in segno di conversione e di penitenza”, aprendo “il cuore all’azione vivificante della Parola di Dio”.
“La Quaresima, contrassegnata da un più frequente ascolto di questa Parola, da più intensa preghiera, da uno stile di vita austero e penitenziale, sia stimolo alla conversione e all’amore sincero verso i fratelli, specialmente quelli più poveri e bisognosi”, ha auspicato.
Ma “come essere vittoriosi nella lotta tra la carne e lo spirito, tra il bene e il male, lotta che segna la nostra esistenza?”, si è chiesto il Santo Padre.
Facendo esercizio di ascolto della Parola di Dio, ha citato proprio il brano evangelico della liturgia del Mercoledì delle Ceneri, che indica tre utili mezzi: “la preghiera, l’elemosina e il digiuno”.
L’uso di celebrare in Quaresima la Messa “stazionale” risale ai secoli VII-VIII, quando il Papa celebrava l’Eucaristia assistito da tutti i preti delle Chiese di Roma, in una delle 43 Basiliche stazionali della Città.

Dopo una preghiera iniziale si snodava la Processione da una Chiesa ad un’altra al canto delle Litanie dei Santi, che si concludeva con la celebrazione dell’Eucaristia.

Alla fine della Messa i preti prendevano il pane eucaristico (fermentum) e lo portavano ai fedeli che non avevano potuto partecipare, ad indicare la comunione e l’unità fra tutti i membri della Chiesa.

L’imposizione delle ceneri era un rito riservato dapprima ai penitenti pubblici, che avevano chiesto di venir riconciliati durante la Quaresima. Tuttavia, per umiltà e riconoscendosi sempre bisognosi di riconciliazione, il Papa, il clero e poi tutti i fedeli vollero successivamente associarsi a quel rito ricevendo anch’essi le ceneri.

La Stazione Quaresimale indica la dimensione pellegrinante del popolo di Dio che, in preparazione alla Settimana Santa, intensifica il deserto quaresimale e sperimenta la lontananza dalla “Gerusalemme” verso la quale si dirigerà la Domenica delle Palme, perché il Signore possa completare – nella Pasqua – la sua missione terrena e realizzare il disegno del Padre.


Il Cardinale Caffarra: le ceneri, segno di conversione - L'Arcivescovo di Bologna spiega come passare dall’iniquità alla pietà - di Antonio Gaspari
BOLOGNA, mercoledì, 25 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Nell’omelia della Messa celebrata questo mercoledì nella cattedrale di Bologna, il Cardinale Carlo Caffarra ha spiegato come “le ceneri” possono segnare la conversione dal peccato alla grazia.
L’Arcivescovo di Bologna ha detto che il rito delle Ceneri ci ricorda “il nostro essere polvere” e ci fa riflettere sulla morte che “non è solo biologica ma separazione definitiva dalla vita”.
Secondo il porporato, “il rito delle ceneri ci riporta alla realtà originaria del peccato” ricordandoci il mistero delle nostre origini - “sei polvere” -, ed in particolare la nostra condizione, perché “la creatura senza il Creatore svanisce … Anzi l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa”.
Nello stesso tempo – ha illustrato l’Arcivescovo – la Chiesa vuol ricordare il sacrificio di Cristo che ci ha salvati dal peccato “perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio”.
In questo modo, ha aggiunto, “Cristo è passato dal ‘mistero di iniquità’ che abbonda in noi e nel mondo, al ‘mistero di pietà’ che sovrabbonda in noi e nel mondo”.
“E così – ha sottolineato il Cardinale Caffarra – nel giorno in cui la santa Chiesa ci invita ad iniziare un cammino di vera conversione, intende manifestare davanti al mondo e soprattutto nella profondità di ogni coscienza umana, che il peccato, il male non è una fatalità invincibile, ma è vinto mediante il sacrificio di Cristo sulla Croce”.
L’Arcivescovo di Bologna ha fatto riferimento all’apostolo Paolo, per spiegare “il valore del sacrificio di Gesù” che “ha portato Cristo a condividere, benché assolutamente innocente, la nostra condizione di peccato perché noi potessimo condividere la giustizia di Dio”.
Per il Cardinale Caffarra la Chiesa annuncia pubblicamente la connessione tra il ‘mistero di iniquità’ ed il ‘mistero della pietà’, “connessione che è stata costituita nel sacrificio di Cristo: trattato da peccato (ecco il ‘mistero di iniquità’), in nostro favore (ecco il ‘mistero della pietà’)”.
In questo contesto, il porporato ha sottolineato che “nel sacrificio di Cristo è posta la possibilità di una nuova umanità, della rigenerazione della nostra persona. Nel vocabolario cristiano si chiama ‘conversione’. Oggi noi iniziamo un cammino di vera conversione”.
L’Arcivescovo di Bologna ha concluso l’omelia appellandosi ai fedeli affinché in queste settimane di Quaresima possiamo “uscire da noi stessi, dalla falsità cioè del nostro modo di essere, per entrare nel mistero redentivo di Cristo, che la Chiesa rende attuale nella sua Liturgia: entrarvi con tutto se stessi, appropriarsi della giustizia di Dio in Cristo Gesù”.


Quali ragioni per credere nella fede cattolica? - Corso intensivo di Apologetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” - di Alfonso Aguilar, L.C.
ROMA, mercoledì, 25 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Quindici anni fa, Steve e Janet Ray erano una coppia protestante battista dello stato di Michigan (Stati Uniti) che conoscevano la Chiesa Cattolica come la Babilonia corruttrice della fede in Cristo.

Quindici anni più tardi, Steve e Janet verranno nella Città Eterna per guidare un corso intensivo di apologetica sulla “pienezza della fede”, cioè sulle ragioni per credere nelle dottrine più controverse della fede cattolica, quali la necessità della Tradizione e del magistero per interpretare correttamente la Bibbia, il ruolo di Maria come Madre di Dio, il primato del Papa, la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia e l’insegnamento cattolico di San Paolo.
“Ero convinto che i primi cristiani fossero ‘protestanti’ – ha confessato Steve Ray –, ma quando ho cominciato a studiare i Padri della Chiesa dei primi due secoli, come sant’Ignazio di Antiochia, san Clemente di Roma, Pappia, sant’Ireneo, san Policarpo e san Giustino martire, allora capii che la Chiesa primitiva era quella cattolica”.
“Dovevo convertirmi”, ha aggiunto l’apologeta americano. “Come dice l’adagio, ‘quanto più ti avvicini alla fonte, più l’acqua diventa fredda e chiara’. Dovevo ritornare alla Chiesa originaria, dove la verità diventava sempre più chiara e rinfrescante”.
Steve e Janet furono accolti nella Chiesa Cattolica insieme ai loro quattro figli – Cindy, Jesse, Charlotte ed Emily – la Domenica di Pentecoste del 1994.
“Quando mi convertii, pensavo che dovevo aiutare i protestanti a convertirsi,” ha spiegato Steve. “Presto mi resi conto, invece, che era più urgente aiutare i cattolici ad essere più convinti in ciò che credono”.
In effetti, l’ambiente relativista e secolarizzato pone i cattolici di oggi di fronte all’esigenza di approfondire i motivi di credibilità della loro fede per proclamarla in maniera convincente.
A questo scopo, la Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” (via degli Aldobrandeschi 190, Roma) ha organizzato quest’anno un Corso intensivo di Apologetica, aperto a studenti e adulti, e coordinato dal Centro Pascal, una nuova associazione culturale di carattere apologetico.
“Proprio perché la fede è poco conosciuta e molto criticata – ha sottolineato padre Juan Pablo Ledesma, Decano della Facoltà di Teologia –, dobbiamo essere ‘pronti sempre a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi’, come ci avverte San Pietro (1 Pt 3,15)”.
Il corso si svolgerà dal 20 al 24 aprile 2009, dalle 15:00 alle 19:00 ed offre un’introduzione all’apologetica e una risorsa di argomenti storici, biblici e teologici per dare ragione dei temi chiavi della fede: la Sacra Scrittura, Maria, san Pietro e san Paolo, la Chiesa e i Padri Apostolici, i sette sacramenti.
Steve Ray conosce bene ciò che insegna, non solo perché si è convertito studiando la Tradizione, ma anche perché in questi anni ha pubblicato ben cinque libri d’apologetica e ha filmato una serie di dieci DVD sulla storia della salvezza, che inizia da Abramo e arriva a sant’Agostino. Con la moglie Janet, tre o quattro volte all’anno guida gruppi di pellegrini in Terra Santa.
Perché intitolare il corso intensivo “la pienezza della fede”? “Perché nella Chiesa Cattolica si trova la pienezza della rivelazione – spiega Steve –, ma anche perché ragionare sulla fede la fa diventare in qualche modo ‘piena’”.
Per maggiori informazioni: corsoray@upra.org; www.upra.org; www.pascalcenter.org; telefono: (0039) 06.66.54.38.07 (lunedì / giovedì, 14.00 - 16.00).


Respiro di sollievo di Cina e Usa: l’economia è più importante dei diritti umani - Per la Clinton i diritti umani non saranno più in primo piano. In cambio la Cina ha deciso di continuare ad acquistare buoni del tesoro Usa per sostenere l’economia di Washington…
Pechino (AsiaNews) – I media ufficiali della Cina hanno definito la visita di Hillary Clinton “un sollievo” perché la neo-segretaria di stato Usa ha messo da parte la questione dei diritti umani e ha parlato dell’economia dei due Paesi.
Il China Daily ha commentato che se “il viaggio all’estero di Hillary Rodham Clinton nel suo nuovo ruolo di segretario di stato… era di assicurare e rassicurare, ella lo ha fatto”.
In una conferenza stampa nella capitale, la Clinton ha spiegato con chiarezza che i diritti umani in Cina non devono essere una distrazione dalle questioni più vitali, che sono il commercio e l’ecologia e si è augurata una maggiore collaborazione fra le due potenze nell’affronto della crisi economica.
Solo pochi anni fa la Clinton aveva sferrato un duro attacco contro Pechino, che aveva censurato alcune parti di un suo libro pubblicato in Cina, dove si parlava dei diritti delle donne.
Yu Wanli, professore al Centro per studi strategici dell’università di Pechino, ha detto che dopo questo viaggio, temi quali diritti umani e Tibet verranno ricacciati ai margini, “per lavorare su qualcosa di significativo nell’oggi”. La decisione americana è un “respiro di sollievo” per Pechino, dato che quest’anno vi sono anniversari significativi, forieri di possibili tensioni sociali: i 50 anni dalle rivolte del Tibet; i 20 anni dal massacro di Tiananamen.
Anche la Clinton ha tirato un “respiro di sollievo” perché la Cina ha considerato l’economia più importante delle (passate) critiche sui diritti umani: alla richiesta che Pechino continui ad acquistare ed ammassare buoni del tesoro americano, i cinesi hanno detto di sì. Più precisamente, Yang Jieshi, ha dichiarato che la Cina vuole che le sue riserve di valuta straniera – le più grandi del mondo: 1950 miliardi di dollari - siano investiti nella sicurezza, con buoni valori e liquidità. Ma ha aggiunto che la Cina vuole continuare a lavorare con gli Stati Uniti. Simili assicurazioni sono venute dal presidente Hu Jintao.
Come ha precisato la Clinton, Cina e Usa si trovano “sulla stessa barca” e “remano nella stessa direzione”. Pechino possiede circa 700 miliardi di dollari in buoni del Tesoro Usa. Ma la leadership è sotto pressione per diversificare i suoi acquisti, a causa del deprezzamento del dollaro. La crisi economica che affligge gli Stati Uniti rischia di ridurre a nulla il valore dei buoni.
Secondo l’analista Wang Xiangwei, Pechino non ha però altre alternative che sostenere l’economia Usa e investire in buoni del Tesoro Usa, proprio mentre l’amministrazione Obama cerca nuovi fondi per pagare i 787 miliardi del pacchetto di stimolo per la sua economia. Wang Xiangwei (cfr. l’edizione di oggi del South China Morning Post), afferma che sembrano esservi dei piccoli ricatti da parte degli Usa: se la Cina non continua a comprare buoni del Tesoro, negli Stati Uniti verranno pubblicati i depositi bancari che personalità della leadership e i loro parenti posseggono negli Usa.
di Wang Zhicheng
AsiaNews 23/02/2009 13:09


Eugenetica: uno spettro che si aggira per l'Europa - Autore: Negri, Mons. Luigi Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it - mercoledì 25 febbraio 2009
Si potrebbe dire con un linguaggio un po’ abusato ma sempre efficace: uno spettro si aggira per il mondo civile (si fa per dire): il ritorno dell’Eugenetica.
Chi ha assistito alle terribili vicende di queste settimane e non è totalmente digiuno di storia della nostra società europea, ha avuto l’impressione di assistere ad un film, purtroppo tragicamente “già visto”.
Alla fine del secolo XIX e all’inizio secolo XX, nel contesto della massoneria e della tecnoscienza “dura”, cioè fra gli inglesi, si procedette alla formulazione di un grande progetto mondiale: il miglioramento definitivo della razza umana, attraverso la scienza.
L’Eugenetica: un ben nascere, un ben vivere e, purtroppo, un ben morire.
Per costoro la vita umana, nella sua origine e nel decorso della sua esistenza, poteva e “doveva” essere sottoposta a progetti di razionalizzazione, di scientifizzazione e di manipolazione, in vista di una trasformazione definitiva.
In attesa di questo straordinario balzo progressivo, che avrebbe reso la razza umana (ovviamente quella del mondo evoluto cioè europeo e nord-americano) invincibilmente sana, bella, intelligente, totalmente vittoriosa su tutti i limiti della natura, si doveva cominciare ad eliminare tutti gli “inconvenienti di percorso”. Bisognava eliminare tutte le vite inutili, inguaribilmente malate, portatrici di handicaps mentali o fisici, vecchi e malati terminali…
Tutto un enorme e cinico processo di eliminazione della sofferenza, per l’affermazione di una vita e di una società totalmente a misura dell’uomo e della sua ragione.
Questo movimento fu espulso dall’Inghilterra e dall’America da quel buon senso, che si radicava ancora in una concezione religiosa dell’esistenza. I sostenitori dell’Eugenetica furono accolti a braccia aperte dal regime hitleriano ed in esso trovarono straordinarie possibilità di ricerca e di “lavoro” (anche qui si fa per dire).
Fin dalle prime settimane del suo governo, Hitler, arrivato al potere legalmente cioè con una maggioranza democraticamente eletta, iniziò a tappe forzate la realizzazione del processo di eliminazione di tutti gli “anormali”, stipandoli nei campi di concentramento, che cominciarono a funzionare come veri e propri campi di sterminio.
Contemporaneamente, sulla Germania non ancora dominata dal nazismo furono profuse tonnellate di propaganda a favore dell’eutanasia di stato. Migliaia di films e cortometraggi, centinaia di migliaia di opuscoli, milioni di volantini a propagandare una posizione che univa al pietismo più stucchevole (pena e bontà verso i sofferenti da avviare ad una morte dignitosa) un cinismo ed una violenza inaudita.
La maggioranza del popolo tedesco guardò da lontano ma impotente tutto questo: non aveva ancora venduto l’anima al diavolo ma non aveva l’energia di una opposizione.
Una sola personalità si oppose pubblicamente a tutto questo e lo denunciò inflessibilmente all’opinione pubblica: il vescovo di Münster Clemens Von Galen, definito da Pio XII il “leone di Dio”.
Egli denunciò la follia eugenetica e razzista in omelie ed in lettere pastorali. Fu l’unico vero inesorabile resistente al regime di Hitler lungo tutto il periodo nazista. Anche le altre forme di resistenza si raccordarono idealmente a lui.
Il regime non osò mai toccarlo, tanto forte era il legame del vescovo con il suo popolo, ma massacrò decine dei suoi preti e centinaia dei suoi fedeli.

Questa storia ci fa comprendere il presente.
Anche oggi la vita umana rischia di essere concepita dalla nuova Eugenetica sostanzialmente come oggetto di progetti conoscitivi, scientifici e delle più diverse manipolazioni tecnologiche in funzione di una nuova programmazione della vita stessa.
La tecnoscienza si considera investita della responsabilità di formulare un nuovo percorso umano: la scienza è l’unico soggetto autorizzato a far questo ed è totalmente autoreferenziale. La tecnoscienza non riconosce nessuno superiore a sé: chi si oppone a tutto questo viene considerato un reazionario, incapace di stare al ritmo del progresso scientifico.
La “saldatura”, ormai evidente, fra tecnoscienza e magistratura sembra conferire a questo progetto caratteristiche di invincibilità.
Nell’infuocato dibattito delle settimane scorse ed in quello che si preannuncia nell’immediato futuro, vale la pena di ricordare che l’unica garanzia di una vera indisponibilità della vita umana a qualsiasi realtà storica ed a qualsiasi potere mondano, sta solo nell’affermazione che la vita umana è, per sua natura, aperta ad una dimensione trascendente della realtà e solo per questo è indisponibile a qualsiasi manipolazione.
La Chiesa sostiene da duemila anni che solo perché le radici dell’uomo sono “in Dio”, egli non scompare nella biosfera e non è assorbito nella società.
Infatti “l’uomo supera infinitamente l’uomo” (Pascal).
Nel suo primo radiomessaggio nel Natale del 1978 Giovanni Paolo II faceva un’affermazione di straordinaria pertinenza ed attualità: “Se le nostre statistiche umane, le catalogazioni, gli umani sistemi politici, economici e sociali, le semplici umane possibilità non riescono ad assicurare all’uomo che egli possa nascere, esistere ed operare come unico ed irripetibile, allora tutto ciò glielo assicura solo Dio”.
Qualche mese dopo la conclusione della seconda guerra mondiale Pio XII insignì della porpora cardinalizia il vescovo di Münster.
A Münster nessuno era stato cardinale fra i predecessori di Von Galen e nessuno lo è stato poi tra i suoi successori.
Pio XII, con il suo gesto straordinario, proclamò davanti a tutta la Chiesa ed alla società che la porpora cardinalizia, romana, è per i martiri di Cristo, cioè per i testimoni di Lui di fronte al mondo.


La sedazione palliativa nei malati terminali - Far dormire - non è far morire - di Ferdinando Cancelli – L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009
"Io dormo ma il mio cuore veglia" (Cantico dei Cantici, 5, 2). L'uomo di ogni tempo ha sempre avvertito come strettamente imparentati il sonno e la morte. Una delle più evidenti dimostrazioni di ciò si ha nel pensiero mitologico greco: Hýpnos, il sonno, e Thánatos, la morte, sono divinità figlie di un' unica madre, Nýx, la notte. Espressioni come "riposare", "dormire il sonno eterno" e altre simili, frequentemente leggibili sulle lapidi dei nostri cimiteri, ci ricordano come anche nella tradizione cristiana il varcare la soglia della morte sia spesso stato visto come un riposare in attesa della resurrezione. Il Vangelo stesso riporta alcuni episodi della vita di Gesù indicativi in tal senso, uno per tutti quello descritto in Matteo (9, 23-26), nel quale la protagonista è una fanciulla che Gesù resuscita dopo aver detto "non è morta ma dorme".Errore. Il segnalibro non è definito. È forse per tali ragioni storiche e culturali che in campo medico l'induzione farmacologica del sonno allo scopo di alleviare il dolore, ad esempio durante pratiche chirurgiche, è sempre stata avvertita come una fase delicata e gravida di molti timori, primo fra tutti quello di non riacquistare lo stato di coscienza al termine del trattamento; e questo parimenti potrebbe essere il terreno nel quale affondano le radici della paura con la quale i pazienti gravi e i loro familiari continuano, a livello conscio e inconscio, a vivere la notte come ancora madre del sonno e della morte, momento di solitudine, passaggio oscuro.
La pratica di indurre il sonno profondo mediante la somministrazione di farmaci non è esclusiva della chirurgia; anche la medicina palliativa, nelle fasi terminali di malattie degenerative croniche come i tumori, può farvi ricorso a precise condizioni: si parla in tali casi di sedazione farmacologica o sedazione palliativa. A questo proposito è stato qualche tempo fa pubblicato dall'agenzia Fides della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli un dossier che tra le altre problematiche di fine vita affronta anche quella della sedazione farmacologica nell'ambito appunto della medicina palliativa. Il documento ci permette di fare alcune considerazioni su una questione tanto delicata dal punto di vista bioetico quanto frequentemente bistrattata dai mass media in occasione di casi eclatanti finiti sulle prime pagine di giornali e notiziari televisivi.
La sedazione farmacologica, quando è profonda, continua e intenzionale, consiste nella somministrazione di un farmaco con lo scopo di far perdere la coscienza a un malato in fase terminale gravato dalla presenza di uno o più sintomi refrattari. Tale definizione permette di far emergere quelle precise condizioni alle quali sopra ci riferivamo e che, allo scopo di fugare qualsiasi dubbio, possiamo esaminare con ordine.
Innanzitutto il nome: "sedazione farmacologica". Sarebbe bene non utilizzare l'espressione "sedazione terminale" dal momento che quest'ultima potrebbe indurre a pensare che la sedazione, in alcuni casi, rivesta il ruolo di una pratica eutanasica volta ad abbreviare intenzionalmente la vita di un paziente. Un importante documento della European Association of Palliative Care del 2003 è chiarissimo in proposito: a livello di intenzione, di procedura utilizzata e di risultato ottenuto la sedazione è tutt'altra cosa rispetto all'eutanasia. L'intenzione è infatti quella di far fronte a sintomi refrattari e non di uccidere il malato, la procedura esclude la somministrazione di farmaci letali e il risultato è quello di far dormire profondamente il paziente, non di ucciderlo. Questo è talmente vero che gli studi delle curve di sopravvivenza di malati sedati rispetto a quelli non sedati a parità di condizioni cliniche iniziali mostrano una sopravvivenza maggiore nel primo gruppo, rendendo in tal modo perfino superfluo il ricorso al principio del doppio effetto per giustificare eticamente tale procedura.
In secondo luogo i farmaci: le benzodiazepine sono i più frequentemente utilizzati per ottenere il sonno profondo. Né la morfina - largamente usata per il controllo del dolore, della dispnea, cioè della sensazione di fame d'aria, e della tosse in fase avanzata di malattia - né i cocktail di più molecole dovrebbero trovare applicazione in tal campo.
Inoltre la definizione sopra fornita parla di "malato terminale": la sedazione farmacologica è e deve restare pratica rara in cure palliative, riservata a quei casi che si trovano a pochissimi giorni dal naturale decesso, a volte a poche ore. I maggiori centri europei di cure palliative riferiscono di percentuali di malati sedati che in genere non superano il 5 o 10 per cento del totale dei pazienti seguiti e ciò è ampiamente confermato anche dalla nostra esperienza degli ultimi dieci anni.
Infine i sintomi per i quali si decide di intervenire sedando il malato devono essere rigorosamente "refrattari"; devono cioè essere intrattabili con i comuni farmaci che non alterano lo stato di coscienza. Ci sentiamo di dire che oltre ai farmaci ogni misura terapeutica nel senso più pieno del termine deve essere tentata prima di considerare realmente "refrattario" un sintomo; se questo è vero per i sintomi fisici lo è ancora di più per quelli psichici, originati o esacerbati dall'abbandono terapeutico e umano nel quale si trovano spesso i malati in fin di vita. "La richiesta di farla finita - scriveva Paolo Cattorini - è per lo più una travestita domanda di conforto: per l'incuria e il silenzio in cui mi avete confinato, chiedo di venir sottratto a patimenti che, da solo, non riuscirei a sopportare".
Il triste caso di Piergiorgio Welby ci permette infine di fare un esempio di quanto sia fondamentale l'esattezza terminologica nel trattare argomenti così complessi e ricchi di implicazioni etiche: si è letto più volte che la sedazione farmacologica sarebbe stata utilizzata, nel caso in questione, come mezzo per ottenerne la morte. Le cose stanno diversamente; e ancora una volta "assolvono" la sedazione farmacologica: Welby è morto per l'insufficienza respiratoria provocata dalla sospensione della respirazione artificiale. Dal momento che tale manovra avrebbe inevitabilmente provocato l'atroce sofferenza di una morte accompagnata dalla sensazione di soffocamento, il paziente è stato sedato profondamente prima del distacco del respiratore.
Il sonno ha preceduto la morte, non l'ha causata; solamente eliminando i problemi che sempre derivano dalla coscienza ha fatto cadere con essa le ultime primordiali difese oltre le quali è rimasto solo un volto da contemplare nella sua fragilità. Tornano alla mente le parole di Lévinas: "L'assoluta nudità del volto, questo volto assolutamente indifeso, senza schermo, senza abito, senza maschera, è tuttavia ciò che si oppone al mio potere su di esso".
(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2009)


Riflessioni sulla «Dignitas personae» - Per non riportare indietro
le lancette della storia - di Rino Fisichella - Arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita – L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009
Secondo una felice consuetudine i documenti del magistero della Chiesa condensano nelle prime parole il loro contenuto. Dignitas personae non fa eccezione. I due termini che compongono l'ultima istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede evidenziano immediatamente l'obiettivo del documento. La dignità della persona non può essere un proclama astratto che in diversi momenti della storia si sente il bisogno di riaffermare; è molto di più. Esprime, infatti, un fondamento reale, inequivocabile e non in balìa di arbitrarie interpretazioni soggette al sentire del tempo. Nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, questa istruzione viene a ribadire alcuni principi che sembrano sempre più oscurati per il sorgere di nuovi diritti che manifestano spesso un'inspiegabile e ingiustificata pretesa individuale.
La dignità della persona costituisce la base su cui ognuno costruisce la propria identità, le relazioni interpersonali che segnano la vita e la solidarietà che forma le diverse società sparse per il mondo intero. La dignità della persona è una conquista faticosa dell'umanità, non una palla al piede per il suo progresso. Dimenticare il grande dibattito e le battaglie che hanno segnato le diverse epoche storiche, portando alla codificazione del principio d'uguaglianza d'ogni persona e della sua irrinunciabile dignità, equivarrebbe a riportare indietro le lancette della storia di alcuni secoli. Nessuno, si spera, vorrà cadere in una simile trappola col negare il principio basilare del vivere personale e sociale; è un fatto di tale evidenza che per fortuna va al di là degli schieramenti politici e ideologici così da imporsi come una realtà profondamente naturale e per questo universale. In un suo saggio sull'etica, il grande medico Albert Schweitzer scriveva così: "Chiunque s'imbarca sulla navicella del rispetto della vita non è un naufrago che va alla deriva; è, piuttosto, un passeggero intrepido che sa dove deve andare e come mantenere fermo il timone nella giusta direzione". L'immagine colpisce per la sua attualità e per la carica di verità che vi è contenuta; occuparsi oggi del tema della vita, d'altronde, equivale a inserirsi in un cammino che richiede una buona dose di coraggio e, soprattutto, una visione lungimirante. Intorno a questo tema, infatti, si gioca il futuro della società, delle giovani generazioni che in questo momento sono inconsapevoli spettatrici di quanto stiamo preparando per il loro modo di pensare e di comportarsi e della stessa Chiesa che tocca con mano quanto la missione dell'evangelizzazione sia sempre una sfida aperta sul terreno della storia. L'annuncio della vita appartiene al dna della Chiesa perché è testimone diretta non solo del pieno valore che la vita personale possiede, ma soprattutto perché annuncia una vita che ha vinto il limite della morte. È intorno a questa dimensione che si incontrano e scontrano le varie visioni sulla vita umana, ma è anche questo lo spazio dove vengono a confluire le domande che richiedono una risposta carica di senso, non più soggetta alle ipotesi o teorie di lavoro, ma capace di dare certezza per permettere di costruire la vita di ognuno su un fondamento reale, stabile e sicuro.
La cultura contemporanea si evolve costantemente nella ricerca di nuove forme sperimentali che consentano di esprimere al meglio la propria esistenza nonostante la spada di Damocle dell'imprevisto, della malattia non programmata e della morte inevitabile. Ogni giorno il progresso della tecnica mentre, da una parte, spalanca nuovi orizzonti che permettono fortunatamente di superare la sofferenza e il dolore, dall'altra pone sempre nuovi interrogativi che si estendono inevitabilmente all'istanza etica per le implicanze che possiedono. Merito di Dignitas personae è quello di ribadire con forza e a più riprese il valore dell'etica nella scienza, nella sperimentazione e nelle varie tecnologie biomediche. Qualcuno, in nome del progresso, vorrebbe eliminare tout court l'etica da questi ambiti. Tentativo impossibile perché ciò che si vorrebbe far uscire dalla porta entrerebbe di nuovo con insistenza dalla finestra per rimanere in casa a dispetto di quanti ne vorrebbero l'eliminazione. L'etica appartiene all'uomo di ogni tempo e di ogni cultura; è una condizione cardine dell'uomo nella sua ricerca di felicità. Porla fuori gioco equivarrebbe a imporre spazi in cui entra solo la regola del più forte di turno, per le ingenti risorse finanziarie che si sono investite in questi ampi spazi della nuova economia. Dignitas personae presenta molti degli interrogativi che tanti si pongono dinanzi al progresso delle tecnologie e che soprattutto nell'ingegneria genetica presentano tratti talmente nuovi da affascinare, ma non per questo da apparire meno problematici. Il campo di indagine è ampio e più si entra nel mistero della materia, per paradossale che possa sembrare, più l'enigma invece di restringersi e condurre a soluzioni si espande a dismisura e non smette di provocare meraviglia e stupore. I problemi etici intorno al tema della vita proprio per questo si moltiplicano e spesso sembrano entrare in conflitto realtà che sono chiamate invece a collaborare per una soluzione che trovi l'accordo della scienza con il principio etico.
Non è necessario credere in Dio per sapere che la vita è un bene prezioso e un dono di cui dobbiamo essere grati e riconoscenti a qualcuno. La scoperta esistenziale di dipendere da qualcuno non è un dogma della Chiesa ma un principio filosofico ovvio e universalmente accolto. È proprio nel riconoscimento di questa relazione di dipendenza che nasce la consapevolezza della gratuità e dell'enigmaticità dell'esistenza. Avrei potuto non essere, eppure, non sono il frutto della casualità. Sono stato pensato, desiderato, voluto: questo è ciò che ogni uomo alla fine pensa di sé per non lasciare la propria vita nel vago e nel vuoto dell'indeterminatezza. La vita umana non è un esperimento da laboratorio, ma un atto d'amore che segna per sempre l'esistenza. Per questo è un bene inviolabile e indisponibile che ogni ordinamento giuridico è costretto a porre a proprio fondamento. Succede, purtroppo, che in alcuni casi questo principio venga violato e contraddetto. Ciò non costituisce una conquista che rende alcuni Paesi più evoluti di altri; al contrario, è ciò che rende evidente, purtroppo, la contraddizione in cui cadono quando si pongono nel cono d'ombra del relativismo.
In questo contesto, una riflessione di particolare interesse merita il richiamo di Dignitas personae al tema della scienza e della ricerca. L'istruzione fin dall'inizio della sua argomentazione esprime fiducia nella scienza, riconosce gli ingenti progressi che si sono verificati per la passione e la dedizione di tanti scienziati ed esprime il suo giudizio positivo per quanto l'ulteriore ricerca potrà compiere a favore dell'umanità per debellare alcune malattie e ridurre il dolore e la sofferenza: "Negli ultimi decenni le scienze mediche hanno sviluppato in modo considerevole le loro conoscenze sulla vita umana negli stadi iniziali della sua esistenza. Esse sono giunte a conoscere meglio le strutture biologiche dell'uomo e il processo della sua generazione. Questi sviluppi sono certamente positivi e meritano di essere sostenuti quando servono a superare o a correggere patologie e concorrono a ristabilire il normale svolgimento dei processi generativi" (Dignitas personae, n. 4). Sarebbe ingiusto che i commentatori di questo documento soprassedessero su queste riflessioni per procedere immediatamente alla contestazione circa il giudizio negativo dato su alcuni aspetti della sperimentazione. Non sarà da dimenticare un principio fondamentale dell'ermeneutica, la quale richiede che un'espressione sia letta e interpretata all'interno del contesto e della globalità del testo, non astraendola dal tutto e alterandone il significato. Se, comunque, il documento non ha remore nel riconoscere ed esprimere un giudizio positivo sul progresso della scienza in vari ambiti della ricerca medica, non ha neppure timore nel dover costatare come la sperimentazione sull'embrione possa portare alla sua distruzione. Questo fatto, oltre a essere intrinsecamente male perché parte dal presupposto che in quell'embrione non vi sia vita veramente umana, contraddice ogni forma di rispetto dovuto alla dignità di un essere umano vivente. Un passaggio importante viene richiamato dall'istruzione perché porta una novità, soprattutto se confrontata con il documento Donum vitae della stessa Congregazione. Si legge infatti: "La realtà dell'essere umano per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale poiché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica. L'embrione umano, quindi, ha fin dall'inizio la dignità propria della persona" (Dignitas personae, n. 5). Come si nota non si afferma esplicitamente che l'embrione è "persona" per non entrare nel merito del complesso dibattito filosofico e giuridico; in ogni caso, implicitamente si ammette che lo sia perché se ne riconosce la "dignità" dovuta alla persona. La cosa non è di poco conto per il giudizio morale e per la valutazione che si è chiamati a compiere nei confronti delle varie tecniche sperimentali.
Dignitas personae si muove giustamente con prudenza quando si trova a dover giudicare sperimentazioni con finalità terapeutiche che ancora non hanno ottenuto il consenso della comunità scientifica e si muovono su un terreno che richiede ulteriore studio e riflessione (cfr. n. 26). Quando, invece, deve affrontare casi concreti che già permettono di verificare quanto avviene nell'abuso delle cellule embrionali o degli stessi embrioni allora il suo giudizio si fa moralmente certo senza lasciare spazio a dubbi. Le parole del documento in questi casi riflettono non solo la giusta preoccupazione che la Chiesa manifesta in proposito, ma ribadiscono giustamente anche il male intrinseco che queste azioni posseggono quando viene meno il principio fondamentale del rispetto della dignità e dell'uguaglianza degli esseri umani. È bene, pertanto, che si possa distinguere nell'argomentazione di Dignitas personae quanto serve per una finalità terapeutica, che non solo viene approvata moralmente come lecita ma anche sostenuta perché possa produrre di più; e quanto, invece, diventa arbitrio individuale che impone il sacrificio di essere umani oppure la loro selezione eugenetica.
Dignitas personae si richiama ad alcuni principi fondamentali che, come s'è accennato, hanno il loro fondamento nella dignità della persona, nell'uguaglianza tra tutti gli essere umani e nella professione di fede che attesta ogni persona essere "immagine di Dio" (cfr. n. 8). Come si nota, i primi sono principi che la ragione raggiunge nel suo riflettere sulla realtà, mentre l'essere immagine di Dio Trinità è frutto della fede. Proprio l'unità di questa prospettiva dovrebbe aiutare a comprendere meglio l'intrinseco valore che la vita umana possiede e come la sua inviolabilità e sacralità non siano altro che due facce della stessa medaglia. Giustamente l'istruzione afferma: "Non c'è contrapposizione tra l'affermazione della dignità e quella della sacralità della vita umana" (n. 7). È su questa strada che gli scienziati dovrebbero porsi perché la loro ricerca sia il più possibile conforme ai principi etici e capace di superare eventuali conflitti che potrebbero venire a crearsi con i giudizi etici e morali presenti nei diversi contesti culturali, religiosi e sociali. Forse, potrebbe richiedere più tempo e investimenti maggiori, ma la certezza di compiere qualcosa di straordinario che permette di collaborare con il Creatore di tutto l'universo non dovrebbe creare dubbi. La vera scienza si coniuga con l'umiltà non con l'arroganza; essa si nutre di gratuità non di facile guadagno. Il rispetto che si richiede per la propria persona e per il lavoro che si svolge a servizio di tutti invoca uguale consapevolezza che nella propria ricerca si sta toccando qualcosa che non è neutrale o generico, ma è vita umana che impone a tutti, nessuno escluso, il rispetto per la dignità di cui è rivestita. Dignitas personae, pertanto, viene a ricordare il carattere inviolabile della vita umana: un valore che si applica a tutti senza distinzione alcuna. Una sfida che, se accolta, può rappresentare una tappa significativa per il progresso coerente dell'umanità.
(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2009)


Quale futuro per i Balcani? - Roberto Fontolan - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
È passato un anno dall'ultima “creazione” di uno stato indipendente: il Kossovo venne sospinto all'esistenza dalla fortissima pressione degli Stati Uniti, seguita dal (frettoloso) riconoscimento di alcuni Paesi europei, tra cui l'Italia.
In realtà l'estate scorsa la guerra lampo russo-georgiana ci ha portato in dono altri due neonati strategici: l'Ossezia e l'Abkhazia, che però sono stati riconosciuti soltanto da Mosca, che li ha voluti sfidando regole e buon senso mondiale, e dal Nicaragua, chissà perché.
Il Kossovo vanta ben altro pedigree e ben altre legittimità, eppure finora solo 54 su 192 Paesi membri dell'Onu lo hanno riconosciuto. E c'è un altro dato grave, visto che cinque Paesi europei (Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia) appartengono al “fronte del rifiuto”.
Costoro fanno valere le questioni interne, con le rivendicazioni indipendentistiche di gruppi etnici e nazionalistici, come anche ragioni di solidarietà culturale-religiosa con la Serbia e valutazioni geopolitiche radicalmente diverse da quelle tanto sbandierate all'epoca dall'amministrazione Bush, basate sulle legittime aspirazioni della maggioranza albanese del Kossovo e sulla necessità di dare finalmente stabilità all'intera regione.
A bene vedere la situazione dei Balcani resta piuttosto inquieta e inquietante. Ad esempio pochi credono al futuro della repubblica federata della Bosnia, un'altra strana creatura immaginata per porre una qualunque fine alla guerra, basata su un fragilissimo equilibrio tra ortodossi, cattolici e musulmani - dove nessuna componente si sente “bosniaca”; e molti sottovalutano il malessere della Serbia, che si è sentita eccessivamente punita per le obbiettive e indiscutibili colpe avute nelle guerre degli anni '90.
Gli umori di un Paese che si sente bersaglio sono difficili da mettere sotto controllo, come testimonia la storia europea tra le due guerre mondiali. Inoltre, non si sottolinea abbastanza come l'indipendenza del Kossovo (e la salvagurdia della minoranza ortodossa) nonché l'assetto della Bosnia siano garantiti dai soldati e dai soldi europei: quanto potrà durare?
Ma quando si incontrano interlocutori e osservatori dei Balcani, emerge un altro fattore: Albania, Kossovo, Montenegro e Macedonia (che ancora non ha risolto la disputa del nome con la Grecia), oltre che la Bosnia, sono nazioni a maggioranza musulmana, confinanti tra loro.
Un semplice sguardo alla cartina suscita pensieri e interrogativi. Il primo: mentre Bosnia e Macedonia era già “repubbliche” jugoslave e dunque il loro distacco poteva essere considerato naturale, era così indispensabile incoraggiare e sostenere l'indipendenza di Montenegro e Kossovo? Non si poteva tenere maggiormente conto delle preoccupazioni della Grecia e di Cipro, mutilata di un terzo del suo territorio dall'occupazione dell'esercito turco in spregio a ogni regola?
In certi ambienti politici mediatici e diplomatici occidentali si fanno spallucce: in fondo le tradizioni islamiche prevalenti in queste regioni sono di quelle che noi europei definiamo “moderate”, perciò è sbagliato preoccuparsi, occorre essere ottimisti. E così, per non essere accusati di gratuito pessimismo, coloro che chiedono maggiore attenzione alla complessità delle cose devono tacere che da anni in Kossovo si registrano le attività “missionarie” di imam spediti da Arabia Saudita e dal Medio Oriente e qualcosa di simile accade in Macedonia.
Chi conosce il mondo islamico arabo sa bene che per quella mentalità il tempo non è mai un problema: se non vinco io, vincerà mio figlio o il figlio di mio figlio (una filosofia di vita alla base di Hamas). Ma la partita ottimisti-pessimisti è un gioco stupido e insensato, che fa perdere i contorni del reale, così come si perde il conto degli Stati e dei litigi balcanici.
Oggi la realtà di questa regione è quello che è, e dunque occorre impedire eventuali derive fondamentaliste così come l'ulteriore sgretolamento in mini-stati e soprattutto dare prospettiva a una maggiore stabilità.
Può sembrare paradossale, ma ci vuole ancora più Europa, nel senso dei soldi, dei soldati e della giusta combinazione di pretese e di controlli circa gli assetti democratici e istituzionali. Prima o poi anche i cinque no europei al Kossovo diventeranno sì e l'occasione potrà essere giocata al rialzo, per una maggiore capacità strategica. E poi ci vuole più Chiesa cattolica e più Chiesa ortodossa, i veri fattori di equilibrio troppo spesso e troppo a lungo messi ai margini.


MEDIOEVO/ Identità e appartenenza, gli ingredienti di una civiltà viva - Guido Cariboni - giovedì 26 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
«Tu sei per te stesso il primo e l’ultimo. Nella ricerca della salvezza nessuno ti è più fratello di te stesso e tu sei figlio unico di tua madre». Con queste pesanti parole intorno al 1140, Bernardo di Chiaravalle suggeriva a papa Eugenio III in quale prospettiva affrontare l’ardua missione di guida della Chiesa. Secondo il santo abate cistercense questo incarico non poteva prescindere dalla propria libertà e responsabilità individuale e aveva nel proprio io l’ultimo tribunale. Uno tra i più geniali studiosi della cultura e della mentalità del medioevo, Peter von Moos, ha recentemente definito queste espressioni come una delle più radicali formulazioni della coscienza individuale nell’età di mezzo.
L’uomo medievale, come le fonti ce lo trasmettono, non fu un individuo privo di volontà e di libertà, completamente assorbito dalla dimensione comunitaria e in balia di difficili circostanze. Non fu, però, nemmeno una personalità totalmente indipendente, sviluppata solo in se stessa, a prescindere dall’ambiente che lo circondava e con capacità espressive del tutto autonome. Gli interessi individuali da una parte e quelli sociali dall’altra, il processo di formazione dell’individuo e la costruzione della comunità, in epoca pre-moderna spesso non costituirono alcuna contraddizione, ma risultarono in una relazione di incremento reciproco.
Prendiamo ad esempio un elemento che caratterizzò fortemente la mentalità del medioevo, quello della salvezza ultraterrena. Era d’uso molto comune fin dai primi secoli che anche i laici, fossero essi soldati, mercanti, signori o semplici artigiani, si affidassero alle preghiere delle comunità religiose, che incessantemente, giorno e notte, intercedevano per loro presso Dio. Tale pratica era particolarmente sentita nei momenti cruciali della vita di un uomo o di una donna; non soltanto in prossimità della morte, ma anche in occasione di viaggi rischiosi, missioni militari, pellegrinaggi, eventi temibili. Questa forma di memoria aveva una dimensione prettamente comunitaria, ossia tutta la comunità religiosa pregava per tutti i fedeli laici che ad essa si affidavano. Essa possedeva però anche una forte componente individuale. Sono giunti fino a noi infatti centinaia di antichissimi codici ricolmi ognuno di migliaia di nomi di singole persone che avevano espressamente richiesto, in vita e in morte, un ricordo solo ed esclusivamente per loro. Queste fonti ci testimoniano come le commemorazionifossero valide ogni volta per un’unica persona, e non per un gruppo o per una comunità nel suo complesso. Ogni membro di una fraternità di preghiere doveva di conseguenza essere rappresentato dal suo proprio nome. Egli voleva che il suo nome fosse scritto e pronunciato, fosse presente insomma. E questo perché le pratiche commemorative potevano raggiungere soltanto singole anime. La salvezza era conseguita attraverso una comunità che era la Chiesa, ma ognuno si trovava solo di fronte a Dio.
Questo modo di pensare, frutto della tarda antichità, in cui la tradizione classica si era fusa con il cristianesimo, permeò tutta la mentalità medievale, anche nella sua dimensione più laica. Tra XII e XIII secolo, ad esempio, ci sono giunti in forma scritta trattati di pace e di alleanza tra città e comuni in cui furono dettagliatamente elencati centinaia di nomi di capi famiglia che singolarmente, uno per uno, avevano giurato di mantenere quegli accordi, facendo apporre il proprio nome sul documento.
Nella forma identitaria una dimensione collettiva e una dimensione individuale erano inscindibilmente connesse. Come sostiene ancora Von Moos, a partire dall’espressione religiosa che si é poi diffusa un tutti gli ambiti della vita, l’identità di gruppo risultò il frutto di una educazione e di un consenso individuale verso una tradizione. Non esisteva l’uomo astratto, ma tanti uomini, simili e allo stesso tempo unici, che formavano una comunità. Questo potrebbe essere un suggerimento che giunge dal medioevo al dibattito attuale intorno all’identità. La formazione di un’identità di gruppo non può prescindere da una adesione personale. Il resto ha pericolosamente a che fare con la propaganda gestita dal potere dominante di turno.


Gran Bretagna - E per i malati mentali «cure minime» - di Carlo Bellieni – Avvenire, 26 febbraio 2009 - Rapporto choc dell’associazione per i diritti dei disabili: i medici che curano pazienti handicappati sono troppo spesso disattenti, superficiali e fatalisti. «È discriminazione»
Uno spettro si aggira per l’Europa: è l’handifobia, la fobia discriminatoria verso l’handicap e le persone malate. Figlia dell’eugenetica – di cui più nessuno parla proprio perché sta diventando pane comune e non si vuole chiamare col suo nome – sta mostrando la sua virulenza sui più indifesi: le persone disabili. Il grido d’allarme viene dall’Inghilterra: un Rapporto dell’associazione 'Mencap' per i diritti dei disabili mentali (significativamente intitolato 'Morte per indifferenza') denuncia come i medici chiamati a curare disabili psichici esitino a spingersi oltre i segni della malattia mentale.
Il Rapporto inizia con le parole del padre di Mark, disabile mentale morto per polmonite: «Credo che Mark sia morto senza motivo. Nella sua vita abbiamo trovato medici che non hanno idea di come trattare con disabili mentali. Se solo ci avessero ascoltato…». Il Rapporto riporta le parole terribili che certe famiglie si sono sentite dire dai medici: «Se la ragazza fosse normale non esiteremmo a curarla», «Non sarebbe meglio per tutti lasciarla andare?» «Secondo me non ha nulla. È lui che è così».
Il Rapporto spiega allora che «le persone con ritardo mentale sono viste come una priorità secondaria», i medici, talora non educati a trattare con i malati mentali, interagiscono poco con le famiglie che invece li conoscono bene, e addirittura si fermano magari per l’ovvia (ma sormontabile) difficoltà burocratica di ottenere un consenso informato dal disabile mentale.
Ancor più inquietante è leggere che «i medici spesso fanno una loro personale valutazione della qualità di vita del paziente e la considerano come base per le loro decisioni. Questo nonostante ricerche mostrino scarsa correlazione tra l’opinione del medico e la reale percezione del paziente».
Ci troviamo, secondo il Rapporto, di fronte a una vera discriminazione sulla base della salute.
Anche la Commissione inglese per i diritti dei disabili recentemente riportava una trascuratezza verso i disabili mentali e il suo segretario lamentava «un ottuso fatalismo verso la morte in giovane età dei disabili mentali»; un altro recente studio citato nel Rapporto mostrerebbe addirittura che i disabili mentali ricevono meno analgesia degli altri.
Tutto questo ci appare come un 'successo' dell’eugenetica: se si permette di pensare che esiste solo un modello ideale di essere umano che meriti il titolo di persona e che certi disabili avrebbero tutto il vantaggio a non essere nemmeno nati, è ovvio che chi non è al top dell’autonomia e della 'normalità' (bambini, disabili e vecchi in primis) diventa di serie B.
L’handifobia dilaga dando una visione spettrale della disabilità non solo come fatica e dolore, ma come vergogna, per cui è quasi un obbligo sociale per una madre non far venire al mondo un disabile o, per un disabile dipendente in tutto dagli altri, non domandare di togliere il disturbo. Le recenti parole del Papa, «Ogni discriminazione esercitata da qualsiasi potere (…) sulla base di differenze riconducibili a reali o presunti fattori genetici è un attentato contro l’intera umanità», ci esortano a chiedere che l’handifobia eugenetica (sui giornali, negli ospedali) che porta il malato a vergognarsi di essere al mondo, diventi realmente un crimine sanzionato dalla legge, come le altre fobie oggetto di riprovazione e sanzione.