venerdì 20 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Quarto anniversario della morte di don Giussani - Messe in tutto il mondo per il dono della pace
2) 20 Febbraio 2009 - La chiesa e il mondo - Giussani, un carisma che continua a fiorire – Avvenire.it
3) Cl, la fede motore dell’uomo – Giorgio Paolucci – Avvenire, 20 febbraio 2009
4) Benedetto XVI presenta la figura di San Beda il Venerabile - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
5) La strada di Marcos e Cleuza - Roberto Fontolan - giovedì 19 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
6) SCUOLA/ Se lo Stato si inventa un “catechismo” laico - Donata Conci - giovedì 19 febbraio 2009
7) USA/ Quando nemmeno una scuola di Gesuiti può tenere i crocefissi nelle aule - Redazione - giovedì 19 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
8) Avvenire 19 Febbraio 2009 - Intervento del cardinale Camillo Ruini - Laicità, punti fermi per l’etica pubblica - Con il Vaticano II si è aperta una nuova stagione di rapporti fra cattolici e mondo laico. Ma oggi viviamo una fase nuova, a volte fatta di contese.
9) TERRA SANTA: TV CANALE 10, VESCOVI CATTOLICI “OFFESE RIPUGNANTI CONTRO LA NOSTRA FEDE”
10) Tornare al Concilio! A quello di Calcedonia del 451 - Un libro accusa la Chiesa d'aver paura del Vaticano II. Ma c'è chi obietta che c'è un pericolo ancor più grave: quello di offuscare la dottrina su Cristo dei Concili dei primi secoli. Dialogo immaginario tra un teologo e un suo allievo - di Sandro Magister
11) Una disconnessione mentale e emozionale - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 19 febbraio 2009
12) SCUOLA/ Bullismo e dintorni: quel che accade quando i genitori delegano l’educazione dei figli - Paola Liberace - venerdì 20 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
13) BIOETICA/ Le sfide della neurologia: siamo davvero liberi? - Andrea Lavazza - venerdì 20 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
14) CATTOLICI, LAICI E SOCIETÀ CIVILE: RIFLESSIONE DEL PATRIARCA DI VENEZIA - Altro che egemonia mondana. - Offerta di una speranza da «investire» quaggiù - ANGELO SCOLA – Avvenire, 20 febbraio 2009
15) VI ABBRACCIAMO, SORELLE CARE IN CATENE PER I CROCIFISSI DELLA STORIA - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 20 febbraio 2009


Quarto anniversario della morte di don Giussani - Messe in tutto il mondo per il dono della pace
In occasione del quarto anni­versario della morte di don Giussani e nel 27° del ricono­scimento pontificio della Fraternità di Cl, vengono celebrate più di 130 Messe da numerosi vescovi in Italia e nel mondo. Nel Duomo di Milano, stasera alle 21, la liturgia sarà pre­sieduta dal cardinale Dionigi Tetta- manzi; domenica a Roma nella ba­silica di Santa Croce in Gerusalem­me dall’arcivescovo vicegerente Luigi Moretti; e lunedì a Genova nel­la chiesa di Santa Marta dal cardi­nale Angelo Bagnasco. L’intenzio­ne delle Messe è la richiesta a Dio del dono di una pace vera e dura­tura in Medio Oriente, «consapevo­li che il primo cambiamento del mondo – come sempre ci ha ri­chiamato don Giussani – è quello del nostro cuore».
In una lettera inviata al Movimento dopo la sua partecipazione al re­cente Sinodo dei vescovi, don Julián Carrón scrive: «Oggi siamo chiama­ti a renderci più consapevoli dello scopo per cui lo Spirito ha dato un carisma a don Giussani: contribui­re, insieme a tutti i battezzati, alla costruzione e al rinnovamento del­la Chiesa per il bene del mondo. Se­guendo il Suo solito metodo, Dio dà la grazia a uno, perché attraverso di lui arrivi a tutti. E noi saremmo in­fedeli alla natura del nostro carisma, se il dono ricevuto non fosse condi­viso con tutti, dentro e fuori della Chiesa. Ci sono molti ambienti – prosegue il presidente della Frater­nità di Cl – dove tanti fra noi già ren­dono presente Cristo con una libertà e un’audacia che stupisce. Questa nostra presenza nei luoghi reali do­ve si svolge la vita degli uomini non deve per niente venire meno. Allo stesso tempo, a volte ci viene chie­sto di collaborare anche all’interno della Chiesa. In tanti di voi da tem­po date questo contributo – come catechisti nelle parrocchie, attra­verso la caritativa e altri modi di col­laborazione – e ciò dovrà trovarci sempre più disponibili là dove la no­stra presenza sia richiesta e accolta. Certamente questo contributo non può essere che secondo la natura del nostro carisma, che ha nella te­stimonianza la sua espressione compiuta».
Stasera Tettamanzi a Milano, domenica Moretti a Roma e lunedì Bagnasco a Genova Lettera di Carrón al movimento


20 Febbraio 2009 - La chiesa e il mondo - Giussani, un carisma che continua a fiorire – Avvenire.it
Il 22 febbraio di quattro anni fa moriva a Milano don Giussani. Ma più che di un morto, qui si vuol parlare di uno che continua a vivere. Non solo perché il suo pensiero, i libri che ha scritto e le opere che sono nate dalla sua testimonianza stanno conoscendo una grande diffusione in tutto il mondo, ma anche e soprattutto perché il suo carisma continua a fiorire, generando a una nuova esistenza migliaia di persone. Molte di queste – e col passare del tempo sono sempre di più – non l’hanno neppure conosciuto di persona: hanno sentito parlare di lui, hanno letto qualche suo scritto, hanno incontrato i suoi amici, sono rimaste affascinate dall’esperienza di Comunione e liberazione che da lui è nata. Il tutto è avvenuto secondo quella elementare dinamica del testimone che è all’origine del cristianesimo, e che ha portato il carisma del "Gius" in settanta Paesi in tutti i continenti. Facendolo stimare non solo tra i cattolici, ma anche tra i fratelli ortodossi e protestanti, nel mondo ebraico, in quello buddista e tra alcuni esponenti musulmani.

Gabriela: «Gesù, passione della mia vita»
«Mi piacevano le discussioni religiose, riuscivo sempre a litigare: pur reputandomi cattolica, ero un anti-Cristo. Ma quando ho conosciuto quelli di Cl qui a San Paolo le cose sono cambiate: loro non mi hanno proposto un’idea di Gesù, mi hanno mostrato ogni giorno la sua presenza e io mi sono appassionata a Lui fino al punto di scoprirlo ogni giorno nel volto delle persone che incontro. E adesso Lui è diventato la vera passione della mia vita». Così si è raccontata Gabriela davanti a dodicimila persone che gremivano il palazzetto dello sport di Ibirapuera a San Paolo del Brasile, in occasione dell’incontro con don Julián Carrón, il sacerdote spagnolo che dopo la morte di don Giussani guida il movimento e che nei giorni scorsi ha incontrato le comunità del Sudamerica.

«Il rischio educativo» in Cambogia
Dalla Cambogia parla Alberto Caccaro, missionario del Pime che da otto anni vive in Cambogia e racconta la sua esperienza sul sito /www.tracce.it. «All’inizio del mio ministero accompagnavo i malati dal villaggio in cui operavo a Phnom Penh e durante le mie soste nella capitale, nella casa del Pime, leggevo spesso la rivista Tracce che un mio confratello lasciava a disposizione. La trovavo affascinante e molto utile in un momento in cui avevo una missione da inventare e tanti interrogativi a cui rispondere. Nel 2006 chiesi a un amico in Italia di spedirmi una copia de "Il rischio educativo" di don Giussani, un testo che veniva spesso citato nella rivista. Lo lessi d’un fiato, trovando una corrispondenza immediata con le attese del mio cuore. La parola "mistero", che attraversa tutto il testo, non ha un equivalente in cambogiano, è sostanzialmente intraducibile. Abbandonai perciò l’idea di una traduzione del testo nella lingua locale e decisi di costruire un’opera educativa che veicolasse i contenuti e il metodo che venivano descritti nel libro. Ne è nata una piccola scuola superiore, che è una spina nel fianco per chi fa dell’educazione uno strumento di consolidamento dello status quo. "La vera educazione dev’essere un’educazione alla critica", scrive Giussani. Non c’è nulla di più impensabile qui in Cambogia, dove vige tolleranza zero per qualsiasi opinione diversa da quella governativa».

Il parroco ortodosso e la missione
Ioann Privalov è un sacerdote ortodosso, parroco in un villaggio vicino ad Archangel’sk, uno dei principali porti della Russia affacciato sul Mar Bianco, a ventiquattr’ore di treno da Mosca. Appartiene alla fraternità ortodossa San Filaret e qualche anno fa, insieme ad altri amici, si era messo a studiare le diverse esperienze comunitarie e i movimenti cattolici. E così ha 'incontrato' Giussani: leggendo i suoi libri pubblicati in russo, ha scoperto la densità di parole come 'missione' ed 'esperienza', e ha scoperto un padre: «Qualche tempo fa ho fatto una predica sulla missione, elencando varie personalità ortodosse che mi hanno guidato nel cammino, poi ho detto ai parrocchiani: Scusatemi, ma tra questi miei padri nella fede adesso devo citare anche un sacerdote cattolico, don Giussani. Lui mi ha testimoniato proprio questo: salendo i tre gradini di un liceo milanese dove insegnava negli anni Cinquanta, aveva la consapevolezza di portare l’Avvenimento di Cristo nel mondo».

Gli amici dell’ebreo Jonathan
Il pensiero e l’opera di Giussani hanno colpito anche persone che vivono l’esperienza religiosa ebraica, come testimonia da Gerusalemme Jonathan Sierra, un ebreo di origine italiana che dal 1979 vive in Israele ed è responsabile della Compagnia delle opere locale, una realtà nata nel 2004 dall’incontro tra cristiani ed ebrei, arabi e israeliani. «Non ho conosciuto di persona Giussani, ma ho conosciuto i suoi amici che mi parlavano di lui, a cui lui ha dato tanto e ai quali oggi voglio bene. Parlare del carisma, di qualcuno che non hai personalmente incontrato, è un po’ come parlare della luce della luna. La vedi, evidente e chiara, ma sai che è una luce riflessa. Ma spesso è così intensa da mostrarti il panorama attorno. Così forte da riuscire a farti leggere quella mappa, che è complicata, ma in cui è indicato il percorso da seguire».
Giorgio Paolucci


Cl, la fede motore dell’uomo – Giorgio Paolucci – Avvenire, 20 febbraio 2009
S copo primario del movimento di Comunione e liberazione è l’educazione alla fede dei pro­pri aderenti e la collaborazione alla missione della Chiesa in tutti gli am­biti della società. Nasce nel 1954 a Milano quando don Luigi Giussani dà vita, a partire dal liceo classico Berchet, a Gioventù Studentesca. La sigla attuale, Comunione e libera­zione, compare per la prima volta in un volantino distribuito all’univer­sità ed esprime la convinzione che l’avvenimento cristiano, vissuto nel­la comunione, è il fondamento del­l’autentica liberazione dell’uomo. Attualmente Cl è presente in circa 70 Paesi. Non c’è alcuna forma di tes­seramento, ma solo la libera parte­cipazione delle persone. Lo stru­mento fondamentale di formazione degli aderenti è la «scuola di comu­nità », una catechesi che quest’anno ha come strumento di lavoro il libro di Giussani Si può vivere così? (Riz­zoli), ora disponibile anche in au­diobook con tre Cd-Mp3.
La rivista ufficiale del movimento è il mensile Tracce-Litterae Commu­nionis
(55mila copie in Italia), che viene pubblicato in dieci edizioni
straniere e che da pochi giorni è af­fiancato dal sito www.tracce.it, con notizie sulla vita di Cl e della Chiesa e approfondimenti su scuola, uni­versità, cultura, società.
Leggere, diceva don Giussani, è il pri­mo modo di ascoltare e quindi di im­parare. E nella storia del movimen­to i libri sono sempre stati racco­mandati come uno strumento fon­damentale di conoscenza e di giu­dizio. Nel 1993 Giussani ha fondato la collana I libri dello spirito cristia­no,
attualmente diretta da don Carrón, che ha al suo attivo oltre cen­to titoli. Sono romanzi, saggi e testi di poesia in cui si mostra, con varia genialità e secondo diverse prospet­tive storiche e psicologiche, uno spi­rito cristiano impegnato a scoprire e verificare la ragionevolezza della fede dentro le circostanze della vita. Nel 1997 Giussani ha anche dato vi­ta alla collana musicale Spirto gen­til,
che ha finora realizzato oltre 40 cd con opere di musica classica e moderna. Sulla figura del fondatore sono stati pubblicati molti testi: il più recente, edito in questi giorni, è
Don Giussani. La sua esperienza del­l’uomo e di Dio (San Paolo), scritto da monsignor Massimo Camisasca, che lo conobbe a 14 anni sui banchi del liceo Berchet di Milano e che nel 1985 ha fondato la Fraternità sacer­dotale dei missionari di San Carlo Borromeo (di cui è superiore gene­rale), una delle «gemmazioni» nate dall’esperienza di Cl. Le altre sono l’associazione di laici consacrati Me­mores
Domini, la congregazione del­le Suore di Carità dell’Assunzione, la Fraternità San Giuseppe, che aggre­ga persone vedove o non sposate.
In ambito sociale, economico e e­ducativo opera la Compagnia delle Opere, che riunisce 34mila piccole e medie imprese, opere caritative, en­ti culturali e imprese non profit.
Dal 1980 nell’ultima settimana di a­gosto si celebra ogni anno a Rimini il Meeting per l’amicizia tra i popoli:
è la manifestazione estiva di incon­tri, cultura, musica e spettacolo più frequentata del mondo.
Giorgio Paolucci


Benedetto XVI presenta la figura di San Beda il Venerabile - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 18 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il nuovo ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato sulla figura di San Beda il Venerabile.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
il Santo che oggi avviciniamo si chiama Beda e nacque nel Nord-Est dell’Inghilterra, esattamente in Northumbria, nell’anno 672/673. Egli stesso racconta che i suoi parenti, all’età di sette anni, lo affidarono all’abate del vicino monastero benedettino perché venisse educato: "In questo monastero – egli ricorda – da allora sono sempre vissuto, dedicandomi intensamente allo studio della Scrittura e, mentre osservavo la disciplina della Regola e il quotidiano impegno di cantare in chiesa, mi fu sempre dolce o imparare o insegnare o scrivere" (Historia eccl. Anglorum, V, 24). Di fatto, Beda divenne una delle più insigni figure di erudito dell’alto Medioevo, potendo avvalersi dei molti preziosi manoscritti che i suoi abati, tornando dai frequenti viaggi in continente e a Roma, gli portavano. L’insegnamento e la fama degli scritti gli procurarono molte amicizie con le principali personalità del suo tempo, che lo incoraggiarono a proseguire nel suo lavoro da cui in tanti traevano beneficio. Ammalatosi, non smise di lavorare, conservando sempre un’interiore letizia che si esprimeva nella preghiera e nel canto. Concludeva la sua opera più importante la Historia ecclesiastica gentis Anglorum con questa invocazione: "Ti prego, o buon Gesù, che benevolmente mi hai permesso di attingere le dolci parole della tua sapienza, concedimi, benigno, di giungere un giorno da te, fonte di ogni sapienza, e di stare sempre di fronte al tuo volto". La morte lo colse il 26 maggio 735: era il giorno dell’Ascensione.
Le Sacre Scritture sono la fonte costante della riflessione teologica di Beda. Premesso un accurato studio critico del testo (ci è giunta copia del monumentale Codex Amiatinus della Vulgata, su cui Beda lavorò), egli commenta la Bibbia, leggendola in chiave cristologica, cioè riunisce due cose: da una parte ascolta che cosa dice esattamente il testo, vuole realmente ascoltare, comprendere il testo stesso; dall’altra parte, è convinto che la chiave per capire la Sacra Scrittura come unica Parola di Dio è Cristo e con Cristo, nella sua luce, si capisce l’Antico e il Nuovo Testamento come "una" Sacra Scrittura. Le vicende dell’Antico e del Nuovo Testamento vanno insieme, sono cammino verso Cristo, benché espresse in segni e istituzioni diverse (è quella che egli chiama concordia sacramentorum). Ad esempio, la tenda dell’alleanza che Mosè innalzò nel deserto e il primo e secondo tempio di Gerusalemme sono immagini della Chiesa, nuovo tempio edificato su Cristo e sugli Apostoli con pietre vive, cementate dalla carità dello Spirito. E come per la costruzione dell’antico tempio contribuirono anche genti pagane, mettendo a disposizione materiali pregiati e l’esperienza tecnica dei loro capimastri, così all’edificazione della Chiesa contribuiscono apostoli e maestri provenienti non solo dalle antiche stirpi ebraica, greca e latina, ma anche dai nuovi popoli, tra i quali Beda si compiace di enumerare gli Iro-Celti e gli Anglo-Sassoni. San Beda vede crescere l’universalità della Chiesa che non è ristretta a una determinata cultura, ma si compone di tutte le culture del mondo che devono aprirsi a Cristo e trovare in Lui il loro punto di arrivo.
Un altro tema amato da Beda è la storia della Chiesa. Dopo essersi interessato all’epoca descritta negli Atti degli Apostoli, egli ripercorre la storia dei Padri e dei Concili, convinto che l’opera dello Spirito Santo continua nella storia. Nei Chronica Maiora Beda traccia una cronologia che diventerà la base del Calendario universale "ab incarnatione Domini". Già da allora si calcolava il tempo dalla fondazione della città di Roma. Beda, vedendo che il vero punto di riferimento, il centro della storia è la nascita di Cristo, ci ha donato questo calendario che legge la storia partendo dall’Incarnazione del Signore. Registra i primi sei Concili Ecumenici e i loro sviluppi, presentando fedelmente la dottrina cristologica, mariologica e soteriologica, e denunciando le eresie monofisita e monotelita, iconoclastica e neo-pelagiana. Infine redige con rigore documentario e perizia letteraria la già menzionata Storia Ecclesiastica dei Popoli Angli, per la quale è riconosciuto come "il padre della storiografia inglese". I tratti caratteristici della Chiesa che Beda ama evidenziare sono: a) la cattolicità come fedeltà alla tradizione e insieme apertura agli sviluppi storici, e come ricerca della unità nella molteplicità, nella diversità della storia e delle culture, secondo le direttive che Papa Gregorio Magno aveva dato all’apostolo dell’Inghilterra, Agostino di Canterbury; b) l’apostolicità e la romanità: a questo riguardo ritiene di primaria importanza convincere tutte le Chiese Iro-Celtiche e dei Pitti a celebrare unitariamente la Pasqua secondo il calendario romano. Il Computo da lui scientificamente elaborato per stabilire la data esatta della celebrazione pasquale, e perciò l’intero ciclo dell’anno liturgico, è diventato il testo di riferimento per tutta la Chiesa Cattolica.
Beda fu anche un insigne maestro di teologia liturgica. Nelle Omelie sui Vangeli domenicali e festivi, svolge una vera mistagogia, educando i fedeli a celebrare gioiosamente i misteri della fede e a riprodurli coerentemente nella vita, in attesa della loro piena manifestazione al ritorno di Cristo, quando, con i nostri corpi glorificati, saremo ammessi in processione offertoriale all’eterna liturgia di Dio nel cielo. Seguendo il "realismo" delle catechesi di Cirillo, Ambrogio e Agostino, Beda insegna che i sacramenti dell’iniziazione cristiana costituiscono ogni fedele "non solo cristiano ma Cristo". Ogni volta, infatti, che un’anima fedele accoglie e custodisce con amore la Parola di Dio, a imitazione di Maria concepisce e genera nuovamente Cristo. E ogni volta che un gruppo di neofiti riceve i sacramenti pasquali, la Chiesa si "auto-genera", o con un’espressione ancora più ardita, la Chiesa diventa "madre di Dio", partecipando alla generazione dei suoi figli, per opera dello Spirito Santo.
Grazie a questo suo modo di fare teologia intrecciando Bibbia, Liturgia e Storia, Beda ha un messaggio attuale per i diversi "stati di vita": a) agli studiosi (doctores ac doctrices) ricorda due compiti essenziali: scrutare le meraviglie della Parola di Dio per presentarle in forma attraente ai fedeli; esporre le verità dogmatiche evitando le complicazioni eretiche e attenendosi alla "semplicità cattolica", con l’atteggiamento dei piccoli e umili ai quali Dio si compiace di rivelare i misteri del Regno; b) i pastori, per parte loro, devono dare la priorità alla predicazione, non solo mediante il linguaggio verbale o agiografico, ma valorizzando anche icone, processioni e pellegrinaggi. Ad essi Beda raccomanda l’uso della lingua volgare, com’egli stesso fa, spiegando in Northumbro il "Padre Nostro", il "Credo" e portando avanti fino all’ultimo giorno della sua vita il commento in volgare al Vangelo di Giovanni; c) alle persone consacrate che si dedicano all’Ufficio divino, vivendo nella gioia della comunione fraterna e progredendo nella vita spirituale mediante l’ascesi e la contemplazione, Beda raccomanda di curare l’apostolato - nessuno ha il Vangelo solo per sé, ma deve sentirlo come un dono anche per gli altri - sia collaborando con i Vescovi in attività pastorali di vario tipo a favore delle giovani comunità cristiane, sia rendendosi disponibili alla missione evangelizzatrice presso i pagani, fuori del proprio paese, come "peregrini pro amore Dei".
Ponendosi da questa prospettiva, nel commento al Cantico dei Cantici Beda presenta la Sinagoga e la Chiesa come collaboratrici nella diffusione della Parola di Dio. Cristo Sposo vuole una Chiesa industriosa, "abbronzata dalle fatiche dell’evangelizzazione" – è chiaro l’accenno alla parola del Cantico dei Cantici (1, 5), dove la sposa dice: "Nigra sum sed formosa" (Sono abbronzata, ma bella) –, intenta a dissodare altri campi o vigne e a stabilire fra le nuove popolazioni "non una capanna provvisoria ma una dimora stabile", cioè a inserire il Vangelo nel tessuto sociale e nelle istituzioni culturali. In questa prospettiva il santo Dottore esorta i fedeli laici ad essere assidui all’istruzione religiosa, imitando quelle "insaziabili folle evangeliche, che non lasciavano tempo agli Apostoli neppure di prendere un boccone". Insegna loro come pregare continuamente, "riproducendo nella vita ciò che celebrano nella liturgia", offrendo tutte le azioni come sacrificio spirituale in unione con Cristo. Ai genitori spiega che anche nel loro piccolo ambito domestico possono esercitare "l’ufficio sacerdotale di pastori e di guide", formando cristianamente i figli ed afferma di conoscere molti fedeli (uomini e donne, sposati o celibi) "capaci di una condotta irreprensibile che, se opportunamente seguiti, potrebbero accostarsi giornalmente alla comunione eucaristica" (Epist. ad Ecgberctum, ed. Plummer, p. 419)
La fama di santità e sapienza di cui Beda godette già in vita, valse a guadagnargli il titolo di "Venerabile". Lo chiama così anche Papa Sergio I, quando nel 701 scrive al suo abate chiedendo che lo faccia venire temporaneamente a Roma per consulenza su questioni di interesse universale. Dopo la morte i suoi scritti furono diffusi estesamente in Patria e nel Continente europeo. Il grande missionario della Germania, il Vescovo san Bonifacio (+ 754), chiese più volte all’arcivescovo di York e all'abate di Wearmouth che facessero trascrivere alcune sue opere e gliele mandassero in modo che anch'egli e i suoi compagni potessero godere della luce spirituale che ne emanava. Un secolo più tardi Notkero Galbulo, abate di San Gallo (+ 912), prendendo atto dello straordinario influsso di Beda, lo paragonò a un nuovo sole che Dio aveva fatto sorgere non dall’Oriente ma dall’Occidente per illuminare il mondo. A parte l’enfasi retorica, è un fatto che, con le sue opere, Beda contribuì efficacemente alla costruzione di una Europa cristiana, nella quale le diverse popolazioni e culture si sono fra loro amalgamate, conferendole una fisionomia unitaria, ispirata alla fede cristiana. Preghiamo perché anche oggi ci siano personalità della statura di Beda, per mantenere unito l’intero Continente; preghiamo affinché tutti noi siamo disponibili a riscoprire le nostre comuni radici, per essere costruttori di una Europa profondamente umana e autenticamente cristiana.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni. Per me è un ricordo indimenticabile l’incontro a Brindisi. Guidati dall’arcivescovo Monsignor Rocco Talucci siete venuti a ricambiare la mia visita alla vostra Comunità diocesana, che per me - come ho detto - rimane un prezioso ricordo. Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza così numerosa e vi incoraggio a vivere il vostro Sinodo diocesano come una importante tappa di crescita nella comunione ecclesiale. Saluto voi, pellegrini provenienti dall’Arcidiocesi di Ancona-Osimo, accompagnati dal vostro Pastore Mons. Edoardo Menichelli, ed assicuro la mia preghiera perché si rafforzi in ciascuno il fermo desiderio di annunciare a tutti Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Saluto il pellegrinaggio promosso dai Chierici Regolari di San Paolo – Barnabiti - vedo il mio vescovo di Velletri, Monsignor Erba, con cui per tanti anni ho condiviso l’esperienza pastorale di Velletri - ed auspico che voi possiate testimoniare con sempre più forte ardore apostolico nella Chiesa il vostro specifico carisma paolino. Saluto le Suore Figlie di Maria Santissima dell’Orto, riunite per il Capitolo generale, e prego il Signore perché da questa assemblea scaturiscano generosi propositi di vita evangelica per l’intero Istituto.
Infine il mio saluto si rivolge ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Cari giovani, preparatevi ad affrontare le importanti tappe della vita con impegno spirituale, edificando ogni vostro progetto sulle solide basi della fedeltà a Dio. Cari malati, siate sempre consapevoli che, offrendo le vostre sofferenze al Padre celeste in unione a quelle di Cristo, voi contribuite alla costruzione del Regno di Dio. E voi, cari sposi novelli, fate crescere ogni giorno la vostra famiglia grazie all'ascolto di Dio, perché saldo resti il vostro reciproco amore e si apra all'accoglienza dei più bisognosi.
E a tutti il mio ringraziamento cordiale. Grazie per la pazienza, nel vento e con il freddo. Grazie a voi tutti.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


La strada di Marcos e Cleuza - Roberto Fontolan - giovedì 19 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
In Brasile ci sono cinquanta milioni di poveri. Poveri veri. Famiglie che vivono recuperando lattine usate, sotto-sottoproletariato delle megalopoli, ragazze plurimadri, venditori ambulanti.
Probabilmente sono più di cinquanta milioni, ma certo il governo federale di sinistra non ama dichiarare i numeri e le enormi difficoltà del recupero sociale. Un governo che si potrebbe definire “governista”, nel senso di uno statalismo meno teorizzato e più realizzato, pervasivamente. Non innanzitutto una filosofia dello Stato che determina le scelte, ma una prassi onnicomprensiva di Governo. Che fa e che deve fare. Tutto. A tutti i livelli, da quello federale a quello comunale, passando per i potentissimi governatori dei singoli Stati che compongono l’immenso, pauroso, strabiliante Paese.
Le nuove concezioni dello sviluppo (anche del micro-sviluppo) affermano che il riscatto avviene attraverso la persona, è la persona che può e deve diventare responsabile della propria avventura nella comunità. E dunque ogni politica sociale deve mettere al centro la persona, garantendo condizioni di base e incoraggiandola a camminare cercando la propria riuscita. È questa l’unica certa strada di uscita dalla povertà, perché risponde al desiderio umano di libertà e protagonismo.
La “linea governista”, maggioritaria in Brasile, ritiene invece che le strade debbano essere determinate dall’alto. Il governo eroga, il governo assegna, il governo garantisce. Case e servizi, salario di sussistenza e impiego, progetti sociali e processi di crescita. In questo modo si aiutano le persone o si diffonde l’assistenzialismo? La società si arricchisce di nuovi soggetti, di persone e gruppi capaci di autosufficienza e di creatività o si favoriscono passività e dipendenza dall’alto?
La strada proposta da Cleuza e Marcos Zerbini segue il tracciato della persona. Da sempre impegnati nella lotta contro la povertà nella megalopoli di San Paolo, guidano una Associazione che ormai raduna ben oltre centomila aderenti. Una parte sono famiglie che vogliono diventare proprietarie di una casa (diciottomila lo hanno già fatto); una parte sono giovani che vogliono raggiungere la laurea universitaria. Intraprendono un cammino duro, lungo e senza garanzie. E bello al punto che di quelli che lo abbandonano si ricordano facilmente i nomi.
Gli scopi sono la casa e la laurea, ma quello che trovano nella vita dell’Associazione è il metodo per raggiungerli. Una scuola di vita, di condivisione, di amicizia, di responsabilità, di protagonismo. Un gigantesco laboratorio di formazione dove incredibilmente l’allegria non nasconde le difficoltà, anzi, in qualche modo se ne nutre e le assimila.
Domenica scorsa dodicimila tra “senza casa” e “senza università” hanno riempito il palazzetto dello sport di Ibirapuera, a San Paolo, per incontrare don Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Ai suoi “seguaci” Marcos Zerbini lo ha presentato come «la persona che io seguo». Per Marcos e Cleuza infatti «nella vita si seguono persone, quelle che ti aiutano nel cammino, che rendono più chiari i criteri dell’esperienza».
Seguire qualcuno che sta seguendo qualcun altro. È la formula di questi due leader popolari acclamati e soprattutto amati. Al punto che il loro allegro popolo di poveri non ha esitato ad amare l’uomo che loro stessi amano. Striscioni, canti, applausi per esprimere la felicità di aver trovato un nuovo amico «che ci aiuta nel cammino».
Il successore di don Giussani («io seguo lui») ha delineato una proposta cristiana vibrante di passione per la vita. Desiderio, intensità, pienezza sono state le sue parole chiave. Molto è stato detto su Gesù in un discorso che in nulla c’entrava con la “religione”, inflazionatissima in Brasile, e riguardava invece la persona, la sua verità, la sua dignità, e con esse il suo “diritto” a incontrare risposta ai bisogni e compimento delle attese. La proposta di un “io” capace di vivere qualunque circostanza, anche la povertà. È questa la strada per sconfiggerla.


SCUOLA/ Se lo Stato si inventa un “catechismo” laico - Donata Conci - giovedì 19 febbraio 2009
Nell’articolo di G. Cominelli ”Ora di religione: un’occasione troppo spesso sprecata”, apparso su Il Sussidiario il 9 febbraio 2009, si fa un significativo cenno al Land di Berlino a proposito dell’ora di “istruzione etica”, recentemente introdotta fra le discipline obbligatorie delle scuole di ogni ordine e grado.
La SPD dello Stato federale aveva infatti avanzato qualche anno fa la proposta di istituire l’obbligo di insegnamento di etica nella scuola pubblica per far conoscere e approfondire i valori etici laici universalmente riconosciuti ai quali educarsi e conformarsi per una convivenza pacifica e ordinata.
Ammessa per legge tale richiesta, si è proceduto all’introduzione per l’anno 2006/2007 di due ore settimanali della nuova disciplina con frequenza obbligatoria nella scuola media, con l’obiettivo di mandarla a regime nel 2010. Facoltativa è diventata in base a tale decisione l’ora di religione, la frequenza della quale non esonera dall’ora di “educazione dei valori”, obbligatoria per tutti.
Con gli stessi intenti e obiettivi è stato istituito in Spagna il corso di ”Educacion para la Ciudadania” (“EpC”) obbligatorio e curricolare nella scuola primaria e secondaria in conformità alla Legge organica di Educazione (Loe) del 2006 del governo socialista di J.L.Zapatero.
In entrambi i Paesi tali decisioni hanno suscitato dibattiti e forti critiche sollevate da laici e religiosi non tanto per l’introduzione della nuova disciplina raccomandata peraltro dal Consiglio d’Europa agli Stati membri nel 2002, quanto per una serie di considerazioni e richieste sulle quali è opportuno riflettere ed esprimere un giudizio.
In Germania prima di tutto si chiede, per promuovere l’educazione e la formazione dei giovani, che l’insegnamento della religione rientri a pieno titolo nella proposta educativa che la scuola rivolge a studenti e genitori, per i suoi contenuti religiosi, culturali e storici.
I partecipanti al Simposio Internazionale di Roma sull’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche in Europa avevano affermato infatti nella Dichiarazione congiunta dell’aprile del 1991, che: «l’insegnamento religioso confessionale è la migliore forma» di realizzazione della dimensione religiosa nell’educazione scolastica e «quindi giustamente rappresenta una componente fissa della scuola europea». Non deve pertanto essere declassata e scoraggiata la frequenza all’ora di religione.
In Germania tra l’altro, per effetto della nuova normativa la frequenza dell’ora di religione è diminuita di un terzo, come ha rilevato il vescovo luterano Wolfgang Huber, capo della chiesa evangelica del Land, in quanto gli studenti rifiutano di sobbarcarsi l’impegno di un corso facoltativo oltre a quello obbligatorio.
L’introduzione della nuova disciplina esigerebbe una chiarezza ancora inesistente sui suoi contenuti e cioè sui valori e sui principi da insegnare, perché non risultino fondati su una concezione atea della realtà, in contrasto con la fede religiosa.
Ogni studente infatti, deve essere libero di scegliere per la sua formazione: se vuol vivere l’esperienza religiosa attraverso la conoscenza di fatti, testimonianze e documenti, o se intende approfondire principi di etica da spendere nella vita personale e sociale. E la stessa libertà di scelta deve essere riconosciuta ai genitori che hanno il diritto-dovere dell’educazione dei figli da impartire in base alle loro concezioni e convinzioni (come peraltro è sancito dalla Costituzione tedesca all’art 7, che recita al comma II: «Coloro che hanno il diritto dell'educazione decidono della partecipazione del fanciullo all'insegnamento religioso»).
Per questo a Berlino i promotori dell’iniziativa “PRO RELI” (“a favore dell’ ora di religione”) si sono mobilitati subito dopo l’introduzione dell’ora di etica laica con il pieno appoggio delle chiese e delle organizzazioni religiose, della comunità ebraica e musulmana, di CDU e FDPI, per affermare il diritto di libertà di scelta di studenti ed educatori fra l’ora di etica e quella di religione, raccogliendo più di 265.000 firme per promuovere un referendum popolare indetto per il mese di aprile 2009.
In Spagna l’insegnamento di educazione civica da impartire agli studenti dai dieci ai diciassette anni di età è stato contestato e giudicato come un’imposizione arbitraria dello stato che agisce con la autorità di chi si considera unico soggetto educatore delle coscienze e formatore di cittadini, senza nulla concedere ai veri soggetti educatori, cioè alle famiglie in primo luogo e accanto ad esse a tutti coloro che svolgono funzioni educative nella vita dei giovani, rappresentanti delle diverse religioni compresi.
Anche qui si è costituito un movimento di opinione fortemente critico, deciso a resistere all’introduzione della nuova disciplina (definita un”catechismo socialista”), di fronte alla quale invocare l’obiezione di coscienza.
Sull’argomento è intervenuta anche la Conferenza Episcopale che ha giudicato la nuova disciplina di educazione alla cittadinanza pericolosa per la forte influenza che i suoi contenuti possono esercitare sulle coscienze dei più giovani. Il Foro espanol de la Familia. ha denunciato a sua volta la grave interferenza dello stato nella formazione dei giovani («que suponen una intromisión descarada en materias que afectan a la conciencia y moral de los niños»).
La disposizione legislativa adottata dalla Spagna lede infatti la libertà di pensiero e di coscienza della persona oltre al diritto-dovere dei genitori e della scuola di provvedere affinché i figli ricevano «una formazione religiosa e morale in conformità con le loro convinzioni» come viene enunciato dalla Costituzione all’art 27,c.3 («Los poderes públicos garantizan el derecho que asiste a los padres para que sus hijos reciban la formación religiosa y moral que esté de acuerdo con sus propias convicciones»).
Le informazioni che riguardano questi paesi ci sollecitano ad affrontare anche per le scuole italiane queste tematiche con attenzione e responsabilità educativa.


USA/ Quando nemmeno una scuola di Gesuiti può tenere i crocefissi nelle aule - Redazione - giovedì 19 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Secondo un rapporto dell’Inside Higher Ed (n.d.r. un sito web specializzato sull’educazione), vi è un po’ di baruffa al Boston College, uno dei fiori all’occhiello delle università dei Gesuiti. Secondo il portavoce Jack Dunn, fin dal 2000 un comitato sta studiando come aumentare la presenza dell’arte cristiana nel college. Come parte del progetto, veniva chiesto agli studenti che si recavano in America Latina o in Europa di riportare crocefissi e altri oggetti di arte religiosa.
Al Boston College non in tutte le aule vi è un crocefisso, continua Dunn, «sapevano che un certo numero di aule non aveva alcuna presenza di arte religiosa e così hanno aspettato di avere un numero sufficiente di oggetti per coprire tutte le aule. Questa è la sola ragione per cui è stato fatto adesso». Qualcuno nell’università lo ha vissuto come uno “tsunami” di arte religiosa e lo ha anche sentito come un affronto.
«Un’aula è un luogo dove si suppone che io, come docente, insegni senza alcun pregiudizio, insegni la verità. Se si mette un’icona, un simbolo o una bandiera, si confondono le cose» ha detto Amir Hoveyda, il preside della facoltà di Chimica. «Per 18 anni ho insegnato in un’università dove mi era permesso di insegnare in un ambiente in cui mi trovavo a mio agio. Improvvisamente, e senza nessuna discussione, senza nessun avvertimento o dibattito, letteralmente nel mezzo della notte, durante un intervallo, sono apparse queste icone».
Per Dwayne Eugène Carpenter, preside della facoltà di Lingue e Letteratura Romanze e condirettore del Programma di Studi Ebraici, l’aver messo questi oggetti di arte religiosa è un fatto che divide. Questi simboli, ha detto, non sono neutri: «Penso che sia ingenuo credere che appendere dei crocefissi possa aumentare la devozione religiosa. Dall’altro lato, può avere un effetto negativo sugli studenti», che potrebbero considerarli un elemento di malessere.
Un commento di Carpenter va dritto al cuore della questione: «Credo che molti siano stati turbati, ma la mia sensazione è che la maggioranza si sia detta “questa è una scuola cattolica e fanno quello che ritengono di fare”. Lo direi pubblicamente: è vero. È un istituto gesuita e come tale ha tutto il diritto di mettere immagini dove vuole. Solo che non è una cosa molto intelligente».
A mio parere, la cosa più evidente in quanto dice Carpenter è la sensazione del distacco dai Gesuiti e dalla missione del college. Infatti, usa “loro” e parla di una “crisi di identità” da parte del Boston College. Sia lui che Hoveyda affermano di non ricordare che vi fosse alcun oggetto religioso quando hanno cominciato a insegnare. Dice Hoveyda: «Per quanto mi riguarda, posso solo dirvi che, se avessi visto gli stessi simboli durante il colloquio nel dicembre 1989, non avrei preso in considerazione questo posto. Ho avuto molte offerte da altre parti e se avessi saputo che sarebbero apparsi questi oggetti… molto probabilmente non avrei preso le decisioni che ho preso (cioè di restare)».
Questa storia è paradigmatica di ciò che succede in ogni istituto di istruzione superiore cattolico o cristiano: quando si tenta di riprendere o rafforzare la propria identità, ci si accorge di non aver più la piena proprietà dell’istituzione. Almeno chi lavora nell’istituto da molti anni pensa di poter esercitare un suo diritto di proprietà, forse non andandosene come avrebbe voluto fare Hoveyda, ma ignorando semplicemente tutte le iniziative e attività dirette a far apprendere e apprezzare l’eredità cattolica.
Si può anche capire il loro punto di vista. Per parecchi decenni, molte università cattoliche e cristiane, hanno cercato di essere accolte dall’opinione dominante minimizzando la loro identità religiosa. Magari hanno mantenuto la richiesta agli studenti di frequentare corsi di teologia o filosofia, spesso con l’opzione di “studi religiosi” che non chiedevano agli studenti di confrontarsi con questioni di fede. Durante questi anni hanno cercato, assunto e dato cattedre a studiosi di grosso calibro, ma assolutamente disinteressati agli aspetti religiosi e, addirittura, ad alcuni che considerano la religione un fatto del tutto irrazionale. Questi docenti hanno sviluppato programmi di ricerca, attirato laureati, costituito dipartimenti e, spesso, assunto gente che la pensava come loro. Sono così diventati stakeholder dell’istituzione.
La nozione di una corretta “separazione tra Chiesa e Stato” caratterizza il pensiero di molti di costoro. Sebbene sappiano che una scuola privata non è un’istituzione dello Stato, il forte atteggiamento del tipo “non è permessa alcuna religione”, che permea le scuole pubbliche e le università, sembra essere diventato una norma sociale generale. Così, come ha detto il Reverendo T. Frank Kennedy (presidente del comitato per l’arte cristiana del Boston College), gli sforzi «per cercare di proporre l’invito di Cristo a partecipare all’amore, un amore che è perfetto nel suo altruismo» vengono considerati indiscreti, coercitivi e non ben accetti.
Kennedy la pensa diversamente: «Un invito all’amore e un invito alla fede sono proprio questo, un invito. Non si è obbligati a rispondere, si può rifiutare, e si possono avere molte ragioni per declinare l’invito, ma sottintendere che un’università gesuita o cattolica non sia libera di fare questo invito è semplicemente improponibile».
«L’identità del Boston College come istituzione gesuita e cattolica, che siamo orgogliosi di avere ereditato e che siamo felici di trasmettere alle prossime generazioni di allievi, ci spinge, come già
detto da Giovanni Paolo II, “a offrire di partecipare al profondo desiderio che abbiamo di riconoscerci nel Crocefisso e di vederlo, non come qualcosa che divide, ma come qualcosa che deve essere rispettato da tutti e che può unire”».
Il problema si presenterà sotto diverse forme man mano che i college cattolici e cristiani vorranno affermare la loro identità. Da un lato, alcuni dei docenti più laicizzati se ne andranno verso altre università. Altri, come Brad Gregory che ha lasciato una cattedra a Stanford per insegnare a Notre Dame, saranno invece attratti da un tipo di istituzione dove l’integrazione tra fede e ragione è accettata e prevista. Nel frattempo, molti college e università cristiane dovranno ospitare facoltà desiderose di accogliere la loro identità insieme ad altre che le sono del tutto allergiche.
L’iniziativa del Boston College di portare l’arte cristiana nel campus invita le persone a venire a conoscere e a comprendere le convinzioni e, sì, la fede dei Gesuiti, la cui casa accademica è nel campus. Nessuno è costretto a unirsi, ma così può sapere chi sono
(Edith Bogue, OSB Professore associato di sociologia)


Avvenire 19 Febbraio 2009 - Intervento del cardinale Camillo Ruini - Laicità, punti fermi per l’etica pubblica - Con il Vaticano II si è aperta una nuova stagione di rapporti fra cattolici e mondo laico. Ma oggi viviamo una fase nuova, a volte fatta di contese.

Con il Vaticano II è stata inaugurata una nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e laicità, come tra religione cattolica e libertà: una stagione nella quale si è coltivata inizialmente la speranza che ogni contenzioso sulla laicità fosse ormai alle nostre spalle. Non era una speranza priva di ragioni concrete, anche e particolarmente per quanto riguarda il terreno "sensibile" dei rapporti tra Chiesa e Stato: con il pieno riconoscimento della libertà religiosa da parte del Concilio Vaticano II veniva meno infatti la giustificazione di principio di una "religione di Stato", che aveva costituito l’ostacolo sostanziale alla laicità dello Stato stesso e delle sue istituzioni. Anche la differenza tra regimi "concordatari" e regimi di separazione tra Stato e Chiesa diventava a questo punto meno rilevante, dato che anche i Concordati, come mostra esemplarmente l’Accordo di revisione del Concordato stipulato tra Stato italiano e Santa Sede nel 1984, si pongono ormai espressamente al di fuori di un’ottica di religione di Stato. Si legge infatti nel Protocollo addizionale di tale Accordo, in relazione all’articolo 1: «Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano».

Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti dentro a una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità. A ben vedere, tuttavia, l’oggetto del contendere si è profondamente modificato: non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni. A questo riguardo infatti la distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.

Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili. Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico. Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare in Italia la Chiesa cattolica. In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni.

Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire «il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto anzi nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica». Giovanni Paolo II domandò pertanto alla Chiesa italiana di «operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia o ricuperi - anche e particolarmente in una società pluralista e parzialmente scristianizzata - un ruolo-guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro».

Il contenzioso riguardo alla laicità incentrato sulle grandi problematiche etiche ed antropologiche ha oggi d’altronde un altro protagonista, che proprio riguardo a tali problematiche si pone in modo antitetico rispetto alla Chiesa e al cristianesimo. Il suo nucleo concettuale è la convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile all’universo fisico, mentre sul piano etico e giuridico il suo assunto fondamentale è quello della libertà individuale, in rapporto alla quale va evitata ogni discriminazione. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo. Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato «la dittatura del relativismo», una forma di cultura cioè che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.

Proprio questo taglio radicale è però lontano dall’essere da tutti condiviso in quello che si suole chiamare "il mondo laico": anzi, molti "laici" ritengono di dover rifiutare un simile taglio per rimanere fedeli alle radici e motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo. L’allora cardinale Ratzinger ha fornito una motivazione storica e anche teologica di questa nuova sintonia tra laici e cattolici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri «dev’essere relativizzata» (Senza radici, pp. 111-112). In una lettera scritta a Marcello Pera in occasione della recentissima pubblicazione del libro di quest’ultimo Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica, Benedetto XVI ha preso di nuovo e fortemente posizione a favore del legame intrinseco tra liberalismo e cristianesimo.

Inoltre, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, aveva avanzato «una proposta ai laici»: sostituire la formula di Ugo Grozio etsi Deus non daretur – anche se Dio non esistesse –, ormai storicamente consunta perché nel corso del secolo XX è progressivamente venuta meno quella larga coincidenza di contenuti tra etica pubblica civile e morale cristiana che costituiva il senso concreto di tale formula, con la formula inversa, veluti si Deus daretur – come se Dio esistesse –. Anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe cioè cercare di vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse: «Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, pp. 60-63).

È doveroso aggiungere che non tutti, tra i cattolici, condividono l’apertura cordiale a questo genere di laici: non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto – a mio parere ingiusto –, temendo che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici. Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati in materia di laicità al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche etiche ed antropologiche.

L’analisi del concetto di laicità nel suo concreto articolarsi storico consente di tentare una risposta non generica alla questione del rapporto tra laicità e bene comune. Quando è intesa come autonomia delle attività umane, che devono reggersi secondo norme loro proprie, e in particolare come indipendenza dello Stato dall’autorità ecclesiastica, la laicità è certamente richiesta dal bene comune, come del resto ha ampiamente mostrato la storia dell’Europa moderna a partire dalle guerre di religione. E.-W. Böckenförde, nel suo classico saggio su La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, è tra coloro che hanno meglio evidenziato come soltanto l’indipendenza dello Stato dalle diverse confessioni religiose poteva assicurare la pace delle nazioni e la stessa libertà dei credenti.

Diverso è invece il discorso quando il concetto di laicità viene esteso ad escludere ogni riferimento delle attività umane e in particolare delle leggi dello Stato e dell’intera sfera pubblica a quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo, oltre che a quel "senso religioso" nel quale si esprime la nostra costitutiva apertura alla trascendenza. Come infatti ha mostrato lo stesso Böckenförde alla fine del saggio che ho ricordato, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.

Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su Fede e democrazia pubblicato sulla rivista «Aspenia» nel numero 42-2008 (pp. 206-208), ha proposto un assai interessante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella sua riduzione alla natura e di quel totale relativismo che sono all’origine delle predette interpretazioni della laicità. È l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso. In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde.

Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non "come" vivere, ma "perché" vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.

Sono questi i motivi per i quali Benedetto XVI ha ripetutamente proposto una laicità da lui stesso definita "sana" e "positiva", che congiunga all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del "senso religioso" che portiamo dentro di noi. Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l’intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili. Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a mio parere, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.
Camillo Ruini


Le offese orribili di una tv israeliana
a Gesù e alla Madonna

In una trasmissione satirica su Canale 10, la terza emittente televisiva più seguita in Israele (a partecipazione pubblica e privata), Lior Shlein, un tale che si autodefinisce umorista, ha pensato bene di volersi vendicare “del Vaticano e della Chiesa”. Nel corso di due puntate sono stati trasmessi dei brevi sketch infamanti, in cui vengono attaccate le figure di Gesù Cristo e della Vergine Maria con espressioni molto volgari; questo nel tentativo, esplicitamente dichiarato dal suo regista, di voler distruggere il cristianesimo. Per il Canale 10 questo non è il primo “passo falso”. L’assemblea dei vescovi cattolici di Terra Santa, in una Nota del 18 febbraio, ha protestato fortemente.
E così dopo la notizia data in questi giorni da Haaretz, importante quotidiano israeliano, sugli sputi in faccia ai cristiani lanciati dagli studenti delle scuole ebraiche ortodosse, adesso arrivano anche gli sputi televisivi a Gesù e alla Madonna…
Non c’è male… Per fortuna che Gesù dandoci il «comandamento nuovo» ci ha impedito di applicare la regola dell’ «occhio per occhio e dente per dente» altrimenti il mondo diventava una sputacchiera…


TERRA SANTA: TV CANALE 10, VESCOVI CATTOLICI “OFFESE RIPUGNANTI CONTRO LA NOSTRA FEDE”
“Offese orribili e attacchi ripugnanti”. Così l’assemblea dei vescovi cattolici di Terra Santa, in una nota del 18 febbraio, condanna un programma notturno, andato in onda in questi giorni, sul canale 10 della Tv israeliana in cui “vengono attaccate le figure di Gesù Cristo e della Vergine Maria”.
La nota firmata da 12 leader religiosi cattolici, tra cui il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal e l’emerito Michel Sabbah, il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa e mons. Elias Chacour, arcivescovo greco-melchita di Akka, parla di “offese lanciate contro la nostra fede e di conseguenza contro i cristiani. Il programma ha diretto i suoi attacchi contro le figure più sante del nostro credo nel tentativo, esplicitamente dichiarato dal suo regista, di distruggere il cristianesimo. Nel fare così Canale 10 è stato usato per profanare la nostra fede ed offendere centinaia di migliaia di cittadini israeliani cristiani e milioni di cristiani nel mondo”.
Per i vescovi cattolici il programma “è un sintomo dei grandi problemi che disturbano la società, come l'intolleranza, il rifiuto di accettare e rispettare gli altri” e si inserisce “nel più ampio quadro degli attacchi contro i cristiani in tutto Israele nel corso degli anni”. Tra questi i vescovi ricordano le copie del Nuovo Testamento bruciate in pubblico nel cortile della sinagoga di Or Yehuda. “Da anni – scrivono i vescovi - il Cristianesimo sta facendo molto per fermare le manifestazioni di antisemitismo e adesso i cristiani in Israele devono ritrovarsi, essi stessi, vittime di manifestazioni anticristiane di basso profilo?”. Nel condannare il programma l’assemblea dei vescovi chiede anche alle autorità interessate di “adottare le azioni necessarie per porre fine a tale orribile profanazione della nostra fede. E’ inconcepibile che questi incidenti debbano verificarsi in Israele, che ospita alcuni dei santuari più cari della cristianità, e che confida molto sui pellegrinaggi dalle nazioni cristiane.
Chiediamo al popolo israeliano e alle sue autorità di prendere le misure adeguate nei confronti di tale inaccettabile offesa e dei suoi autori. Al tempo stesso, chiediamo a Canale 10 di riconoscere la propria responsabilità, e chiedere ufficialmente e pubblicamente scusa per questo incidente e per evitare che si ripeti”.
Nella nota si ringraziano anche “per la solidarietà mostrata i rappresentanti musulmani ed ebrei, anche loro sconvolti e sconcertati” dal programma.
SIR - Giovedì 19 Febbraio 2009 12:47


Tornare al Concilio! A quello di Calcedonia del 451 - Un libro accusa la Chiesa d'aver paura del Vaticano II. Ma c'è chi obietta che c'è un pericolo ancor più grave: quello di offuscare la dottrina su Cristo dei Concili dei primi secoli. Dialogo immaginario tra un teologo e un suo allievo - di Sandro Magister
ROMA, 19 febbraio 2009 – Chi ha paura del Vaticano II? Con questa domanda il teologo Giuseppe Ruggieri e lo storico del cristianesimo Alberto Melloni intitolano un volumetto a più voci da loro curato, uscito pochi giorni fa in Italia.

Il libro non è una novità. È la ristampa del fascicolo 2 del 2007 di "Cristianesimo nella Storia", la rivista dell'Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, cioè del cenacolo di studiosi che – assieme a collaboratori di vari paesi – ha pubblicato la "Storia del Concilio Vaticano II" più letta al mondo, in cinque volumi completati nel 2001 ed editi in sette lingue. Una "Storia" d'orientamento molto marcato, che interpreta il Concilio più come "evento epocale" che per i suoi documenti, più nello "spirito" che nella lettera, più come "nuovo inizio" che in continuità con la Chiesa precedente.

Oltre che Ruggieri e Melloni – l'unico ad aggiungere un nuovo capitolo ai testi già noti – gli altri autori del libro sono il francese Christoph Theobald, l'americano Joseph A. Komonchak e il tedesco Peter Hünermann.

Nella prefazione, Ruggieri e Melloni negano che il libro sia un'apologia della "Storia" bolognese del Concilio Vaticano II. Ma leggendolo si ricava proprio questo: che sono essi le eroiche sentinelle della giusta interpretazione del Concilio stesso; sono essi quelli che non ne hanno "paura" e ne preservano la vera "novità"; sono essi a fare ciò che neppure Benedetto XVI fa più: troppo cambiato rispetto al giovane Ratzinger che scriveva i discorsi esplosivi letti in Concilio dal cardinale Frings.

Per un'analisi dettagliata dei saggi contenuti nel volume, basta riandare al servizio che vi dedicò www.chiesa dopo che essi erano usciti sulla rivista "Cristianesimo nella Storia":

> Confermato: il Concilio fu "svolta epocale". La scuola di Bologna annette il papa (11.12.2007)

Mentre l'interpretazione di papa Joseph Ratzinger del Concilio Vaticano II è quella da lui esposta nel memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005:

> "Svegliati, uomo..."

* * *

Il testo che segue non è una recensione del libro "Chi ha paura del Vaticano II?". Prende però spunto dalla sua pubblicazione per esporre – nella forma di un dialogo – le questioni che la Chiesa di oggi si trova ad affrontare.

Come si vedrà, sono questioni di importanza capitale, che arrivano a toccare le fondamenta del Credo cristiano. Questioni alle quali hanno dato risposta non solo il Vaticano II ma prima di esso i Concili cristologici dei primi secoli, di Nicea, di Efeso, di Calcedonia.

L'autore, Francesco Arzillo, 49 anni, romano, è magistrato amministrativo di rara competenza in filosofia e teologia.


Breve dialogo sul Concilio, tra un maestro e un allievo

di Francesco Arzillo


Il maestro (M.) è un professore di teologia sessantenne, moderatamente progressista, disposto a dialogare con tutti; si innervosisce solo con chi appare poco propenso a valorizzare appieno il Concilio della sua giovinezza, che gli ricorda, tra l'altro, i tumultuosi anni del seminario.

L'allievo (A.) è più giovane e non è un chierico; è un po' irriverente, mai però verso il magistero ecclesiale; molti lo considerano un ultraconservatore; ma anche i tradizionalisti lo criticano perché consulta – anche se con cautela – gli scritti teologici di Henri de Lubac e difende sempre Giovanni XXIII e Paolo VI.

–––––

M. – Ciao! Sempre con un libro in mano. Vediamo un po' il tuo ultimo acquisto.

A. – Eccolo: "Chi ha paura del Vaticano II?", a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri.

M. – Mi sorprendi. Leggi Melloni e i teologi cattolico-progressisti da te sempre criticati. Ho capito: il titolo del libro ha fatto leva sul tuo senso di colpa e vuoi espiare.

A. – Maestro, vedo che non hai perso l'abitudine di sovrapporre la psicoanalisi alla teologia. Io sensi di colpa non ne ho, almeno su questo punto. Tu sai che ho sempre accettato con tutto il cuore il Vaticano II. Come si può parlare oggi della Chiesa senza la "Lumen gentium"? O della Rivelazione divina senza la "Dei Verbum"? O della liturgia senza la "Sacrosanctum Concilium"?

M. – Allora dov'è il problema?

A. – Il problema è in questa interminabile disputa sul Concilio, in questo intricatissimo conflitto delle interpretazioni. Certo, i saggi contenuti in questo libro sono assai raffinati, contengono spunti interessanti, si confrontano con le indicazioni di Benedetto XVI. Però…

M. – Però?

A. – Essi mi richiamano alla mente – almeno in parte – ambienti, climi e luoghi comuni di quell'area cattolico-progressista che tende a fare del Concilio un mito. Ma bada, non voglio etichettare gli autori, uso un indicatore idealtipico e orientativo.

M. – La verità è che tu dici di accettare il Concilio, ma con una riserva mentale, perché critichi chi si batte per il Concilio.

A. – Vedi che parli di una battaglia? Ecco, proprio questo è il punto, questa sovraeccitazione di alcuni durante e dopo il Concilio, questo clima di lotta continua, questa "agitation croissante aux alentours du Concile": parole non mie ma del cardinale Henri de Lubac. E poi questo modo di raccontarne la storia! La famosa "settimana nera"... Ma che significa? Qual è il valore euristico di questa espressione? Nessuno! Se leggo le memorie di un aiutante di campo di Napoleone a Waterloo posso comprendere che parli di una "giornata nera"; ma da uno storico contemporaneo mi aspetto un tono più calmo, che mi faccia capire. Ancora de Lubac, nel suo libro "Entretien autour de Vatican II" pubblicato nel 1985, parla di un "language historico-manichéen, qui sous un mode mineur s'est assez largement répandu". O non ti va più bene neppure de Lubac, del quale mi hai sempre parlato con sconfinata ammirazione?

M. – Una storiografia neutrale non esiste.

A. – Sì, però occorre almeno essere pacati. E comunque parlo di una sovraeccitazione che non è solo autobiografica e storiografica. Ma è anche filosofica, oserei dire.

M. – Cioè?

A. – Vedi, prendiamo ad esempio il problema dello "spirito" e della "lettera".

M. – Non mi tirare fuori la storia secondo cui i documenti conciliari andrebbero letti solo secondo la lettera!

A. – Perché vuoi banalizzare il discorso? È vero che la lettera va sempre tenuta in debito conto, ma non è comunque sufficiente per un'ermeneutica completa. Su questo concordano il giurista romano Celso e san Paolo. Il che mi basta.

M. – E allora?

A. – Dipende da cosa intendiamo con "spirito". Qui entra in gioco la sovraeccitazione. Prendi per esempio Hegel a Jena. Era chiaramente sovraeccitato: in Napoleone vedeva la Storia che passa a cavallo... Ricordi quel passo delle "Lezioni di Jena", che non a caso è stato anche citato dal "negativista" Kojève quale esergo della sua "Introduzione alla lettura di Hegel"? Ricordi il tono? "Signori! Ci troviamo in un'epoca importante, in un fermento in cui lo Spirito ha fatto un passo in avanti. Ha superato la sua precedente forma concreta e ne ha acquisita una nuova...". Ecco, quando io leggo certi teologi, certi storici di oggi, non posso fare a meno di pensare a quel tono lì.

M. – Tu insinui, alludi e non concludi. Non è mica questione di tono!

A. – Non sta a me dire fino a che punto si tratti soltanto di tono, o di legittima assunzione di spunti teoretici, o di cedimento alle logiche immanentistiche. Ogni autore è diverso dall'altro.

M. – Torniamo al Concilio. Tu citi il giurista romano Celso, insisti sul testo, e trascuri l'evento.

A. – Altra parola-chiave: l'evento. Hegel? Heidegger? Pareyson?

M. – Ma lascia stare i filosofi!

A. – Non lascio stare niente! Voi teologi di oggi conoscete poco la filosofia, volete fare una teo-logia senza "logos", a-filosofica o trans-filosofica. Ma spesso è solo retorica. E poi la cosa peggiore è quella di essere influenzati da Hegel senza neppure esserne consapevoli. Se Hegel fosse qui tra noi sarebbe sorpreso dal gran numero di suoi discendenti intellettuali, di figli e figliastri… E comunque non sapete neppure scrivere i manuali. È una fatica trovarne uno che non salti da San Tommaso a Rahner, omettendo tutto ciò che vi sta in mezzo! Oggi ci si può diplomare in teologia senza sapere pressoché nulla di Scoto, di Suarez, di Melchior Cano, del Caietano. Prova a chiedere a dieci neodiplomati se abbiano mai sentito parlare di Scheeben, e dimmi se ne trovi più di un paio che ti rispondano affermativamente.

M. – Ora stai esagerando.

A. – Hai ragione. Mi calmo.

M. – L'evento! Pensa alla teologia, pensa alla "Dei Verbum": Dio si rivela attraverso eventi e parole intimamente connessi tra loro...

A. – Certo che penso alla teologia! Penso che la Rivelazione divina culmina in Cristo, nel quale Dio ci ha detto tutto. Essa è compiuta, anche se non è ancora completamente esplicitata, come ricorda il Catechismo al paragrafo 66. E poi al paragrafo 83: la tradizione "viene dagli Apostoli e trasmette ciò che costoro hanno ricevuto dall'insegnamento e dall'esempio e ciò che hanno appreso dallo Spirito Santo". Sarebbe erroneo pensare a un evoluzionismo storicistico. Non è la realtà rivelata da Dio che si modifica o si evolve; è l'intelligenza credente che cresce approfondendosi. Se questo è vero, l'Evento unico è Cristo, non esiste un'età dello Spirito che superi quella di Cristo.

M. – Risparmiami la storia di Gioacchino da Fiore, per favore…

A. – E perché no? Se proprio vogliamo cercare un evento epocale pensiamo a san Francesco! Chi è stato più epocale di lui, per l'intero secondo millennio? Su questo potremmo essere d'accordo tutti, conservatori, progressisti, persino molti non credenti. Però l'interpretazione di chi vedeva in Francesco l'inaugurazione dell'età dello Spirito fu giustamente respinta. Francesco stesso ne sarebbe rimasto stupito, lui vedeva solo Cristo e la Trinità, in tutto.

M. – Però la storiografia francescana è complessa. Occorre tener conto della politica di san Bonaventura nel narrare la storia del fondatore…

A. – Ma quale politica! Già questo uso del termine, riferito a un ambito che un medievale non avrebbe mai qualificato come "politico", mi dà fastidio, perché è frutto di una cattiva ermeneutica. Si leggono gli eventi teologici, filosofici, giuridici di quel tempo con la lente del panpoliticismo moderno, si considera "politico" ogni ambito del reale. Bel modo di calarsi in un'altra epoca, da parte di chi parla in continuazione di storia e di storicità!

M. – Insomma, dove vuoi andare a parare?

A. – Voglio solo dire che dobbiamo smetterla con questa storia dell'evento epocale. Non esistono eventi epocali, a stretto rigore logico e teologico. Quella dell'evento epocale rischia di essere solo una retorica buona per la "mobilitazione", una forma di cripto-ideologia.

M. – Ma cosa auspichi, l'eterno ritorno dell'identico?

A. – No. Agostino ha dimostrato che la ciclicità pagana è superata per sempre. Si tratta, piuttosto, di saper vedere l'Eterno nel tempo, che interseca un punto del tempo, "quel" punto del tempo, incarnandosi.

M. – Tu torni indietro...

A. – Torno alle fonti. E alla Fonte.

M. – Ma l'Evento unico rivive oggi o no?

A. – Esso è compiuto. Il tempo è compiuto, vedi Marco 1, 15. Anche se ne attendiamo la piena manifestazione.

M. – E il Concilio Vaticano II? Ti aiuta o no nel cammino?

A. – Certo che mi aiuta! Esso però presuppone l'Evento unico e la sua definizione dogmatica irreversibilmente compiuta nei primi sette Concili ecumenici. Capisci che non posso pensare a un evento che "de-calcedonizzi" Cristo – cioè gli tolga ciò che di lui è stato definito a Calcedonia – per inculturarlo nella modernità.

M. – Ma nessuno vuole questo!

A. – Apparentemente quasi nessuno. Certo non vuole questo il Vaticano II, che non ha inteso innovare la fede, come sostengono specularmente, con opposti scopi, le versioni estreme del tradizionalismo e del progressismo. Mi chiedo però quanto arianesimo tendenziale e virtuale ci sia oggi in giro, quanto troppo ci si spinga a umanizzare Gesù. Penso per esempio ai critici della "Dominus Iesus", che nel 2000 ha dovuto richiamare l'abc della cristologia. Mi chiedo: chi ha paura dei Concili di Nicea, di Efeso, di Calcedonia?

M. – Il tuo è un suggestivo espediente retorico. Tu gerarchizzi i Concili per togliere vita in modo subdolo al Vaticano II.

A. – No. Però mi sembra che oggi siano in gioco i fondamenti della fede. Gradirei quindi che si dia evidenza adeguata anche ai convegni su Nicea e su Calcedonia, invece di lasciarli a pochi specialisti eruditi.

M. – Basta, sono stanco. Torno a casa e leggo qualcosa dal mio libro più caro, il "Giornale dell'anima" di Angelo Giuseppe Roncalli.

A. – Che coincidenza, lo sto leggendo anch'io...

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Il libro: "Chi ha paura del Vaticano II?", a cura di Giuseppe Ruggieri e Alberto Melloni, Carocci, Roma, 2009, pp. 152, euro 16,50.


Una disconnessione mentale e emozionale - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 19 febbraio 2009
Si violentano le donne, si umiliano, si offendono nella carne e nello spirito, poi si gettano via. Si bruciano vivi i barboni con una risata sgarbata, tutta l’indifferenza nei riguardi della dignità umana, un menefreghismo costruito a misura, verso quanti deboli e indifesi possono essere usati come divertimento contro la noia.
Donne e clochard, scagliati in faccia alle coscienze, sempre pronte a trovare un capro espiatorio, sempre quello, sempre uguale, sempre meno attendibile: siamo circondati dagli stranieri, oramai siamo in preda al panico, ridotti al filo spinato delle parole lanciate a grappolo, dei colpi di pistola sparati nel mucchio.
Come se tutti i guai fossero riconducibili ai comunitari indesiderati, certamente un fenomeno da riconsiderare nei numeri, nella qualità dei ruoli, ma altrettanto sicuramente non responsabili dei mali della nostra società.
La mattina osservo gli adolescenti fermi alle stazioni dei pullman, nei pressi delle scuole, sono bestemmie e pugni sul muso, spintoni e occhiatacce, gruppi che si fronteggiano, muscoli e odio che sale nei riguardi dei più deboli, per quanti non hanno, non posseggono, non potranno avere.
Nella famiglia, il microcosmo che costituisce-costitutivamente il macrocosmo collettività, anche lì vedo calci e prepotenza, come se improvvisamente nelle nostre vene scorresse un liquido inquinato e inquinante, la peggiore espressione della nostra disumanità.
Primo Levi ci ha lasciato in eredità che occorre credere nella ragione e nella discussione, che all’odio bisogna anteporre sempre e comunque la giustizia.
Forse proprio in queste parole c’è la chiave di accesso per scardinare l’oblio in cui ci siamo cacciati, la lentezza di un intervento educativo capace, la stanchezza per un’esistenza che non consente più pause, riflessione, ascolto, e un briciolo di pietà.
La pietà, questa compagna di viaggio ripudiata, messa al bando, da un odio che cresce, che fa sponda alla paura, e rende invincibili i branchi in agguato, eroi i vigliacchi, leaders chi non potrà mai esserlo.
Ricordo qualche tempo fa quando ho sostenuto che non si trattava di mera sporadicità, né di accadimenti incredibilmente da fuori di testa in via di esaurimento, rammento bene le alzate di spalle, i comportamenti di spocchiosa alterità.
Qualcuno dirà che non siamo ancora a questi livelli di urbanizzazione incontrollata dell’odio, eppure se guardo negli occhi un adolescente, leggo oltre alla spavalderia dell’impunito, l’incapacità di accettare un’altra persona diversa da se stesso, in quello sguardo c’è lancinante l’assenza di un qualche dubbio, di contro ci sono gli sms che cristallizzano una società materializzata e livellatrice, al punto da disconoscere quel pudore essenziale per non dichiarare fallita in partenza la nostra personalità, il nostro valore di esseri umani.
Un indiano bruciato vivo, un altro clochard dopo quello di Rimini, un’altra persona al macero che non faceva male a nessuno, ma rendeva inqualificabile l’arredo urbano.
Perdiamo tempo a domandarci se è xenofobia, razzismo, o più semplicemente è il risultato di una disconnessione mentale e emozionale, e allora dalle università alle scuole secondarie non è più sufficiente arrancare sul compito dell’istruzione pura, ma bisogna affiancare un’azione educativa influente per autorevolezza, che trasmetta l’importanza del legame tra un individuo e l’altro, anche quello solo apparentemente diverso, o spesso, unicamente meno fortunato.


SCUOLA/ Bullismo e dintorni: quel che accade quando i genitori delegano l’educazione dei figli - Paola Liberace - venerdì 20 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Ragazzi che aggrediscono, derubano, picchiano, stuprano. Ragazzi come tanti, che provengono da famiglie normali: sbalordite dal comportamento dei figli, che mai li avrebbero pensati capaci di dare fuoco a un barbone o di violentare una compagna di classe. E quando si trovano di fronte a simili episodi – definiti “bullismo”, per l’imbarazzo di ammettere che si tratta di delinquenza vera e propria – finiscono per dare la colpa a terzi: Internet, il contesto socioculturale, la scuola.
E come biasimarli: dal momento che, sin dalla loro nascita, è a questi terzi che i figli sono stati affidati. La radice del malessere di oggi è nell’educazione di ieri, quella che i genitori hanno delegato ad altri. Non sempre è accaduto per loro libera scelta: ma pochi hanno trovato il modo e la forza di opporsi - in particolare quando hanno dovuto abbandonare i figli, poco più che lattanti, per riprendere l’attività lavorativa. Tutto comincia all’asilo nido: può sembrare paradossale affermarlo, visto che da destra e da sinistra non si fa che auspicare la moltiplicazione dei nidi, motivata dall’esigenza di mamma e papà di dedicarsi alla loro realizzazione professionale. A consentirglirlo dovrebbe intervenire lo Stato, proponendosi come sollecito tutore della prima infanzia. Del resto, allo stato attuale delle cose esistono ben poche alternative: obbligati (per ragioni economiche e normative) a rientrare al lavoro, impossibilitati a permettersi una tata qualificata, diffidenti verso baby sitter improvvisate, rassicurati da una vulgata che vuole i nidi luogo ideale per l’età prescolare, i genitori si trovano di fronte a una scelta quasi obbligata.
Eppure, c’è poco da stare tranquilli. L’impatto dell’affidamento prolungato dei bambini al nido viene ancora sottovalutato, almeno nel nostro paese. Altrove, invece, non mancano studi e ricerche. Come in Germania, che tuttora risente dell’eredità della ex DDR, pioniera della realizzazione di un capillare sistema di asili nido pubblici. Gli effetti pedagogici e psicologici sui figli delle lavoratrici della Germania dell’Est furono deleteri: le ricerche condotte sulle fonti disponibili parlano di segni indelebili sulle coscienze dei bambini, dalla diffidenza congenita verso gli altri, all’incapacità relazionale, fino all’aggressività nei confronti degli stranieri. Secondo gli psicanalisti della Deutschen Psychoanalytischen Vereinigung, i benefici dei nidi, che vengono dati per acquisiti, sono più presunti che effettivi: fino ai tre anni di vita, l’unica relazione significativa per i bambini è quella con i propri genitori, nella quale tutte le altre saranno fondate e dalla quale dipenderà perciò l’atteggiamento complessivo verso gli altri.
Gli asili nido non nuocciono solo ai bambini. La delega dell’allevamento dei figli inaugura un processo di deresponsabilizzazione dei genitori che proseguirà per tutto il corso della crescita. Dopo il nido, verrà la scuola, prima materna, poi primaria, poi secondaria – ma sempre pubblica. Viziati dall’assistenzialismo educativo, spalleggiati da un’ideologia permissivista, madri e padri credono di poter rovesciare sull’istituzione scolastica l’intero onere dell’educazione dei figli. Pronti a giustificarli in ogni caso, di fronte ai fallimenti disciplinari e cognitivi, attribuiscono a insegnanti e presidi poco compiacenti intenti persecutori nei loro confronti. Se va bene, con il passare degli anni, si ritroveranno a carico a oltranza i loro pargoli ormai cresciuti; se va male, andranno a far loro visita in qualche istituto di rieducazione o, se l’età lo consente, in carcere.
Per arrestare la deriva è indispensabile restituire alla famiglia la responsabilità di educatrice che le compete, e che scaturisce dalla libertà di scelta. Intervenire sul sistema scolastico, riscoprendo concetti come quello di disciplina e di merito, è necessario, ma non sufficiente; soprattutto se, accanto ai disegni di riforma didattica per alleggerire lo statalismo dell’istruzione, vengono avanzati progetti che estendono l’ombra dello Stato alla delicata fase prescolare, che a maggiore ragione dovrebbe esserle sottratta. Al contrario, è necessario mettere i genitori in condizioni di operare una scelta effettiva sin dalla prima infanzia: destinando i fondi oggi previsti per l’ampliamento dei nidi statali a supportare le opzioni alternative, tra cui quella di seguire personalmente i figli fino ai tre anni. Ammettere che esistono altre possibilità, e fare in modo che madri e padri possano considerarle, vorrebbe dire riconoscere loro la responsabilità della decisione, mettendoli di fronte all’onere della genitorialità. Perché fare un figlio significa molto più che mettere al mondo un nuovo individuo, trasmettergli il cognome, allattarlo e cambiargli i pannolini, e poi affidarlo alle puericultrici di Stato; per ritrovarselo davanti, vent’anni dopo, come uno sconosciuto.


BIOETICA/ Le sfide della neurologia: siamo davvero liberi? - Andrea Lavazza - venerdì 20 febbraio 2009 – ilsussidiario.net
Se i progressi della genetica molecolare hanno portato a manipolare il codice della vita sollevando dilemmi morali, una risposta è venuta con la nascita della bioetica. Ma l'impetuoso avanzare delle neuroscienze, capaci di leggere e alterare cervello e mente, non trova ancora una riflessione adeguata sulle loro applicazioni.
Come comportarsi se si scopre che un volontario, sottoposto a una risonanza magnetica funzionale per un esperimento di routine, manifesta una predisposizione all'aggressività? È lecito somministrare pillole che "cancellino" parte dei ricordi, seppure strazianti? I farmaci che potenziano le prestazioni cognitive vanno equiparati a una forma di doping, per cui andranno sanzionati gli studenti "positivi", come accade per gli atleti? I farmaci psicoattivi possono determinare cambiamenti persistenti della personalità e, quindi, del vivere sociale? La conoscenza delle basi neuronali del comportamento, della personalità e della coscienza possono influenzare la nostra stessa idea della natura umana e del vivere in società? Sono quesiti che richiedono una risposta, perché tutto ciò che esprimono è già realtà o sta bussando alla porta. E la comunità scientifica è chiamata a confrontarsi con essi.
Ecco allora la neuroetica, un campo d'indagine più che una disciplina, come ancora preferiscono chiamarla i suoi fondatori, legato agli straordinari progressi delle scienze del cervello e al complesso delle loro implicazioni etiche, legali e sociali (Elsi nell'acronimo inglese).
Se nel mondo anglosassone ci si è già incamminati sulla strada di una ricerca di alto profilo (centri di ricerca sono attivi a Stanford, all’University of Pennsylvania e all’University of British Columbia; recentissima è l’istituzione di un istituto anche a Oxford), l’Italia, che pur vanta punte d’eccellenza nelle neuroscienze e nella scienze cognitive, non ha ancora messo a tema questi dilemmi che sempre più entrano nella vita quotidiana.
Se ne è cominciato a discutere in modo aperto e approfondito, in un proficuo dialogo tra scienziati e filosofi, al convegno “Neuroetica. Le scienze del cervello e il loro impatto sulla società”, svoltosi a Padova il 5 e 6 febbraio scorsi. Tra i partecipanti, Pietro Pietrini (Università di Pisa), Salvatore Aglioti e Alberto Oliverio (La Sapienza), Alberto Priori (Milano Statale) e Giuseppe Sartori (Padova) sul fronte dei neuro scienziati; Michele Di Francesco (San Raffaele Milano) Mario De Caro (Roma Tre), Adriano Pessina (Università Cattolica), Laura Boella (Milano Statale) e Antonio Da Re (Padova) sul fronte filosofico.
Uno dei temi più caldi è stato quello del libero arbitrio. È recente un esperimento che ricalca i celebri studi condotti negli anni ’80 da Benjamin Libet sul ritardo con cui compare la consapevolezza di scelte di movimento rispetto all’inizio dell’azione nel cervello. Ricerche controverse, si è detto a lungo: quella che si registra non è la decisione in quanto tale, ma un’attività preparatoria. Ma John-Dylan Haynes, uno dei pionieri della lettura del pensiero, con il suo gruppo del Max Planck Institute, ha messo a punto un test che vorrebbe chiudere la partita. Pubblicato sulla rivista «Nature Neuroscience», l’articolo ha messo 14 volontari dentro una macchina per la risonanza magnetica funzionale chiedendo loro di scegliere, pensandoci con calma, se schiacciare un bottone con un dito o con un altro. Risultato: i ricercatori sono in grado di predire tra i sette e i dieci secondi prima quale sarà l’opzione del soggetto.
Nessun magia, ma molta sofisticata tecnologia. Basta far compiere prove preliminari registrando gli schemi di attivazione neuronale associati a ogni comportamento che, in seguito, un software adeguatamente “istruito” riconoscerà durante l’esperimento. La precisione per ora è del 60%. Ciò che però conta per il libero arbitrio è che la predizione giunga prima che i volontari siano consapevoli della propria decisione, il cui momento è valutato sulla base dei resoconti diretti e con un altro apparecchio che ingloba un cronometro. In particolare, l’attivazione cerebrale precedente la consapevolezza si muoverebbe dalla corteccia frontopolare – sede della pianificazione di alto livello – alla corteccia parietale – zona di integrazione sensoriale. «Non c’è molto spazio per la libertà se il risultato della scelta è ampiamente guidato dall’attività inconscia del cervello ben prima di avere la sensazione di prendere una decisione», spiega Haynes.
Le prime obiezioni si sono appuntate sulla semplicità eccessiva del compito: la vita reale ci mette di fronte ad alternative assai più complesse. Il libero arbitrio non implica comunque la consapevolezza “istantanea”, misurata con strumenti sofisticati. Esso ha invece a che fare con l’autodeterminazione (il controllo degli agenti sui propri atti) e con la possibilità di fare altrimenti. Abbiamo mangiato il gelato, ma avremmo potuto non farlo: non c’è una catena di cause fisiche che ci ha obbligato a quella scelta. Abbiamo preferito B ad A, ma avremmo potuto preferire A a B. Tuttavia, la disputa è tutt’altro che esaurita. E la neuroetica ha pane per i suoi denti italiani, che a Padova sono cominciati a spuntare


CATTOLICI, LAICI E SOCIETÀ CIVILE: RIFLESSIONE DEL PATRIARCA DI VENEZIA - Altro che egemonia mondana. - Offerta di una speranza da «investire» quaggiù - ANGELO SCOLA – Avvenire, 20 febbraio 2009
« L’ Occidente deve decidersi a capire quale peso ha la fede nella vita pubblica dei suoi cittadini, non può rimuovere il problema».
Queste parole fulminanti, espresse da un vescovo mediorientale durante il Comitato scientifico internazionale di Oasis ad Amman, mi sono tornate alla mente in questi giorni, nei quali si è acceso sui media un vivo dibattito circa l’azione dei cristiani nella società civile, il dialogo tra laici e cattolici - che secondo qualcuno sarebbe addirittura giunto al capolinea - , la presunta sconfitta del Cristianesimo e l’ingerenza degli uomini di Chiesa nelle vicende pubbliche. In una parola circa lo stile con cui i cattolici dovrebbero intervenire o meno sui delicati temi della vita comune, quali quelli della bioetica.
Mi sembra che spesso si perda di vista il cuore della questione: ogni fede va sempre soggetta ad un’interpretazione culturale pubblica. È un dato inevitabile. Da una parte perché, come scrisse Giovanni Paolo II, «una fede che non diventi cultura sarebbe non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Dall’altra, essendo la fede - quella giudaica e quella cristiana - frutto di un Dio che si è compromesso con la storia, ha inevitabilmente a che fare con la concretezza della vita e della morte, dell’amore e del dolore, del lavoro e del riposo e dell’azione civica. Perciò è essa stessa inevitabilmente investita da diverse letture culturali, che possono entrare in conflitto tra di loro.
In questa fase di 'post-secolarismo', nella società italiana si confrontano, in particolare, due interpretazioni culturali del Cristianesimo. A me sembrano entrambe riduttive. La prima è quella che tratta il Cristianesimo come una religione civile, come mero cemento etico, capace di fungere da collante sociale per la nostra democrazia e per le democrazie europee in grave affanno.
Se una simile posizione è plausibile in chi non crede, a chi crede deve essere evidente la sua strutturale insufficienza. L’altra, più sottile, è quella che tende a ridurre il Cristianesimo all’annuncio della pura e nuda Croce per la salvezza di 'ogni altro'.
Occuparsi, per esempio, di bioetica o biopolitica distoglierebbe dall’autentico messaggio di misericordia di Cristo. Come se questo messaggio fosse in sé astorico e non possedesse implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche. Un simile atteggiamento produce una dispersione (diaspora) dei cristiani nella società e finisce per nascondere (cripto) la rilevanza umana della fede in quanto tale. Al punto che di fronte ai drammi anche pubblici della vita si giunge a domandare un silenzio che rischia di svuotare il senso dell’appartenenza a Cristo e alla Chiesa agli occhi degli altri.
Nessuna di queste due interpretazioni culturali, secondo me, riesce ad esprimere in maniera adeguata la vera natura del Cristianesimo e della sua azione nella società civile: la prima perché lo riduce alla sua dimensione secolare, separandolo dalla forza sorgiva del soggetto cristiano, dono dell’incontro con l’avvenimento personale di Gesù Cristo nella Chiesa; la seconda perché priva la fede del suo spessore carnale.
A me sembra più rispettosa della natura dell’uomo e del suo essere in relazione un’altra interpretazione culturale. Essa corre lungo il crinale che separa la religione civile dalla cripto-diaspora. Propone l’avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza ­irriducibile ad ogni umano schieramento ­, ne mostra il cuore che vive nella fede della Chiesa a beneficio di tutto il popolo.
In che modo? Attraverso l’annuncio, ad opera del soggetto ecclesiale, di tutti i misteri della fede nella loro integralità, sapientemente compendiati nel catechismo della Chiesa.
Giungendo però ad esplicitare tutti gli aspetti e le implicazioni che da tali misteri sempre sgorgano. Essi si intrecciano con le vicende umane di ogni tempo, mostrando la bellezza e la fecondità della fede per la vita di tutti i giorni.
Solo un esempio: se credo che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, avrò una certa concezione della nascita e della morte, del rapporto tra uomo e donna, del matrimonio e della famiglia. Concezione che inevitabilmente incontra e chiede di confrontarsi con l’esperienza di tutti gli uomini, anche dei non credenti. Qualunque sia il loro modo di concepire questi dati elementari dell’esistenza.
Rispettando lo specifico compito dei fedeli laici in campo politico, è tuttavia evidente che se ogni fedele, dal Papa all’ultimo dei battezzati, non mettesse in comune le risposte che ritiene valide alle domande che quotidianamente agitano il cuore dell’uomo, cioè se non testimoniasse le implicazioni pratiche della propria fede, toglierebbe qualcosa agli altri. Sottrarrebbe un positivo, non contribuirebbe al bene civile di edificare la vita buona.
Oggi poi, in una società plurale e perciò tendenzialmente molto conflittuale, questo paragone deve essere a 360° e con tutti, nessuno escluso.
In un simile confronto, che porta i cristiani, Papa e vescovi compresi, a dialogare umilmente ma tenacemente con tutti, si vede che l’azione ecclesiale non ha come scopo l’egemonia, non punta a usare l’ideale della fede in vista di un potere. Il suo vero scopo, a imitazione del suo Fondatore, è offrire a tutti la consolante speranza nella vita eterna. Una speranza che, già godibile nel 'centuplo quaggiù', aiuta ad affrontare i problemi cruciali che rendono affascinante e drammatico il quotidiano di tutti.
Solo attraverso questo instancabile racconto, teso al riconoscimento reciproco, rispettoso delle procedure pattuite in uno stato di diritto, si può mettere a frutto quel grande valore pratico che scaturisce dal fatto di vivere insieme.


VI ABBRACCIAMO, SORELLE CARE IN CATENE PER I CROCIFISSI DELLA STORIA - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 20 febbraio 2009
F inalmente sono state liberate. Dopo centodue giorni di cattività Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero hanno potuto lasciare Mogadiscio dove erano tenute in ostaggio. Dobbiamo ammet­terlo con franchezza: il pur comprensi­bile e legittimo silenzio stampa, richie­sto sia dalla Farnesina come dai loro pa­renti e amici, rischiava di sfociare in u­na sorta d’involontaria rassegnazione. Eravamo un po’ tutti ingrigiti nel troppo tempo esigito dall’odissea di queste due religiose, per le quali si temeva si stesse innescando una sorta di arrendevolez­za insopportabile. Insomma, non ci si poteva affrancare fa­cilmente dal pensiero che due donne del loro calibro, consacrate a Dio per la cau­sa del Regno, potessero sperimentare il sacrificio estremo soltanto perché ave­vano osato fare la scelta di stare a fian­co degli ultimi, di coloro che sono «cro­cifissi dalla storia» in una remota peri­feria africana. Lo dicevamo non per far durare il rancore nei confronti degli a­guzzini che le avevano strappate con la forza il 9 novembre scorso dalla missio­ne di El-Wak, ma per esprimere una la­mentazione che invocava la misericor­dia, quella che in queste ore diventa dav­vero un inno alla vita. In realtà, ci si può scrollare del passato fatto di dolori e privazioni, solo rileg­gendo il tempo della lunga prigionia al­la luce della speranza cristiana che ani­ma i credenti. Con la loro liberazione tut­to, oggi, è un po’ più possibile rispetto ai mali che ci assillano e sarebbe davvero un guaio se le grandi agenzie del 'signi­ficato', poco importa se giornalistiche o letterarie, cui spetta di tenere viva la memoria, lasciassero cadere nel di­menticatoio quanto è accaduto a queste nostre due sorelle.
Anzitutto, perché il loro coraggio rende onore all’Italia e soprattutto alla nostra Chiesa che le ha generate affidando lo­ro un esplicito mandato missionario. E dal momento che non è possibile zitti­re «la voce di chi non ha voce», in que­sta circostanza il pensiero 'cattolico', cioè 'universale' è rivolto al disastrato popolo somalo, venuto frammentaria­mente alla ribalta in occasione di que­sto sequestro. Un Paese dimenticato, in preda a barbarie d’ogni genere, dove ol­tre tre milioni di sfollati sopravvivono in condizioni subumane all’addiaccio e nella più squallida miseria. Secondo al­cuni, di fronte a questo scenario infuo­cato, sarebbe in atto uno scontro che coinvolge l’identità complessiva della ci­viltà occidentale e quella islamica.
Eppure, il messaggio del martire Char­les Foucauld, cui fedelmente si ispira la famiglia missionaria delle due missio­narie liberate, è di tutt’altro tono. Esse hanno declinato, animate dallo spirito del fondatore, la loro vita 'per tutti' e 'contro nessuno', nella consapevolez­za che il Bene, prima o poi, prende il so­pravvento sui fanatismi e gli orrori del nostro tempo. In questo senso Caterina e Maria Teresa sono state delle fedeli in­terpreti di un’innocenza rivendicata so­lo e unicamente attraverso il dettato e­vangelico. Non possiamo pertanto fare a meno di ricordare, col cuore e con la mente, tutti quei missionari e missio­narie che testimoniano l’amore di Cri­sto ad ogni latitudine del Pianeta. Essi so­no tutti lì, in prima fila, disseminati lun­go la frontiera dell’emarginazione e del disagio. D’altronde, è bene rammentar­lo, la frontiera è il 'locus' per eccellen­za della 'missione' e coincide con quel­le linee di faglia dove queste sentinelle della carità sono chiamate a difendere i diritti di tanta umanità dolente.
Una cosa è certa: se a duemila anni dal­la venuta del Cristo, avvengono ancora così tanti misfatti, dei quali la vicenda delle nostre due religiose rappresenta il paradigma, è segno che la voce della cri­stianità corre ancora per il deserto. Pro­prio come scriveva Giovanni Paolo II, nel prologo dell’enciclica Redemptoris Mis­sio
«La missione di Cristo redentore, af­fidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento».