martedì 3 febbraio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) ELUANA/ Le voci messe a tacere - Mario Mauro - lunedì 2 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
2) LA SPERANZA NON SI ARRENDE - A UDINE PER VIVERE – Avvenire, 3 febbraio 2009
3) La vera storia della pillola abortiva Ru486 - Un libro rivela tutto ciò che non viene detto sulla “pillola di Erode” - di Antonio Gaspari
4) Stupore e vicinanza con Dio per superare la cultura della morte - Monsignor Leuzzi incoraggia i docenti di Ginecologia e Ostetricia
5) 03/02/2009 12:54 – VATICANO - Papa: il digiuno contro l’egoismo, per imparare a fare la volontà di Dio - Il messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima evidenzia l’attualità della pratica ascetica della rinuncia al cibo, che la società moderna considera solo dal punto di vista del beneddere fisico.
6) La questione dell'educazione al tempo del relativismo - Identikit di un'emergenza inevitabile - In occasione del 140 ° anniversario della fondazione del collegio arcivescovile San Carlo a Milano, il cardinale vicario emerito della diocesi di Roma tiene, nel pomeriggio di lunedì 2 febbraio, una lectio magistralis. Ne pubblichiamo ampi stralci. - di Camillo Ruini – L’Osservatore Romano, 3 febbraio 2009
7) La scuola di fronte alla crisi - Giovanni Cominelli - martedì 3 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
8) ELUANA/ In Europa non esiste il diritto alla morte: il testamento biologico ne tenga conto (4) - Riccardo Marletta - martedì 3 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
9) LA SPERANZA NON S’ARRENDE - A UDINE PER VIVERE. IN ITALIA NON ESISTE LA PENA DI MORTE - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 3 febbraio 2009
10) LE PAROLE DI BENEDETTO XVI CONTRO L’EUTANASIA - Un sussulto di umanità di fronte alla sofferenza - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 3 febbraio 2009
11) LE AGGRESSIONI DI QUESTI GIORNI E L’EMERGENZA GIOVANILE - Dietro la facile etichetta del branco la pretesa dell’uomo-padrone - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 3 febbraio 2009
12) Aggressione al giovane indiano: l’intervista Risé: è una generazione di giovani devastati - DI LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 3 febbraio 2009
13) IDEE. Aumentano le letture teologiche dell’opera di Tolkien, la cui trama è fitta di riferimenti all’eucaristia e al matrimonio cattolico - I sacramenti di Frodo - Secondo il critico britannico Caldecott nel «Signore degli anelli» arde un «fuoco segreto», quel «cristianesimo implicito» che è la sua vera fonte di ispirazione Per l’italiano Monda il derelitto Gollum diventa alla fine una figura provvidenziale di cui il protagonista (immagine di Cristo) si serve per compiere la sua missione - DI ALESSANDRO ZACCURI – Avvenire, 3 febbraio 2009


ELUANA/ Le voci messe a tacere - Mario Mauro - lunedì 2 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
Quando la ragione è scomoda, si utilizza ogni mezzo per zittirla. Tanto si è fatto per far tacere le ormai innumerevoli voci “fuori dal coro” che strenuamente si oppongono alla sentenza che pende su Eluana Englaro, la giovane lecchese in stato vegetativo persistente dal gennaio 1992 a seguito di un incidente stradale. Ci si muove ormai a colpi di azioni giudiziarie.
Le voci che si oppongono a questa sentenza sono quelle della gente comune. La società nel suo complesso per prima si è mobilitata per evitare l’epilogo che qualcuno auspica per questa dolorosa vicenda. A queste si sono susseguite le voci autorevoli dei medici e degli specialisti che più volte hanno evidenziato la totale inammissibilità della scelta di mandare a morte una giovane vita. Poi, il coro dei giuristi “dissidenti”, quelli che hanno scelto di dire la loro liberamente, chiamando le cose con il loro nome, ovvero chiamando questa morte eutanasia. I cardinali, però, non possono proprio parlare. Di loro si dice che facendo prevalere la legge di Dio sulla legge degli uomini, renderebbero la nostra una repubblica di ayatollah nella quale il diritto religioso fa premio sul diritto civile.
Con questo tipo di giurisprudenza rischiano di saltare tutti i diritti fondamentali. Soprattutto quando in un’occasione ufficiale - ovvero durante il tradizionale discorso inaugurale dell’anno giudiziario - si sente pronunciare dalla bocca del presidente della Corte di Cassazione un’esaltazione della sentenza sul caso di Eluana Englaro, rimarcando come i giudici abbiano definitivamente consolidato il riconoscimento dell’autodeterminazione terapeutica come diritto assoluto della persona.
I conti, tuttavia, non tornano perché se l’autodeterminazione è certamente un valore politico fondamentale da tutelare e difendere alla luce di quella democraticità che il nostro Paese e l’Europa ha tutto il desiderio di non tradire, le cose cambiano quando ci riferiamo a un soggetto malato. Laddove c’è un paziente, infatti, il primo dei diritti è quello della salute e non l’autodeterminazione. Non stupiscono, dunque, le parole del presidente della Corte d'Appello Giuseppe Grechi che in un passaggio del discorso scritto in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario facendo riferimento al caso di Eluana ci assicura che la Corte «non ha invaso territori altrui», affermando che in uno stato di diritto il giudice non può rifiutare una risposta per quanto nuova o difficile sia la domanda di giustizia che gli viene rivolta.
Parte del mondo politico si è sentito in dovere di dire qualcosa sulla vicenda Eluana Englaro. «La giovane respira, ha una vita piena e non ci sono ancora leggi che parlano del fine-vita e c'è una magistratura che non chiarisce» ha detto il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, tornando sul caso Englaro. La Regione è fra coloro che hanno scelto di battersi in difesa di quella vita che già oggi, attaccata a quel sondino, è vita in pieno corso.
Di fronte alla decisione del Tar di annullare il provvedimento di Regione Lombardia sul “caso Eluana”' si dà notizia che in Lombardia ci sono 480 casi simili a quelli di Eluana dove professionisti e volontari lavorano ogni giorno, in silenzio, nel pieno rispetto che queste situazioni meritano e senza alcun furore mediatico e politico. In alcuni casi persone che vivevano la stessa condizione di Eluana sono tornati a vivere nella pienezza delle loro facoltà. Eluana, lo ricordiamo, non è sottoposta a cure intensive ma è semplicemente nutrita e idratata.
Pur di intervenire con la forza e far tacere le voci che parlano fuori dal coro si è passati, come si diceva, all’azione giudiziaria. Non fa più notizia ormai il caso suscitato dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi che è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Roma con l’ipotesi di violenza privata ai danni dell’istituto Città di Udine, la Casa di Cura che si è rifiutata di accogliere Eluana per farla morire. Questo solo perché colpevole di aver scelto di salvare una vita.


LA SPERANZA NON SI ARRENDE - A UDINE PER VIVERE – Avvenire, 3 febbraio 2009
Non hanno voluto ascoltare la voce delle suore che, ripetutamente, li hanno supplicati di lasciar loro quella che dopo tanti anni di cure amorevoli, quotidiane, esemplari sentivano come figlia. Figlia, certo, perché si è figli di un amore, non di una sentenza, nemmeno se confermata dai bolli di cento tribunali e dai ragionamenti astratti di toghe che del diritto hanno fatto un teorema efferato. Sancendo la prima condanna a morte dell’Italia repubblicana. Che Eluana abbia bisogno di essere figlia di un legame vitale, in queste ore nelle quali il suo destino si è rimesso drammaticamente in movimento, appare con un’evidenza difficile da respingere.
Certo, un padre c’è: ma è quello che la sottrae a mani generose e care per consegnarla – pare – a un drappello di volontari della morte, comandati da un’ideologia disumana e da forze che nemmeno hanno il coraggio di dichiararsi. Chi avrebbe il cuore di sospenderle cibo e acqua, anche solo per rispettare una volontà mai davvero verificata come giustizia vera comanda? In questa cornice fattasi nuovamente così cupa non si capisce tanta ostinazione nel voler portare a termi­ne il disegno di soppressione di una vita misteriosa ma presente. In nome di questa vita, che la scienza ci mostra ogni giorno di più come terra ancora tutta incognita, anche noi vogliamo essere ostinati, se occorre contro ogni evidenza: ci ostiniamo a pensare che Eluana venga trasferita altrove ma per essere curata anche là, per continuare a vivere.
Ce lo dice l’istinto profondo di tutta la nostra civiltà, che non può ammettere un buco nero di questa enormità. Ce lo ripete la consapevolezza che molti tribunali – prima di quelli che hanno allestito sciagurati castelli di carte sballate e non fotografanti la reale condizione di Eluana per giustificare l’orrore – avevano rigettato la richiesta di staccare il sondino. Ce lo rammenta la voce del Papa, che ancora domenica ha negato che l’eutanasia (perché di questo si tratterebbe) sia una soluzione alla sofferenza, per quanto intollerabile essa sia. Alla cartella clinica – colpevolmente ferma a conoscenze scientifiche vecchie di anni – hanno allegato le carte dei tribunali che hanno aperto la breccia nella nostra Costituzione (dove si tutela il diritto a vivere e a essere curati, e non certo il suo contrario) in un crescendo di autodimostrazioni buone per legittimare ciò che non si voleva chiamare per nome.

Si sono dati ragione tra di loro: dalla Cassazione alla Corte d’Appello di Milano, al Tar della Lombardia, con la pietra tombale a ogni voce contraria posata sabato dal presi dente della Corte milanese Giuseppe Grechi, sprezzante nel liquidare le obiezioni e non a caso mostrato a esempio da papà Englaro: «Di più non potevo attendermi». Quella parte della magistratura che ha aperto la porta al consumarsi di un’ingiustizia verso una disabile grave incapace di esprimere oggi la sua volontà porta una responsabilità immane. Grechi e le altre toghe che con tanta arroganza hanno piegato i fondamenti del diritto per creare il mostro giuridico dell’onnipotente volontà individuale forse non hanno realizzato quale architrave si rischi di svellere con il loro consenso. Forse contano sull’assuefazione. Ma si sbagliano.

L’Italia non starà alla finestra, non ha questa indifferenza nella propria identità. Rifiuterà un’agonia insopportabile. Sa commuoversi, capire, battersi. Lo farà anche stavolta. E noi con lei. Perché Eluana è parte di noi. Sì, Eluana oggi è figlia nostra.
Francesco Ognibene, Avvenire, 3 febbraio 2009


La vera storia della pillola abortiva Ru486 - Un libro rivela tutto ciò che non viene detto sulla “pillola di Erode” - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 2 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Mentre in Italia si aspetta il parere finale del Consiglio di Amministrazione dell'Agenzia italiana del farmaco (AIFA) per la distribuzione e vendita nelle farmacie e l'autorizzazione all'uso ospedaliero della pillola abortiva Ru486, è disponibile nelle librerie un libro che rivela molte delle realtà nascoste in merito alla pillola abortiva da molti chiamata “la pillola di Erode”.
Il libro in questione ha per titolo “La storia vera della pillola abortiva RU 486” (Edizioni Cantagalli; pp. 288, Euro 21,00) ed è stato scritto da Cesare Cavoni e Dario Sacchini.
Dario Sacchini è ricercatore in Bioetica presso l’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Coautore di diversi volumi tra cui “Etica e giustizia in sanità. Questioni generali, aspetti metodologici e organizzativi” (2004) e “La vecchiaia e i suoi volti. Una lettura etico-antropologica” (2008).
Cesare Davide Cavoni, è invece giornalista professionista presso l’emittente SAT 2000; è laureato in Lettere ed ha conseguito il Master in Bioetica presso la Pontificia Università Lateranense di Roma.
È docente di Bioetica e Mass media per i corsi di perfezionamento in Bioetica presso l’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e presso l’Istituto “Giovanni Paolo II” della Pontificia Università Lateranense di Roma.
I due autori, con una documentazione precisa e dettagliata, rivelano i tantissimi rischi per la salute e per la società di un farmaco il cui obiettivo non è di “curare una malattia bensì di porre fine alla vita umana”.
Cavoni e Sacchini non solo respingono l’idea che la gravidanza sia una malattia da curare con pillole tossiche per i concepiti e per le madri, ma denunciano quello che sarebbe l’obiettivo dei sostenitori dell’Ru486 e cioè “quello di demedicalizzare, togliere il più possibile dalla competenza e dall’influenza del medico l’aborto, per trasformarlo in un fatto del tutto privato e personale”.
Per spiegare i contenuti e le finalità di un volume così attuale e scottante, ZENIT ha intervistato Cesare Cavoni.
Che cos’è la pillola Ru486? E’ un farmaco? E quale malattia cura?
Cavoni: Il mifepristone, chiamato Ru486 dall’industria farmaceutica Roussel-Uclaf che per prima ne sponsorizzò la ricerca, compare in letteratura nel 1982 ed è un ormone steroideo sintetico che provoca l’aborto.
Esso agisce su una tipologia di molecole denominate recettori, specifiche per il progesterone che è un ormone i cui organi bersaglio sono quelli coinvolti nella dinamica riproduttiva con lo scopo di favorire l’annidamento dell’embrione nell’utero e la prosecuzione della gravidanza.
L’alterazione indotta dall’Ru486 consiste nello sfaldamento delle cellule endometriali, nel sanguinamento e nel conseguente distacco dell’embrione.
Ma per poter portare a compimento l’aborto, oltre alla Ru486 viene somministrata anche un’altra pillola: si tratta di una prostaglandina che serve a stimolare le contrazioni e a espellere l’embrione.
Questa combinazione di farmaci poi deve essere utilizzata entro il 49° giorno, in un periodo cioè in cui i levelli di progesterone sono ancora bassi perché poi in una fase successiva tale ormone non potrà essere ‘intercettato’ dal mifepristone.

L’Ru486 è quindi un farmaco. Uno strano tipo di farmaco visto che per farmaco noi intendiamo qualcosa che curi, che lenisca un dolore o rallenti o guarisca da una malattia non certo una sostanza che possa causare la morte di qualcuno.
Credo sia la prima volta che venga utilizzato un farmaco per uccidere deliberatamente un essere umano. Perché l’embrione è un essere umano. Ogni donna quando è incinta, fin da subito parla di colui che porta in grembo come del proprio figlio; non dice alle amiche: “quando il feto nascerà lo chiamerò Marco”, oppure “sto preparando la stanza per l’embrione”.
Di conseguenza è facile capire come l’Ru486 non curi alcuna malattia poiché non c'è alcuna malattia da curare, a meno che non si voglia considerare la gravidanza come una malattia.
La gravidanza è una malattia?
Cavoni: Questo farmaco è davvero terrificante: per la prima volta constatiamo la messa a punto di un farmaco il cui obiettivo non è di curare una malattia bensì di porre fine ad una vita umana. O, meglio, sembrerebbe che la gravidanza venga annoverata, più o meno esplicitamente nel sentire comune, come una patologia, nella misura in cui una donna, non scegliendola, è costretta a subirla.
L’aborto, allora, potrebbe configurarsi, secondo questa visione, come la liberazione da una malattia o, più propriamente, da un male di vivere. È questa una visione perversamente drammatica della vita umana.
Così come è perverso il fatto che si decida di somministrare alle donne un farmaco, che porta con sé pesanti effetti collaterali, come se le donne fossero cavie su cui sperimentare indisturbati e, anzi, cercando di far passare una sperimentazione selvaggia come un diritto delle donne.
Da decenni si sperimentano sulle donne farmaci tossici di cui non si conosono o non si percepiscono fino in fondo i rischi a breve, medio e lungo termine. Di norma, si può agire così quando non vi siano ragionevoli alternative, quando cioè non usare una terapia sperimentale avrebbe come unica alternativa la morte della persona. Ma in questo caso – non trattandosi di malattia – il termine “sperimentale” cade per definizione.
Con l’utilizzo della pillola Ru486 l’aborto viene di fatto tolto dalla sfera della medicalizzazione, ricondotto totalmente nella sfera privata dell’individuo e, quindi, anche svincolato da ogni responsabilità sociale (oltre che morale) in nome di un nuovo concetto di “privacy”, il quale è applicato a qualsiasi decisione riguardo al proprio corpo. Così si spalancano le porte ad un’assolutizzazione del principio di autonomia (il rispetto dell’autodeterminazione del soggetto), togliendo ogni diritto al nascituro e investendo anche la relazione con l’altro (l’embrione, il feto, il figlio) in base a tale principio.
L’aborto può essere compiuto nel chiuso della propria casa. E compare fin da subito l’opzione contraccettiva dell’Ru486, vista come il migliore anticoncezionale, sul quale si scatenano (e si scateneranno) interessi commerciali e guerre aziendali.
I sostenitori della Ru486 affermano che questa pillola eliminerebbe l’aborto chirurgico così da diventare una pratica che si può gestire individualmente. Qual è il suo pensiero in merito?
Cavoni: L’esperienza francese e quella americana ci mostrano che questo non è vero; vale a dire che proprio laddove si pensava che la Ru486 potesse sostituire l’aborto si è visto l’esatto contrario.
Chi abortisce in genere sceglie l’aborto chirurgico e questo per due motivi; uno perché dura poco, viene effettuato sotto anestesia e la percezione del dolore, fisico e psichico, è inferiore e poi perché psicologicamente l’iter della Ru486 diventa un vero calvario, estenuante; ci vogliono giorni prima di poter completare l’aborto e c’è il rischio, alto, di dover comunque ricorrere all’aborto chirurgico poiché in molti casi il cocktail Ru486 e prostalgandina non funziona e allora bisogna intervenire d’urgenza con l’aborto chirurgico.
Il peso psicologico di due, tre giorni o addirittura di una settimana in attesa dell’aborto dopo aver assunto la pillola, rende questa modalità snervante per la donna e le ripropone ad ogni istante esattamente l’atto che sta portando avanti, che lei lo voglia o no; cioè quello di stare per sopprimere una vita umana.
Si può giustificarlo come si vuole, si può far finta di non vederlo, ma è così. E in ogni caso sarà comunque un trauma che prima o poi riaffiorerà nella vita di quella donna. E poi il dolore fisico che accompagna questa attesa è micidiale; sanguinamenti molto più abbondanti di una normale mestruazione, dolori lancinanti.
La letteratura scientifica registra numerosi casi di emorragie fortissime. Tutto questo è ben chiaro, per esempio, dalla testimonianza della prima paziente che negli Stati Uniti decise di abortire con la Ru486.
Il suo racconto è lucido e privo di qualsiasi aspetto moraleggiante:
La giovane donna in questione fu la prima paziente che si sottopose alla sperimentazione dell’aborto tramite Ru486 negli Stati Uniti, presso l’ospedale di Des Moines in Iowa; ella non se ne dichiarò pentita. La donna, 30 anni, con un marito e due figli, era terrorizzata dall’aborto chirurgico a causa di una brutta esperienza vissuta da una sua amica:
«Sono stata per la prima volta a Des Moins. Tutti erano molto eccitati mercoledì quando mi è stata somministrata la prima dose di farmaci. Scherzando dicevo che ci sarebbe dovuta essere una cerimonia col taglio del nastro. Loro continuavano a dirmi che stavo facendo la storia. In un paio d’ore ho cominciato a provare nausea, ho tirato avanti per tre giorni e sono andata a lavorare. Per fortuna c’è una saletta per riposarsi nel mio ufficio; mi muovevo un po’ più piano. Di norma sono sempre molto su di giri ma per quei tre giorni non lo sono stata. Mi sembrava come se avessi mangiato del cibo avvelenato.
Sono tornata di venerdì e ho preso la seconda dose di farmaci; dopo cinque minuti ho cominciato a sentire dei crampi un po’ meno forti di quelli delle mestruazioni. Dopo due ore i crampi sono diventati più forti e ho cominciato ad usare un cuscinetto riscaldante sulla pancia. Sono andata nella stanza di riposo; quando però ho provato ad alzarmi mi sentivo come se mi avessero aperto un rubinetto. C’era un continuo flusso di sangue e poi mi è passato un grumo di sangue della grandezza di una pallina da golf, che mi ha terrorizzata.
Pensavo che fosse il feto. I crampi sono rimasti stabili. Negli ultimi quindici minuti della mia visita mi sentivo sdoppiata e l’emorragia era molto pesante, più di quella mestruale. Mia madre mi ha portato a casa; in quel momento sanguinavo molto e ho avuto la diarrea. Mi ha fatto tornare in mente il modo in cui sanguini dopo il parto. Forse una donna che non ha partorito potrebbe essere un po’ più rilassata.
Ho abortito alle 6.30 di venerdì notte. L’ho sentito cadere nella tazza. Sembrava come un grumo di sangue. Ho gridato quando mi sono resa conto che era uscito, in parte perché mi sentivo sollevata, in parte perché mi sentivo triste. Capii che era finita».
Quando poi si sostiene che l’aborto tramite Ru486 sia meno costoso e più veloce mi sembra proprio che le evidenze affermino proprio il contrario. Anche su questi punti parlano le donne e non i bioeticisti, i medici.
La situazione è stata anche in questo caso ben fotografata da una inchiesta realizzata dalla più nota giornalista scientifica statunitense, Gina Kolata, che di certo non passa per una fondamentalista cattolica.
Ebbene la Kolata, nel 2002 ha scritto sul New York Times, riportando il parere di molti specialisti, che l’aborto con la Ru486 richiede un tempo maggiore ed è più costoso dell’aborto chirurgico. Le donne poi non sembrano essere interessate dal momento che vengono richieste tre visite in ambulatorio per due settimane, due diversi farmaci, qualche emorragia e crampi.
Qualche fornitore fa pagare oltre 100 dollari in più per un aborto medico rispetto a quello chirurgico, spiegando che ogni pillola di Mifepristone costa 100 dollari. Molti usano un dosaggio più basso, somministrando una pillola invece delle tre che l’azienda produttrice raccomanda, ma aggiunge che il costo extra dell’aborto indotto tramite pillola, è ancora un peso gravoso per molti pazienti.
Ma ciò sui cui inciderà di più l’uso dell’Ru486 è la sanità pubblica: un risparmio di medici dedicati solo a quel servizio, così poco ambìto e che non consente di fare certo brillanti carriere.
Dunque per la sanità pubblica ci sarebbe un risparmio di medici dedicati solo a quel servizio, più letti a disposizione ma, a questo punto, un costo non proprio lieve se si chiede allo Stato di passare gratuitamente il farmaco.
Pensate che la vecchia azienda produttrice voleva piazzarla, all’epoca, siamo negli anni ’80, a non meno di 500 franchi francesi.
Per quanto si possa scendere di prezzo, il costo per la sanità pubblica resterebbe comunque altissimo, a fronte di risultati non proprio incoraggianti e, anzi, a fronte di ulteriori spese per tutti quegli aborti non riusciti tramite Ru486 e che quindi devono rientrare per la ‘consueta’ prassi chirurgica.
Anche per questo si è cercato di spingere molto perché si approfondissero ulteriori studi sulle proprietà del farmaco per curare malattie di tipo neurologico ad esempio, facendolo diventare un farmaco compassionevole per malati senza alternativa oltre la morte.
Riuscire a far approvare l’Ru486 per altri usi rispetto all’aborto, significa rendere legale il farmaco che, in un secondo momento, potrebbe essere utilizzato, fuori prescrizione, anche per l’aborto.
Credo sia questo l’obiettivo dei sostenitori di questa pillola mortifera. D’altronde avviene già lo stesso procedimento con l’altro farmaco che serve per completare l’aborto: esso è, infatti, registrato ufficialmente come antiulcera ma poi, siccome favorisce l’espulsione del feto-figlio, viene utilizzato all’occorrenza.
[Martedì, la seconda parte dell'intervista]



La vera storia della pillola abortiva Ru486 (II)
Intervista a Cesare Cavoni, coautore di un libro sull’argomento
di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 3 febbraio 2009 (ZENIT.org).- La partita per impedire che la Ru486 venga messa in libera vendita in Italia si giocherà tutta sull’informazione. Ne è convinto Cesare Cavoni, giornalista di SAT 2000 e coautore del volume “La storia vera della pillola abortiva RU 486” (Edizioni Cantagalli; pp. 288, Euro 21,00).
A questo proposito, Cavoni denuncia la strategia messa in atto attraverso i mezzi di comunicazione mondiali per far passare l’idea che l’aborto e i metodi contraccettivi siano del tutto legittimi.
La prima parte dell’intervista è stata pubblicata il 2 febbraio.
Secondo lei esiste una congiura del silenzio sugli effetti della Ru486 sulla salute delle donne? Quali sono i fatti e le storie che non si vogliono rendere pubbliche?
Cavoni: Più che di congiura del silenzio si tratta di una vera e propria strategia che da decenni cerca di far apparire tramite i mezzi di comunicazione mondiali la bontà della pianificazione familiare, dell’aborto, dei metodi contraccettivi per l’economia mondiale, per le risorse del pianeta e così via.
La pillola abortiva è nata col desiderio non di essere abortiva ma, ancor peggio, di cercare di inibire sul nascere la gravidanza: i ricercatori hanno iniziato la ricerca su di essa con la speranza di trovare un contraccettivo talmente efficace da inibire il ciclo mestruale a comando ed eventualmente riprenderlo quando la donna si sentisse pronta per una gravidanza.
Nello stesso tempo, si cercava di incidere sul linguaggio, evitando di presentare la pillola come lo strumento per un atto cruento e magari difficile da digerire da tutte le coscienze nella società; si preparava insomma a perorare la causa di un “aborto non aborto”, non ritenendo giusto definire come abortiva un’early option pill, una pillola che contrasta all’inizio, anzi anticipa, una gravidanza.
Ecco allora che Baulieu, l’endocrinologo che si dedicò anima e corpo alla pillola abortiva, inventò un nuovo termine; la pillola non sarebbe stata abortiva ma “contragestativa”: mezza contraccettiva e mezza abortiva, fino a farla diventare quasi esclusivamente “preventiva”: se presa ogni mese, per inibire eventualmente le mestruazioni.
Non a caso subito dopo la pubblicazione del primo studio sull’Ru486 all’accademia delle scienze francese nel 1982, i giornali francesi titolarono che l’Ru486 significava la fine della pillola quotidiana e si auguravano che a breve la contraccezione sarebbe divenuta mensile: basterà prendere la pillola alla fine del ciclo scrivevano.
E, fin da subito, puntualizzavano che per gravidanze di sei o otto settimane, l’Ru486 non è un abortivo miracoloso e l’interruzione di gravidanza resta un aborto con i rischi che vi sono associati, quale che sia il metodo utilizzato. Insomma a mettere in evidenze i rischi, i limiti e gli obiettivi dell’Ru486 sono sempre stati in primis proprio coloro che agognavano da decenni un nuovo metodo di pianificazione familiare.
Di tutti questi problemi si è sempre discusso dall’82 a oggi in Europa, quando partì la sperimentazione in Francia, e nel ’94 negli Stati Uniti quando si decise di avviare la prima sperimentazione dell’Ru486. Anche se negli anni precedenti negli Usa si era provato un po’ di tutto: anche l’aborto con un antitumorale, il Methotrexate, disponible per uso ospedaliero e dunque più facile da reperire.
L’ipotesi fu scartata per la bassa percentuale di successo negli aborti e per le pesanti controindicazioni. Fa sorridere che in Italia in questi anni di dibattito si sia ritirato fuori, come opzione, anche questa dell’uso del Methotrexate.
Andiamoci a leggere allora ciò che scrive in un lancio l’agenzia AGI (il 7 luglio 2006 quando qualche genio della medicina si fece largo nel dibattito proponendo appunto l’utilizzo di un ‘nuovo’ farmaco per l’aborto): «La Cgil e la Funzione pubblica Cgil Lombardia hanno offerto, nel caso in cui si rendesse necessaria, tutela legale a Umberto Nicolini, primario dell’ospedale Buzzi di Milano. Il medico ha reso noto venerdì che negli scorsi mesi ha somministrato una pillola abortiva, utilizzata normalmente per gravidanze extrauterine, a donne con gravidanze normali. La notizia ha provocato la reazione del direttore dell’ospedale e del presidente della Regione, che hanno detto: “Questo tipo di utilizzo deve essere subito interrotto”. Sulla questione la Cgil attacca: “Si tratta dell’ennesimo tentativo di negare alle donne il diritto di scegliere di interrompere la gravidanza in sicurezza, senza ulteriori rischi e ulteriore dolore”. Poi polemizza anche con Roberto Formigoni: “È davvero singolare la solerzia con cui il presi dente della Regione si impegna a contrastare applicazioni sperimentali della legge, che possono favorire il progresso scientifico in favore della salute delle donne”».
È grottesco: la CGIL che si inalbera a difesa della salute delle donne proponendo il diritto di scegliere un farmaco scartato negli Usa, perché inefficace e tossico, dodici anni prima!
E’ vero che la Commissione tecnico-scientifica dell'Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha dato parere favorevole all'immissione in commercio della Ru486?
Cavoni: La procedura del mutuo riconoscimento è una sorta di corsia preferenziale per raggiungere nuovi Stati quando un farmaco ha già ricevuto l’approvazione da un’autorità competente di uno degli Stati dell’Unione Europea. Il mutuo riconoscimento si avvia su richiesta dell’azienda e si basa sullo scambio di informazioni tra gli organismi nazionali coinvolti.
Dunque come per ogni farmaco l’azienda produttrice chiede che il prodotto venga immesso sul mercato, produce un dossier scientifico sulla sperimentazione ed eventuali effetti collaterali, oppure può scegliere la strada del mutuo riconoscimento, visto che è già in vendita in altri Paesi dell’Unione Europea. Una volta presentata la richiesta, questa viene esaminata dalla Cuf, che valuta l’eventuale tossicità del farmaco e il prezzo richiesto.
Il fatto singolare è che le autorità italiane che avrebbero dovuto muovere obiezioni ed eventualmente rigettare la richiesta dell’azienda, abbiamo fatto finta di non vedere le sedici morti di donne che in precedenza avevano assunto la pillola abortiva.
I dati riportati dalla letteratura scientifica internazionale ci sono; per molto meno in alcuni Paesi europei è stato ritirato di recente un noto antidolorifico. Solo per fare un esempio negli anni 2001-2005 la letteratura ha segnalato cinque casi di morte in donne (quattro statunitensi ed una canadese) che avevano fatto uso di mifepristone e la prostaglandina.
Prima di essere distribuita e venduta nelle farmacia la Ru486 manca dell'autorizzazione all'uso ospedaliero e poi manca l'esame da parte della Commissione prezzi e rimborsi ed il parere finale del Consiglio di Amministrazione dell'AIFA. Il prossimo consiglio di amministrazione dell’AIFA si riunirà a febbraio del 2009. Lei pensa che l’opinione pubblica, i mass media, le associazioni per la difesa della salute delle donne nonché il popolo della vita, possano fare qualche cosa per impedire che la Ru486 venga messa in libera vendita?
Cavoni: Credo che stando così le cose sia molto difficile impedire che l’Ru486 venga immessa sul mercato italiano. Di fronte alla indifferenza delle autorità preposte, dei politici che non si sporcano le mani sui temi etici perché fanno perdere voti, il popolo delle vita può e deve in primo luogo continuare a gridare e a scendere in piazza e poi, in secondo luogo, può pretendere e fare in modo che raggiunga l’opinione pubblica una informazione capillare su questi temi.
Non dimentichiamoci che l’Ru486 è sbarcata in Francia negli anni ‘80 grazie unicamente all’appoggio dei mass media. Senza di essi probabilmente essa sarebbe rimasta una delle tante ricerche nei cassetti di qualche ricercatore vanaglorioso e poco rispettoso della vita umana.
Lo stesso Baulieu scrive: “Ero stupito di tanto clamore. Non avevo pensato alle ripercussioni mediatiche; fintanto che l’effetto dell’Ru486 non fosse stato dimostrato meglio il suo utilizzo pratico non poteva essere immediato, per molte ragioni. Bisognava verificare, ampliare gli studi, procedere alle formalità amministrative. Di solito si sente parlare di un nuovo farmaco al momento del suo lancio sul mercato. Noi ne eravamo lontani: non si trattava che di una comunicazione scientifica. Sembra che l’importanza del tema e l’evidenza dei risultati abbiano accelerato il percorso. Senza dubbio la storia dell’Ru486 di questi giorni è stata influenzata dall’eco mediatica che ha suscitato”.
E va detto, infine, che Baulieu ha avuto senza dubbio un ruolo da protagonista nella vicenda, tanto che oggi tutti lo definiscono il padre della pillola Ru486, benché nel brevetto dell’Ru486 il suo nome non compaia mentre vi compaiono i nomi degli scienziati che, probabilmente sotto la guida di Baulieu, hanno messo a punto la molecola.
Così come lo studio presentato all’accademia delle scienze di Francia nel 1982 che diede il via alla storia della pillola è il seguente: W. HERMANN, R. WYSS, A. RIONDEL ET AL., Effet d’un stéroide antiprogesterone chez la femme: interruption du cyclemenstruel et de la gros esse au début, in «C.R. Acad. Sci.», Pa rigi 1982, 3, 294, pp. 933-938.
Probabilmente per presentare lo studio all’Accademia, occorreva che uno degli autori ne fosse membro. Baulieu lo era diventato qualche mese prima. Un po’ per questo e un po’ perché egli era stato da sempre, in qualità di professore di endocrinologia, uno degli studiosi più noti nel settore, il suo nome comparve in coda all’articolo.
È dunque sull’informazione che si gioca la partita: non a caso non dimentichiamoci mai che Baulieu cambiò i termini della questione: pillola contragestiva e non abortiva. Perché l’aborto fa paura a tutti. Anche a chi vi si sottopone. Perché dietro l’aborto c’è la morte di una vita umana.


Stupore e vicinanza con Dio per superare la cultura della morte - Monsignor Leuzzi incoraggia i docenti di Ginecologia e Ostetricia
ROMA, lunedì, 2 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Domenica 1° febbraio, a Roma, nella Parrocchia di S. Maria in Traspontina, monsignor Lorenzo Leuzzi ha spiegato che la scelta per la civiltà dell’amore o per la cultura della morte dipenderà “dall’immagine di uomo sulla quale l’umanità desidera costruire il suo futuro”.
Nell’omelia svolta al termine di una settimana intensa di riflessione e di preghiera promossa dalle Cappellanie delle Facoltà di Medicina e Chirurgia delle Università di Roma e in particolare dai docenti di Ginecologia e Ostetricia, il Direttore dell'Ufficio per la Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma ha sottolineato la necessità di tornare allo stupore ed alla vicinanza con Dio.
“Il futuro – ha precisato il prelato – non dipenderà dalle prospettive socio-economiche”, perché “la crisi economica è, innanzitutto, crisi antropologica”.
“Il Signore non si lascia impressionare dalle nostre contraddizioni, dalla nostra ipocrisia”, ha commentato monsignor Leuzzi ed ha aggiunto: “Lasciamo tacere tutte le parole che inondano la nostra esistenza, che impediscono di ascoltare l’unica Parola di cui l’uomo ha veramente bisogno”.
“E’ la Parola dell’amore – ha infatti spiegato –, che ci riconosce per quello che siamo, che ricompone in unità la nostra vita, liberandoci da ogni forma di oppressione”.
Secondo il responsabile della pastorale universitaria, “c’è troppo silenzio intorno al Signore! C’è troppo rumore per sentire la Sua voce, ma soprattutto c’è troppa disinformazione che crea sfiducia e pregiudizio”.
“E la celebrazione della Giornata della vita sarebbe priva di significato storico se non fosse animata dal nostro personale incontro con il Signore”, ha osservato.
“L’uomo – ha affermato monsignor Leuzzi – non è destinato ad annullarsi nella storia. L’uomo può costruire la sua storia, può essere protagonista della sua esistenza. In altri termini: può ripartire”.
Per il prelato, la civiltà dell’amore che siamo chiamati a costruire è “la civiltà in cui l’uomo è accolto e riconosciuto per quello che è e non per quello che fa; in cui la sua dignità non dipende da nessuna autorità, ma gli appartiene in quanto uomo”.
Riferendosi ai ricercatori ed agli uomini della scienza medica, ha rilevato che “c’è ancora molto da stupirsi di fronte alla grandezza della vita umana, perché solo essa è fonte di libertà e non di costrizione, di amore e non di dominio”.
“La scienza – ha sottolineato monsignor Leuzzi – deve tornare ad essere la via dello stupore e non della ovvietà. Quando la vita umana nei laboratori e nelle cliniche è un oggetto ovvio perché tutto è già deciso, scompare lo stupore e con esso muore la speranza”, per questo “tanti giovani sono privi di speranza perché nessuno indica a loro la via dello stupore”.
“Ai discepoli di Cristo – ha sostenuto il responsabile dalla pastorale universitaria – tocca il grande compito di annunciare che l’uomo è immagine di Dio, protagonista di una esperienza storica da vivere nel tempo e che supera il tempo”.
Monsignor Leuzzi ha concluso l’omelia con un invocazione: “Che il Signore ci conceda di vivere ogni giorno nella gioia dello stupore di essere alla Sua presenza per suscitare nel mondo lo stupore del mistero di Dio e di quella creatura che ama per se stessa”.


03/02/2009 12:54 – VATICANO - Papa: il digiuno contro l’egoismo, per imparare a fare la volontà di Dio - Il messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima evidenzia l’attualità della pratica ascetica della rinuncia al cibo, che la società moderna considera solo dal punto di vista del beneddere fisico.
Città del Vaticano (AsiaNews) - Anche se il “vero digiuno” è fare la volontà di Dio, la rinuncia volontaria del cibo è “un'arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi”, “aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d'origine”, “ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli” e sollecita a seguire l’esempio delle prime comunità cristiane che davano ai poveri quanto era stato messo da parte con la rinuncia.
E’ dedicato alla pratica del digiuno il messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima di quest’anno, intitolato “Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame” (Mt 4, 2), reso pubblico oggi. Nel documento il Papa osserva che “ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo. Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una ‘terapia’ per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio”. La Quaresima allora può essere un'occasione opportuna per valorizzare “il significato autentico e perenne di quest'antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr Mt 22,34-40)”. “La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore”.
Benedeto XVI rammenta poi che la Sacra Scrittura e la tradizione cristiana “insegnano che il digiuno è di grande aiuto per evitare il peccato e tutto ciò che ad esso induce. Per questo nella storia della salvezza ricorre più volte l'invito a digiunare”, fin dalle prime pagine della Sacra Scrittura, quando “il Signore comanda all'uomo di astenersi dal consumare il frutto proibito”. Nel Nuovo Testamento, poi, “Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l'atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio. Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste”.
“Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un'interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo: la fame e sete di Dio. Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli”. “Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l'elemosina”.


La questione dell'educazione al tempo del relativismo - Identikit di un'emergenza inevitabile - In occasione del 140 ° anniversario della fondazione del collegio arcivescovile San Carlo a Milano, il cardinale vicario emerito della diocesi di Roma tiene, nel pomeriggio di lunedì 2 febbraio, una lectio magistralis. Ne pubblichiamo ampi stralci. - di Camillo Ruini – L’Osservatore Romano, 3 febbraio 2009
La parola "paradosso" secondo il dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli significa, in conformità alla sua origine greca, affermazione sorprendente, e più precisamente "proposizione formulata in apparente contraddizione con l'esperienza comune, ma che all'esame critico si dimostra valida". Chiedersi se l'educazione sia diventata un paradosso vuol indicare dunque da una parte la sua permanente importanza e necessità, dall'altra le sue attuali difficoltà, anzi una sua apparente impossibilità, o almeno il suo carattere controcorrente, nel contesto socio-culturale in cui viviamo.
Un anno fa, nel gennaio-febbraio 2008, Benedetto XVI, in una lettera alla diocesi di Roma e poi in una grande udienza in piazza San Pietro, riassumeva una situazione di questo genere nella formula "emergenza educativa", che poi è stata abbondantemente ripresa perché esprime una sensazione diffusa in Italia e, perfino più acutamente, in molti altri Paesi. Educare non è mai stato facile, osserva il Papa, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno per esperienza i genitori, gli insegnanti, lo sappiamo noi sacerdoti, come tutti coloro che a vario titolo si occupano di educazione. Sembrano aumentare cioè le difficoltà che si incontrano nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell'esistenza e di un retto comportamento, nel formare quindi persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Naturalmente ogni regola ha le sue eccezioni e in concreto sembra a sua volta un paradosso venire a parlare di paradosso e di emergenza educativa in questo Collegio San Carlo che fortunatamente è un luogo di eccellenza dell'educazione a Milano, ma il dato generale dell'emergenza educativa rimane difficilmente contestabile, anzi è praticamente incontestato.

Per spiegarlo non basta richiamare la cosiddetta "frattura tra le generazioni", nel nostro tempo certamente più profonda e più condizionante che in passato: essa infatti sembra essere l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori. Ancora meno senso ha far carico di questa frattura e dell'emergenza educativa alle nuove generazioni, come se i bambini di oggi fossero diversi e "più difficili" rispetto a quelli che nascevano nel passato. Ma probabilmente è anche poco utile e troppo sbrigativo, o comunque insufficiente, attribuire tutte le responsabilità agli adulti di oggi, come se, per loro carenze, non fossero più capaci di educare. È certamente forte e diffusa, tra i genitori come tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tendenza a rinunciare.
Non vorrei essere frainteso. Non ho mai condiviso quelle tendenze allo "scaricabarile" che attribuiscono tutte le colpe a un'imprecisata "società" e negano le responsabilità personali: nel nostro caso sia quelle degli educatori sia anche quelle dei ragazzi e dei giovani che sono i soggetti dell'educazione. Non mi sembra fondato però mettere principalmente l'accento sulle carenze delle persone. Non basta nemmeno chiamare in causa le pur evidenti lacune e disfunzioni del nostro sistema scolastico, come del resto di quelli di molti altri Paesi.
Una spiegazione seria dell'emergenza educativa in cui ci troviamo rimanda piuttosto al predominio del relativismo nella nostra cultura e vita sociale. In questo senso Benedetto XVI ha parlato più volte di "dittatura" del relativismo, e alla luce di questa ha affermato che l'emergenza educativa oggi è, in certa misura, un'emergenza inevitabile. Quando infatti vengono a mancare, anche solo come orizzonte della nostra vita, la luce e la certezza della verità, al punto che, anche e particolarmente in ambito educativo, lo stesso parlare di verità viene considerato pericoloso e "autoritario", e parallelamente, sul piano etico, si ritiene infondato e lesivo della libertà ogni riferimento a un bene "oggettivo", che preceda le nostre scelte e possa essere il criterio della loro valutazione, diventa inevitabile dubitare della bontà della vita e della consistenza dei rapporti e degli impegni di cui la vita è intessuta. È ancora un bene, allora, essere una persona umana? Vivere può ancora avere un significato? Come sarebbe possibile, entro questo quadro di riferimento culturale, proporre ai più giovani e trasmettere da una generazione all'altra qualcosa di valido e di certo, delle regole di vita, un significato e degli obiettivi consistenti per la nostra esistenza e per il nostro futuro, sia come persone sia come comunità? Non è strano, allora, che l'educazione tenda a concentrarsi sulle questioni che chiamerei di "tecnica educativa", certamente importanti ma non decisive, e a ridursi alla trasmissione di informazioni e di specifiche abilità, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di oggetti di consumo e di gratificazioni superficiali. Ma proprio così abdichiamo al nostro compito educativo e non offriamo ai più giovani quello di cui hanno anzitutto bisogno: dei fondamenti solidi su cui costruire la loro vita.
Il filosofo Umberto Galimberti, in un libro recente che ha avuto molta fortuna, intitolato L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, ha offerto una diagnosi del disagio giovanile che direi complementare a quella proposta da Benedetto XVI, riconducendo il malessere diffuso tra la gioventù a una causa culturale, l'atmosfera nichilista del nostro tempo. Il nichilismo e il relativismo sono infatti intimamente connessi e, tra i due, il nichilismo sembra essere il fenomeno più ampio e più radicale, capace di un influsso pervasivo di cui forse non siamo abbastanza consapevoli. Anche senza fare nostro il giudizio di Heidegger che il nichilismo costituirebbe il destino della nostra epoca, è difficile negare che esso rappresenti una specie di spirito del nostro tempo, diagnosticato per primo da Nietzsche, che giustamente lo ha fatto risalire alla "morte di Dio", cioè alla fine della presenza di Dio nella nostra cultura, una fine che Nietzsche e dopo di lui tanti altri, compreso Galimberti, ritengono irreversibile. È questa, secondo la penetrante e preveggente intuizione di Nietzsche, la vera radice della caduta, o della "transvalutazione", di tutti i valori, e quindi del fenomeno complessivo del nichilismo. In concreto è difficile non vedere, alla radice degli aspetti più inquietanti della vita della nostra società e quindi anche della strana stanchezza, del desiderio di evasione e dello smarrimento morale di molti giovani, e pertanto dell'emergenza educativa, la presenza pervasiva e "distruttiva" del nichilismo.
Mi sembra necessario richiamare una terza dimensione della cultura diffusa, a sua volta collegata con il relativismo e il nichilismo, che mina alla base un'educazione autentica. Potremmo chiamarla "naturalismo", o più esattamente riconduzione e riduzione dell'uomo a un elemento della natura: già il Concilio Vaticano ii, nella Gaudium et spes (numero 14) aveva individuato questo rischio denunciando la tendenza a considerare l'uomo "soltanto una particella della natura". Oggi il rischio è molto aumentato, perché sta diventando egemone l'idea che il soggetto umano non sia altro che un risultato dell'evoluzione cosmica e biologica: certamente il suo risultato più alto, almeno per ora e nella piccola porzione dell'universo da noi meglio conosciuta, ma pur sempre un risultato omogeneo a tutti gli altri, in particolare agli animali superiori a noi più vicini nelle linee evolutive. In questa ottica i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l'intelligenza e la libertà, non vengono certo negati, ma considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente.
Per cogliere in tutto il suo spessore questa riduzione dell'uomo alla natura bisogna aggiungere un suo ulteriore fattore propulsivo. Negli ultimi decenni le scienze empiriche e le tecnologie, nella loro sempre più stretta connessione che spinge a parlare di "tecnoscienza", hanno avuto decisivi sviluppi nelle loro applicazioni all'uomo, con quelle che chiamiamo "biotecnologie". Attraverso di esse si aprono sempre più rapidamente nuovi scenari, che non riguardano soltanto la cura e la prevenzione delle malattie, ma la trasformazione del soggetto umano, anche in quello che è il suo organo fondamentale, il cervello: per questa via, a parere di non pochi intellettuali e uomini di scienza - ad esempio di Aldo Schiavone, che al riguardo ha scritto un saggio assai interessante, dal titolo Storia e destino - l'evoluzione della nostra specie potrebbe essere sottratta ai ritmi lentissimi della natura e affidata invece a quelli rapidissimi della tecnologia.
È chiaro però che se cambia il nostro concetto di uomo, e a maggior ragione se dovesse cambiare la realtà stessa dell'uomo, cambia a sua volta il concetto di educazione ed entrano in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i nostri parametri educativi. A mio parere è proprio questo ciò che sta avvenendo, anche se per ora molti non se ne rendono conto. L'educazione infatti, nella sua essenza, è formazione dell'uomo, della persona umana, e non può che definirsi e strutturarsi in vista di tale obiettivo. In concreto, sta cambiando di significato quella definizione classica dell'uomo come animal rationale (animale ragionevole) di origine greca e più precisamente aristotelica ma poi corroborata e internamente potenziata dall'idea ebraico-cristiana dell'uomo come immagine di Dio, che ha retto attraverso i secoli la nostra civiltà. Il suo senso concreto è che l'uomo, in quanto animale, appartiene a pieno titolo alla natura ed è sottomesso alle sue vicende e alle sue leggi, ma in quanto razionale ha, rispetto a tutto il resto della natura, un insormontabile differenziale ontologico. Proprio questo differenziale viene ora radicalmente ridimensionato, anzi negato nel suo carattere di differenza essenziale e insuperabile. In questa negazione convergono un certo modo di intendere l'evoluzione biologica e la tendenza delle scienze empiriche a considerare l'uomo come un "oggetto", come tale conoscibile e "misurabile" attraverso le forme dell'indagine sperimentale: questo approccio è certamente legittimo, anzi indispensabile per il progresso della conoscenza e della cura di noi stessi, ad esempio per la cura delle malattie fisiche e mentali. Quando però, cedendo a un tipo più o meno nuovo di scientismo, si considera quella scientifica come l'unica forma di conoscenza del nostro essere che sia davvero valida e universalmente proponibile, si finisce con il negare che l'uomo sia anzitutto e irriducibilmente "soggetto" ossia persona, il quale, proprio nella sua intrinseca e ineliminabile soggettività, non può mai essere totalmente oggettivato e non può essere conosciuto adeguatamente attraverso le scienze empiriche.
All'interno di queste coordinate culturali, che sopprimono la differenza essenziale dell'uomo dal resto della natura e tendenzialmente lo riducono a un oggetto, diventa assai difficile, o meglio logicamente impossibile, mantenere quel primato assoluto della persona umana, per il quale essa - e solo essa - ha una dignità assoluta e inviolabile, va considerata e trattata cioè, per usare le parole di Emanuele Kant, sempre come un fine e mai come un mezzo o, come dice il concilio Vaticano ii (Gaudium et spes, 24), è la sola creatura sulla terra "che Dio abbia voluto per se stessa". Le conseguenze sono evidenti per il concetto e la pratica dell'educazione, ma anche per tutti i nostri comportamenti e per l'assetto globale della società.
Vorrei ora, seguendo da vicino gli interventi che ho già ricordato di Benedetto XVI sull'emergenza educativa, riflettere con voi su alcune condizioni di base per un'educazione autentica. Il primo e più necessario contributo alla formazione della persona rimane sempre quello che proviene dalla vicinanza e dall'amore, a cominciare naturalmente da quella fondamentale esperienza dell'amore che i bambini fanno, o almeno dovrebbero fare, con i loro genitori. Ogni vero educatore sa che per educare occorre donare qualcosa di se stessi e che soltanto così si possono aiutare i più giovani di noi ad acquistare fiducia, a superare progressivamente il narcisismo iniziale e a diventare a propria volta capaci di amore autentico e generoso.
Nella prospettiva della formazione della persona va anche inquadrata la questione forse più controversa e dibattuta in ambito educativo: quella del rapporto reciproco tra libertà e disciplina. Non per caso tutte le grandi tradizioni educative fanno leva su precise regole di comportamento e di vita: senza di esse infatti non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare la realtà della vita. Personalmente ritengo quindi un errore gravido di conseguenze negative, che ormai sono sotto gli occhi di tutti, quella brusca svolta per la quale, una quarantina di anni fa, si è ritenuto che la disciplina fosse una forma di autoritarismo nocivo al pieno sviluppo delle potenzialità della persona. Al tempo stesso il rapporto tra l'educatore e l'allievo è pur sempre l'incontro tra due libertà, una delle quali in formazione, e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane, bisogna dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo però sempre attenti ad aiutare a correggere le scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo fare è assecondare gli errori, fingendo di non vederli, o peggio condividendoli come se fossero espressione di creatività e di libertà personale.
Un ultimo aspetto su cui vorrei richiamare l'attenzione riguarda qualcosa di cui di solito non si parla, o meglio si parla solo in termini negativi. Mi riferisco al rapporto tra educazione e sofferenza, educazione ed esperienza del dolore. Nella mentalità diffusa la sofferenza - fisica o morale - è quell'aspetto oscuro della vita che è meglio mettere tra parentesi e da cui in ogni caso bisogna preservare il più possibile le giovani generazioni. La sofferenza però fa parte della realtà e della verità della nostra vita. Cercando di tenere i più giovani al riparo da ogni difficoltà ed esperienza del dolore rischiamo perciò di far crescere, al di là delle nostre intenzioni, persone fragili, poco realiste e poco generose: la capacità di amare e di donarsi corrisponde infatti alla capacità di soffrire, e di soffrire insieme. Per essere completa e adeguata, o meglio pienamente umana, l'educazione deve piuttosto cercare di non lasciare senza risposta gli interrogativi che la sofferenza, soprattutto la sofferenza innocente, e alla fine la morte stessa pongono alla nostra coscienza.
(©L'Osservatore Romano - 2-3 febbraio 2009)


La scuola di fronte alla crisi - Giovanni Cominelli - martedì 3 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
La crisi finanziaria ed economica che il mondo attraversa è ben lungi dall’aver dispiegato tutti i propri effetti in tutti i campi dell’attività umana. Anche la riflessione è ancora in corso. Ma un punto di analisi appare irreversibile: che la crisi ha messo a nudo non solo il carattere perverso di determinati meccanismi finanziari, ma anche una relazione irrealistica con il mondo reale. La realtà aveva cessato di essere un vincolo oggettivo, era divenuta solo una variabile del gioco di onnipotenza degli gnomi finanziari. La crisi ha squarciato il gioco, la torre di babele ha raggiunto le nuvole e di lì è rovinata addosso ai suoi costruttori. Cioè a tutti noi, colpevoli e incolpevoli. Tocca anche le istituzioni educative, anche la scuola? I sistemi educativi sembrano i meno coinvolti, perché fanno parte del settore pubblico. In questa crisi, infatti, è l’enorme indebitamento privato il problema, non quello pubblico, peraltro in Italia già molto alto. Pertanto il sistema pubblico è costretto a enormi investimenti a fondo perduto per sostenere le banche, le imprese e, per ora in piccola parte, le famiglie. Certo le scuole continueranno a funzionare, gli insegnanti a prendere gli stipendi, i ragazzi a salire i gradini degli anni fino ai diplomi e alle lauree. Tutto come prima e come sempre? Non proprio e per più di una ragione. E’ giunto il momento di un profondo esame di coscienza da parte degli insegnanti, dei genitori, dei dirigenti amministrativi, sindacali e politici al cospetto della crisi globale.
Intanto: il sistema educativo nazionale è chiamato a fornire strumenti di comprensione e di trasformazione della realtà storica, economico-sociale e produttiva: non nozioni astratte e giustapposte, ma conoscenze incarnate nella vita; non sapere astratto, ma sapere vivente. A intrecciare teoria e prassi, sapere e vita. L’appello alla serietà e alla severità, che spesso è oggetto di richiamo demagogico, altro non significa se non confrontare le conoscenze acquisite con la storia del mondo, con le professioni, con il lavoro.
Molte scuole e molte università si sono trasformate in diplomifici, in fabbriche di illusioni, all’ombra del valore legale del titolo di studio. Offrono “tutto di nulla”, lampi di conoscenze irrelate, tecniche di comunicazione vuote di realtà. Dalla crisi globale viene un’urgenza oggettiva di riforma dei sistemi, un richiamo agli insegnanti, ai genitori, ai ministeriali, ai sindacalisti e ai politici a costruire strade verso il mondo reale, non bolle burocratiche, destinate a scoppiare in faccia alle giovani generazioni.
In secondo luogo, la crisi di rapporto con la realtà storica effettuale, interpella direttamente non solo i Paesi, ma ciascuna persona nella sua collocazione rispetto alla realtà.
I sistemi educativi debbono rispondere a questo interrogativo cruciale di ogni ragazzo mettendo a punto standard e meccanismi di certificazione pubblica, che diano ai ragazzi gli strumenti per costruire la coscienza di sé nel rapporto con il mondo. Gli attuali metodi di valutazione non sono più in grado di rispondere a questa esigenza: sono frantumati di classe in classe, di scuola in scuola, di territorio in territorio. Sono divenuti soggettivi, anarchici, inutili. Perciò i nostri ragazzi non riescono a collocarsi nel mondo, abbandonatia percezioni soggettive inverificabili. Ora, la geometrica potenza della crisi globale costringe alla verità su di sé. L’essenza dell’educare istruendo si riduce a questo: a fornire a ciascuno la misura del proprio rapporto con la realtà. Di lì in avanti è faccenda della sua libertà.


ELUANA/ In Europa non esiste il diritto alla morte: il testamento biologico ne tenga conto (4) - Riccardo Marletta - martedì 3 febbraio 2009 – IlSussidiario.net
Benché le sentenze sul caso Englaro possano indurre a ritenere il contrario, non esiste nel nostro ordinamento alcun principio sul quale fondare legittimamente il ricorso a pratiche eutanasiche, né tanto meno un “diritto alla morte”.
E’ curioso osservare a questo proposito che molti commentatori in genere così attenti a quanto accade al di là dei nostri confini nazionali (e in particolare negli ordinamenti più “avanzati”) puntualmente omettano di ricordare che l’inesistenza di un “diritto alla morte” è stata sancita a chiarissime lettere anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza 29 aprile 2002 (Pretty v. The United Kingdom).
E’ dunque certamente apprezzabile l’attenzione che il disegno di legge di maggioranza attualmente in discussione al Senato sulle tematiche del fine vita, così come il progetto presentato alla Camera dall’onorevole Buttiglione e da altri deputati, pone sulla necessità che la futura legge sia formulata in modo tale da evitare che una normativa che consente l’eutanasia faccia il proprio ingresso nel nostro ordinamento.
Entrambi questi progetti di legge ribadiscono i principi dell’inviolabilità e dell’indisponibilità della vita umana, prevedendo espressamente l’applicazione delle sanzioni penali per i reati di omicidio volontario, di omicidio del consenziente e di istigazione al suicidio ad ogni forma di eutanasia e ad ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio. Il ddl di maggioranza precisa altresì che l’attività medica, in quanto esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute, non può in nessun caso essere orientata a cagionare o a consentire la morte del paziente, attraverso la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita.
Ambedue le proposte prevedono la possibilità che vengano rilasciate dichiarazioni anticipate di trattamento in merito ai trattamenti sanitari cui essere sottoposti, a valere in previsione di una eventuale perdita della propria capacità di intendere e volere, con validità temporanea limitata (tre anni nel ddl di maggioranza, due nel progetto Buttiglione). In entrambi i progetti le dichiarazioni anticipate di trattamento non assumono carattere vincolante, sebbene sia previsto in capo ai medici un obbligo di tener conto di esse.
La relazione al ddl di maggioranza precisa che tale impostazione è conforme all’interpretazione della Convenzione di Oviedo fatta propria anche dal Comitato Nazionale di Bioetica nel parere del 18 dicembre 2003. L’articolo 9 della Convenzione di Oviedo prevede infatti che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”.
A proposito di tale previsione, il Rapporto esplicativo della Convenzione ha precisato che “tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano essere necessariamente eseguiti.
Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell’intervento e la scienza ha da allora fatto progressi potrebbero esserci le basi per non essere presi in considerazione dal medico. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere convinto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi”.
In ogni caso il ddl di maggioranza prevede che nelle dichiarazioni anticipate di trattamento non possano essere inserite indicazioni finalizzate all’eutanasia, mentre secondo la proposta Buttiglione “le indicazioni proposte dal paziente sono valutate dal medico in scienza e coscienza in applicazione del principio fondamentale della tutela e della salvaguardia della salute e della vita umana”.
Per quanto riguarda l’alimentazione e l’idratazione artificiale, il ddl di maggioranza chiarisce che le stesse “sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare la sofferenza”.
Considerazioni analoghe sono contenute nel parere approvato nella seduta plenaria del 30 settembre 2005 del Comitato nazionale per la bioetica, richiamato anche nel recente atto di indirizzo del Ministro Sacconi, nel quale è precisato che la nutrizione e l’idratazione anche artificiali “vanno considerati atti dovuti eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) in quanto indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere”; coerentemente con tali principi il ddl di maggioranza prevede che le dichiarazioni anticipate di trattamento non possano riguardare l’alimentazione e l’idratazione.
Viceversa la proposta Buttiglione, partendo dal presupposto che nessun trattamento terapeutico può essere imposto, prevede la possibilità che il paziente rifiuti l’installazione, con intervento chirurgico, di ausili tecnici per l’alimentazione e l’idratazione; tuttavia, una volta intervenuta l’installazione di tali ausili, non ne sarebbe consentita la rimozione, atteso che il mero utilizzo degli stessi non costituisce trattamento terapeutico.
Sulle singole previsioni di queste proposte ci sarebbe da approfondire (e anche da discutere).
In ogni caso l’auspicio è che in Parlamento si trovi in tempi brevi un’ampia convergenza su un testo che sappia tradurre adeguatamente i principi fondamentali richiamati nei progetti di legge in esame.


LA SPERANZA NON S’ARRENDE - A UDINE PER VIVERE. IN ITALIA NON ESISTE LA PENA DI MORTE - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 3 febbraio 2009
N on hanno voluto ascoltare la voce delle suore che, ripetuta­mente, li hanno supplicati di lasciar loro quella che dopo tanti anni di cu­re amorevoli, quotidiane, esemplari sentivano come figlia. Figlia, certo, perché si è figli di un amore, non di una sentenza, nemmeno se confer­mata dai bolli di cento tribunali e dai ragionamenti astratti di toghe che del diritto hanno fatto un teorema effe­rato. Sancendo la prima condanna a morte dell’Italia repubblicana.
Che Eluana abbia bisogno di essere figlia di un legame vitale, in queste o­re nelle quali il suo destino si è ri­messo drammaticamente in movi­mento, appare con un’evidenza dif­ficile da respingere. Certo, un padre c’è: ma è quello che la sottrae a ma­ni generose e care per consegnarla – pare – a un drappello di volontari del­la morte, comandati da un’ideologia disumana e da forze che nemmeno hanno il coraggio di dichiararsi. Chi avrebbe il cuore di sospenderle cibo e acqua, anche solo per rispettare u­na volontà mai davvero verificata co­me giustizia vera comanda?
In questa cornice fattasi nuovamen­te così cupa non si capisce tanta o­stinazione nel voler portare a termi­ne il disegno di soppressione di una vita misteriosa ma presente. In nome di questa vita, che la scienza ci mo­stra ogni giorno di più come terra an­cora tutta incognita, anche noi vo­gliamo essere ostinati, se occorre contro ogni evidenza: ci ostiniamo a pensare che Eluana venga trasferita altrove ma per essere curata anche là, per continuare a vivere. Ce lo di­ce l’istinto profondo di tutta la no­stra civiltà, che non può ammette­re un buco nero di questa enormità. Ce lo ripete la consapevolezza che molti tribunali – prima di quelli che hanno allestito sciagurati castelli di carte sballate e non fotografanti la reale condizione di Eluana per giu­stificare l’orrore – avevano rigetta­to la richiesta di staccare il sondino. Ce lo rammenta la voce del Papa, che ancora domenica ha negato che l’eutanasia (perché di questo si tratterebbe) sia una soluzione alla sofferenza, per quanto intollerabi­le essa sia. Alla cartella clinica – colpevolmente ferma a conoscenze scientifiche vec­chie di anni – hanno allegato le car­te dei tribunali che hanno aperto la breccia nella nostra Costituzione (dove si tutela il diritto a vivere e a es­sere curati, e non certo il suo contra­rio) in un crescendo di autodimo­strazioni buone per legittimare ciò che non si voleva chiamare per no­me. Si sono dati ragione tra di loro: dalla Cassazione alla Corte d’Appel­lo di Milano, al Tar della Lombardia, con la pietra tombale a ogni voce contraria posata sabato dal presi­dente della Corte milanese Giusep­pe Grechi, sprezzante nel liquidare le obiezioni e non a caso mostrato a esempio da papà Englaro: «Di più non potevo attendermi». Quella par­te della magistratura che ha aperto la porta al consumarsi di un’ingiustizia verso una disabile grave incapace di esprimere oggi la sua volontà porta una responsabilità immane. Grechi e le altre toghe che con tanta arro­ganza hanno piegato i fondamenti del diritto per creare il mostro giuri­dico dell’onnipotente volontà indi­viduale forse non hanno realizzato quale architrave si rischi di svellere con il loro consenso.
Forse contano sull’assuefazione. Ma si sbagliano. L’Italia non starà alla fi­nestra, non ha questa indifferenza nella propria identità. Rifiuterà un’a­gonia insopportabile. Sa commuo­­versi, capire, battersi. Lo farà anche stavolta. E noi con lei. Perché Elua­na è parte di noi. Sì, Eluana oggi è fi­glia nostra.


LE PAROLE DI BENEDETTO XVI CONTRO L’EUTANASIA - Un sussulto di umanità di fronte alla sofferenza - ROBERTO COLOMBO – Avvenire, 3 febbraio 2009
C ondivise o rifiutate che siano, le affermazioni della Chiesa cattolica ( e degli studiosi che ne approfondiscono le ragioni) in merito alla sospensione delle cure fisiologiche ai pazienti in stato vegetativo persistente, al cosiddetto ' testamento biologico' e al suicidio medicalmente assistito hanno un pregio che anche i loro più strenui oppositori non faticano a riconoscere sinceramente: la coerenza interna e la trasparenza del pensiero. Le si può attaccare dall’esterno – e a qualcuno il gioco riesce anche – ma non si trova un punto di fragilità nell’architettura magisteriale che la faccia precipitare in caduta libera, per la forza di gravità dell’incoerenza logica. Le riflessioni dei cattolici possono apparire ripetitive, troppo tenaci nelle precisazioni e nelle argomentazioni, ma a guadagno di un pensiero limpido che non nasconde la propria identità e originalità dietro le pieghe di presupposti e accezioni a geometria variabile, un vezzo cui ci sta abituando larga parte della cultura e della politica dominante. Il coraggio di non abdicare alla « coscienza di verità » ( l’espressione è di Giovanni Paolo II, a Loreto) che abita in chi è buono e retto di cuore, di non tradire quel nucleo incandescente di poche ma fondamentali certezze che la ragione esige e l’esperienza rende più incisivamente evidenti, sembra oggi non essere più una virtù per tutti, ma solo una scelta di pochi irrisa da molti. L’amore alla verità, in ogni sua declinazione ontologica e morale, non può essere disgiunto da quello a Cristo e al popolo di Cristo, la Chiesa.
Accennando al messaggio dei vescovi italiani in occasione della Giornata per la Vita, Benedetto XVI ha sottolineato domenica come in esso « si avverte l’amore dei pastori per la gente, e il coraggio di annunciare la verità, il coraggio di dire con chiarezza, ad esempio, che l’eutanasia è una falsa soluzione al dramma della sofferenza, una soluzione non degna dell’uomo » . Di fronte all’ineludibile drammaticità della vita ( essa è sempre, in sé, un dramma, anche nelle circostanze più liete), le soluzioni che appaiono più immediate e facili spesso tradiscono la vita stessa e le sue evidenze ed esigenze più elementari.
Sono esiti falsi, perché non rispondono alla domanda che li ha provocati, ma la soffocano, fino a privarla del soggetto stesso che la pone. La sofferenza non chiede di cancellare il sofferente, di annientare la vita, ma domanda con insistenza: ' Perché?' ( o, più precisamente, ' per chi?'). Una domanda, questa, per la quale la verità della risposta cercata ( anche se non sempre trovata) non può essere disgiunta dall’amore verso chi, soffrendo, sente lancinante in sé il tormento – non futile – di questo interrogativo. « La vera risposta non può essere, infatti, dare la morte, per quanto ' dolce', ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano » . Al di là degli orizzonti, talvolta un po’ angusti anche se socialmente necessari, offerti dalle soluzioni medico- deontologiche e giuridiche per la tutela della vita e della dignità del malato inguaribile, come non riconoscere in queste parole del Papa un sussulto di umanità, una comprensione più profonda e originaria della realtà della sofferenza e del bisogno del sofferente? Nulla va perduto dell’uomo, nulla è inutile nella vita quando essa è vissuta nella ' coscienza di verità' che la illumina e ne lascia trasparire – pur velandolo – il Mistero. Neanche la sofferenza fisica o morale. « Siamone certi – ha aggiunto Benedetto XVI –: nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio » .
L’eutanasia e l’abbandono dei malati negano questa evidenza ed esigenza di verità della vita, l’accoglienza di chi soffre non cancella il suo dolore, ma ne riconosce il valore e il destino buono, che Dio ci ha svelato nella Croce di suo Figlio.


LE AGGRESSIONI DI QUESTI GIORNI E L’EMERGENZA GIOVANILE - Dietro la facile etichetta del branco la pretesa dell’uomo-padrone - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 3 febbraio 2009
L o chiamano 'branco'. È il nuovo protagonista delle cronache. Il nome con cui si va nominando un fenomeno che non si sa come chiamare. E allora i ragazzi che compiono cose infami li si chiama così: un branco. Di qualsiasi colore: italiani, romeni, extracomunitari. Come fossero dei nuovi barbari che salgono dagli scantinati delle nostre case e delle nostre province o che vengano da chissà dove. Nelle analisi dei cosiddetti opinionisti non si va al di là di qualche predica: una società della violenza; della sopraffazione; una società del possesso, e bla bla bla. Addirittura c’è chi, scandalizzandosi come fa Barbara Spinelli su La Stampa, chiama 'branco' anche i ragazzi che si radunano sotto casa dell’amico che ha compiuto una gravissima violenza (lo stupro di Capodanno) per dirgli che loro rimangono suoi amici. Li chiamano 'branco' e riversano tutto il loro scandalo su questi ragazzi colpevoli di crimini efferati, di bestialità e di violenze inquietanti. E con questo nome pensano di aver nominato il peggio della nostra società. Le analisi non vanno molto più in là. Lo sguardo preferisce non indagare oltre. Li bollano come animali. E via. Dando la colpa un po’ alla società, ai rigurgiti razzisti, schizzando accuse neanche tanto velatamente politiche. Tutto vero, probabilmente. Ma è poco. È troppo poco bollare il fenomeno come 'branco'. Ha fatto bene il Presidente Napolitano a intervenire dopo il più recente orrore, quello di Nettuno, a richiamare i responsabili educativi all’enorme sforzo da compiere per arginare questi fenomeni. Dunque, secondo il Presidente, c’è un problema educativo alla radice di questi problemi.
Anzi, ancor più alla radice c’è il relativismo e il suo gemello deteriore, il nichilismo, come diceva ieri il cardinale Ruini nella sua conferenza al collegio San Carlo di Milano. Si pensa forse di eleggere queste tendenze a bandiere chic del nostro tempo senza dover poi pagare il dazio del loro impatto sulle giovani generazioni?
Non ci si fermi dunque alla facile etichettatura. Alla facile condanna di atteggiamenti violenti. Si provi a ragionare, con appassionata lucidità, con urgenza e senza timore. Non si finga di credere che la violenza cieca che sorge tra gruppi anche eterogenei di ragazzi differenti per provenienza e formazione, venga da generali cause sociali, o per colpa di qualcuno nel campo politico avverso. C’è qualcosa che agisce nel ragazzo italiano, come nel giovane di colore o romeno: una legge della violenza che non trova più correzioni o argini. Si abbia dunque il coraggio di affermare che l’uomo, ogni uomo, se convinto di essere solo e slegato da qualsiasi legame tende inevitabilmente a organizzarsi in branchi. Che tali branchi siano nelle periferie degradate o nei salotti non fa troppa differenza, da questo punto di vista. Si abbia il coraggio di dire che la sistematica, continua e pervasiva distruzione di qualsiasi legame (religioso, familiare, solidale) avvenuta attraverso l’affermazione ad ogni livello del principio che recita 'io sono mio' è la inevitabile anticamera dell’organizzazione in branchi, in salotto o in periferia.
Il ragazzo a cui si fa credere di essere l’arbitro assoluto della propria vita si organizzerà in 'branchi' di individui­arbitro, la cui unica norma è la soddisfazione di quell’idea: essere arbitri, padroni. Insisto, a costo di scandalizzare tanti 'benpensanti': non c’è differenza, in questo senso, tra il branco che si ritrova nelle sere desolate di Nettuno e cerca in modo debosciato l’emozione forte, e il branco che si costituisce per motivi di potere o di interesse in qualche salotto o circolo. Sempre branchi sono, individui­arbitro riuniti in gruppo per farsi forza. Un potente messaggio educativo si sta riversando in questi mesi dagli organi di informazione e di propaganda del nostro paese: tu sei padrone di te stesso, quando vivi e quando muori. Poi su quegli stessi organi ci si scandalizza della nascita dei branchi. Si dirà che ci deve essere un argine: il rispetto della legge, o di certi valori (fissati da chi?). Ma se convinci un ragazzo che per essere se stessi bisogna autodeterminarsi, per quale motivo egli dovrà poi assoggettarsi a una legge che lo limita o a una norma morale ? Lo farà solo se gli conviene, se non osta troppo al suo 'dominio'. Li chiamano 'branco', e intanto li nutrono. Perché l’individuo­arbitro facilmente diventa l’uomo lupo.


Aggressione al giovane indiano: l’intervista Risé: è una generazione di giovani devastati - Lo psicoterapeuta: ciò che è successo dice molto sulla realtà disastrosa dei nostri ragazzi, a partire dall’uso delle droghe - DI LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 3 febbraio 2009
Lo hanno fatto «per noia», per «fi­nire la serata». E lo chiamano scherzo: «Cercavamo un barbo­ne cui fare uno scherzo, uno che dor­me per la strada... Volevamo provare u­na forte emozione». Così i tre folli di Nettuno hanno «spiegato» perché han dato fuoco a Navtej, immigrato senza tetto e senza lavoro che invano li sup­plicava di avere pietà. Parole che, com­menta lo psicoterapeuta e scrittore Claudio Risè, svelano la vera e terribi­le motivazione del gesto.
Possono ragazzi potenzialmente nor­mali comportarsi in un modo tanto spietato? Che cosa sta accadendo alla nostra società?
Come ha dichiarato il generale dei ca­rabinieri Vittorio Tomasone, non capi­re lo sfondo reale di questo atroce epi­sodio sarebbe come non vedere ciò che succede attorno ai nostri giovani. Quanto è accaduto a Nettuno ci dice molto sulla realtà disastrosa di tanti ra­gazzi di oggi, sulla loro devastazione psicologica, affettiva e cognitiva... Si tratta di un’azione terribile ma anche istruttiva, perché non è la prima volta che accade, anzi, ultimamente episo­di simili si sono ripetuti: solo tre mesi fa a Rimini altri giovani hanno brucia­to vivo un barbone italiano.
Non uno straniero, in quel caso, ma pur sempre un debole, un emargina­to. Ma che cosa li spinge a tanto?
Un preciso mixing di due sostanze, le più usate in fatti così devastanti: alcol e cannabis. Ogni volta che la cronaca racconta di delitti orrendi, immanca­bilmente si deve registrare l’uso com­binato di queste due sostanze. Ma i me­dia parlano sempre genericamente di 'droga' anziché specificare che si trat­ta di cannabis, così in Italia si continua a pensare che quella sia una 'droga leg­gere', e il suo consumo cresce. Nel re­sto del mondo si è finalmente corso ai ripari, anche perché tutte le statistiche provano da anni che la cannabis è la droga più frequentemente associata ad atti di violenza. Infatti funziona su al­cune zone del cervello che controllano i centri inibitori, e inoltre stimola pro­prio quel bisogno di «sensazioni forti' che i tre ragazzi di Nettuno hanno di­chiarato esplicitamente. Quella 'ricer­ca di emozioni forti' che hanno de­scritto è il frutto della cannabis.
Terrificante. E i nostri ragazzini han­no facile accesso a una droga del ge­nere?
Mentre gli Usa già 10 anni fa hanno sferrato la loro guerra alla cannabis ab­battendone l’uso del 25% e l’Europa si è mossa da 4-5 anni, in Italia sopravvi­ve la terminologia del ’68 di 'droga leg­gera', così siamo l’unico Paese in cui ad esempio non si procede sistematica­mente con esami immediati per veri­ficare la presenza di cannabis nei casi di violenza ma anche di incidenti d’au­to. Siamo preda di un’arretratezza spac­ciata per liberalismo: il punto è que­sto, ed è prettamente politico, chi do­vrebbe agire e prendere le decisioni for­ti preferisce il solito indifferentismo... Lo hanno fatto tutti i governi.
Ma intanto l’emergenza educativa cre­sce: se i ragazzi cercano lo sballo at­traverso alcol e canne, dietro c’è un vuoto spaventoso, e davanti il disa­stro'
Emergenza educativa? Sì, certo, ma le responsabilità non sono tanto delle fa­miglie quanto delle autorità pubbliche. Infatti ogni ragazzino ha accesso alle canne già a scuola o in qualsiasi loca­le, e dopo che ne ha fatto uso anche poche volte la partita si fa ardua , è dif­ficile tirarlo fuori da lì. Oggi in Italia il primo spinello si fuma sotto i 13 anni e le statistiche internazionali provano che, se l’assunzione inizia prima dei 15, nei successivi 5 il rischio di danni psichici (schizofrenia e psicosi) è mol­to elevato. Io sono sconcertato dal si­lenzio dei media e dall’ignavia dei po­litici italiani.
Salvo poi inorridire tutti all’ennesimo bruciato vivo dal branco.
Che sia un immigrato o un italiano, purché solo e indifeso... È il 'diverso' che evoca nell’immaginario le parti o­scure di noi stessi. Stiamo allevando u­na generazione di giovani psichica­mente danneggiati, e insistere sul raz­zismo è spesso un alibi, un modo per divagare ideologicamente, e non am­mettere che stiamo consegnando i no­stri figli ai mercanti di droga.



IDEE. Aumentano le letture teologiche dell’opera di Tolkien, la cui trama è fitta di riferimenti all’eucaristia e al matrimonio cattolico - I sacramenti di Frodo - Secondo il critico britannico Caldecott nel «Signore degli anelli» arde un «fuoco segreto», quel «cristianesimo implicito» che è la sua vera fonte di ispirazione Per l’italiano Monda il derelitto Gollum diventa alla fine una figura provvidenziale di cui il protagonista (immagine di Cristo) si serve per compiere la sua missione - DI ALESSANDRO ZACCURI – Avvenire, 3 febbraio 2009
Magari è da una vita che ve lo chiedete, magari non ci avete mai pensato prima.
Fatto sta che, qualora incontraste un elfo, non potete limitarvi a dargli semplicemente la mano. Una minima inclinazione del palmo può assumere significati diversi, e c’è una bella differenza tra uno scambio di saluti casuale e un benvenuto in grande stile.
Sottigliezze che è bene conoscere, se si ha la ventura di viaggiare attraverso la Terra di Mezzo. Perché sì, J.R.R. Tolkien aveva pensato anche a questo. E a un’altra infinità di dettagli, continuamente perfezionati anche dopo che Il Signore degli Anelli si era rivelato un best seller. A quel punto, di solito, quel che fatto è fatto, non ci si perde più in questioni di coerenza interna. Tolkien, invece, non ha mai smesso di rifinire il suo mondo immaginario, come dimostrano gli scritti ora raccolti nel volume La trasmutazione del pensiero e la numerazione degli elfi, curato da Roberto Arduini e Claudio Antonio Testi per Marietti 1820 (pp.
XXII+150, euro 19). Dove si chiariscono varie questioni relative al linguaggio dei segni, certo, ma si ha anche modo di precisare la nozione di óre, che è il «cuore», ossia la dimensione interiore, ciò che rende persona una persona. O, se si preferisce, uomo un uomo, hobbit un hobbit, elfo un elfo.
Giochi da filologo, si dirà, quale Tolkien era per vocazione, formazione e professione. O, meglio, giochi da teologo.
Serissimi, in entrambi i casi. A ribadirlo, una volta di più, è il saggio del critico britannico Stratford Caldecott, che Lindau porta ora in libreria con il titolo Il fuoco segreto
(traduzione di Diana Mengo, pp. 194, euro 19). Una serrata indagine sulla «ricerca spirituale di J.R.R. Tolkien», come avverte il sottotitolo, condotta facendo perno su una metafora particolarmente suggestiva, quella della misteriosa fiamma di cui il mago Gandalf si proclama custode in uno dei momenti più drammatici del
Signore degli Anelli. L’immagine si adatta in modo perfetto al «cristianesimo implicito» che, per ammissione dello stesso Tolkien, rappresenta la vera fonte di ispirazione del romanzo. E così, anche se il lettore sembra poco o nulla informato delle credenze religiose diffuse nella Terra di Mezzo (ma non bisogna dimenticare il complesso patrimonio di miti consegnati al
Silmarillion e a tante annotazioni successive), le vicende di Frodo e dei suoi compagni sono esattamente riconducibili all’architettura teologica del cattolicesimo. L’aspetto più interessante del saggio di Caldecott, del resto, sta nel suggerire un’interpretazione sacramentale del Signore degli Anelli, con riferimenti puntuali e ripetuti all’Eucaristia e allo stesso matrimonio, in un continuo intreccio fra la trama romanzesca e la biografia di Tolkien. Il sacramento, in questa prospettiva, è conseguenza diretta del mistero dell’incarnazione, l’avvenimento cosmico decisivo la cui portata viene estesa a ogni possibile dimensione dell’umano attraverso la costruzione di un universo fantastico. Da qui, appunto, la necessità di non cadere mai in contraddizione, di allestire mappe credibili, redigere grammatiche affidabili, elaborare lingue che rimandino al mistero originario della musica che crea la realtà.
Documentato e convincente, il libro di Caldecott segue di poco tempo la pubblicazione di un altro contributo alla comprensione della teologia tolkieniana, vale a dire
L’Anello e la Croce di Andrea Monda (Rubbettino, pp. 252, euro 12), che risulta forse ancora più preciso nell’analisi dei singoli personaggi.
Quella di Monda, in effetti, è un’esegesi di tipo cristologico prima che sacramentale. Il punto di forza è costituito dall’intreccio di relazioni che rendono pressoché speculari le figure di Frodo – l’hobbit che accetta di prendere su di sé il peso dell’Unico Anello in modo d permetterne la distruzione – e Gollum, la mostruosa creatura ossessionata dalla brama per il «tesssoro» perduto. Frodo ha molti tratti del Cristo, ma anche qualcosa in comune con Gollum. Il quale, a sua volta, finisce per rivestire un’inattesa funzione salvifica. Di sicuro, come osserva anche Caldecott, nel momento decisivo, quando Frodo si trova a non scegliere, rischiando così di vanificare l’intera impresa alla quale hanno partecipato tutti i popoli della Terra di Mezzo, è il derelitto Gollum ad assumere l’iniziativa, precipitando insieme con l’Anello nelle fiamme del Monte Fato. Un gesto definitivo, che sarebbe stato impossibile se in precedenza Frodo, mosso dalla pietà, non avesse risparmiato al vita a Gollum. In tanta abbondanza di eroi e antieroi (come dimenticare la figura maestosa di Aragorn, in cui si riverbera la regalità di Cristo?), a suscitare maggior simpatia è però il «cristiano semplice» Sam Gangee, il servitore fedele di Frodo, oltre che suo amico appassionato. In lui Tolkien pare aver voluto esaltare le doti dell’Everyman medievale: l’Ognuno che, nella sua umiltà, è tutti e ciascuno. Destinato alla salvezza e portatore di misericordia, consapevole di non essere degno di custodire il «fuoco segreto», ma non per questo refrattario alla disciplina semplice e necessaria che viene dalla radice del cuore. Anzi, dell’óre.